1 aristotele - Liceo Galvani

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ARISTOTELE
VITA:
(tratto e riadattato da Reale Antiseri storia del pensiero occidentale)
Aristotele nacque nel 384/383 a.C. a Stagira, al confine macedone. Il padre di Aristotele era medico e fu al
servizio del re Aminta di Macedonia (padre di Filippo il Macedone). E’ quindi probabile che, per un certo
periodo di tempo, il giovane Aristotele con la famiglia abbia dimorato a Pella (capitale del regno macedone)
e abbia frequentato la corte.
A diciotto anni, cioè nel 366/65 a.C., Aristotele si recò ad Atene ed entrò nell’Accademia platonica.
Fu appunto alla Scuola di Platone che Aristotele maturò e consolidò la propria vocazione filosofica, tanto
che restò nell’Accademia per ben vent’anni, ossia fino a che Platone rimase in vita. E’ certo che nell’arco
dei vent’anni passati all’Accademia, che sono gli anni decisivi nella vita di un uomo, Aristotele acquisì i
principi platonici nella loro sostanza e li difese in alcuni scritti, ma anche li sottopose a stringenti critiche,
tentando di piegarli in nuove direzioni.
Alla morte di Platone (347 a.C.), Aristotele non si sentì di rimanere nell’Accademia, perché la direzione
della Scuola era stata presa da Speusippo (il quale capeggiava la corrente più lontana dalle convinzioni
maturate da Aristotele) e pertanto se ne andò da Atene e si recò in Asia Minore dove fondò una Scuola e
rimase alcuni anni.
Con il 343/342 inizia un nuovo periodo nella vita di Aristotele: Filippo il Macedone lo chiama a corte e gli
affida l’educazione del figlio Alessandro, che aveva allora tredici anni. Purtroppo sappiamo pochissimo dei
rapporti che si stabilirono tra i due eccezionali personaggi (uno dei più grandi filosofi e uno dei più grandi
uomini politici di tutti i tempi) che la sorte volle legare. E’ certo comunque che Aristotele (in seguito) non
capì l’idea di ellenizzare i Barbari e di parificarli con i Greci. Il genio politico del discepolo, in questo
ambito, dischiuse prospettive storiche assai più nuove e più audaci di quelle che le categorie politiche del
filosofo non permettessero di comprendere, dato che erano categorie sostanzialmente conservatrici.
Alla corte macedone Aristotele restò forse fino a quando Alessandro salì al trono, cioè fin verso il 336 a.C.
Finalmente nel 335/334 a.C. Aristotele tornò ad Atene e fondò la sua Scuola vicino ad un tempietto sacro ad
Apollo Licio, donde venne il nome di “Liceo” dato alla Scuola. E poiché Aristotele impartiva i suoi
insegnamenti passeggiando nel giardino della Scuola, essa fu chiamata anche “Peripato” (dal greco
Peripatos = passeggiata), e Peripatetici furono detti i suoi seguaci.
Il Peripato si contrappose così all’Accademia, e, per un certo periodo di tempo, la eclissò interamente.
Furono questi gli anni più fecondi nella produzione di Aristotele: gli anni che videro il completamento e la
grande sistemazione dei trattati filosofici e scientifici che ci sono pervenuti.
Nel 323 a.C., morto Alessandro, ci fu in Atene una forte reazione antimacedone, nella quale fu coinvolto
anche Aristotele, reo di essere stato maestro del grande sovrano (formalmente fu accusato di empietà). Per
sfuggire ai nemici, si ritirò a Calcide, dove aveva delle proprietà, lasciando Teofrasto alla direzione del
Peripato. Morì nel 322 a.C., dopo pochi mesi di esilio.
Gli scritti di Aristotele
Scritti essoterici = scritti per il pubblico: non ci sono pervenuti; ne abbiamo solo pochi frammenti e ne
conosciamo i contenuti “a grandi linee”. Sono opere in cui Aristotele appare ancora vicino al suo maestro
sia per i contenuti (immortalità dell’anima, conoscenza come reminiscenza, la morte come liberazione, la
filosofia come abbandono del mondo sensibile e contemplazione delle idee eterne), sia per la forma
letteraria e lo stile: infatti questi scritti hanno struttura dialogica e utilizzano i miti e altri ornamenti vivaci.
Scritti esoterici ( = iniziatici, segreti) o acroamatici (= per gli ascoltatori): sono tutti gli scritti utilizzati per
l’insegnamento all’interno del Liceo; hanno uno stile scarno ed essenziale, hanno la veste di trattati
sistematici, rigorosi, razionali, esprimono il pensiero maturo di Aristotele, ormai molto distante dalla
filosofia di Platone.
Gli scritti esoterici o acroamatici sono stati pubblicati, due secoli dopo la morte di Aristotele, da Andronico
di Rodi, che è anche l’artefice della classificazione con cui questi scritti sono giunti fino a noi.
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SCRITTI ESOTERICI:
1) Scritti di Logica, noti complessivamente col nome di Organon (= strumento): comprendono 6 trattati
(Categorie, Dell’interpretazione, Analitici Primi, Analitici Secondi, Topici, Confutazioni sofistiche) e
riguardano il metodo del ragionamento.
2) Scritti di fisica, scienze naturali (botanica, zoologia, metereologia ecc.), psicologia e scritti di
matematica: comprendono numerosi trattati che riguardano il mondo naturale o sensibile.
3) 14 libri della Metafisica: il termine metafisica fu “inventato” da Andronico di Rodi e stava
semplicemente ad indicare i trattati che venivano dopo la fisica. Poi nella filosofia medievale e moderna il
termine “metafisica” ha assunto il significato di studio della realtà soprasensibile. La metafisica di
Aristotele si occupa delle cause e dei principi primi dell’essere, dell’essere in quanto essere, della sostanza e
dell’essere soprasensibile o spirituale.
4) scritti di etica, politica, economia, poetica e retorica
DIFFERENZE E ANALOGIE TRA PLATONE E ARISTOTELE
La diversa concezione del sapere e della realtà
Platone e Aristotele discordano fra di loro per la diversa concezione generale degli scopi e della struttura del
sapere.
1) In primo luogo Platone crede nella finalità etica e politica della conoscenza e vede il filosofo, nella sua
massima incarnazione, come un governante e un legislatore della città.
Aristotele invece fissa lo scopo della filosofia nella conoscenza disinteressata del reale e vede il filosofo,
nella sua più compiuta espressione, come un sapiente, o uno scienziato-professore, tutto dedito alla ricerca e
all’insegnamento. Se in Platone prevale quindi il momento etico-politico, in Aristotele predomina quello
conoscitivo e scientifico.
N.B. La finalità etico-politica della conoscenza - per Platone - non comporta la riduzione della filosofia a
tecnica (cioè insegnamento della retorica, come invece avveniva per i Sofisti). Platone è convinto che
l’azione morale e politica dell’uomo debba fondarsi su una conoscenza certa e oggettiva della realtà, quindi
anche Platone, come Aristotele, ricerca l’episteme, la scienza.
2) In secondo luogo Platone pensa che il “nostro mondo”, cioè la realtà materiale e mutevole, sia solo il
riflesso o la copia di un mondo superiore, immateriale ed eterno: il mondo delle Idee. Per Platone solo la
conoscenza delle Idee costituisce la Scienza (episteme), mentre la conoscenza del mondo materiale è
Opinione (doxa). Il mondo materiale non ha nessuna consistenza propria, nessuna autonomia, è un mondo
di ombre, di copie imperfette delle Idee.
Per Aristotele invece non esiste nessun mondo di Idee separate dalla realtà materiale: perciò il “nostro
mondo” sensibile non è più visto come un mondo imperfetto, derivato e dipendente da un “altro mondo”
ideale. Pertanto questo mondo sensibile può essere l’oggetto di studio della scienza.
3) In Aristotele non c’è - conseguentemente - quella tendenza ascetico-religiosa che avevamo trovato in
Platone; appare invece un interesse per la realtà naturale, sensibile, che viene considerata “buona” e
autoconsistente. Quindi anche la conoscenza empirica viene considerata positivamente, viene ritenuta
necessaria per l’edificazione della scienza. Platone invece aveva scarso interesse per la conoscenza della
natura e riteneva ingannevole la conoscenza empirica: la vera conoscenza era un processo tutto interiore di
reminescenza e di riflessione razionale.
Diversità di metodi e di interessi
Questa diversa concezione del sapere e della realtà si concretizza anche in un diverso metodo di filosofare.
