Il nuovo teatro
Londra, 1660
L’aspetto del teatro della Restaurazione che a prima vista maggiormente colpisce è la sua profonda diversità dalle grandi stagioni passate (elisabettiana, giacomiana, carolina). Il nuovo teatro voluto da Carlo II Stuart, influenzato dalle teorizzazioni neoclassiche, dal teatro
francese e spagnolo – che il re ha conosciuto e a cui si è appassionato
durante l’esilio – sembra istituire uno stacco netto e definitivo da
quanto lo ha preceduto.
Pur nella forma distinta che in Inghilterra assume e di cui Dryden
si fa lucido interprete sin dall’Essay of Dramatick Poesie, il neoclassicismo erige barriere, impone principi ordinatori selettivi e gerarchici
a una materia percepita come magmatica: ciò che più frequentemente
si imputa alla tradizione passata e a Shakespeare in particolare – pur
riconoscendone la grandezza – è la mancanza di ordine, l’arbitrarietà
degli spostamenti nel tempo e nel luogo, la compresenza di più intrecci, l’intrusione del comico all’interno del tragico. Si imputa anche
la grossolanità e oscurità del linguaggio, di cui viene costantemente
sottolineata l’infrazione alle regole del decoro e il cui tessuto metaforico viene percepito come astruseria verbale gratuita.
In nome della chiarezza, dell’ordine e di Aristotele, si delimitano
rigidamente i generi, collocando la tragedia nel punto più alto e prestigioso, distinguendola dalla quotidianità della commedia per l’elevatezza dei caratteri, degli eventi, del linguaggio. In nome della verosimiglianza, alla vicenda tragica si impone un saldo contenimento entro
confini precisi – paradossalmente evidenziando l’artificio del verosimile, la sua natura antitetica al vero: le tre regole aristoteliche riducono drasticamente lo scarto temporale e il movimento nello spazio
(unità di tempo e di luogo), escludono le digressioni dell’intreccio
dalla vicenda del protagonista (unità di azione). Il decoro delimita
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
l’ambito linguistico dei personaggi a seconda del loro status, ne cristallizza la caratterizzazione – e gerarchizzazione – stilistica (Innocenti). La giustizia poetica si fa garante della moralità del dramma: elargendo retribuzioni ai virtuosi e pene ai malvagi, diviene principio
strutturante ed egemonico.
Teatro nuovo, dunque, per l’impalcatura teorica e per la vastità
dell’applicazione pratica (in taluni casi non esente da contraddizioni);
nuovo per la qualità sperimentale, per l’elaborazione originale di motivi e modalità. Il terreno d’indagine è ampio e le soluzioni prospettate del tutto particolari. Nell’ambito della tragedia si spingono alle
estreme conseguenze le premesse della nobiltà e dell’elevatezza che il
genere è chiamato a rappresentare; si utilizza il principio retributivo
come possibile negazione dello statuto tragico, arrivando persino a
consentire all’eroe un paradossale lieto fine. Si usa la commedia come
uno strumento duttile, in grado di proporre le più svariate “imitazioni” del reale, non sempre agevolmente classificabili. Si esplorano le
possibilità di arricchire il testo drammatico attraverso altre forme, enfatizzando l’uso della musica e della danza, approdando alla fondazione del nuovo genere dell’opera. Si forniscono immagini “rovesciate” del proprio tempo attraverso la vasta produzione satirica, parodica, burlesca.
E non sono solo i temi e le forme a recare i segni dell’autonomia
dal passato; lo sono anche i luoghi teatrali, l’apparato scenografico, i
corpi degli attori. Se nel piano inclinato che dall’arco di proscenio
scende verso la platea è riconoscibile la derivazione dalla piattaforma
elisabettiana, la costruzione della messa in scena segue invece un percorso autonomo. Rovesciando il rapporto tra scenografia e copione, a
tutto discapito di quest’ultimo, gli impresari dell’epoca puntano infatti sulla ricerca d’effetto e di spettacolarità, intenzionati a suscitare nel
pubblico reazioni di ammirato stupore. La parola tragica, che in passato sul palcoscenico vuoto evocava il mondo, tende a svuotarsi di
senso, a divenire decorativa e altisonante, affidandosi a un’interpretazione fortemente convenzionale, quasi operistica («singing speech»),
dove la posa e la declamazione si impongono sul significato – e chi,
in teatro, si trovi in precarie condizioni acustiche, può seguire l’azione attraverso il gestire dell’attore.
La seduzione non agisce più attraverso la magia di un linguaggio
che nel remoto passato elisabettiano interpretava la qualità metamorfica del reale; che in epoche più vicine, alle soglie della Rivoluzione,
individuava immagini incrinate di regalità e tentava, dalla scena, di
suggerire possibili alternative (Butler). La lingua tragica, perduto il
suo spessore, si appiattisce in superfici lucenti e sofisticate: il senso
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IL NUOVO TEATRO
privilegiato diviene la vista, il piacere deriva dalla contemplazione di
elaborate messe in scena che sottraggono spazi all’immaginazione dello spettatore e al suo coinvolgimento.
Accuratamente si costruisce la spettacolarità. Attraverso macchine
teatrali in grado di creare effetti stupefacenti (streghe che volano,
cocchi tirati da pavoni che scendono dal cielo, vascelli che fanno naufragio); attraverso costumi preziosi che attraggono di per sé, e a volte
rimandano a una storia estranea al teatro: come quando altolocati
personaggi della corte (e anche il re in persona) fanno dono degli
abiti smessi alle compagnie teatrali; oppure come quando Aphra
Behn, di ritorno dalla Guiana, porta con sé il variopinto costume di
piume che servirà a dipingere, per gli spettatori londinesi, l’esotismo
di una regina indiana.
Ma se già in passato l’uso di costumi ricercati era consuetudine e,
soprattutto nel masque, si era sfruttata l’efficacia delle macchine teatrali, la vera novità in ambito scenografico riguarda l’utilizzazione delle scene dipinte (pannelli scorrevoli dietro l’arco di proscenio). Ben
consci delle potenzialità insite nell’innovazione, gli impresari vi investono ingenti somme di denaro, riluttanti a riutilizzare gli stessi fondali per rappresentazioni diverse: catturando la curiosità ammirata del
pubblico pagante, si aspettano un congruo ritorno in termini di profitto. L’importanza della scenografia si affianca così all’azione drammatica e non di rado si impone su di essa, permettendo al teatrante
di costruire un doppio spettacolo. Sul piano aggettante si muove l’attore, che spesso approfitta della contiguità del pubblico-interlocutore
per commentare, negli “a parte”, l’evolversi dell’azione; alle sue spalle, nello spazio precluso a lui e distanziato dagli spettatori, si aprono
e chiudono i pannelli dipinti, rivelando imprevedibili ambientazioni.
Il fondale, cioè, si sottrae alla sua funzione di sfondo, divenendo protagonista e concentrando su di sé l’attenzione di chi guarda.
Emblematica in questo senso è la versione musicata di The Tempest di Davenant e Dryden, del 1674, attribuita a Shadwell: la lunga
didascalia di apertura, dopo aver elencato gli strumenti dell’orchestra
(violini arpe e liuti), descrive in dettaglio l’arco scenico («the frontispiece»), sorretto da colonne corinzie, decorato da rami ritorti di rose,
da cupidi, angeli, unicorni e leoni, arricchito dalle figure allegoriche
della Fama e dalle insegne araldiche degli Stuart. Si può vedere qui
all’opera il crescendo di stupore cui mira l’adattatore, utilizzando elementi antinomici: se infatti il primo piano del frontispiece lavora a
una rappresentazione ornamentale e statica, lo sfondo – la scena vera
e propria dove sta per aver luogo il naufragio – è caratterizzato da
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
movimento e turbolenza: il mare agitato, gli spiriti orrendi che scendono a precipizio sui marinai e si risollevano poi nell’aria.
