La vita dei Pink Floyd in 20 pagine

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PINK FLOYD vita
I vari gruppi che hanno condiviso in successione il nome di Pink Ployd non esauriscono tutta
la storia musicale dei protagonisti. Prima c erano stati piccoli gruppi giovanili, dilettanteschi,
neppure troppo convinti della propria esistenza. Ricorderò anche quelli: la biografia è in
questi casi un male necessario.
La data di partenza, arbitraria, è il 1960. Il luogo da scegliere è invece obbligato: Cambridge,
amabile cittadina universitaria nell'Inghilterra del sud. Nel 1960, dunque, opera a Cambridge
una mezza dozzina d'adolescenti locali, inconsapevoli l'uno dell'altro. George Roger Waters
ha sedici anni, Richard William Wright e Nicholas Berkeley Mason ne hanno quindici, David
Jon Gilmour e Roger Keith Barrett quattordici. Tutti frequentano la stessa art school, corso
di studi del resto condiviso da tanti altri giovani talenti musicali quali John Lennon, Mick
Jagger e Keith Richards, Mike Ratledge e Robert Wyatt.
Mentre Waters, Mason e Wright trascorrono gli anni di scuola in un'ignavia musicale quasi
assoluta (fatta eccezione per sporadiche lezioni di chitarra o pianoforte), Barrett e Gilmour
sono già chitarristi dilettanti, e ben presto diventano accaniti sostenitori e interpreti di rock.
Dai quattordici ai sedici anni, Dave e Roger, che per oscuri motivi è stato soprannominato
"Syd", sperimentano insieme quel tanto di chitarra che la scuola consente. Secondo
Gilmour, siamo stati là insieme per due anni, e abbiamo passato insieme ogni intervallo del
pranzo, a imparare gli ultimi riffs".
Poco dopo, Barrett si costruisce da sé un amplificatore per passare alla chitarra elettrica e si
unisce a un gruppo chiamato Geoff Mott and The Mottoes, oltre a suonare il basso elettrico
per tali Hollering Blues. Gilmour, per parte sua, è membro dei Newcomers e formerà anni
dopo una propria banda quasi professionale, i Jokers Wild - ma questo già anticipa tempi
successivi.
Nel frattempo, Mason e Wright si sono trasferiti a Londra, in un appartamentino di Highgate,
per studiare al politecnico di Regent Street. Là incontrano per la prima volta il concittadino
Roger Waters. Nonostante i non travolgenti istinti musicali, fondano un gruppo di R&B
ortodosso. Waters suona la chitarra solista, Wright la chitarra ritmica, Mason la batteria, suo
strumento definitivo; c'è anche un certo Clive Metcalf al basso, mentre i cantanti si chiamano
Keith Noble e Juliette Cale.
Il gruppo assume dapprima il nome di Sigma 6, diventa poi T-Set (ovvero tea set, il servizio
da tè), poi Meggadeaths, poi Architectural Abdabs, infine soltanto Abdabs, a dimostrare che
l'art school stimola almeno la fantasia verbale. Il gruppo, ad onta d'una solida reputazione
nelle feste di compleanno studentesche, scompare per futili motivi quando Juliette diventa
moglie di Richard Wright
In questo periodo (è ormai il 1965), Roger Waters è diventato titolare del piccolo
appartamento di Highgate; lo condivide con Syd Barrett, che si è spostato a Londra per
studiare belle arti a Camberwell, e Bob Close, discreto chitarrista di scuola jazz. Si
costituisce ancora un'altra banda: per sovrabbondanza di chitarre Waters retrocede al basso
e Wright si compra un organo Farfisa. E' sempre rock/blues, con approssimative versioni di
Louie Louie e Roadrunner, il nome è PinK Floyd Sound.
Dopo breve tempo Bob Close s'eclissa. e con lui gran parte della perizia strumentale del
gruppo (Mason: "Quando se ne andò ci fu un ulteriore motivo per sbarazzarsi de] vecchio
materiale". Waters: "Per la semplice ragione che non ce la facevamo più a suonarlo".).
Barrett è così spinto a darsi alla composizione. E' ancora un collettivo assai rudimentale
quello che esordisce al Countdown Club, suonando sette ore, dalle Otto all'una, per la cifra
Complessiva di quindici sterline. È' l'autunno del 1965.