Mentre in Platone vi è un filosofare aperto e problematico che ripropone incessantemente interrogativi e
soluzioni, in Aristotele c’è la tendenza ad organizzare il discorso filosofico in un sistema “chiuso”, cioè in
un insieme fisso e immutabile di verità rigidamente connesse.
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Inoltre, mentre Platone fa uso dei miti cercando per questa via di superare i limiti della ragione, Aristotele
concepisce la filosofia come una speculazione rigorosamente razionale: quindi nelle opere esoteriche non fa
mai ricorso alla mitologia.
Infine, come abbiamo già detto, Aristotele nutre un vivo interesse per le scienze naturali (zoologia, biologia
ecc. non a caso era figlio d’un medico!) e uno scarso interesse per la matematica; Platone al contrario è
poco interessato alle scienze naturali e attribuisce invece grandissima importanza alla matematica,
considerata preliminare alla dialettica filosofica.
Analogie sostanziali fra Platone e Aristotele
Le differenze enunciate non devono far pensare ad una contrapposizione netta fra Aristotele e Platone.
Aristotele, pur andando oltre Platone, è pur sempre il “discepolo di Platone” e il suo sistema reca forti
eredità del maestro.
In primo luogo va evidenziato il fatto che Aristotele, come Platone, si oppone al relativismo dei sofisti:
anche per Aristotele è possibile raggiungere una conoscenza oggettiva e certa (valida sempre e per tutti),
perché anche nella realtà naturale, sensibile, esistono aspetti universali e costanti, dei quali possiamo avere
conoscenza scientifica.
In secondo luogo notiamo che anche Aristotele, come Platone, afferma l’esistenza di una realtà spirituale,
soprasensibile, eterna, anche se la rappresenta in modo completamente diverso da Platone. Quindi
Aristotele conferma la “seconda navigazione” platonica e, insieme a Platone, si oppone al materialismo di
Democrito.
(…)
Il quadro delle scienze secondo Aristotele
Aristotele divide e classifica le scienze secondo le loro finalità:
1) al primo posto stanno le scienze teoretiche, che ricercano il sapere per se stesso, cioè la conoscenza
disinteressata, libera; esse sono la metafisica, la fisica (che include tutte le scienze naturali e anche la
psicologia) e la matematica. Queste scienze studiano il necessario (ciò che non può essere diverso da ciò
che è così com’è).
2) al secondo posto stanno le scienze pratiche, che hanno uno scopo: orientare il comportamento umano
individuale (etica) e collettivo (politica, economia).
3) al terzo posto stanno le scienze poietiche che hanno come scopo la produzione: produzione di opere
d’arte (poetica), di discorsi (retorica), di oggetti. Sulla produzione di oggetti, cioè sulla tecnica, Aristotele
non ha scritto nulla.
La logica non rientra nelle tre branche suddette perché essa descrive il metodo di ragionamento che viene
utilizzato da tutte le scienze sopra elencate.
NOTA BENE: per Aristotele la filosofia nasce dalla “meraviglia” di fronte alla realtà e dal desiderio di
capire le cause di quella realtà che “stupisce”. Il fine della filosofia è quindi semplicemente la conoscenza,
desiderata e cercata per se stessa. La filosofia è costituita quindi, primariamente, dalle scienze teoretiche.
Perché Aristotele attribuisce alle scienze teoretiche il primo posto, cioè la dignità più alta?
Perché le scienze teoretiche sono libere, in quanto non sono asservite a nessuno scopo esterno ad esse, e
quindi sono più nobili delle scienze pratiche e poietiche, che invece sono asservite ad altro (così come
l’uomo libero è più nobile del servo che non vive per se stesso, ma per servire un altro uomo).
Notiamo che qui si manifesta una mentalità piuttosto diverso da quella odierna, che molto spesso attribuisce
valore a un pensiero soltanto per la sua efficacia pratica e per i risultati utili che può produrre.
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ARISTOTELE : LA METAFISICA
Che cos’è la metafisica?
E’ noto che il termine “metafisica” (= ciò che è oltre la fisica) non è termine aristotelico (fu coniato da
Andronico di Rodi per designare i libri che, nella sua edizione delle opere aristoteliche, venivano dopo
quelli dedicati alla fisica).
Aristotele usava, per lo più, l’espressione “filosofia prima” o teologia in opposizione alla filosofia seconda o
fisica, ma il termine metafisica fu preferito dai posteri: infatti la “filosofia prima” è la scienza che si occupa
delle realtà-che-stanno-al-di-sopra-di-quelle-fisiche. E metafisica fu denominato, in tutta la storia del
pensiero occidentale (dopo Aristotele), ogni tentativo di superare il mondo empirico per raggiungere una
realtà sovrasensibile.
Le definizioni che Aristotele diede della metafisica sono quattro:
a) la metafisica indaga le cause prime e i principi primi o supremi.
b) indaga l’essere in quanto essere
c) indaga la sostanza
d) indaga Dio e la sostanza soprasensibile.
Queste definizioni sintetizzano tutta la precedente filosofia (da Talete a Platone) 1, ma, soprattutto, sono in
armonia fra di loro, sono reciprocamente collegate, perché (come vedremo) tutte convergono nel problema
della sostanza e della sostanza sovrasensibile.
Metafisica: Le quattro cause
Esaminiamo la prima definizione della Metafisica: “la metafisica indaga le cause prime e i principi primi o
supremi”.
Per Aristotele si tratta di comprendere innanzitutto le cause che determinano ciascuna delle singole cose di
cui è composto il mondo. Tuttavia, anche se dovessero essere chiarite nel dettaglio le cause di ogni cosa
particolare la ricerca non potrebbe dirsi conclusa. Il mondo infatti non è soltanto composto di parti, ciascuna
isolata rispetto alle altre, ma è un tutto ordinato: il mondo non è un insieme di cose e di eventi distinti tra
loro, ma forma un’unità e quindi la realtà nel suo complesso ci pone domande fondamentali. Si tratta in
questo caso di comprendere le cause prime (o ultime), le ragioni originarie che possano permetterci di
capire perché la realtà è fatta così. (per esempio posso capire chela causa dell’esistenza degli esseri viventi è
il meccanismo della riproduzione, ma qual è la causa prima della catena ininterrotta di generazioni? perché
la vita esiste in questo modo?)
Una precisazione: con il termine causa Aristotele intende un concetto piuttosto ampio, più ampio del
significato che questa parola ha per noi; egli intende le condizioni che è necessario ammettere per spiegare
le cose e il loro divenire.
Aristotele distingue quattro tipi di cause:
1) causa formale
2) causa materiale
3) causa efficiente
4) causa finale
Le prime due non sono altro che la forma (o essenza) e la materia, che costituiscono tutte le cose, e di cui
dovremo parlare con maggiore ampiezza più avanti. Ora si badi: materia e forma sono sufficienti a spiegare
la realtà, se la consideriamo staticamente; se, invece, la consideriamo dinamicamente, cioè nel suo
divenire, nel suo prodursi e nel suo corrompersi, allora non bastano più. Così, ad esempio, una statua è da
noi ben conosciuta se conosciamo ciò di cui è fatta (ad esempio il marmo o il bronzo = causa materiale); la
forma che fa sì che sia quella determinata statua e non un’altra (ad esempio la forma di Ermes o di Apollo =
causa formale); chi ha fatto quella statua (lo scultore = causa efficiente); lo scopo per cui è stata fatta (il
guadagno dello scultore oppure il culto religioso = causa finale).
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Secondo Aristotele tutti i filosofi hanno colto qualche aspetto vero della realtà, quindi egli cerca sempre di tener conto e di
valorizzare le idee dei filosofi precedenti, e in tal modo egli scrive anche la prima “storia della filosofia”.
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Metafisica: i molteplici significati dell’essere
La seconda definizione della metafisica, come abbiamo visto sopra, viene data da Aristotele in chiave
ontologica: «c’è una scienza che considera l’essere in quanto essere e le proprietà che gli competono in
quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze
considera l’essere in quanto essere universale, ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia
le caratteristiche di questa parte». La metafisica, dunque, considera l’essere come “intero”, mentre le
scienze particolari considerano solo parti di esso. la metafisica vuole pervenire alle “cause prime dell’essere
come essere”, ossia al perché che dà ragione della realtà nella sua totalità; le scienze particolari si fermano
alle cause particolari, alle particolari sezioni della realtà.