Dove per la tragedia – soprattutto nella forma della heroic tragedy, importata dalla Francia – a tutti i livelli si teorizzano distanza e
separatezza (eccessive e iperboliche le passioni, esotica l’ambientazione, irrealistico il verso rimato), nella commedia si recupera spazio al
coinvolgimento: attraverso la riconoscibilità del costume e dell’ambientazione, attraverso il dialogo brillante, ironico e – fino alle soglie
del Settecento – scurrile, si ritrae una realtà specifica e delimitata in
cui lo spettatore postrivoluzionario si orienta agevolmente. Gli sono
noti i luoghi che i personaggi frequentano, può verificare l’esattezza
della mappa di Londra che le loro battute delineano: i teatri, i caffè, i
parchi, i bordelli. Grazie allo “scheletro” della commedia, alle sue
convenzioni che si tramandano di epoca in epoca, e grazie anche alla
rete di allusioni alla contemporaneità che essa contiene, lo spettatore
riconosce i personaggi: protagonisti – maschili e femminili – arguti e
ingegnosi, bellimbusti stupidi e francofili, mariti cornuti, falsi moralisti, mezzane e prostitute. A volte il riconoscimento è facilitato dalla
continuità esistente tra scena e pubblico, dalla presenza, fuori dallo
spettacolo, di alcuni modelli a cui la commedia si ispira. Lo confermano i diaristi contemporanei (Samuel Pepys, soprattutto), e anche i
numerosi prologhi ed epiloghi, le “cornici” dell’opera attraverso cui i
drammaturghi dialogano con il pubblico, chiamando spesso in causa
gli originali dei personaggi presenti in scena.
Se su vari piani l’innovazione muove da più o meno individuabili
suggerimenti del passato che l’epoca postrivoluzionaria accoglie e rielabora (argomento questo su cui si tornerà in seguito), vi è però un
aspetto del teatro restaurato che segna uno scarto netto e si pone
come avvio di una nuova tradizione. Adeguandosi a una consuetudine continentale già collaudata da circa un secolo, la scena inglese diviene per la prima volta disponibile alle donne che si sostituiscono
agli uomini nell’interpretazione dei ruoli femminili. Non è solo l’inclinazione dell’allegro monarca («merry monarch»), il permesso da lui
accordato («we permit and give leave») a spingere in questa direzione: è anche la carenza oggettiva di attori giovani tradizionalmente
chiamati a recitare quelle parti, dovuta alla lunga pausa dell’interregno. Pur non avendo messo del tutto a tacere l’attività teatrale, il regime puritano l’ha infatti drasticamente ridotta, impedendo comunque l’esistenza di una “scuola” e la formazione di nuove leve, sicché
attori quarantenni o cinquantenni sono chiamati a ricoprire ruoli di
adolescenti e giovani donne (Edmond).
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IL NUOVO TEATRO
La presenza in scena delle donne – seguite a ruota da altre donne, le drammaturghe che per la prima volta faranno della scrittura
una professione – va ad affiancarsi a quei piaceri della vista che il
teatro offre, divenendo una forte fonte di attrazione per il pubblico
pagante. I corpi femminili per la prima volta vengono esposti allo
sguardo, alla curiosità e al desiderio; non di rado basterà quell’esibizione del corpo, nella recita, nel canto, nella danza (tanto più gradita
se goduta attraverso il travestimento maschile di rivelatrici braghe attillate) a riscattare spettacoli fiacchi, decretandone il successo.
Sin dai primi anni della Restaurazione si colgono appieno le potenzialità di quei corpi e si inverte addirittura il metodo tradizionale:
non solo le donne interpretano i ruoli femminili e sfruttano l’espediente del travestimento maschile, ma invadono il territorio dell’altro
sesso, ricoprendo ruoli maschili; è quanto avviene per esempio nel
1667, nella riscrittura della Tempesta shakespeariana – da parte di
Davenant e Dryden – dove Moll Davis è Ariel e Jane Long è Ippolito. In bilico tra professionalità e prostituzione, le attrici degli anni
sessanta e settanta si assoggettano alla politica dello sguardo (Straub)
e al potere di chi le scruta; si accingono a entrare nella storia del
teatro per la loro bellezza, sensualità e sessualità (in taluni casi la promiscuità generica della vita privata, in altri il passaggio dal palcoscenico al letto del re) più che per le loro fini capacità interpretative.
La lezione del passato
Osservato dalla prospettiva innovativa e sperimentale degli anni sessanta, il lungo periodo dell’interregno si istituisce apparentemente
come confine e cesura, come una sorta di spazio vuoto che stacca
due epoche. In posizione strategica si colloca il 1642, data dell’ordinanza parlamentare che chiude i teatri (ribadita nel 1647 e nel 1648):
nonostante le resistenze tenaci e irriducibili degli attori – che continuano a far sentire la loro voce, che tentano di trovare spazi alternativi ai margini della città – le incursioni delle soldatesche puritane distruggono e devastano i luoghi teatrali pubblici e privati (il Fortune,
il Cockpit, il Salisbury Court), le disposizioni governative li radono al
suolo (il Globe nel 1644, il Blackfriars nel 1656) (Mullini, Zacchi). Il
movimento della storia sancisce la preminenza di altri cruenti processi, scanditi dallo scoppio della Rivoluzione puritana, dalle fasi alterne
della guerra, dalla decapitazione di Carlo I, dal regime cromwelliano.
Il crollo di un’ideologia, il consolidamento di nuove classi, lo
scontro delle fazioni, impongono ripensamenti radicali, spingono l’e13
LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
nergia creativa su percorsi inconsueti: tralasciando il diletto, che insieme all’insegnamento costituiva il fine dell’arte («to teach and delight»), essa si riversa nella scrittura politica e di parte. Il veicolo diviene la prosa, fattasi, per la prima volta nella storia, strumento democratico, aperto anche a chi letterato non è; è questo il terreno su
cui si disloca lo scontro armato, dove indipendenti, presbiteriani, realisti, settari cercano l’affermazione delle proprie idee. È la lingua vibrante e appassionata dell’invettiva, della proposta, della progettazione utopica; è la prosa straordinaria che Milton scrive «con la mano
sinistra» e per dedicarsi alla quale anch’egli abbandona la poesia.
Contemporaneamente, quel “vuoto” di produzione teatrale sembra istituirsi come possibilità di allontanamento e distanza; come garanzia, all’atto della riapertura dei teatri nel 1660, di libertà e affrancamento dal passato. Ma il concetto di fine e reinizio, che pure una
serie di dati giustifica, risulta semplificante e fuorvia: la delimitazione
dell’area “nuova” non tiene, se non a patto di assumere a oggetto di
analisi la superficie – bella e levigata, ma pur sempre superficie – amputandone le radici che spesso affondano nella tradizione; e anche in
ambiti impensati agisce talvolta una matrice più o meno lontana nel
tempo, è percepibile un’eco più o meno distinta. Merito dei drammaturghi più valenti è l’aver saputo accogliere, selezionare e rielaborare
suggerimenti e suggestioni, nel tentativo di superare la prova del raffronto, di uscire vincenti dall’agone, rivendicando forza alla propria
creatività. Nella riflessione teorica più lucida, quella di Dryden prima
di tutti gli altri, risuona l’orgoglio di chi si accinge a fondare una
nuova tradizione; e anche la malinconia di chi non può prescindere
da una grandezza passata che sembra aver saturato tutti gli spazi.
Ma prima di arrivare al 1668 e alla pubblicazione dell’Essay of
Dramatick Poesie, pietra miliare dell’elaborazione critica secentesca,
passano alcuni anni fondamentali in cui si creano condizioni determinanti per lo sviluppo successivo del teatro inglese; anni in cui si compiono scelte di politica culturale vincolanti per la produzione futura.
Di importanza cruciale è la direzione che il re imprime alla risorta
attività teatrale, assoggettandola a regime duopolistico (che durerà
per quasi due secoli, fino al Theatre Regulation Act del 1843): nel
1660, in seguito alle forti pressioni da parte degli interessati, concede
due licenze esclusive a William Davenant e Thomas Killigrew, già attivi come drammaturghi alla corte di Carlo I e fedeli seguaci di suo
figlio durante l’esilio francese.