Swingin 'London
Tra il 1966 e il 1967, Londra attraversa un periodo tra i più amati dai cultori di fasti mondani.
Musica, moda e la più effervescente fatuità vi trovano un centro mondiale. Gli agiografi
definiranno il biennio, periodo della psichedelia chimica e sonora. "Swingin' London", e i
Pink Ployd di Syd Barrett ne saranno i celebrati profeti e cantori
Il 13 marzo 1966 i Pink Floyd Sound, secondo alcuni già abbreviati in Pink Floyd, tengono il
primo concerto in un locale d'una certa importanza, il Marquee. il quartetto ha già fatto della
musica una professione e ha preso a inframmezzare al prediletto R&B passaggi strumentali
elettrici e spigolosi, che man mano prendono forma di costruzioni autonome.
A giugno li nota infine uno dei tanti geni autoproclamati dell'epoca, Peter Jenner. Costui,
scontento del lavoro d'insegnante, cerca una via per intrufolarsi nel campo dello spettacolo.
La trova, fulminato dall'interesse, proprio nei quattro giovanotti dall'aria perbene e dagli
occhialetti intellettuali. Passate le vacanze estive, li convince infine a firmare un contratto
con la neonata Blackhill Enterprises, da lui stesso fondata insieme all'ex cibernetico Andrew
King.
Da quel momento, gli eventi accelerano il proprio corso. La Londra psichedelica è in moto,
con i suoi happenings, le sue droghe e la sua musica. Per quest'ultima, due sono i principali
canali di circolazione: le radio pirata, completamente illegali, e i tanti concerti.
Alla fortuna dei Floyd contribuiscono i programmi radiofonici più pronti ad accogliere il verbo
psichedelico, il "Lucy Fruit Show" di Radio Caroline e soprattutto il celebre "Perfumed
Garden" di Radio London, condotto da quel John Peel che si diverte a mischiare dischi dei
grandi dell'epoca, Beatles, Dylan e Rolling Stones, con prodotti dei giovani di belle
speranze. Ma il seguito dei Pink Floyd si crea nei concerti: dapprima alla Free School di
Notting Hill e al Marquee; poi alla serata fondamentale per le sorti del "movimento", la serata
del carnival di Notting Hill alla All Saints Hall. È là che un fortuito incontro con alcuni
americani provenienti da San Francisco conduce al primo tentativo d'illustrare la musica con
diapositive e luci. E l'embrione del Light show.
Il sogno di creare una controcultura giovanile, una cultura che faccia della sensazionedell'esperienza sensoriale e delle sue alterazioni
- il proprio nucleo, conduce a giustapporre senza soluzione di continuità idee geniali e
velleità raccogliticce. A ottobre, Joe Boyd e John "Hoppy" Hopkins, dai più considerato il
vero propulsore e organizzatore della Londra underground, fondano la rivista Internationai
Times, in seguito nota come JT Per l'occasione si tiene una festa/concerto alla Roundhouse,
in cui Pink Floyd e Soft Machine sono le massime attrazioni. Poco dopo, quegli stessi
personaggi inaugurano l'UFO Club, dove cercano di realizzare il sogno di un'arte totale, che
coinvolga lo spettatore subissandolo di stimoli attraverso ogni canale. Ecco come un cofondatore, Miles, descrive il locale: "UFO è il locale della gente che legge IT Abbiamo voluto
creare un ambiente diverso dagli altri club. Abbiamo suonatori di sitar, grandi orchestre di
percussioni africane, proiezioni di film di Bufluel o Marilyn Monroe. David Marowitz ci ha
portato tre pièces teatrali, satire politiche. C'è del free jazz, e naturalmente gruppi
psichedelici". Così, tra una proiezione di Un Chien andalou e un Andy Warhol, s'amplia lo
spazio anche per i Pink Floyd, che possono affinare idee e virtù strumentali, abbandonando
la riproposizione dei classici in favore delle nuove composizioni di Barrett.