Ma che cos’è l’essere? Parmenide lo aveva inteso come “unico”. (…)
Ora Aristotele introduce la sua grande riforma che comporta il totale superamento dell’ontologia eleatica;
l’essere non ha un solo significato ma molteplici significati. Tutto ciò che non è un puro nulla rientra
pienamente nella sfera dell’essere, sia esso una realtà sensibile sia esso una realtà intelligibile. Ma,
secondo Aristotele, tutti i significati dell’essere implicano un comune riferimento ad un’unità, ossia uno
strutturale riferimento alla sostanza ..
Pertanto l’essere o è sostanza, o è affezione della sostanza o attività della sostanza, o , in tutti i casi,
qualcosa-che-si-riporta- alla -sostanza.
Aristotele ha cercato anche di redigere una tavola che raccogliesse tutti i significati possibili dell’essere e ha
distinto gruppi fondamentali di significati:
1) l’essere come CATEGORIE
2) l’essere come ATTO E POTENZA
(…)
1) LE CATEGORIE rappresentano il gruppo principale dei significati dell’essere e costituiscono le
originarie “divisioni dell’essere”, o i “supremi generi dell’essere”. Ecco la tavola delle categorie:
1. Sostanza
2. Qualità
3. Quantità
4. Relazione
5. Azione
6. Passione
7. Luogo
8. Tempo
( 9. Avere
10. Giacere)
La nona e decima categoria sono indicate tra parentesi perché Aristotele ne parla pochissime volte.
E’ da rilevare che malgrado si tratti di significati originari, solo la prima categoria ha una sussistenza
autonoma, mentre tutte le altre presuppongono la prima e si fondano sull’essere della prima (la “qualità” e
la “quantità” sono sempre di una sostanza, le “relazioni” sono fra sostanze ecc.).
Un’altra osservazione va fatta riguardo alla sostanza: infatti il termine sostanza può riferirsi sia al singolo
individuo, sia al genere: il “gatto” è certamente una sostanza, in quanto non è predicato di altro, ha
sussistenza autonoma, tuttavia solo il singolo gatto, l’individuo, esiste realmente, mentre il genere gatto è
frutto di un’astrazione, esiste come concetto mentale: Aristotele quindi parla di Sostanza prima per riferirsi
alla sostanza individuale, realmente esistente, e di Sostanza seconda per riferirsi alla sostanza generica, che
esiste solo concettualmente.
2) ESSERE IN ATTO - ESSERE IN POTENZA Una seconda via, battuta da Aristotele per superare le
aporie di Parmenide, è quella dei concetti di essere-in-atto e di essere-in-potenza. Secondo Parmenide il
divenire è impossibile, perché l’essere non può divenire dall’essere, dato che l’essere c’è già, né dal nonessere, perché il non-essere non esiste e quindi nulla può divenire da esso.
Per Aristotele invece il divenire, che è una realtà evidente, si può concepire come possibile se si pone
attenzione al fatto che fra il non essere assoluto e l’essere pienamente in atto v’è l’essere-in-potenza. Se un
pezzo di legno diventa una statua attraverso l’opera dello scultore è perché esso lo può diventare, perché è
“in potenza” una statua. Il legno possiede già questo essere-in-potenza, a differenza, ad esempio, dell’aria o
del fuoco che non possono diventare una statua. Così il seme è in potenza la pianta, l’uovo è in potenza
l’uccello, il bimbo è in potenza l’uomo, ecc. Dunque l’essere (l’essere-in-atto, cioè l’essere così come si
presenta attualmente, nella sua realizzazione attuale) non deriva dal nulla assoluto, ma dall’essere-inpotenza.
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D’altro lato, quando tale essere-in-potenza si è realizzato, noi diciamo che l’essere è in atto. Così è esserein-atto la statua compiuta rispetto al legno informe, la pianta rispetto al seme, l’uccello rispetto all’uovo,
l’uomo rispetto al bimbo. Fra potenza e atto c’è una perfetta corrispondenza. Non qualsiasi cosa, infatti, può
diventare una qualsiasi altra cosa (per esempio un seme di frumento non può diventare una quercia o una
pianta di mais, ma solo una pianta di frumento).
L’atto, inoltre, è sempre anteriore alla potenza. Sia perché solo riferendoci all’atto noi possiamo concepire
la potenza (sappiamo che il seme è in potenza una pianta perché abbiamo presente nella mente la pianta in
atto), sia perché ogni potenza è tale in quanto deriva da un precedente atto (il seme deriva dalla pianta, la
statua scolpita deriva dallo scultore che ha già in mente la statua in atto, ecc.).
(…)
Metafisica: il significato di sostanza
Il punto di riferimento unitario dei vari significati dell’essere è per Aristotele la sostanza. Ogni cosa può
esser detta “essere” perché è sempre in qualche modo collegata con la sostanza. La sostanza è allora
l’essere fondamentale, tanto che domandarsi «che cos’è l’essere?» equivale, per Aristotele, a domandarsi
«che cos’è la sostanza?». Il problema della molteplicità degli esseri diventa quindi il problema della
molteplicità delle sostanze, e la metafisica, come scienza dell’essere, diventa per Aristotele primariamente
scienza della sostanza.
La metafisica dovrà quindi studiare che cosa sia la sostanza in generale, e poi porsi il problema di quali
sostanze esistano: se solo le sostanze sensibili o anche le sostanze soprasensibili.
SOSTRATO. Sostanza, dice Aristotele, significa anzitutto “sostrato”. E con sostrato egli intende «ciò di cui
vengono predicate tutte le altre cose, mentre esso non viene predicato di nessun’altra». In questo senso la
sostanza, come prima categoria dell’essere, si contrappone alle altre categorie. Mentre la qualità, la quantità,
ecc. si predicano dell’essere sostanziale, l’essere sostanziale rimane il soggetto ultimo di ogni altra cosa.
Così possiamo dire che il bianco è la qualità di una statua, ma non possiamo poi dire che la statua sia il
predicato o l’attributo di qualcos’altro. Essa esiste autonomamente in sé e per sé, ed è appunto questa
esistenza autonoma ciò che caratterizza in ultima analisi un essere come sostanza.
Procedendo nell’analisi, Aristotele dice che sostanza è il sinolo (o composto) di materia e forma
(per esempio la statua concreta che deriva dall’unione di forma e materia); tuttavia Aristotele ammette
anche l’esistenza di sostanze immateriali o forme pure, come vedremo più avanti nella trattazione del Primo
Motore Immobile divino. La materia invece non può essere considerata sostanza perché non esiste una
materia pura, priva di qualsiasi forma (la materia di fatto si presenta sempre in una certa forma). Pertanto la
materia, in quanto tale, non esiste autonomamente, in sé e per sé.
FORMA: la forma delle cose è sostanza perché è la forma che determina la materia in un certo modo e che
costituisce una realtà nel suo essere più profondo: la forma di una cosa esprime l’essenza della cosa stessa.
Quindi la forma delle cose non è solo il fondamento costitutivo delle cose, ma anche il principio per cui noi
le possiamo conoscere in ciò che esse propriamente sono.
Teniamo a mente che “forma” non significa aspetto esteriore, apparenza, ma “struttura”, “ principio
organizzatore” (per esempio la forma di una casa è il progetto che determina la disposizione dei mattoni,
delle travi, delle porte ecc.) .
NOTA BENE: Le forme di cui parla Aristotele corrispondono evidentemente alle Idee di Platone. C’è
tuttavia una differenza importantissima: le idee di Platone erano realtà sussistenti, esistenti in una
dimensione ultraterrena, separate dalle cose di cui erano causa. Per Aristotele invece le forme delle cose
devono essere immanenti alle cose, infatti se le idee o forme sono fuori delle cose, non si vede come
possano spiegarne l’essere o farcele meglio conoscere. Questa difficoltà era già presente allo stesso Platone,
il quale aveva cercato di risolverla facendo ricorso al mito del Demiurgo: Platone aveva cioè risolto il
problema del rapporto fra le idee e le cose parlando di “imitazione” e facendo ricorso a una divinità
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mediatrice (il demiurgo). Aristotele però non accetta questa soluzione perché (secondo lui) non si tratta di
una spiegazione razionale, ma solo di una invenzione poetica e mitica.
Quindi le forme delle cose, secondo Aristotele, non sono separate dalle cose stesse, ma sono immanenti,
cioè esistono dentro le cose, e solo così possono essere principio ontologico e gnoseologico delle cose.