La tenacia e abilità dei due uomini di teatro si impone in breve
tempo sulle sporadiche voci di dissenso: più forte delle altre, quella
del capocomico George Jolly, che si vede sottrarre la licenza da poco
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IL NUOVO TEATRO
ottenuta in deroga all’esclusiva dei rivali; quella del “censore” Sir
Henry Herbert, che si vede scavalcare nelle sue funzioni da una precisa disposizione del contratto. Davenant e Killigrew si trovano così,
agli inizi degli anni sessanta (la licenza definitiva è dell’aprile 1662),
in posizione assolutamente egemonica sulla piazza londinese. Spetta a
loro la gestione dei due unici teatri ufficialmente riconosciuti «da acquistare o erigere a proprie spese»: tutti gli altri verranno «soppressi
senza esclusione»; è data loro la facoltà di formare due compagnie
stabili; di decidere il prezzo d’ingresso «tenuto conto delle ingenti
spese di scene, musica e decori»; di spartirsi il repertorio esistente; e
infine, di «esaminare le opere teatrali scritte in precedenza ed espungerne tutte le parti irriverenti e scurrili» (Edmond).
Nella situazione di duopolio che la licenza sancisce, Killigrew, favorito rispetto a Davenant da un rapporto privilegiato con il re, fa la
parte del leone. Non solo, infatti, ingaggia gli attori più anziani ed
esperti, eredi della tradizione prerivoluzionaria: l’avvenente Kynaston
– uno degli ultimi a interpretare ruoli femminili –, Walter Clun, John
Lacy, William Beeston e, dal 1663, la bella e brava Nell Gwyn, futura
amante del re, le cui attrattive vengono usate con profitto da Killigrew, facendola ballare e travestirsi da maschio non appena possibile;
si accaparra anche la maggior parte del repertorio. Ciononostante,
sarà Davenant, il più abile e moderno tra i due, a sfruttare appieno la
situazione e a incanalare il teatro restaurato in direzioni precise.
La lungimiranza di Sir William Davenant (1606-1668) risulta già evidente sul finire degli anni trenta quando, presentando una petizione
al re, formula in nuce il progetto realizzatosi dopo più di trent’anni,
nel 1671, dopo la sua morte (il Dorset Garden, disegnato dal grande
architetto Christopher Wren): teatro in mattoni (sottratto al rischio
d’incendio dei coevi edifici in legno), compagnia stabile, intrattenimenti di vario tipo – in cui, accanto all’azione scenica, compaiono la
musica e la danza (Anzi). Nonostante l’assenso reale, tutto rientra in
seguito alla rivolta in Scozia nel 1639.
Ma l’importanza di Davenant va ben oltre. Se negli anni trenta si
pone come anticipatore di tendenze e scelte del teatro della Restaurazione, negli anni sessanta sempre più si connota come mediatore tra
due epoche, come garante di continuità (significativamente, è lui stesso ad alimentare le supposizioni sulla sua nascita illegittima, identificando in Shakespeare il proprio padre). Scorrendo la sua produzione
prerivoluzionaria, non si può non scoprirvi una traccia, un’individuazione di nuclei significativi su cui lui stesso tornerà alla riapertura dei
teatri (imitato in seguito da molti altri); e usando come strumento
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
d’indagine il documento del 1660 – stilato in tutta probabilità dallo
stesso Davenant – vi si intravede la formalizzazione di un percorso
conosciuto. Così, l’elencazione delle forme teatrali di cui si chiede l’esclusiva contempla, accanto ai generi consolidati della tragedia e della
commedia, l’opera, priva di punti di riferimento nella tradizione, ma
non nell’esperienza di Davenant; e anche l’attenzione alle modalità
scenografiche e musicali degli allestimenti attinge a modelli già sperimentati in proprio. La configurazione del nuovo teatro cioè si innesta
su un patrimonio acquisito e verificato nella sua validità non soltanto
nel remoto passato prerivoluzionario, ma anche in quello più recente
dell’interregno.
Alla corte di Carlo I, Davenant dimostra versatilità e intuizione,
rivela una qualità indubbia di anticipatore di tendenze future: nell’attenzione a tematiche che diverranno percorsi obbligati durante la Restaurazione; nell’interesse orientato verso gli aspetti scenografici degli
allestimenti; nell’utilizzazione di forme miste, in cui il testo drammatico si frammenta attraverso l’interpolazione di musica e danza. In
Love and Honour, la tragicommedia del 1634, anticipa le forme della
tragedia eroica; nello stesso anno, in The Wits, la commedia ripresa
con enorme successo nel 1661, pone sin dal titolo l’accento sull’ingegno che consente di districarsi dalle difficoltà, qualità destinata ad arricchirsi di molteplici implicazioni nel teatro successivo, divenendo
non di rado lo spartiacque su cui si strutturerà la commedia; la raffigurazione dell’incontro/scontro tra città e campagna diverrà una costante della produzione comica secentesca e in parte settecentesca.
Nella collaborazione con Inigo Jones, l’abile scenografo dei masques
di corte, si colloca agli antipodi di Ben Jonson, che in quella collaborazione lo ha preceduto: alla sua rivendicazione di priorità della parola drammatica, sostituisce l’attenzione alle tecniche scenografiche, all’impiego di macchine teatrali, all’uso della spettacolarità, apprendendo una lezione preziosa per il futuro.
La ricerca di Davenant non si arresta durante l’interregno, affiancandosi a un’intensa attività militare e politica a sostegno degli Stuart,
che lo porta anche in carcere e a un passo dalla condanna a morte –
e probabilmente tra i suoi salvatori vi è Milton, all’epoca segretario
latino di Cromwell, a cui Davenant renderà il favore a Restaurazione
avvenuta (Anzi). Contro l’interdizione puritana che vieta l’attività
drammatica, il drammaturgo sembra mettere in atto una strategia di
“mascheramento”, innanzitutto non chiamando le cose con il loro
nome, escludendo rigorosamente la terminologia teatrale nel presentare i suoi testi. Nel 1651, attraverso il sottotitolo di «poema eroico»
disloca il Gondibert (di cui realizza due soli libri rispetto ai cinque
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IL NUOVO TEATRO
progettati) in area epica, ribadendo il genere nella denominazione
delle parti («Libri»): ma il numero di quelle parti rimanda ai cinque
atti della tragedia, non ai multipli di sei dell’epica. Allo stesso modo,
le sezioni dei successivi The Siege of Rhodes (I e II parte), The Cruelty
of the Spaniards in Peru e The History of Sir Francis Drake, tengono a
distanza la definizione di «atti» attraverso le «entrate» («entries»).
Prodotti doppiamente interessanti questi, perché se da un lato rappresentano i primi esperimenti nel campo dell’opera (e di nuovo Davenant precorre i tempi), dall’altro indicano la funzione di “copertura” per il momento assegnata alla musica: gli interventi di Davenant
successivi al 1660 sostituiranno la recitazione al canto e delle “opere”
sveleranno la natura più vera.
Davenant non si accontenta di scrivere; sfidando il divieto puritano, nel 1656 utilizza la sua residenza di Rutland House per proporre
a un pubblico pagante un «intrattenimento» costituito da «declamazioni» e «musica», che ne impediscono un’identificazione troppo precisa con un vero e proprio evento teatrale; il riferimento agli «Antichi», anch’esso contenuto nel titolo, scavalca la “dubbia” tradizione nazionale e recupera prestigio indiscusso (The First Days Entertainment
at Rutland-House, by Declamations and Musick: after the Manner of
the Ancients).
In assenza di opposizioni, Davenant prosegue sulla strada intrapresa con crescente audacia, mettendo in scena le sue “opere” e arrivando persino a utilizzare un teatro (Cockpit). La collaborazione di
John Webb, il discepolo di Inigo Jones, non lascia dubbi sulle scelte
spettacolari degli allestimenti e, alle soglie della Restaurazione, indica
con chiarezza la via da percorrere.