Se gli antichi frequentatori dell'UFO Club lo ricordano come indimenticabile luogo
d'involvement shows, Roger Waters è forse più realistico: "Per un breve momento parve
davvero che dovesse esistere come centro d'una serie di attività. La gente andava all'UFO e
altra gente faceva altre cose, non era la solita routine del gruppo che si esibiva. C'erano
attori pazzi, un paio di Light shows, magari qualcuno recitava i suoi versi e un po' si vagava,
un po' si chiacchierava amabilmente". Sta di fatto che per tutti i primi mesi del 1967 i Pink
Floyd sono uno dei gruppi stabili dell'UFO. Contemporaneamente, si spostano spesso
anche in provincia, per ricevere quella che Waters definirà "la dose quotidiana di bottiglie
rotte": il pubblico provinciale, che preferisce la birra all'LSD, non mostra grande sensibilità
verso il flower power e usa i suoi massimi musicisti soprattutto come bersaglio.'
Grazie all'UFO Club i Pink Floyd diventano il gruppo alla moda della primavera 1967. Senza
aver inciso un solo disco, conquistano la gloria della doppia pagina centrale su Melody
Maker. Sono fra i più ammirati al grande "14 Hours Technicolor Dream" dell'Alexandra
Palace, zenith della Londra psichedelica, insieme a Sofr Machine e Crazy World of Arthur
Brown. Sono già imitati e invidiati, tanto che Jenner e King riescono infine a strappare alla
EMI un contratto da ben cinquemila sterline.
Gli aromi lisergici sprigionati dall'UFO e dal "Technicolor Dream" si rivelano preziosi per il
quartetto. Il loro primo singolo, ArnoldLayne, registrato in uno studio di Chelsea il 1° febbraio
con produzione di Joe Boyd, raggiunge il ventitreesimo posto nelle classifiche di vendita,
nonostante la BBC rifiuti di trasmetterlo. Il successo vero arriva con See Emily Play,
registrato il 21 maggio sotto la supervisione del più navigato Norman Smith. Il piccolo
intarsio psichedelico, con voce ieratica di Barrett, organo visionario di Wright, rumori e nastri
accelerati quanto basta, accende gli entusiasmi di John Peel e di tutta la Londra che conta.
Poco importa che la swingin' London si squagli durante l'estate, tra arresti per droga (specie
quello di Hoppy Hopkins, vera decapitazione), chiusura forzata delle radio pirata e naufragio
dell'UFO Club. In tanto disastro, i Pink Floyd si sono guadagnati lo studio 2 della sede EMI
di Abbey Road, dove tra febbraio e luglio registrano il proprio album d'esordio. Alla porta
accanto i Beatles stanno completando il monumento di SERGEANT PEPPER'S LONELY
HEARTS CLUB BAND.
Anche l'album THE PIPER AT THE GATES OF DAWN è accolto con favore alla sua uscita,
ad agosto. Eppure qualcosa s'è incrinato nei Pink Floyd. Il tentativo di replicare Emily non
frutta che una Apples And Oranges priva di mordente. I concerti perdono smalto, per quanto
il gruppo guadagni notorietà. A coronamento della situazione viene il fallimento della prima,
ambita tournée in terra americana. Lato paradossale della vicenda - e causa prima
dell'insuccesso - è il fatto che Barrett era convinto in perfetta buona fede d'aver ricreato
suono e ambientazione dell'acid rock californiano, quello di Grateful Dead e Jefferson
Airplane. Ma gli americani non facevano che ornare di colori forti un rock ben ancorato al
blues e ad altri aspetti della tradizione; le creazioni degli inglesi erano più erratiche e audaci,
pronte a trasformarsi in collages e rumori. La discrepanza emerge quando infine i Pink Floyd
si trovano di fronte il pubblico di San Francisco, a novembre: la fama che si guadagnano, di
durezza ed ermeticità eccessive, contribuisce a una frattura con gli ascoltatori americani,
che sarà sanata solo cinque anni più tardi.
Il fatto è che il punto debole dei Pink Floyd s'identifica ormai con quello che è stato il loro
punto di forza, e si chiama Syd Barrett.
Syd Barrett
Forse era sempre esistito un problema di nome Barrett. Fin dagli inizi, Barrett era stato
egocentrico, preso da se stesso, intento a costruirsi pose da rock star. Si pavoneggiava
vestito di lamé e ghirigori, si acconciava i capelli (splendida chioma, di cui andava
orgoglioso), spendeva come un principino, pur dipendendo dalla Blackhill, compagnia in
cronica carenza valutaria, e si drogava in tutti i modi possibili. Fin qui, però, nulla
d'eccezionale; erano comportamenti comuni a tutti gli adepti del nuovo rock.