In definitiva Aristotele nega l’esistenza delle Idee, cioè di forme delle cose separate dalle cose, ma tuttavia
non nega, come vedremo, l’esistenza di sostanze immateriali.
Metafisica: sostanza, materia e forma, potenza e atto
Le dottrine esposte fin qui vanno ancora integrate con alcune precisazioni riguardanti la potenza e l’atto
riferiti alla sostanza, alla materia e alla forma. Secondo Aristotele c’è una corrispondenza tra la materia e la
potenza, e tra la forma e l’atto. Infatti la materia è potenza o potenzialità perché è capacità di assumere o di
ricevere la forma: ad es.. il bronzo è potenza della statua, perché è capacità di assumere la forma della
statua. La forma si configura invece come atto o attuazione di quella capacità: la forma della statua è
l’attuazione della potenzialità insita nel bronzo. Le sostanze-sinoli, in quanto composti di materia e forma,
saranno pertanto dei misti di potenza e atto: questo significa che tutte le cose materiali avranno un’esistenza
attuale identificata dalla loro forma, ma avranno anche una certa potenzialità, vale a dire la capacità di
trasformarsi, di assumere nuove forme.
Se esistessero degli esseri immateriali, questi, in quanto privi di materia, sarebbero anche privi di
potenzialità, e quindi non sarebbero suscettibili di trasformazioni.
Metafisica: la sostanza soprasensibile
Il problema che si pone alla fine della metafisica è: esistono degli esseri immateriali, o spirituali, vale a dire:
esistono delle sostanze soprasensibili, costituite solo da forma (forme pure e atti puri) ?
L’argomentazione di Aristotele a favore dell’esistenza di sostanze soprasensibili presuppone alcuni concetti
trattati nella Fisica, che qui dobbiamo anticipare:
1°) quando parla di movimento Aristotele si riferisce a qualsiasi tipo di mutamento o di divenire (quindi
movimento nello spazio, ma anche trasformazione, generazione e corruzione, accrescimento e diminuzione).
2°) ogni movimento-divenire è passaggio dalla potenza all’atto, ed esige una causa che sia già in atto: quindi
ogni cosa in movimento è mossa da altro.
Seguiamo ora il ragionamento con cui Aristotele dimostra l’esistenza della sostanza soprasensibile, cioè di
Dio. Le sostanze materiali sono tutte dotate di movimento (in quanto hanno una potenzialità che si deve
attuare). Ora tutto ciò che si muove è necessario che sia mosso da altro: ogni movimento richiede un
“movente” o “motore”; se questo si muove rimanda a un altro “motore” ancora, e così via (per esempio la
rete è mossa dalla pallina, ma questa è mossa dalla racchetta, la racchetta è mossa dal braccio e così via). In
questo processo di rimandi non è possibile risalire di motore in motore all’infinito, perchè altrimenti non
avremmo mai la causa del movimento e dunque neppure il movimento stesso.
E’ necessario quindi che ci sia un principio assolutamente “primo” e assolutamente “immobile” che sia la
causa prima del movimento intero.
Poiché il movimento è inteso da Aristotele come passaggio dalla potenza all’atto, tale principio,
assolutamente immobile, dovrà essere inteso come assolutamente privo di potenza e quindi come atto puro
(solo l’atto puro non si muove, non diviene, perché è già completamente attuato, non ha nessuna
potenzialità da realizzare). Come tale non potrà avere in sé alcuna materialità, dato che la materia implica
potenzialità e movimento.
Aristotele pertanto afferma l’esistenza di un PRIMO MOTORE IMMOBILE, ATTO PURO (perché privo di
potenzialità), FORMA PURA (perché immateriale), e questo Primo Motore è Dio.
Secondo Aristotele non esiste un unico Dio, in realtà sono molti i motori immobili, quindi le sostanze
immateriali che danno origine al movimento delle cose materiali: il primo Motore Immobile muove la sfera
delle stelle fisse e poi c’ è un Motore Immobile (una sostanza immateriale e divina) per ognuna delle sfere
che stanno fra la sfera delle stelle fisse e la Terra. Aristotele però sente il bisogno di unificare questa
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pluralità di cause affermando l’esistenza di un PRIMO Motore al quale gli altri sono subordinati; insomma
in Aristotele c’è un monoteismo esigenziale più che effettivo.
Ma in che modo questo Dio Atto Puro può muovere le cose restando assolutamente immobile? Come
oggetto di desiderio e di amore. “Il primo motore muove come l’oggetto di amore attrae l’amante”. Dio è
perfetto (proprio perché è atto puro) e quindi è il bene sommo, è sommamente desiderabile e amabile, per
questo muove le cose semplicemente attirandole, senza muoversi. Pertanto la causalità di Dio non è una
causalità efficiente (che implica il movimento), ma finale: Dio muove le cose perché è il bene supremo e
perfetto a cui esse tendono
Secondo Aristotele Dio, oltre che Primo Motore Immobile, Atto Puro, Sostanza immateriale, è anche Vita
intellettiva o Intelligenza o Pensiero, perché se egli è perfetto deve possedere la vita nella sua forma più alta
e libera (la vita intellettiva è attività superiore a tutte le altre perché non è determinata dall’esterno ed è
quindi assolutamente libera)
Ma che cosa pensa Dio? pensa la cosa più eccellente: se stesso. Per questo Aristotele lo definisce “Pensiero
di Pensiero”. Dio non può pensare le cose del mondo e gli uomini, esseri imperfetti e mutevoli, perché
altrimenti si abbasserebbe, si degraderebbe. Per la stessa ragione Dio non ama il mondo e gli uomini, perché
l’amore è una manifestazione di bisogno (Amore è figlio di Povertà, aveva detto Platone) incompatibile con
la perfezione divina; Dio quindi è oggetto di amore ma non soggetto di amore (= è amato, non amante).
Infine Dio non ha creato il mondo, ma è soltanto causa del divenire del mondo: di fronte all’esistenza eterna
di Dio sta l’esistenza eterna della materia che si muove e si attua perché attratta, ultimamente, dalla
perfezione divina.
Come si vede la concezione teologica di Aristotele è molto distante sia da quella della religione olimpica
(la divinità aristotelica non è antropomorfa, non ha sembianze, comportamenti e sentimenti umani), sia da
quella biblica e cristiana: in particolare nella teologia biblica e cristiana c’è la creazione, la provvidenza e
l’amore di Dio per le creature, amore gratuito e donativo, che ovviamente non nasce da un bisogno o da
una imperfezione, ma da una ricchezza e sovrabbondanza d’essere. Tuttavia non mancano alcune
somiglianze tra il Dio aristotelico e quello biblico (la perfezione, l’immutabilità e quindi l’eternità, il
monoteismo nel senso che abbiam detto), che verranno valorizzate dalla teologia cristiana.
In conclusione occorre rilevare che Aristotele, dopo aver negato l’esistenza delle Idee platoniche intelligibili
immateriali, ha tuttavia introdotto una sostanza immateriale; quindi la sua critica a Platone non nega la
validità della “seconda navigazione” platonica, vale a dire la scoperta di una dimensione spirituale,
soprasensibile; però Aristotele concepisce la realtà spirituale in modo diverso, non come forma intelligibile
delle cose, ma come causa intelligente del divenire delle cose.
ARISTOTELE : LA FISICA
La fisica riguarda tutte le sostanze costituite di forma e materia, la quali sono caratterizzate dal movimento.
Abbiamo già visto nella Metafisica quali sono le cause e le condizioni del movimento e del divenire.
A questo punto occorre precisare che per A. esistono diversi tipi di divenire:
1) della sostanza: generazione e corruzione
2) della qualità: alterazione
3) della quantità : aumento e diminuzione
4) del luogo: traslazione
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Fisica: il cosmo, mondo terrestre e mondo celeste
Secondo Aristotele il mondo fisico è diviso in due “zone”: il mondo terrestre o sublunare e il mondo celeste
o sopralunare.
Il mondo terrestre è costituito da una materia composta dai quattro elementi: terra aria fuoco e acqua.
Il mondo terrestre è soggetto a tutti i 4 tipi di divenire e tutte le cose terrene sono corruttibili.
Attorno alla terra ruotano i corpi celesti (la luna, il sole, i sette pianeti e le stelle), incastonati in sfere
trasparenti (ogni sfera è come una “buccia” che avvolge la terra, e Aristotele per spiegare tutti i movimenti
astronomici afferma l’esistenza di 56 sfere).
Tutto il mondo sopralunare (corpi celesti e sfere) è costituito da una sola materia, chiamata etere, ed è
caratterizzato da un unico tipo di divenire: il movimento circolare (che appartiene alle traslazioni).