Agli inizi degli anni sessanta, Davenant si trova dunque tra le
mani l’occasione a lungo cercata di tornare all’attività teatrale alla
luce del sole. Rispetto a Killigrew, muove da una posizione di netto
svantaggio, costretto a ricavare il massimo da un materiale, per così
dire, di seconda scelta: gli attori disponibili sul mercato sono quelli
“scartati” da Killigrew per la loro inesperienza; il repertorio è scarno
(i maggiori successi di Shakespeare, Jonson, Beaumont e Fletcher
sono in mano al rivale), in parte costituito da copioni di cui Davenant evidentemente prevede l’insuccesso, se nemmeno tenta di metterli in scena (gli shakespeariani As You Like It, Love’s Labours Lost,
The Winter’s Tale). E purtuttavia, facendo buon viso a cattivo gioco,
l’impresario si mette all’opera, iniziando dall’addestramento degli attori: dalla sua ha la presenza in compagnia di grandi talenti, Henry
Harris e soprattutto Thomas Betterton, destinato a divenire il più
prestigioso interprete dell’epoca. Destinato anche a sostituire Dave17
LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
nant dopo la sua morte in qualità di erede della tradizione elisabettiana, di artista che tramanda la lezione del passato, avendola acquisita
dall’esperienza diretta di un “testimone”. Oltre al talento, Davenant
ha anche la possibilità di giocare la carta della bellezza, sfruttando al
meglio le seduzioni di Moll Davis, la ragazzina di cui riferisce Pepys
(«Little Girl»), anche lei alle soglie di una brillante carriera come attrice (soprattutto di parti cantate e danzate) e come amante del re.
In tempi relativamente brevi, Davenant individua anche sul piano
del repertorio i giusti modi d’intervento. La messa a punto di un metodo si compie infatti in un arco di pochi anni, e quando la peste
(1665) e il grande incendio di Londra (1666) di nuovo, forzatamente,
interrompono l’attività teatrale, le direttive del futuro sono già delineate nei loro punti essenziali. Da un lato dunque, Davenant riprende la propria produzione precedente: riutilizza, ampliandole, le commedie degli anni trenta e interviene sulle “opere”, spingendole in direzione decisamente drammatica; dall’altro, più a fondo interviene su
copioni altrui, imponendosi come capostipite di una folta progenie di
rielaboratori.
Il rapporto con Shakespeare è insieme voluto – per la profonda
ammirazione, sempre ribadita – e imposto, perché quei testi sono
una parte fondamentale del suo esiguo repertorio; in certo senso anche il passo successivo, quello del rimaneggiamento, sembra in un
primo tempo nascere più da circostanze legate alla ricezione che non
da una libera scelta. Le messe in scena “fedeli”, infatti, non incontrano successo: non piace A Midsummer Night’s Dream, non piace
King Lear. In una zona intermedia si trova Hamlet, interpretato da
Betterton nel 1661, di cui vengono tagliate parti percepite irrilevanti
(Polonio e Laerte; Cornelio, Voltemando e Rinaldo), ma dove si conserva la presenza del comico (i becchini), più in omaggio alla popolarità del “clown” Cave Underhill, che in dispregio delle norme neoclassiche. Più a fondo opera su Romeo and Juliet (1662), probabilmente dilatando la parte di Betterton/Mercuzio – i protagonisti sono
Harris e Mary Saunderson – e forse affiancando una moglie a Paris
(Anzi): alterazioni tutto sommato lievi rispetto al successivo intervento di James Howard, che stravolgerà il finale, mantenendo in vita gli
amanti.
Altrove Davenant compie operazioni più radicali, per esempio
fondendo i due testi shakespeariani di Much Ado about Nothing e
Measure for Measure, spingendo l’intreccio, come da subito dichiara il
titolo (The Law against Lovers), in direzione amorosa. Aggiunte musicali (canto e danza) si sostituiscono a cupezza e ambiguità; la duplicazione dei personaggi costituisce un’anticipazione importante della più
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IL NUOVO TEATRO
complessa ricerca di simmetria portata a termine in altre riscritture
più tarde.
Innanzitutto quella del Macbeth (1664), dove si duplica il fantasma di Banquo – che solo il tiranno vede – attraverso lo spettro del
re ucciso Duncan, che solo a Lady Macbeth si rivela. Si amplifica, in
funzione di rovesciamento simmetrico, la coppia del bene (Macduff e
Lady), opposta alla coppia assassina. È soltanto ipotizzabile l’attribuzione a Davenant dell’ingente intrusione scenografica e spettacolare,
dove l’orrore metafisico si banalizza in canti, danze, sprofondamenti
di calderoni e voli di streghe (che si conserveranno fino all’Ottocento): il testo infatti viene pubblicato solo nel 1674 – non a caso l’anno
del clamoroso successo della versione musicata e spettacolarizzata
della Tempesta shadwelliana – dopo la sua ripresa a opera di Betterton e Lady Davenant. È invece quasi sicuramente attribuibile a Davenant, perché coerente a una pratica già collaudata, il “riordino” della
materia tragica, in cui si perdono la complessità e lo spessore di senso shakespeariani. La riduzione agisce in modo moralizzante, isolando
ed enfatizzando della coppia l’ambizione, e svuotando la colpa tragica
del suo terrore attraverso il ravvedimento finale («Addio, mondo
vano, e ciò che in te è ancor più vano, ambizione», esclama Macbeth
in punto di morte); il sovvertimento dell’ordine naturale e umano,
che costituiva uno dei cardini della tragedia («Il bello è brutto e il
brutto è bello») si applica alle condizioni del tempo meteorologico
(«Per noi il bel tempo è brutto e il brutto tempo è bello», recitano le
streghe nella prima scena del primo atto).
Ancora sulla simmetria e sulla semplificazione del senso lavora
Davenant insieme a Dryden nel successivo rifacimento della Tempesta
shakespeariana (The Tempest; or, The Enchanted Island del 1667).
Qui a Miranda si affianca Dorinda, a Ferdinand, Hippolito; e il duplice lieto fine matrimoniale viene enfatizzato da altre due coppie:
verso l’alto, da Ariel e Milcha; verso il basso, da Caliban e Sycorax.
Prospero, da complessa figura d’artista, diviene mago dai poteri inadeguati che non forniscono interpretazioni attendibili. Semplificazione del senso che tuttavia non conduce a banalità, qualora si colga
l’intenzionale alterazione delle forze motrici dell’intreccio: il testo viene infatti volto decisamente in direzione della commedia, che da sempre privilegia l’intrigo amoroso. Non è più la metafora dell’arte che
sta a cuore ai due artisti, bensì i consueti ingranaggi del comico, imperniati sugli ostacoli che gli innamorati debbono superare per poter
accedere alla conclusione matrimoniale, sull’equivoco e sul fraintendimento, sul linguaggio allusivo alla sessualità.
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
Rispetto al passato, dove non riscrive, Davenant privilegia testi
che solletichino la curiosità erotica del pubblico, mostrando anche
qui di intuire la direzione imboccata dalla «sex comedy» negli anni
settanta: tralascia di mettere in scena alcune commedie shakespeariane e preferisce invece utilizzare Fletcher, allestendo The Faithful
Shepherdess, testo che dedica un’insistita attenzione al linguaggio e
alla schermaglia verbale, che usa in modo provocante il contrasto tra
licenza sessuale e castità.
Dove Davenant si propone in veste di drammaturgo, ancora indica la strada al futuro. In The Playhouse to be Let (1663) lavora al
burlesco e all’eroicomico, e soprattutto fa della metateatralità l’asse
portante della commedia, in certo modo mettendo in scena se stesso.
È infatti all’impresario e a un attore della Duke’s Company (la compagnia di Davenant) che via via si rivolgono gli aspiranti affittuari del
teatro, e riescono, nei cinque atti della commedia, ad allestire le loro
differenti proposte, attingendo a generi diversi. E appunto attraverso
l’espediente metateatrale Davenant presenta al pubblico la propria
produzione: una farsa francese, sua libera traduzione da Molière; i
due testi “eroici” del 1659 (The History of Sir Francis Drake e The
Cruelty of the Spaniards in Peru), una composizione in versi burleschi
su Antonio e Cleopatra. The Playhouse mette così allo scoperto i
meccanismi della finzione e richiama l’attenzione sui metodi del “far
teatro”; si pone come matrice di una drammaturgia (di cui The Rehearsal del 1671, a opera di Buckingham, costituirà l’esempio più illuminante e che proprio di Davenant, oltreché di Dryden, si farà gioco), che metterà a frutto tutte le strategie disponibili per impedire i
processi di identificazione, ed esibire la natura dell’artificio teatrale.
Dryden
John Dryden (1631-1700), collaboratore di Davenant nei primi anni
della Restaurazione, ne diviene l’erede culturale dopo la morte, avvenuta nel 1668: lo testimoniano l’assidua sperimentazione drammaturgica, il rapporto dialettico con la tradizione, e con Shakespeare in
particolare, la carica di poeta laureato, cui si aggiunge quella di storiografo reale, alla corte degli Stuart.