È nel luglio del 1967 che qualcosa si rompe: Syd pianta gruppo e impegni per rifugiarsi a
Cambridge da sua madre. Causa alla Blackhill la perdita di quattromila sterline, tante per la
situazione finanziaria della casa discografica. Trova motivo per riunirsi al gruppo soltanto
nelle ultime sedute per la realizzazione di THE PIPER. La sala d'incisione, sua antica
passione, pare trasfigurarlo. Secondo Andrew King: "La prospettiva di registrare sembrava
ispirare e ravvivare la creatività di Barrett. Nessuno ha mai saputo esattamente se arrivava
con le canzoni fatte o se le scriveva durante le sedute. In ogni caso, scriveva e componeva
assai rapidamente, e quand'eravamo arrivati nei pressi dello studio, le canzoni apparivano
come d'incanto
Prima del 1966 Barrett aveva composto soltanto una sorta di filastrocca, Effervescing
Elephant, oltre a mettere in musica la poesia Golden Hair, operina giovanile di Joyce. Tutti i
brani dei Pink Floyd, cui prima Waters poi Wright daranno all'inizio solo stenti contributi,
nascono in pochi mesi, a partire da Interstellar Overdrive, lunga improvvisazione strutturata,
costruita su poche note di chitarra distorta. Eppure restano fra i più durevoli frutti della
psichedelia: forse perché la psichedelia non è che una delle loro chiavi di lettura.
Le canzoni di Barrett partono da strutture assai semplici, quasi fossero nursery rhymes,
impreziosite però da particolari sghembi, obliqui; come i suoi testi, che a tratti si perdono in
assonanze, dissolvono nel nulla inizi di narrazioni fantastiche (The Gnome) oppure tratteggiano sprazzi d'una mistica indecifrabile (Chapter24). Così la musica:
il ritmo è sempre un classico 4/4, la pulsazione costante, ma il continuo cambiamento
d'accenti (come in Matilda Mother) ne impedisce la cristallizzazione. Non è musica fluida,
s'inceppa, s'arresta e riprende, eppure questa disarmonia è parte essenziale della
fascinazione che coglie l'ascoltatore.
Barrett sovraincide chitarre ritmiche e soliste fino a creare tappeti sonori, come nel
passaggio centrale di Astronomy Dominé; ricerca suoni a effetto: conclude Bike con una
sorta di collage a orologeria, inserisce celesta e vibrafoni, inaugura un uso secco ed
espressionistico dei glissati prodotti dalla slide guitar. Lo segue, in queste sue esplorazioni,
il solo Wright, mentre gli altri due si limitano a un diligente apporto ritmico (ma la
sovrapposizione di scansioni ritmiche in Scarecrow è estremamente efficace). L'organo di
Wright è imprescindibile complemento delle creature barrettiane. I suoi assoli modali, per
quanto semplici e suonati con una sola mano, donano alle canzoni suggestioni orientali;
sono sinuosi e circolari, singolare contrappunto all'asprezza metallica degli altri strumenti.
Le musiche dei Pink Floyd di Barrett, tutte composte in un arco di sei mesi, sono ricche di
sollecitazioni visive, create con sovraincisioni, con accorgimenti stereofonici, con l'artificio di
far danzare i suoni da un canale all'altro, con l'insistenza sui paesaggi sonori. Anche i testi
seguono la stessa ispirazione, ricchi come sono di predicati visivi (tranne che in un caso, il
più inquietante di tutti: Chapter 24, che è integralmente concettuale). Ma già verso la fine
della collaborazione di Barrett con i Floyd si avverte un mutamento. I testi s'isteriliscono,
diventano semplici descrizioni (Apples And Oranges) o addirittura elenchi, come Vegetable
Man, testimonianza forse d'un impoverimento progressivo, forse d'un estremo tentativo
d'ancorarsi alla realtà, alla concretezza rassicurante degli oggetti.
A Barrett va riconosciuto il merito d'essersi occupato della globalità del suo album, suoni
inclusi, contribuendo in maniera decisiva anche alla produzione. Ancora King: "Per quanto
amasse le canzoni semplici, Syd Barrett aveva una maniera meravigliosa di mixare i pezzi.
Faceva in modo che a ogni istante il brano fosse in movimento. Alzava e abbassava i
cursori della consolle, apparentemente a caso. Ciononostante, il risultato era fenomenale.