Pertanto tutte le sostanze del mondo sopralunare sono incorruttibili, eterne, come del resto è eterno il mondo
nel suo insieme (ma è spazialmente finito).
Complessivamente la realtà risulta perciò costituita, per Aristotele, da tre livelli: 1: Sostanze soprasensibili,
immateriali e immobili, 2: sostanze celesti, sensibili e mobili ma incorruttibili, 3: sostanze terrestri,
sensibili, mobili e mutevoli, corruttibili.
La convinzione aristotelica riguardo alla differenza ontologica e fisica tra il mondo terrestre e il mondo
celeste nasceva dall’osservazione empirica: infatti gli antichi, osservando il cielo a occhio nudo, potevano
vedere soltanto spostamenti del sole, della luna e degli astri, ma non potevano mai vedere trasformazioni,
alterazioni, nascite, morti (cose che noi invece possiamo constatare grazie ai telescopi); pertanto erano
convinti che tali fenomeni avvenissero solo sulla terra, e che i corpi celesti fossero immutabili e
incorruttibili.
La concezione aristotelica dell’universo (la distinzione tra mondo celeste e mondo sublunare, la
collocazione della terra al centro dell’universo con i corpi celesti ruotanti intorno e portati da sfere), con
alcune correzioni fatte da Tolomeo, rimarrà la concezione cosmologica comunemente accettata fino alla
rivoluzione astronomica dell’età moderna (realizzata nei secoli XVI e XVII da Copernico, Keplero e
Galilei).
(…)
ARISTOTELE - LA PSICOLOGIA
1) LA PSICOLOGIA
La fisica aristotelica non si limita allo studio delle sostanze mobili inanimate, ma si estende anche allo
studio delle sostanze mobili animate, o sostanze viventi, dalle piante, agli animali, all’uomo. Fra le opere
dedicate agli esseri viventi (molte delle quali affrontano temi che oggi diremmo di scienza naturale) un
posto particolare spetta al trattato Sull’anima, in cui sono contenute le affermazioni fondamentali della
psicologia di Aristotele, intesa appunto come “studio dell’anima” (psyché = anima) quale principio degli
esseri viventi.
2) L’ANIMA FORMA DEL CORPO
Come in altri casi, Aristotele esamina le dottrine elaborate precedentemente, in questo caso la concezione
dell’anima dei filosofi naturalisti-materialisti (ad esempio Democrito) e quella spiritualista di Platone. A tali
dottrine Aristotele obietta di aver studiato l’anima in se stessa, senza riferirsi al corpo, quasi che l’anima secondo i miti orfico-pitagorici - “possa penetrare a caso in un corpo qualunque”. Per Aristotele l’anima e
il corpo non debbono essere considerati come due sostanze a sè, unite in modo accidentale, bensì come parti
costitutive di una sostanza unitaria, il corpo vivente, che è sinolo o unione di corpo, quale materia, e di
anima, quale forma.
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L’anima viene definita come “forma o atto di un corpo fisico organico che ha la vita in potenza”. Il corpo,
infatti, senza anima è vivo soltanto in potenza. E l’anima non è che la vita del corpo in atto, la struttura
vivente del corpo. Essa quindi non è separabile dal corpo, così come la vista non è separabile dall’occhio e
l’udito non è separabile dall’orecchio. A meno che, avverte Aristotele, vi siano funzioni o attività
dell’anima che non siano attuazioni di una parte del corpo ma siano proprie soltanto dell’anima
3) I TRE TIPI DI ANIMA
Anima vegetativa (propria delle piante)> funzioni: nutrizione e crescita, riproduzione.
Anima sensitiva (degli animali)> funzioni: sensazione, appetito, movimento
Anima intellettiva o razionale (dell’uomo) > funzioni: pensiero razionale, formazione di concetti astratti.
Ogni essere vivente ha una sola anima, quindi l’anima sensitiva degli animali possiede anche le funzioni
dell’anima vegetativa e l’anima intellettiva degli uomini possiede anche le funzioni dell’anima sensitiva e
vegetativa.
4) LA GNOSEOLOGIA
La sensazione (o percezione) è passaggio della facoltà di senso (per esempio la vista) dalla potenza all’atto.
Il vedere è l’attuazione della vista. La sensazione (come attuazione della facoltà di senso) è provocata da un
oggetto sensibile (un colore, un suono ecc. che agisce sui sensi), infatti sappiamo che il passaggio dalla
potenza all’atto richiede sempre una causa attuale. (…)
L’anima sensitiva ha anche la capacità di conservare nella memoria le immagini prodotte dalle sensazioni,
e anche di formare immagini generali, cioè immagini riferite a molte sensazioni.
L’intelletto (o anima razionale) ha la funzione di formare i concetti astratti e universali su cui si basa la
nostra conoscenza razionale (per esempio il concetto di uomo, che si distingue nettamente dall’immagine
generale dell’uomo, perché questa ha un contenuto sensoriale e varia da soggetto a soggetto, mentre il
concetto coglie l’essenza dell’uomo e quindi è universale).
Secondo Aristotele, l’intelletto umano non possiede idee o concetti innati (la conoscenza quindi non è
reminiscenza di qualcosa che in fondo conosciamo già): l’intelletto forma i concetti operando sulle
immagini prodotte dai sensi e conservate dalla memoria.
Quindi, a differenza di Parmenide e di Platone, che ritenevano ingannevole o illusoria l’esperienza,
Aristotele considera l’esperienza necessaria: l’intelletto conosce elaborando le informazioni acquisite
dall’esperienza.
Anche la conoscenza intellettiva viene spiegata da Aristotele ricorrendo alla potenza e all’atto: infatti il
concetto (o forma intelligibile) esiste nelle cose sensibili solo in potenza (per esempio il concetto astratto e
universale di triangolo non esiste attualmente nei triangoli x, y e z, ma solo potenzialmente, perché per
cogliere il concetto astratto e universale di triangolo debbo astrarre da tutte le caratteristiche particolari di x,
di y, e di z). E’ l’Intelletto Attivo che produce i concetti astratti (o forme intelligibili) attuando le
potenzialità presenti nelle cose sensibili.
Esso è paragonabile alla luce: come la luce rende visibili i colori e permette alla vista di vedere, così
l’intelletto attivo rende intelligibili le forme delle cose sensibili e ne permette la conoscenza.
5) IL CARATTERE SPIRITUALE DELL’INTELLETTO ATTIVO
L’attività astrattiva dell’intelletto attivo implica un’indipendenza dal corpo e dalla materia (infatti
l’astrazione consiste nel separare il concetto dalla sostanza materiale): per questo Aristotele definisce
l’intelletto attivo “separato dalla materia”, “impassibile”, “eterno” “immortale” (così l’anima razionale
sarebbe un’altra sostanza spirituale, dopo il Primo Motore Immobile). Le affermazioni di Aristotele
riguardo alla immaterialità e immortalità dell’intelletto attivo susciteranno innumerevoli discussioni tra gli
interpreti del pensiero aristotelico, perché non è facile conciliare la concezione dell’anima intellettiva
spirituale, indipendente dalla materia, con la concezione generale dell’anima come “forma del corpo”.
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ARISTOTELE – LOGICA
La Logica studia il funzionamento del pensiero – del ragionamento – del discorso argomentativo.
Studia quindi il procedimento della dimostrazione, la struttura , i tipi, gli elementi della dimostrazione.
N.B. Nel linguaggio comune spesso si usa (impropriamente) il termine “dimostrazione” anche per riferirsi
all’accertamento di qualche tesi per mezzo di prove sperimentali (per esempio: “Foucault, con il suo
pendolo, ha dimostrato la rotazione terrestre”), ma nel linguaggio della filosofia e delle scienze il termine
“dimostrazione” significa propriamente un procedimento puramente razionale,come quello che viene
utilizzato nei teoremi di geometria.
La Logica, nella filosofia di Aristotele, non appartiene a un campo scientifico particolare (come Scienze
teoretiche, scienze pratiche, ecc.) perché descrive il metodo argomentativo - dimostrativo di tutte le scienze.
Infatti ogni scienza, per essere tale, deve utilizzare questo metodo.