Dell’opera di Dryden sorprendono la vastità e la qualità, che ne
fanno, accanto a Milton, la figura più significativa del secondo Seicento. Attivo sulla scena culturale inglese per quarant’anni, dalla Restaurazione al 1700, anno della morte, abbina all’ampiezza degli inte20
IL NUOVO TEATRO
ressi la versatilità del talento: in veste di critico, traduttore, poeta,
drammaturgo.
Valutazione sull’artista, che inizialmente va a cozzare contro il
giudizio sull’uomo, apparentemente contraddittorio e opportunista,
costantemente disposto a inchinarsi al potere, a cambiare bandiera
politica e fede religiosa: pietre miliari di questa lettura sono l’omaggio
a Cromwell (Heroic Stanzas, 1659) e la contigua celebrazione di Carlo
II (Astrea Redux, 1660); la conversione al cattolicesimo, contemporanea alla successione del cattolico Giacomo II (1685); le dediche smaccatamente adulatorie di molti dei suoi testi.
Eppure, alterando l’angolo prospettico, la vicenda drydeniana si
presta ad altre, non ostili interpretazioni: per esempio, qualora non si
veda in Cromwell il regicida campione del puritanesimo e in Carlo II
il suo postumo antagonista, ma si ascolti la motivazione dell’elogio,
imperniato in entrambi i casi su figure che, promuovendo la pace,
pongono fine a un periodo oscuro di barbarie. Cromwell «combatté
per por fine alla nostra lotta [...] la pace fu il premio di fatiche e
affanni»; il ritorno dello Stuart fa sì che «in patria tace dei partiti il
nome odioso / E nella pace si dissolve l’animo fazioso».
La rivoluzione, il disordine, l’umiliazione dell’arte sono temi presenti in Dryden sin dall’esordio poetico, destinati a ricomparire nel
tempo sotto varie forme: da oggetti di citazione esplicita nella critica
a nodi conflittuali delle strutture drammatiche. Alla «barbara stirpe»
di An Essay of Dramatick Poesie (composto nel 1665, pubblicato nel
1668), quella dei puritani che smembrano il corpo dello stato e chiudono i teatri per vent’anni, Dryden fornisce maschere molteplici, continuando a lavorare all’idea della rivolta: la ribellione dei sudditi a un
potere legittimo pervade la produzione drydeniana, divenendo spesso
una sorta di tessuto connettivo tra i generi.
Può trattarsi di commedie, come nel caso della già citata The
Tempest; or, The Enchanted Island, l’adattamento shakespeariano realizzato insieme a Davenant e rappresentato nel 1667: qui la guerra
civile, le fazioni, la progettata usurpazione si radicano saldamente –
ed esclusivamente – nel contesto comico dei marinai e di Caliban.
Dislocando il tema del potere nello spazio della materialità grottesca,
saldamente distinto dalle altre sezioni dell’intreccio, lo si esorcizza,
tenendo l’immagine della regalità al riparo da qualsiasi possibile allusione. Rovesciata la funzione del motivo in un’altra commedia, Marriage A-la-Mode (1672), dove esso riacquista il decoro dell’altezza e assume un’importanza determinante e risolutiva: la sconfitta dell’insurrezione armata sancisce la nobiltà dell’erede legittimo, assolutamente
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
estraneo, insieme all’eroina, al contesto comico e scurrile della sessualità.
Può trattarsi anche di tragicommedie, e a questo riguardo uno degli esempi più lucidi è costituito da Secret Love; or, The MaidenQueen (1667), dove di nuovo nella zona alta dell’onorabilità incontaminata dal comico, si assiste alla rivolta armata; tanto più significativa
è la presenza del tema, se si tiene conto del fatto – destinato a riproporsi nella stessa forma in Marriage – che esso non compare nella
fonte, Le Grand Cyrus di Madeleine de Scudéry, seguita piuttosto fedelmente nell’articolazione dell’intreccio.
Neppure nella tragedia Dryden rinuncia a rappresentare la guerra
civile, arrivando persino, nel caso di Oedipus (1679, in collaborazione
con Lee), ad aggiungere all’intreccio sofocleo un subplot funzionale al
progetto sovversivo: è Creonte, in questo testo fratello di Giocasta,
ad aspirare all’usurpazione del trono di Tebe e al matrimonio con
l’erede di primo letto, in questo testo Euridice. Ancora la rivolta popolare compare in Don Sebastian, King of Portugal (1689), per alcuni
critici la tragedia più bella di Dryden.
Esempi forse ancor più significativi vengono dal teatro musicale,
in particolar modo dal libretto di Albion and Albanius (1685), la prima vera e propria opera inglese. Al di qua della “Gloriosa Rivoluzione” del 1688 che vedrà Guglielmo d’Orange sostituirsi a Giacomo II,
Dryden usa il suo testo per celebrare il trionfo degli Stuart: per essere usciti vincenti dalle lotte intestine dei tardi anni settanta (Popish
Plot, Exclusion Crises), per essersi riconfermati al potere attraverso
l’incruenta successione di Giacomo II alla morte del fratello Carlo II,
avvenuta appunto nel 1685. Albion and Albanius diviene una trasparente allegoria della storia contemporanea, non soltanto di quella recente, ma anche del periodo rivoluzionario conclusosi con la Restaurazione: nell’interpretazione di Dryden il rischio da poco superato
dalla Casa regnante si sovrappone alla Rivoluzione puritana e in scena si rappresenta il doppio tradimento di Londra, sposa infedele di
Albion, sedotta dalle creature infernali, prima fra tutte Repubblica;
l’apoteosi di Albion/Carlo, la trionfale successione del fratello Albanius/Giacomo si connotano esplicitamente come seconda Restaurazione della monarchia retta dagli Stuart.
E questi, nella sterminata produzione di Dryden, sono solo alcuni
esempi della continuità e importanza cruciale del tema politico: dagli
anni sessanta agli anni novanta, il sovvertimento dell’ordine e della
legittimità è oggetto di rappresentazione costante. Cambia la sicurezza trionfale del ritorno all’armonia e della sconfitta dei rivoltosi; la
fiducia degli inizi lascia progressivamente il posto a toni più pacati e
22
IL NUOVO TEATRO
a note di incertezza, soprattutto dopo la rivoluzione incruenta del
1688, quando il successore del “deposto” re continuerà a esser percepito da Dryden come un usurpatore (Clegg).
Rimasero delusi i detrattori di Dryden, convinti che l’avvicendamento dei potenti di nuovo avrebbe provocato un cambiamento di
fronte, perché il poeta, sostituito nella dignità di “laureato” da Thomas Shadwell, rimase fedele alla Casa Stuart sino alla fine dei suoi
giorni, pur nell’indigenza che lo costrinse ad abbandonare le poco
redditizie fatiche del traduttore per dedicarsi di nuovo, con splendidi
testi (Don Sebastian e Amphitryon del 1689-90) al teatro.
Anche l’altro motivo dell’attacco a Dryden, la prassi dell’adulazione – ampiamente condivisa dai contemporanei – può sfuggire a un
giudizio drasticamente negativo; se da un lato è evidente che per il
poeta, costantemente assillato dalla preoccupazione economica, ingraziarsi i potenti frutta in termini di protezione e denaro, dall’altro credo che le Dediche si propongano anche come parti di un progetto
più vasto, ideologico e drammaturgico, che Dryden va elaborando
negli anni sessanta. Il suo intento sembra mirato a individuare un’identità specifica per l’epoca, che nei suoi scritti si connota come tempo nuovo e glorioso, contrapposto a un passato recente di barbarie
(Rivoluzione puritana), a uno remoto di rozzezza e irregolarità (teatro
prerivoluzionario). La ricostruzione drydeniana è globale e investe il
piano storico-politico e culturale: fulcro dell’era risorta sulle rovine
diviene il re, «padre del popolo», sovrano giusto, valoroso e amante
dell’arte, coadiuvato da una classe di nobili illuminati, saggi e patriottici.