Syd era un pittore, e non faceva mai nulla se non pensava di farlo in modo artistico. Era
creativo al cento per cento, e pretendeva molto da se stesso".
Purtroppo, la suggestione e il fascino della musica di Barrett sono forse fatte della stessa
sostanza della sua rovina. Stanno sul filo d'un rasoio, oltre il quale non c'è più visione né
trascendenza, ma soltanto l'autismo, l'isolamento finale. Così in quel fatale 1967 Barrett
inizia a implodere dentro se stesso, svelando tutta la sua patologia di figlio prediletto d'una
madre possessiva e simbiotica, fragile e sensitivo fino all'inverosimile. Per sarcasmo del
destino, la regressione autistica sarà a lungo più palese nella vita che nell'arte: per mesi,
dopo un chiaro esordio schizofrenico, Barrett resterà in grado di produrre ottima musica, sia
pure con la necessità di costante assistenza per riuscire a eseguirla. Ma sarà musica
distante, ai confini del decifrabile, musica che ci guarda da un'ineffabile lontananza.
Chi circonda Barrett arriva tardi a rendersi conto della sua psicosi. È difficile, nella swingin
'London, distinguere eccentricità da follia ("And what exactly is a dream? And what exactly is
a joke? "avrebbe avvertito Barrett stesso, di lì a poco). Ma il limite, da ultimo, è superato. E
si moltiplicano gli aneddoti, che saranno poi dilatati e amplificati negli anni seguenti: Peter
Jenner si vede comparire sulla porta di casa Lynsley, la ragazza di Syd, picchiata a sangue;
durante uno spettacolo televisivo in California, Syd rifiuta di mimare le sue canzoni in
playback; al "Pat Boone Show" risponde alle domande del famoso intervistatore soltanto
con sguardi abulici; negli ultimi concerti sale sul palco ma si limita a suonare lo stesso
accordo all'infinito; in studio cambia costantemente la forma delle canzoni, vanificando ogni
tentativo di lavoro comune. A volte si unisce al gruppo, ma nemmeno suona. Soprattutto,
non comunica più, nemmeno con lo sguardo: "Arrivò e gli dissi 'Ciao, Syd' e lui fece l'atto di
guardarmi. Lo fissai dritto negli occhi e non c'era luce, non c'era sguardo. Era come se
qualcuno avesse abbassato la saracinesca. Fu un vero shock" (Joe Boyd). Da questo punto
in avanti, Syd Barrett è virtualmente consegnato al silenzio.
Come dimostra l'attacco di Apples And Oranges, in cui il gruppo è incapace di trovare un
accordo (nella duplice accezione, musicale e relazionale), alla fine del 1967 l'apporto di
Barrett ai Pink Floyd è virtualmente nullo. Eppure è ancora su suo suggerimento che il
gruppo si amplia, cooptando proprio quel chitarrista che tanto aveva duettato con Barrett ai
tempi di Cambridge: David Gilmour. Il gruppo azzarda dapprima una formazione a cinque
elementi ma non va oltre quattro concerti, per lo stato ormai stabilmente dissociato del
fondatore. I motivi della crisi finale sono controversi, e forse privi d'importanza. Secondo
alcuni, Barrett vuole estendere ancora il collettivo, contro la volontà dei colleghi; secondo
altri, è Waters a volerlo escludere dai concerti, mantenendolo in una posizione defilata,
secondo il modello di Brian Wilson dei Beach Boys. Stadi fatto che nel gennaio 1968 i Pink
Floyd abbandonano contemporaneamente Syd Barrett e la BIackhill Enterprises. Insieme
alle vestigia della psichedelia, anche la prima versione dei Pink Floyd è ora consegnata al
passato.
Oltre la psichedelia
Con l'immergersi di Barrett nel proprio mondo psicotico i Pink Floyd ritornano quartetto. Ma
sono un gruppo nuovo. Ne sono ben coscienti gli ammiratori di Barrett (la grande
maggioranza del ristretto pubblico underground) che decretano ai quattro un iniziale ostracismo. Giustificato, dal loro punto di vista: la musica dei rinnovati Pink Floyd mostra pochi
punti di contatto con la precedente.