Scritti aristotelici di Logica: “Categorie”, “Analitici Primi”, “Analitici Secondi”, “Topici”, “De
interpretatione” “Confutazioni sofistiche” ecc. tutti raggruppati dall’editore nell’Organon (= strumento)
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GLI OGGETTI DELLA LOGICA SONO:
1) CONCETTI e TERMINI = elementi primi del pensiero e del linguaggio
2) GIUDIZI e PROPOSIZIONI = relazioni di concetti e di termini
3) RAGIONAMENTI e DIMOSTRAZIONI (o argomentazioni) = concatenazioni di giudizi e di
proposizioni
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A. LOGICA DEI CONCETTI
I concetti esprimono gli aspetti universali delle realtà sensibili (generi, specie, categorie),
per esempio: gatto, rettile, uomo, rosso, suono etc.
I concetti sono immagini (= rappresentazioni mentali, prodotte dall’esperienza e dall’intelletto) di realtà
concrete.
I termini sono le parole (simboli convenzionali) con cui esprimiamo nel linguaggio i concetti
pertanto c’è una perfetta corrispondenza tra ….
linguaggio (termini) – pensiero (concetti) – realtà
Quando l’intelletto – lavorando sulle immagini prodotte dall’esperienza – produce per astrazione un
concetto, questo concetto coglie un aspetto oggettivo della realtà. (rivedere quello che si è già studiato
sull’intelletto attivo e passivo e sul processo di astrazione!)
I CONCETTI hanno:
ESTENSIONE = ampiezza, quantità di individui a cui si applica il concetto
COMPRENSIONE = determinatezza, quantità di caratteristiche indicate dal concetto
I concetti che hanno maggior estensione hanno minor comprensione, e viceversa.
Per esempio: “rettile” ha maggior estensione e minor comprensione di “lucertola”
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“animale” ha maggior estensione e minor comprensione di “rettile” (infatti gli animali sono più numerosi
dei rettili, ma il termine rettile indica una maggior quantità di caratteristiche – squame, sangue freddo,
respirazione polmonare, vertebrato etc.- rispetto al termine “animale” che significa semplicemente
“organismo vivente dotato di sensazione e movimento”)
I concetti con la massima estensione sono le categorie (già studiate nella metafisica, vedi: sostanza, qualità,
quantità, azione, passione, relazione, luogo, tempo, avere, giacere)
Le CATEGORIE quindi sono i SIGNIFICATI FONDAMENTALI DELL’ESSERE (secondo la metafisica) e
i GENERI SUPREMI DEL PENSIERO E DEL LINGUAGGIO (secondo la logica)
DEFINIZIONI dei CONCETTI = esprimono l’essenza della realtà a cui si riferiscono i concetti.
(per esempio: la definizione di “rettile” esprime l’essenza dei rettili realmente esistenti)
I Concetti vengono definiti indicando il GENERE PROSSIMO e la DIFFERENZA SPECIFICA.
per esempio: “lucertola” è definito dal genere “rettile” e dalle caratteristiche che differenziano la specie
lucertola dagli altri rettili. Il genere prossimo è quello meno esteso in cui rientra il concetto da definire.
Definizione di “uomo” = “animale razionale”
Le categorie non sono definibili perché sono i generi supremi (non ci sono generi più estesi entro cui
collocare le categorie).
Gli individui non sono definibili perché non possiamo indicare differenze
specifiche.
I concetti non sono né veri né falsi e le definizioni dei concetti sono valide o non valide: infatti una
definizione come “l’uomo è un mammifero a sangue caldo”, pur non essendo falsa, non è valida, perché non
coglie la specificità dell’uomo.
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B. LOGICA DEI GIUDIZI
GIUDIZIO (o PROPOSIZIONE) = unione di due concetti di cui uno è soggetto e l’altro predicato.
La logica si occupa solo dei giudizi dichiarativi (che affermano o negano), non di proposizioni come
comandi, esclamazioni, domande, esortazioni ecc.
Esempi: le gazzelle corrono, gli uomini sono mortali, Giacomo è a Milano ecc.
Il giudizio può essere VERO o FALSO:
è vero se congiunge concetti che sono congiunti anche nella realtà (o disgiunge concetti che sono disgiunti
nella realtà)
è falso se congiunge concetti che nella realtà sono disgiunti (o viceversa)
quindi la verità (o la falsità) è nel giudizio, ma il criterio di verità (o di falsità) è la realtà.
TIPOLOGIA DEI GIUDIZI:
i giudizi possono essere:
1° Secondo la quantità = universali o particolari
2° Secondo la qualità = affermativi o negativi
Universale affermativa: tutti gli uomini sono biondi
Universale negativa: nessun uomo è biondo (oppure: tutti gli uomini non sono biondi)
Particolare affermativa: alcuni uomini sono biondi (oppure: qualche uomo è biondo)
Particolare negativa: alcuni uomini non sono biondi (oppure: qualche uomo non è biondo)
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Nel Medioevo, sulla base dell’insegnamento di Aristotele, è stato elaborato un
QUADRATO LOGICO PER STUDIARE I RAPPORTI TRA I GIUDIZI
U.A. tutti gli
uomini sono
biondi
SU
BA
LT
ER
NE
P.A. alcuni
uomini sono
biondi
CONTRARIE
CONTRADDITTORIE
SUB-CONTRARIE
U.N. nessun
uomo
è
biondo
SU
BA
LT
ER
NE
P.N. alcuni
uomini non
sono biondi
CONTRARIE: non possono essere entrambe vere, ma possono essere entrambe false
SUB_CONTRARIE: non possono essere entrambe false, ma possono essere entrambe vere
SUBALTERNE: se l’universale è vera, è vera anche la subalterna, ma non viceversa.
se la subalterna (particolare) è falsa, è falsa anche l’universale, ma non viceversa.
CONTRADDITTORIE: si escludono a vicenda , se una è vera l’altra è falsa (è l’opposizione più forte).
I GIUDIZI possono anche essere:
3° secondo la modalità:
POSSIBILI “Il tempo può diventar brutto” = non è ma può essere
CONTINGENTI “adesso il tempo è bello” = è ma potrebbe non essere
IMPOSSIBILI “è impossibile che due rette parallele s’incontrino” = non è e non può mai essere
NECESSARI “è necessario che il triangolo abbia tre lati” = è e non può non essere
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LOGICA DEL SILLOGISMO
Ragionamento deduttivo – dimostrazione – argomentazione - inferenza =
concatenazione di giudizi, per cui, poste le premesse, segue necessariamente la conclusione
SILLOGISMO = struttura elementare, tipica, del ragionamento deduttivo
ESEMPI:
tutti gli uomini sono mortali
Premessa maggiore M è P
Socrate è uomo
Premessa minore
SèM
Socrate è mortale
Conclusione
SèP
N.B. uomo è il termine MEDIO, cioè il termine che deve comparire in entrambe le premesse e che funge da
“cerniera” tra il soggetto è il predicato della conclusione.
ESISTONO DIVERSI TIPI DI SILLOGISMO: ARISTOTELE LI HA CLASSIFICATI SULLA BASE
DELLA POSIZIONE DEL TERMINE MEDIO NELLE PREMESSE E SULLA BASE DEI TIPI DI
GIUDIZIO CHE COMPONGONO IL SILLOGISMO
Nell’esempio che segue il termine medio cantante è in posizione di soggetto in entrambe le premesse:
Tutti i cantanti sono intonati
Premessa maggiore M è P
Qualche cantante è inglese
Premessa minore
MèS
Qualche inglese è intonato
Conclusione
SèP
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Nell’esempio che segue il termine medio sangue caldo è in posizione di predicato in entrambe le premesse,
inoltre notiamo che la premessa minore e la conclusione sono giudizi negativi:
Tutti i mammiferi hanno sangue caldo Premessa maggiore P è M
Nessun serpente ha sangue caldo
Premessa minore
SèM
Nessun serpente è mammifero
Conclusione
SèP
Non tutti i sillogismi portano a conclusioni necessarie, anzi le possibili combinazioni di posizione dei
termini medi e di giudizi universali affermativi, universali negativi, particolari affermativi e negativi sono
più di duecento, ma i sillogismi corretti, che portano a conclusioni necessarie, secondo Aristotele sono solo
14. Aristotele ha definito le regole che devono rispettare i sillogismi per essere corretti (per esempio: se
una delle premesse è negativa, la conclusione non può essere mai affermativa, il predicato della premessa
maggiore deve avere estensione maggiore del predicato della premessa minore etc.): noi rinunciamo per
ragioni di tempo ad esaminarle dettagliatamente.
I torinesi sono Italiani
MèP
Paolo è torinese
SèM
Quindi Paolo è Italiano
SèP
Nei due esempi precedenti i giudizi sono gli stessi,
sillogismo è corretto, il secondo no.