Dall’idealizzazione scompaiono ovviamente il dissenso diffuso sulle scelte politiche e sessuali di Carlo II, e le critiche ai ministri della
sua corte: quei potenti cioè ai quali Dryden dedica le sue opere. In
questo senso, i testi si prestano a una lettura politica, istituendosi
come ponte tra potere e drammaturgia, spazio in cui i protagonisti
della nuova epoca fungono esplicitamente da modelli al nuovo teatro:
le nobildonne secentesche forniscono esempi sublimi di bellezza e
virtù (la moglie del duca di Monmouth: The Indian Emperour, 1665;
la moglie del duca di York: The State of Innocence and the Fall of
Man, 1677); i nobiluomini, di onore e virtù eroica (William Cavendish, duca di Newcastle: An Evening’s Love, 1671; il duca di York:
The Conquest of Granada by the Spaniards, 1672). Mediatore tra le
due sfere diviene il poeta, che traduce i protagonisti della storia contemporanea nelle figure titaniche della nuova drammaturgia.
Se il ritorno del re, connesso alla rinascita della cultura e alla riapertura dei teatri è uno degli argomenti “facili” di Dryden, poiché lo
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
scarto rispetto al ventennio puritano è palese, più variegato e complesso si presenta il discorso sulla tradizione, in particolar modo
quella shakespeariana. Il giudizio sul passato può apparire contraddittorio e oscillante, l’orientamento critico a volte confuso; questo, se
non si tiene conto che Dryden scrive per quarant’anni, che le sue
identità di grande drammaturgo e grande critico possono talora entrare in collisione, che il punto di vista cambia a seconda del contesto e del bersaglio polemico. Così – inevitabilmente schematizzando
– quando la prospettiva è ampia e coinvolge il raffronto tra le due
epoche, Dryden solitamente privilegia (perlomeno attraverso gli anni
sessanta e settanta) il proprio tempo, per lui epoca di classiche armonie e raffinatezza retorica; qualora invece entrino in campo altre
forze, per esempio la valutazione della drammaturgia francese (e di
Racine per primo), egli non esita a schierarsi sul fronte della englishness, della genialità shakespeariana, della vitalità e varietà del teatro
inglese (Sestito).
Teatro inglese – Shakespeare, Jonson, Fletcher – che a sua volta
viene sottoposto ad analisi capillare, e in più casi critica delle soluzioni adottate, quando Dryden viene a trovarsi in aperta competizione
con esso: nell’“imitazione” dei modelli, nel raffronto esplicito che la
riscrittura implica (dell’Antonio e Cleopatra oppure del Troilo e Cressida, ma anche, allargando il contesto, dell’Edipo sofocleo o del Paradiso perduto miltoniano) motivo cruciale diviene, evidentemente, l’affermazione del proprio talento, della propria neoclassica differenza. E
ciò che i rivali definiscono plagio, rappresenta non di rado una strategia specifica, volta a dimostrare l’esatto contrario: sono i casi in cui
Dryden usa la citazione esplicita e immediatamente riconoscibile del
testo d’origine – come il passo di Cleopatra sul Cidno – per evidenziarne la diversa funzione e per dimostrare orgogliosamente la propria autonomia di artista (Kramer). In vario modo, attraverso gli
anni, produce convergenze, intersezioni, cesure tra passato e presente, sostanzialmente disponibile a condividere – e applicare – le teorie
neoclassiche di importazione francese (regole, decoro, liaison des scènes, giustizia poetica ecc.), come ampiamente dimostra la sua produzione critica; sostanzialmente indisponibile a sconfessare in loro nome
alcuni dei principi basilari su cui si struttura il teatro della tradizione,
non rinunciando, per esempio, a lavorare alla tragicommedia, il genere ibrido stigmatizzato dai nuovi critici.
Ma il genere cui Dryden – e Sir Robert Howard (1626-1698), Roger Boyle conte di Orrery (1621-1679), Thomas Otway (1652-1685),
Nathaniel Lee (1653-1692), John Crowne (1640-1712), Elkanah Settle
(1648-1724) – affida, dai primi anni sessanta, la funzione di segnalare
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IL NUOVO TEATRO
il passaggio avvenuto e delineare i nuovi orizzonti del teatro restaurato, è la tragedia eroica, specchio inattendibile della classe aristocratica
al potere, sovraccarico di immagini di grandezza ed eroica passione.
Con forti rischi di meccanicità, la heroic tragedy si struttura sui poli
conflittuali di onore e amore, declamati da protagonisti eccessivi in
un linguaggio altisonante: tragedia anomala, basata sull’imitazione
dell’epica (come Dryden teorizza in Of Heroique Plays, premesso a
The Conquest of Granada), che sostituisce al senso tragico e alla catarsi il lieto fine dell’equa retribuzione (giustizia poetica).
Il genere, per poco più di un decennio, rappresenta l’opportunità
più vistosa dell’affrancamento dalla tradizione: diviene il banco di
prova su cui sperimentare il nuovo linguaggio, quel verso rimato che
Dryden/Neander, l’Uomo Nuovo dell’Essay, individua come primario
strumento differenziante, unico spazio ancora praticabile e non saturato dai grandi maestri. In The Indian Emperour; or, The Conquest of
Mexico by the Spaniards (1667), in Tyrannic Love; or, The Royal Martyr (1670), nelle due parti di The Conquest of Granada by the Spaniards (1672), in Aureng-Zebe (1676), Dryden lavora in direzione di
una stupefacente, fluida musicalità del verso, celando l’artificio sapiente e sofisticato sotto l’apparente naturalezza. Nel distico eroico
individua inoltre un essenziale strumento di controllo: sul piano formale le perfette pentapodie giambiche a rima baciata manifestano
l’ordine della ragione sovrimposto alle sregolatezze della fantasia (paragonata nella critica a uno spaniel sfrenato, a una puledra scalpitante); su quello tematico, si prestano a contenere l’urto delle passioni,
non solo quelle connaturate al genere – l’amore e le lacerazioni che
esso produce nel codice dell’onore – ma anche altre, più ambigue e
oscure pulsioni: di stupro, incesto, parricidio, fratricidio, come Aureng-Zebe, l’ultima tragedia eroica drydeniana, nitidamente dimostra.
Ascoltiamo la passione per il figliastro che l’imperatrice Nourmahal,
novella Fedra, rivela nell’atto quarto:
You must be mine, that you may learn to live;
Know joys which only she who loves can give.
Nor think that action you upbraid, so ill:
I am not changed; I love my husband still,
But love him as he was, when youthful grace
And first down began to shade his face.
That image does my virgin-flames renew,
And all your father shines more bright in you.
Devi esser mio perché a vivere tu possa imparare; / Conoscer gioie che solo
colei che ama a te può dare. / L’azione non biasimare perché scellerata: /
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
Amo mio marito ancora, non sono cambiata; / Ma l’amo com’era un tempo,
pieno di grazia e bellezza, / Le gote scurite appena di lanugine della giovinezza. / Quell’immagine della vergine mi rinnova l’ardore / E tuo padre in
te rifulge di più acceso splendore.
Dopo il 1676, mantenendo fede alla decisione espressa nel Prologo di
Aureng-Zebe, il drammaturgo abbandona il genere: non casualmente,
si direbbe, visto che il passo successivo, a dieci anni dalla Tempesta,
lo porta a confrontarsi in prima persona con lo Shakespeare delle
grandi tragedie; rifiutando la rima, sostituendovi il blank verse «per
meglio imitarne lo stile», Dryden entra nell’agone impiegando intenzionalmente un’arma – la stessa di Shakespeare – che consenta, in All
for Love, di misurare non la fedeltà ad Antony and Cleopatra, bensì la
distanza. Nonostante la dichiarata inversione di rotta, sarebbe tuttavia
errato sottovalutare la portata della heroic tragedy; se infatti sono destinati a cadere gli aspetti titanici e declamatori, si conservano invece
i due perni del genere – verso rimato, amore versus onore – che, abbinati o scissi, compaiono sotto varie forme durante e dopo la fase
“eroica”.