Le differenze sono in parte dovute al nuovo chitarrista, Gilmour, reclutato mentre ancora
suonava blues e rock in Francia: "Quando ho cominciato, dovevo suonare cose che non mi
erano naturali. Non mi sono azzardato a improvvisare per tutti i primi sei mesi passati con i
Floyd. E stato più tardi, a partire dall'album A SAUCERFUL Or SECRETS, che ho
contribuito con qualche buona idea". A dispetto della sua modestia, Gilmour garantisce fin
dall'inizio molto più che un consistente supporto strumentale. La sua versatile chitarra,
radicata nel blues, esibisce notevoli capacità d'improvvisazione e un suono ben individuato:
pieno, ipersaturato, espresso in lunghe note tenute e appena glissate, che gli permettono di
creare melodie e ambientazioni evocative, spesso sentimentali. Quest'inedita volontà
melodica sarà l'inconfondibile connotazione dei Pink Floyd dal 1968 in avanti.
Ma è Roger Waters, il timido Waters, a imporsi come autentica guida. Per anni saranno sue
le idee e le direzioni del gruppo, i concetti, i grandi progetti: THE MAN, ATOM HEART
MOTHER, THE WALL. E' la guida di Waters altera immediatamente le coordinate musicali. I
Pink Floyd erano stati erratici, lunatici, imprevedibili, giullareschi e frammentari, come il
Barrett pre-psicotico. Diventano ora meditabondi, misurati, a tratti cupi e persino
magniloquenti, come il diffidente e pessimista Waters. La musica tende alla sintesi, alla
costruzione, a procedere per passi logici e definiti. Si matura e consolida così uno stile quasi
monolitico: sempre psichedelico, ma solo nel senso puramente etimologico del termine,
cerca di crear suoni inconsueti, visionari, ma senza mai scostarsi dall'ortodossia d'un rock
non violento, tonale e ritmato in 4/4 moderati (con poche eccezioni, di cui si dirà più avanti).
Contemporaneamente, i membri del gruppo cessano d'essere personaggi. Dopo Barrett,
ben poco emergerà della loro vita privata, anche quando entreranno nell'élite del rock
internazionale. Fuori dal palcoscenico, i Pink Floyd saranno quattro ricchi signori
irreprensibili e irriconoscibili: memorabile l'agnizione di Connor McKnight, che pur essendo
giornalista musicale riesce a incontrare per mesi Waters alle partite di calcio senza mai
riconoscerlo. Da questo punto di vista, i Pink Floyd diventano l'antitesi della rock star. E
anch'io, di conseguenza, eviterò d'ora innanzi la biografia personale, per concentrarmi sulla
sola musica.
Nei concerti del 1968, dunque, i Floyd suonano meglio, più distesi, pur subissati di critiche.
Sono le canzoni a deludere. Wright e Waters, inizialmente, riescono solo a inventare
qualche singolo melodico e svenevole, privo di carisma. La produzione si ravviva però
quando viene pubblicato il secondo album.
A SAUCERFUL OF SECRETS è un'opera di transizione. Tanto che il brano di chiusura,
Jugband Blues (in cui suona una banda dell'Esercito della Salvezza invitata
estemporaneamente in studio), è l'estremo canto di Barrett, che presta anche una slide
guitar scheletrica ma penetrante a Remember A Day. Le canzoni principali illustrano il
definirsi del Waters compositore: Let There Be More Light la sua vena spaziale, Set The
Control For The Heart Of The Sun il suo intimismo, Corporal Clegg il suo agro sarcasmo. Se
in Light Gilmour offre un primo saggio dei suoi assoli lunghi e caricati, è Heart Of The Sun a
indicare il futuro prossimo. La melodia è accattivante, lenta, la voce sussurrata, il tempo una
sorta di samba incorporea, scandita dai soli timpani; lo strumento guida è il basso, fondo e
pieno, mentre solista è sempre l'organo modale di Wright.