I torinesi sono Italiani
PèM
Paolo è Italiano
SèM
Quindi Paolo è torinese
SèP
ma cambia la loro posizione nel sillogismo: il primo
Nel sillogismo che segue tutti i giudizi sono palesemente falsi, e tuttavia il sillogismo è corretto perché la
conclusione segue necessariamente dalle premesse:
Tutti gli uccelli volano
MèP
Tutti gli uomini sono uccelli
SèM
Quindi tutti gli uomini volano
SèP
quindi questo sillogismo è corretto, anche se non è vero.
ora esaminiamo il seguente sillogismo:
Tutti i ragazzi che hanno la moto sono felici M è P
io non ho la moto
SèM
Quindi io non sono felice
SèP
indipendentemente dalla verità delle premesse e della conclusione, il sillogismo non è corretto, infatti
potrebbero essere felici anche i ragazzi che hanno la bici e quelli che hanno l’auto (ecc.) quindi “io non
sono felice” non è una conclusione necessaria.
Come potrei modificare il sillogismo per renderlo corretto? se la premessa fosse “solo i ragazzi che hanno
la moto sono felici” la conclusione diventerebbe necessaria e quindi il sillogismo sarebbe corretto.
FORMALIZZAZIONE DEI SILLOGISMI.
nei suoi scritti di Logica Aristotele non ha fornito degli esempi di sillogismo come quelli esaminati ora: ha
proposto semplicemente degli schemi in cui ai possibili contenuti dei sillogismi sono sostituite lettere, per
esempio:
Se ogni A inerisce a ogni B
Se A non inerisce a qualche C
Allora qualche C non è B
in tal modo ha realizzato una formalizzazione dei sillogismi che permette di stabilire la correttezza dei
ragionamenti in base alla loro forma, prescindendo dai contenuti.
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SILLOGISMI SCIENTIFICI E DIALETTICI
I sillogismi corretti, se hanno premesse vere, conducono a una conclusione vera, (oltre che necessaria):
questi sillogismi sono chiamati da Aristotele SILLOGISMI SCIENTIFICI perché sono propri della scienza,
la quale deve giungere, con procedimenti dimostrativi, ad affermazioni vere.
Se invece i sillogismi (corretti) hanno premesse solo probabili, la conclusione sarà probabile. Questi
sillogismi sono chiamati da Aristotele SILLOGISMI DIALETTICI. Questi sillogismi sono utili per la
retorica (per esempio nei discorsi politici e giudiziari) che deve convincere gli ascoltatori, pur senza
raggiungere la verità delle scienze.
I sillogismi non corretti (in cui la conclusione non segue necessariamente dalle premesse) sono ingannevoli,
non sono utili né per la scienza né per la retorica; i ragionamenti dei sofisti secondo Aristotele erano di
questo tipo, non corretti e quindi ingannevoli.
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IL PROBLEMA DELLA VERITA’ DELLE PREMESSE
Un sillogismo corretto porta a una conclusione vera se ha premesse vere. Si pone quindi il problema della
verità delle premesse (cioè dei giudizi, perché le premesse del sillogismo sono giudizi). In che modo si può
accertare la verità di un giudizio?
Secondo Aristotele un giudizio vero può essere formulato secondo 3 metodi:
per deduzione (metodo sillogistico)
per induzione
per intuizione
DEDUZIONE: il giudizio che costituisce la premessa di un sillogismo può essere dedotto da un altro
sillogismo (di cui costituirà la conclusione). Per esempio: “Tutti gli uomini sono mortali”, che è la premessa
maggiore del primo sillogismo esaminato sopra, può essere dedotto dal sillogismo: “tutti gli animali sono
mortali, tutti gli uomini sono animali, dunque tutti gli uomini sono mortali”; a sua volta ”tutti gli animali
sono mortali” può essere dedotto da un altro sillogismo (“Tutti gli esseri viventi muoiono, gli animali vivono
ecc.”); come si può rilevare da questi esempi il procedimento deduttivo fa derivare un giudizio da altri
giudizi più generali; tuttavia non è possibile procedere all’infinito in questo modo: ci dovranno pertanto
essere delle premesse/giudizi non deducibili; la verità di queste premesse/giudizi dovrà essere accertata in
altro modo, per induzione o per intuizione
INDUZIONE
è il procedimento per cui partendo dall’osservazione di tanti casi particolari giungo a un principio generale
(una legge, un concetto universale etc.) . Per esempio, siccome ho osservato che il ferro si dilata col calore,
che il piombo si dilata col calore, che il mercurio, l’alcool, il vetro si dilatano col calore ecc. ecc. giungo
alla conclusione generale che il calore dilata i corpi.
La conclusione del procedimento induttivo è solo probabile, infatti l’esperienza di tanti casi particolari non
può darmi la certezza che il principio generale a cui giungo abbia validità universale: per esempio non posso
essere sicuro che il calore dilati proprio tutti i corpi, potrebbe esserci qualche materiale che non ho
sperimentato e che non obbedisce a questa legge.
Tuttavia Aristotele pensa che l’induzione (e quindi l’esperienza) prepari il processo di astrazione per mezzo
del quale l’intelletto coglie con certezza il concetto universale.
Esempio: Caio è morto, Tizio è morto, Cesare è morto, Giovanni è morto ecc. ecc. , perciò probabilmente
tutti gli uomini sono mortali.
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Ma se l’intelletto (astraendo dai tanti uomini di cui si è fatta esperienza) coglie il concetto universale di
uomo, vale a dire l’essenza dell’uomo, capisce che dell’essenza umana fa parte la mortalità: dunque
certamente tutti gli uomini sono mortali
INTUIZIONE
esistono alcuni principii generali che noi conosciamo come veri per intuizione, immediatamente, senza
dedurli né ricavarli dall’esperienza. Sono immediatamente evidenti.
Questi principii sono i primi principii delle scienze (per esempio le definizioni e gli assiomi della
matematica, oppure il movimento per la fisica); possono essere principii di una sola scienza , oppure
possono essere comuni a più scienze, oppure possono essere comuni a tutte le scienze.
Il principio più generale di tutti, perché sta alla base di qualsiasi discorso razionale, è il PRINCIPIO DI
NON-CONTRADDIZIONE (“riguardo allo stesso soggetto non si può affermare e negare un predicato nello
stesso tempo e sotto lo stesso aspetto”).
Il principio di non contraddizione non può essere dimostrato, perché qualsiasi dimostrazione lo presuppone,
però non può neppure essere confutato, infatti se si nega il principio di non-contraddizione si deve
ammettere che la stessa negazione può essere affermata e negata: negando il principio di non-contraddizione
qualsiasi discorso risulta vero e falso allo stesso tempo, cioè del tutto insignificante e inutile.
Dal principio di non-contraddizione derivano il PRINCIPIO DI IDENTITA’ (ogni cosa è uguale a se stessa
A= A) e il PRINCIPIO DEL TERZO ESCLUSO (di un soggetto si può affermare o negare un predicato, non
esiste un’altra possibiltà: per esempio: MARIO CORRE oppure MARIO NON CORRE e basta!)
ARISTOTELE - SECONDA PARTE – SCIENZE PRATICHE E POIETICHE
Riprendiamo la distinzione aristotelica tra le scienze: al primo posto stanno le scienze teoretiche, finalizzate
alla conoscenza per se stessa, superiori alle altre perché libere, e inoltre capaci di raggiungere conoscenze
certe e universali: tra le scienze teoretiche abbiamo esaminato la Metafisica, la Fisica e la Psicologia; fa
parte delle scienze teoretiche anche la Matematica, alla quale però Aristotele non ha dedicato grande
attenzione.
Il secondo gruppo di scienze è costituito dalle Scienze Pratiche, che sono finalizzate a descrivere, valutare e
guidare il comportamento umano: l’Etica (o Morale) si occupa del comportamento individuale, la Politica
si occupa del comportamento degli uomini associati nello Stato. Le Scienze Pratiche, in quanto si
occupano del comportamento umano che non è determinato da leggi immutabili e inderogabili, non possono
raggiungere la stessa certezza delle scienze teoretiche; esse quindi descrivono e regolano i comportamenti
con un certo grado di approssimazione.
Infine il terzo gruppo di scienze, quelle Poietiche o Produttive, insegna a produrre “oggetti”; Aristotele si è
occupato solo della produzione di due “oggetti” particolari: le opere letterarie, di cui si occupa la “Poetica”,
e i discorsi, di cui si occupa la “Retorica”.
