ARISTOTELE (384 - 322 a. C.)
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<<…gli uomini, sia nel nostro tempo sia dapprincipio, hanno
preso dalla meraviglia lo spunto per filosofare…>>
[Aristotele, Metafisica, I]
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La citazione intende esprimere il significato originario e costitutivo dell’attività filosofica dell’uomo.
“Filosofare” significa, innanzitutto, stupirsi dei fenomeni di cui siamo spettatori; uno “stupore” che,
immediatamente, implica la domanda “perché?”, la quale, a sua volta, rimanda alla ricerca delle cause di
quei fenomeni che ci hanno stupito. Infatti, così prosegue la citazione dalla Metafisica aristotelica:
<<poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni che erano a portata di mano e di cui essi non
sapevano rendersi conto, e in un secondo momento, a poco a poco, procedendo in questo stesso modo, si
trovarono di fronte a maggiori difficoltà, quali le affezioni [ossia le eclissi, il sorgere e il tramonto] della luna e
del sole e delle stelle e l’origine dell’universo. Chi è nell’incertezza e nella meraviglia crede di essere
nell’ignoranza… e quindi, se è vero che gli uomini si diedero a filosofare con lo scopo di sfuggire
all’ignoranza, è evidente che essi perseguivano la scienza col puro scopo di sapere e non per qualche
bisogno pratico>>.
Da qui l’equazione: meraviglia = ricerca “disinteressata” delle cause = filosofia (amore per il sapere).
<<L’uomo è per natura un animale politico>>
[Aristotele, Politica, I, 2]
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La citazione esprimere la convinzione aristotelica per cui l’individuo non basta a se stesso, sia nel senso
che, da solo, non sarebbe in grado di provvedere ai propri bisogni [vedi la Repubblica di Platone], sia nel
senso che, senza una disciplina imposta dall’educazione e dalle leggi, non sarebbe un uomo:
<<chi non può entrare a far parte di una comunità, chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è
parte di una città, ma è una belva o un Dio>> [Aristotele, Politica, I, 2].
<<l’amicizia e la verità sono entrambe care,
ma è cosa santa onorare di più la verità>>
[Aristotele, Etica nicomachea]
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Nell’Etica nicomachea Aristotele distingue tre tipi di amicizia: di utilità, di piacere e di virtù. Mentre i primi
due tipi sono accidentali e instabili, il terzo, in quanto fondato sul bene, è stabile e fermo. Inoltre, proprio
perché il legame è “buono”, si rivela al tempo stesso utile e piacevole per coloro che lo intrattengono.
Però, della virtù e, quindi, del bene, fa parte anche la “verità”, ovvero, nel campo delle relazioni umane, la
ricerca disinteressata di ciò che è giusto, al di là di ogni calcolo edonistico e utilitaristico. Per cui, se
nell’amicizia di utilità o di piacere, possiamo essere indotti a mascherare una verità scomoda su noi stessi,
sugli altri, sulle relazioni interpersonali, sulle idee che abbiamo, nell’amicizia di virtù la “verità”, per quanto
dolorosa o pericolosa che sia, deve essere anteposta a qualsiasi calcolo, paradossalmente con il rischio di
distruggere l’amicizia stessa.
Queste considerazioni dovevano essere ben presenti ad Aristotele proprio nel suo rapporto di discepolo e
amico del maestro Platone. Entrato nell’accademia platonica all’età di 17 anni, Aristotele vi rimase per
vent’anni, compiendo interamente la sua formazione spirituale sotto l’influenza della personalità di Platone.
Nonostante ciò, l’allievo, di fronte a limiti e contraddizioni individuate nella dottrina del maestro, non esitò ad
esercitare una coraggiosa indipendenza di pensiero e di critica nei suoi confronti, mai sul piano personale,
ma su quello dottrinale, in particolare contro la teoria delle idee come “forme” metafisiche separate dalle
sostanze individuali.
©Angelo Mascherpa