Sin dagli inizi degli anni settanta Dryden ne sperimenta le potenzialità in più campi; agevole risulta la traduzione nel genere operistico, affine alla tragedia eroica e con tutta probabilità da essa derivato: la somiglianza passa attraverso il sofisticato apparato scenografico,
l’ambientazione remota, la logica retributiva che presiede all’azione
drammatica, la costante ricerca dell’effetto spettacolare e stupefacente. L’opera si dimostra dunque il terreno più adatto per praticare
l’innesto di rima e tematica eroica: da The State of Innocence and the
Fall of Man (1674), la riduzione di Paradise Lost, ad Albion and Albanius (1685), a King Arthur; or, The British Worthy (1691).
Altro spazio fertile risulta il teatro comico, particolarmente vasto,
nonostante la pretesa scarsa inclinazione per la commedia espressa da
Dryden: The Wild Gallant (1663, rivisto nel 1667), The Rival Ladies
(1664), The Tempest; or, The Enchanted Island (1667, in collaborazione con Davenant), Sir Martin Mar-all; or, The Feigned Innocenze
(1667), Secret Love; or, The Maiden-Queen (1667), An Evening’s
Love; or, The Mock-Astrologer (1668), Marriage A-la-Mode (1672),
The Assignation; or, Love in a Nunnery (1672), The Kind Keeper; or,
Mr Limberham (1678), The Spanish Friar; or, The Double Discovery
(1680), Amphitryon; or, The Two Sosia’s (1690), Love Triumphant
(1694). Commedie e tragicommedie drydeniane che frequentemente
miniaturizzano la heroic tragedy, rendendola parte di un tutto: segmento “alto” in cui si alternano rima e blank verse, e si patisce la
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IL NUOVO TEATRO
scissione tra passione e onorabilità, contrapposto alla zona bassa dell’eros, della scurrilità e della prosa. È quanto avviene in The Rival
Ladies e in seguito in Secret Love, dove alla rima si affida il compito
di esprimere estasi e pene amorose dei personaggi elevati. Ancor più
trasparente è l’operazione in Marriage A-la-Mode, dove sulla presenza
o assenza della rima si strutturano i livelli gerarchici dell’intreccio,
rendendola metro di misura dell’onore in politica e della purezza in
amore: dall’alto del verso rimato si scende attraverso il blank verse
destinato alla trama del potere e dell’usurpazione, fino alla prosa dell’intrigo erotico e sboccato (e assolutamente esilarante). Vale la pena
di citare Melantha, il gustoso personaggio francofilo, che “prova” la
scena dell’appuntamento galante, di cui inventa battute e gestualità,
arrivando a simulare – o forse no – l’orgasmo, in coerenza col suo tic
linguistico («giuro che muoio», dove «to die», morire, significa anche
«raggiungere l’orgasmo»):
Rhodophil, you’ll wonder at my assurance to meet you here; let me die, I
am so out of breath with coming, that I can render you no reason of it.
Then he will make this repartee, Madam, I have no reason to accuse you for
that which is so great a favour to me. Then I reply, But why have you drawn
me to this solitary place? let me die, but I am apprehensive of some violence
from you. Then, says he; Solitude, Madam, is most fit for Lovers; but by this
fair hand... ay, now I vow you’re rude, Sir. O fie, fie, fie; I hope you’ll be
honourable?... You’d laugh at me if I should, Madam... What do you mean
to throw me down thus? Ah me! ah, ah, ah. (III, 1, 248-258)
Rodophil, vi stupirete della mia tranquillità nell’incontrarvi qui; giuro che
muoio, ma non riesco a darvene una ragione, talmente mi ha reso ansimante
il venire. Allora dirà così: Signora, non ho motivo di accusarvi di ciò che
considero un grande favore nei miei confronti. Allora faccio: Ma perché mi
avete attirata in questo luogo solitario? Giuro che muoio, ma temo una qualche violenza da parte vostra. E lui: La solitudine, signora, è propizia agli
amanti; ma per questa bella mano... ehi, non siate così rude, signore. O vergogna, vergogna, vergogna; ma sarete un gentiluomo?... Ridereste di me se lo
fossi, signora... Cosa vi viene in mente di buttarmi a terra in questo modo?
Oddio! Ah, ah, ah!
Forse ancor più interessante è il “travaso” dal genere eroico alla tragedia propriamente detta, cui Dryden approda nei tardi anni settanta.
Se da un lato, infatti, la rima diviene una presenza sporadica o scompare del tutto, la tematica di onore e passione continua a esercitare
un peso rilevante: perduta la meccanicità di “ricetta” nella confezione
dei testi, essa diviene principio drammatico che struttura l’azione e
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
fornisce spessore tragico ai personaggi. Particolarmente chiara è l’operazione in All for Love, la tragedia immediatamente successiva alla
fine “ufficiale” del periodo eroico; in questo testo neoclassico rigorosamente costruito sulle tre unità, sui principi dell’ordine simmetrico,
della liaison des scènes e del decoro, onore e amore rappresentano le
oscillazioni del pendolo a cui è ridotta l’esistenza di Antonio, da un
passato sbiadito a cui altri si appellano, a un presente esangue e torpido, lacerato da accensioni improvvise dell’antico valore: impennate
dell’azione seguite da subitanee cadute. Stranamente spoglio di sensualità, e del tutto estraneo alla «infinite variety» shakespeariana, il
legame tra Antonio e Cleopatra si esprime attraverso la coincidenza
della loro condizione di pedine in mano altrui, e della loro natura,
nobile e soprattutto inerme, cui alludono le frequenti immagini legate
all’infanzia. Contro l’onore che incita alla determinazione e all’azione,
resiste un languore, una tensione – particolarmente accentuata in Antonio – verso l’abbandono, la regressione e il non essere: fedele interprete ne è il linguaggio, la tessitura metaforica che, a volte ossessivamente, insiste sui concetti di contrazione, riduzione, dissoluzione. È
con questa immagine che Antonio si autopresenta nell’atto primo,
gettandosi a terra:
Lie there, thou shadow of an emperor:
The place thou pressest on thy mother earth
Is all thy empire now; now it contains thee:
Some few days hence, and then ’twill be too large,
When thou’rt contracted in thy narrow urn,
Shrunk to a few cold ashes. Then Octavia
(For Cleopatra will not live to see it),
Octavia then will have thee all her own,
And bear thee in her widowed hand to Caesar;
Caesar will weep, the crocodile will weep,
To see his rival of the universe
Lie still and peaceful there. (I, 217-227)
Giaci lì, ombra di un imperatore: / Il posto che occupi sulla madre terra / È
ora tutto il tuo impero; esso ora ti contiene. / Pochi giorni ancora e sarà
troppo vasto, / Quando contratto nell’urna angusta sarai / Ridotto a poche
fredde ceneri. Ottavia allora / (Non ci sarà più Cleopatra a vedere), / Ottavia allora ti avrà tutto per sé, / E nella sua mano di vedova ti porterà a
Cesare; / Piangerà Cesare, piangerà il coccodrillo, / Nel vedere il suo rivale
del mondo / Silente giacere lì in pace.
L’elaborazione della tematica si complica e per così dire si intorbida
in Oedipus, forse anche grazie alla mano di Nat Lee: ancora onore e
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IL NUOVO TEATRO
passione si confrontano, ma ormai del tutto estranei alla loro origine
“eroica”. Non appartengono più al teatro di Dryden le nobili astrazioni esplorate in anni vicini da Corneille nel suo Oedipe (1658),
dove il protagonista e la sua colpa tragica si sfocano per lasciare spazio all’intreccio secondario a lieto fine: l’azione scenica converge infatti sulla coppia nobile costituita da Dirce (figlia di primo letto di
Giocasta) e dal mitico Teseo cui spetta la successione al trono di Tebe (Paduano).