ETICA
Alla scienza etica (o morale) Aristotele ha dedicato diversi trattati, tra i quali il più famoso si intitola “Etica
Nicomachea”: questo trattato presenta infatti l’insegnamento etico di Aristotele nel modo più completo e
organico, inoltre, tra gli scritti esoterici, è uno dei più pregevoli anche dal punto di vista espositivo.
In questo trattato Aristotele si chiede che cos’è il bene, e risponde che il bene è semplicemente tutto ciò che
gli uomini desiderano e cercano con i loro comportamenti, “bene” è – in altri termini – ogni fine dell’azione
umana. Occorre tuttavia distinguere i beni strumentali (o secondari) dal bene sommo (o fine ultimo): infatti
molti dei beni che vengono cercati dagli uomini sono soltanto dei mezzi per raggiungere altri beni (p.e. il
denaro è un mezzo per acquistare altri beni; bevande e cibi sono mezzi per procurare sensazioni piacevoli, o
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per saziare la fame e la sete ecc.). Tra tutti i beni però ce n’è uno che non può mai essere considerato un
mezzo per il conseguimento di altri beni, ma è sempre il fine ultimo dell’azione umana: è la felicità; la
felicità quindi costituisce il bene sommo dell’etica umana. Pertanto anche l’etica di Aristotele, come quella
di Socrate, è un’etica eudaimonistica, che pone come suo criterio, principio e scopo la felicità umana.
Ma a questo punto si tratta di capire in che cosa può consistere la felicità, attraverso quali comportamenti
l’uomo può ottenere durevolmente la felicità. Aristotele procede nella sua ricerca esaminando e criticando,
una per una, le idee più diffuse riguardo alla felicità.
1) In primo luogo molti credono che la felicità (il bene sommo – fine ultimo) consista nei piaceri corporei,
ma Aristotele respinge questa concezione perché una vita spesa principalmente per il piacere sarebbe una
vita animalesca, indegna dell’uomo; Aristotele non condanna in toto la ricerca del piacere fisico, anzi pensa
che i piaceri in una certa misura siano necessari per raggiungere la felicità (egli non ci propone una morale
ascetica), ma respinge l’idea che il piacere possa essere il fine ultimo dell’attività umana.
2) In secondo luogo molti credono che la felicità consista nell’onore, nella buona fama, nella gloria
(sappiamo che nell’antica Grecia i cittadini attribuivano un valore grandissimo al fatto di essere rispe ttati,
ammirati, ricordati); anche questa concezione però è respinta da Aristotele in quanto l’onore e la fama
dipendono soprattutto dal giudizio degli altri, quindi chi ripone in essi il proprio fine ultimo si trova a
dipendere dagli altri e perde la propria libertà (oltre tutto il giudizio del popolo è assai mutevole, e spesso
non ha rapporto con i reali meriti e demeriti delle persone da esso giudicate).
3) In terzo luogo molti fanno consistere la felicità nella ricchezza, ma – obietta Aristotele - il denaro può
essere solo un bene strumentale, e quindi sarebbe assurdo considerarlo il bene sommo. Anche riguardo alla
ricchezza e all’onore vale ciò che si è detto a proposito del piacere fisico: Aristotele non rifiuta
completamente questi beni, ritiene che in una certa misura siano necessari, però non possono essere
considerati “beni sommi”.
4) Anche la concezione platonica del Bene inteso come Idea non viene accettata da Aristotele, perché
l’Idea è irraggiungibile nella vita terrena, e invece egli cerca un bene sommo (la felicità) che possa essere
ottenuto dagli uomini concretamente esistenti, costituiti di anima e corpo.
Dopo aver scartate queste idee comuni sulla felicità, Aristotele afferma che l’uomo può raggiungere la
felicità solo se realizza se stesso come uomo,vale a dire solo se realizza la sua attività specifica, quella che
lo caratterizza e lo distingue da tutti gli altri animali ed esseri viventi . Questa attività è l’attività dell’anima
intellettiva – razionale. Quindi la felicità e il bene sommo per l’uomo consiste nel vivere secondo ragione
(la ricerca del piacere, della ricchezza e dell’onore sono ammissibili, ma debbono essere subordinate al
vivere secondo ragione). Al riguardo osserviamo che Aristotele non ha una concezione relativistica del bene
e della felicità: secondo lui esistono tante concezioni della felicità, ma una sola corrisponde alla natura
dell’uomo e gli permette di conseguire davvero il bene cercato; le altre concezioni, per quanto siano
condivise da molti, non permettono di ottenere pienamente il bene e la felicità.
A questo punto Aristotele affronta il tema delle virtù (tema molto frequentato dai dialoghi socratici): la virtù
(ἀρετή ) infatti è proprio l’attività abituale (non basta un’azione isolata per essere virtuosi!) che realizza un
essere. Dunque se l’uomo si realizza come uomo vivendo secondo ragione, le virtù umane consistono nelle
attività dell’anima razionale, che si manifestano in due modi diversi, dando luogo a due tipi di virtù: le virtù
dianoetiche e le virtù etiche.
Le virtù etiche sono attività dell’anima razionale, ma investono anche l’anima sensitiva, infatti esse sono i
modi con cui la ragione governa e regola gli appetiti e gli impulsi dell’anima sensitiva. Secondo Aristotele
questi appetiti e impulsi non devono essere repressi in toto, ma debbono essere moderati in modo da
evitare gli eccessi; dunque la ragione deve intervenire sugli appetiti e gli impulsi indicando il “giusto
mezzo” tra due eccessi (troppo o troppo poco): per esempio la virtù etica del coraggio consiste nel giusto
mezzo tra la viltà (troppo poco) e la temerarietà (troppo), la generosità è il giusto mezzo tra l’avarizia e la
prodigalità, la magnanimità è il giusto mezzo tra la pusillanimità e la superbia, e così via… Non è però
possibile stabilire a priori e universalmente dove si collochi il giusto mezzo, quindi la ragione deve valutare
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caso per caso, ed è per questo che l’etica non formula leggi certe e universali, ma ammette (come abbiam
detto nella premessa iniziale) un certo grado di approssimazione. Siccome le virtù etiche consistono nel
“giusto mezzo”, allora la virtù della giustizia assume un particolare risalto: “Si pensa che la giustizia sia la
più importante delle virtù e che né la stella della sera, né la stella del mattino siano altrettanto degne di
ammirazione; e col proverbio diciamo: nella giustizia è compresa ogni virtù”.
Aristotele distingue inoltre due tipi di giustizia, la giustizia distributiva e la giustizia commutativa: la
giustizia distributiva consiste nel “dare a ciascuno ciò che merita (unicuique suum)”, per esempio dare ai
lavoratori il giusto salario, dare ai cittadini onori e poteri proporzionati alle loro virtù civiche ecc.; la
giustizia commutativa consiste nella proporzione tra due beni che vengono scambiati, per esempio una
merce in vendita deve avere un prezzo proporzionato al suo valore, oppure la pena comminata per un reato
deve essere commisurata alla gravità del reato.
Le virtù dianoetiche sono quelle della conoscenza intellettiva, sono quindi le attività proprie dell’anima
razionale: infatti ciò che caratterizza l’anima razionale o intellettiva è la capacità di conoscere i concetti
astratti e universali. Le virtù dianoetiche sono fondamentalmente due: la saggezza, quando la conoscenza
riguarda i comportamenti e le cose mutevoli della vita umana, e la sapienza, quando l’anima razionale
conosce i principi primi e le verità supreme. Aristotele pertanto afferma che l’uomo raggiunge la massima
felicità nell’attività contemplativa (cioè nella sapienza o conoscenza teoretica delle verità supreme) e in essa
ha quasi un punto di contatto con il divino; infatti Dio, il primo motore immobile, è “Pensiero di pensiero”,
e “…l’attività di Dio, che eccelle per beatitudine, sarà contemplativa; e, per conseguenza, l’attività umana
che è la più affine sarà quella che produce la più grande felicità. Una prova, poi, è anche il fatto che tutti
gli altri animali non partecipano della felicità, perché sono completamente privi di tale facoltà. Per gli dei,
infatti, tutta la vita è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui hanno qualche somiglianza con
quel tipo di attività: invece nessuno degli altri animali è felice, perché non partecipa in alcun modo della
contemplazione. Per conseguenza, quanto si estende la contemplazione, tanto si estende la felicità”.
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