Opposta e difficile è la strada percorsa dai due drammaturghi inglesi; il nucleo oscuro del mito di Edipo diviene fulcro dell’azione,
punto di convergenza di atti, parole, sogni, premonizioni, visioni; e
anche l’intreccio secondario, che si aggiunge sull’esempio di Corneille, diviene qui strumento di amplificazione, non di svuotamento, del
tragico. L’onore di Edipo è quello di un sovrano giusto e pio, disposto a sacrificarsi per liberare il suo popolo dalla peste e a perseguire
la ricerca del vero a costo della vita. Totalmente affrancato dall’intreccio sofocleo, nel testo inglese si snoda il percorso della passione,
connotata sin dall’inizio come pericolosamente contigua all’incesto
(perché Edipo somiglia straordinariamente a Laio, perché Edipo e
Giocasta definiscono l’assolutezza e purezza del loro amore nei termini del rapporto tra madre e figlio): il procedimento è sorprendente,
poiché l’anticipazione non funge da segnale ironico, bensì da conferma sull’unicità di un’emozione che è tale proprio perché nata dal legame di sangue. A rivelazione avvenuta, infinitamente lontana dall’origine, questa coppia di amanti si rivela pronta a trasgredire ancora,
prima che nel finale, ambiguamente, si saldino i due temi dell’onore e
della passione: l’Edipo suicida di Dryden, infatti, affronta la morte
(non più l’esilio a Colono) per rincontrare Giocasta (novella Medea
che uccide i figli avuti dal proprio figlio); allo stesso tempo prefigura
l’altro atteso incontro con Laio, padre e rivale sessuale, che ne sanziona sia la paradossale innocenza, sia la legittimità della successione
al trono di Tebe. L’ultimo incontro:
OEDIPUS O, in my heart, I feel the pangs of Nature;
It works with kindness o’re: Give, give me way;
I feel a melting here, a tenderness,
Too mighty for the anger of the Gods!
Direct me to thy knees: yet oh forbear,
Lest the dead Embers should revive,
Stand off ... and at just distance
Let me groan my horrours ... here
On the Earth, here blow my utmost Gale;
Here sob my Sorrows, till I burst with sighing:
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
Here gasp and Languish out my wounded Soul.
JOCASTA In spight of all those Crimes the cruel Gods
Can charge me with, I know my Innocence;
Know yours: ’tis Fate alone that makes us wretched,
For you are still my Husband.
OEDIPUS Swear I am,
And I’ll believe thee; steal into thy Arms,
Renew endearments, think ’em no pollutions,
But chaste as Spirits joys: gently I’ll come,
Thus weeping blind, like dewy Night, upon thee,
And fold thee softly in my Arms to slumber. (V, 1, 206-225)
In cuore sento gli spasmi della natura; / Mitemente mi lenisce: o, potermi abbandonare; / Sento tenerezza sciogliersi in me, / Troppo potente per
l’ira degli dei! / Guidami alle tue ginocchia; no, no fermati, / Che non si
ravvivino le braci spente, / Sta là... a sicura distanza /Fammi gemere il mio
orrore... qui / In terra, alitare l’ultimo fiato; / Piangere il mio dolore, fino a
squassarmi di sospiri: / Con affanno e pena esalare l’anima ferita.
GIOCASTA A dispetto di tutti i crimini orrendi che gli dei / Crudeli mi possono imputare, conosco la mia innocenza; / Conosco la tua: il fato soltanto ci
infama, / Poiché tu ancora sei mio marito.
EDIPO Giuralo, / E io ti credo; furtivamente cercherò le tue braccia, / Rinnoverò carezze senza pensarle infette, / Ma pure come gioie di spiriti: dolcemente verrò, / Cieco e piangente, come l’umida notte, su di te, / Cullandoti
piano tra le braccia nel sonno.
EDIPO
Il tema dell’incesto ricompare prepotentemente, dopo un decennio,
in Don Sebastian, dove a unirsi in matrimonio sono fratello e sorella,
inconsapevoli e perciò innocenti come Edipo e Giocasta, e come loro
disposti ancora a trasgredire dopo aver saputo. Scritta a ridosso della
caduta degli Stuart, la tragedia si fa specchio dell’amarezza con cui
Dryden, alle soglie degli anni novanta, guarda alla storia; non a caso
Sebastian è un perdente, sconfitto in battaglia, prigioniero dei nemici.
Anche l’apparente riscatto politico e militare, coronato dall’unione
con la donna amata, si rivela un tragico inganno, perché sarà proprio
il supposto lieto fine amoroso a scatenare la rivelazione sul passato e
sulla colpa sessuale del padre; verità che spinge Sebastian a uscire
dalla scena della vita, abbandonando la moglie sorella e la società degli uomini.
Tanto più tragica è la vicenda perché la figura del re proposta da
Dryden è quella sacra dell’unto da Dio: un’immagine che affonda le
sue radici nel passato e nella storia degli Stuart, che non può non
stridere in presenza del sovrano straniero che siede sul trono inglese;
30
IL NUOVO TEATRO
per Dryden, illegittimamente. La giustizia poetica, manifestata dal lieto fine delle altre sezioni dell’intreccio, non riguarda Sebastian, isolato nel suo destino tragico; la morte gloriosa che il drammaturgo, forzando la fonte, concedeva a Edipo, la morte bella dell’incontro con
l’amante e col padre, non è più consentita a questo re che, prima di
sparire dal mondo, immagina anch’egli un incontro con il padre: non
momento di pacificazione e perdono, bensì confronto con lo spettro
tormentato da «gelo e fuoco», per espiare una colpa che biblicamente
ricade sul capo del figlio.
L’amarezza del presente, la disillusione, i pericoli oggettivi che
Dryden corre sotto il nuovo regime, confluiscono in Amphitryon, la
commedia sugli amori di Giove e Alcmena, che di comico ha ben
poco. Degradata è l’immagine della divinità intenta alla sordida ricerca del piacere, inerme la condizione dell’uomo, usato dal dio a
proprio piacimento; la confusione dell’identità (di Alcmena, di Sosia,
di Anfitrione) non suscita più ilarità, solo inquietudine, prima di approdare nel finale al silenzio dei personaggi umani, alla lucida constatazione di Mercurio sul corpo di Alcmena gravido, suo malgrado,
del seme di Giove, e sull’assenso forzato alla profanazione da parte
dello sposo Anfitrione.
Tragedia, commedia e anche opera mettono in scena lo scardinamento dell’antico ideale, la fine dell’epoca gloriosa di cui Dryden si
era fatto cantore: King Arthur, apparentemente spazio di evasione nel
fantastico, nella magia, nella rassicurante dicotomia tra bene e male, è
in realtà un testo anch’esso politico, che sotto vari aspetti rappresenta
una presa d’atto del limite, una definizione dell’angusto ambito in cui
il presente consente di operare. La storia patria, le gesta del progenitore degli Stuart, si erano presentate negli anni ottanta come soggetto
ricco di potenzialità celebrative, come una sorta di tardiva realizzazione, seppure in termini minori, del progetto epico che per tutta la vita
era stato al centro delle aspirazioni del poeta; progetto fallito per
mancanza di sostegni finanziari, come egli ricorderà nel 1693 ripensando all’esiguità dei suoi mezzi, all’incoraggiamento di Carlo II costituito solo da «belle parole».
Nella realizzazione del 1691, nel passaggio da epica a opera, l’argomento subisce non solo un “abbassamento” di genere, ma anche
uno snaturamento tematico, un adeguamento alla realtà politica del
presente. King Arthur, concepito inizialmente come asse portante della celebrazione degli Stuart, a cui Albion and Albanius doveva fungere da semplice introduzione, subisce pesanti alterazioni in presenza
del nuovo regime:
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LA RESTAURAZIONE E IL SETTECENTO
[...] not to offend the present times, nor a government which has hitherto
protected me, I have been obliged so much to alter the first design, and take
away so many beauties from the writing, that it is now no more what it was
formerly...
[...] per non offendere il tempo presente e un governo che sin qui mi ha
protetto, sono stato costretto a modificare a tal punto il disegno iniziale, e a
sottrarre tali e tante bellezze alla scrittura, da trasformarlo completamente
rispetto a ciò che era prima...
scrive Dryden nella dedica a Halifax. Eppure, nonostante l’esiguità
della materia sopravvissuta al taglio – creature aeree e acquatiche politicamente innocue, «un tipo di scrittura favolistica che dipende unicamente dalla forza dell’immaginazione» – ancora il poeta dimostra il
suo straordinario talento, armonizzando nel testo una serie di echi
della propria sperimentazione passata, dalla heroic tragedy alle imitazioni dei classici, all’uso drammatico e non ornamentale della musica,
alla preminenza del metateatro. Propria del presente è la nota dimessa su cui si conclude l’opera: nel lieto fine della vittoria del Bene, la
riflessione di Arthur sul futuro è pervasa da incertezza e inquietudine
(Sestito).
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