Ma il carattere del nuovo gruppo è indicato anche meglio dalla breve suite eponima, la cui
nascita è così descritta da un David Gilmour ancora spaesato: "Sostanzialmente, nel gruppo
si notava la presenza di studenti d'architettura. Erano capaci di mettersi lì con un pezzo di
carta e iniziare così: Deve andare dritto di qua, e poi dritto lassù...', e disegnavano cime e
avvallamenti come su una mappa, calcolando dove il pezzo doveva andare. L'inizio fu
realizzato con i toni acuti dei piatti. Avevamo dei piatti e avevamo messo un bel microfono
proprio accanto a loro, poi li colpivamo molto delicatamente con martelli di legno. In effetti
questo produce un suono che non somiglia affatto al suono dei piatti. Lo sfondo della prima
parte è così, una serie di note con molte cose imbastite sopra. Nella parte successiva Nick
ha suonato la batteria, ha tagliato il nastro, io ha montato ad anello e abbiamo continuato a
utilizzarlo per ore e ore. Poi c'ero io che suonavo la chitarra a tutto volume, usando il
piedistallo che sosteneva il microfono come una sbarra d'acciaio e facendolo correre su e
giù lungo la tastiera della chitarra".
Il risultato del procedimento è una suite tripartita: un lungo crescendo di strumenti miscelati
su quell'unico tono di base, un passaggio centrale fondato sull'ostinato di batteria, con la
chitarra massacrata sopra un pianoforte randomizzato, quindi un coro conclusivo con
reminiscenze tra Penderecki e il gregoriano. E' un'opera che vuol porsi come colta, forse
con un pizzico di velleità. Ma che ancora attinge a una vena immaginifica e rivela un gran
desiderio d'uscire dall'ambito del formato canzone.
Una tale aura di serietà sperimentale piace poco in USA e moderatamente in Inghilterra. Ma
s'attira simpatia e seguito nell'Europa continentale, Italia e Francia soprattutto, anche se il
mensile francese Rock & Folk non esiterà a etichettare i Floyd con l'ormai aborrita etichetta
di "groupe cent per cent fiower power". Tanto basta per proseguire la carriera, tra una
colonna sonora (More, di cui si dirà più avanti), un free show a Hyde Park e soprattutto tanti
concerti, in cui il gruppo ha modo di trovare un suono d'insieme rinsaldato e compatto.
Per un'altra di quelle ironie di cui la vicenda abbonda, la perfetta coesione strumentale è
raggiunta nel 1)69, quando i Pink Floyd, a corto d'idee, sono sul punto di "morir dalla noia"
(Mason) e qualcuno già sperimenta percorsi diversi. Da quella situazione nasce, a mo' di
compromesso, un'opera bifronte, UNINIAGUNINIA, che a un primo disco registrato in
tournée ne giustappone uno d'iniziative soliste di ciascuno dei quattro. L'album, per quanto
interessante, riflette la crisi d'identità del gruppo, che sembra trovar difficile ragionare come
insieme. Eppure i pezzi scelti per il disco concertistico vivono e respirano quanto - se non
più - degli originali. Il quartetto si ritrova a memoria, i momenti improvvisati s'inseriscono
sugli schemi compositivi con bella fluidità. In Astronomy Dominé (tributo a una canzone
storica che sarà di lì a poco eliminata dal repertorio) Gilmour sostituisce una potente solista
alle chitarre sovraincise di Barrett, mentre Wright dona il suo ultimo assolo modale, un
passaggio delicatissimo, la voce dell'organo ridotta a un filo. Carefrì With ThatAxe, Fugene,
brano di atmosfera e di suspense, è in massima parte improvvisato, "fondato su un solo
accordo. Ci limitavamo a creare trame e umori su quel filo, alzandolo e abbassandolo, non
era un materiale molto elaborato. Tra noi c' era una specie di regolamento che cercavamo di
rispettare. E questo regolamento aveva una stretta relazione con le dinamiche musicali"
(Gilmour).
Le opere soliste nascono da un'idea di Rick Wright, desideroso di cimentarsi direttamente
con i prediletti moduli 'neoclassici". Il suo Sisyphus risulta, com'è logico, alquanto grandioso
e pretenzioso, nonostante qualche bello stacco e un'evocativa sezione di piano percussivo.
Meglio Gilmour, che pur trovandosi preso alla sprovvista ("Non ero pronto, francamente.
Non sapevo che fare. Mi sono limitato ad arrancare, nel mio pezzo su quel disco") crea un
impasto di accordi di chitarre acustiche ed elettriche, per concludere con la sua prima
canzone. Waters s'esibisce alla chitarra acustica per la sognante Grantchester Meadows e
recupera barlumi barrettiani per il collage sonoro d'un brano la cui parte meglio realizzata è il
titolo: Several Species Of Small Furry Animals Gathered Together Ih A Cave And Grooving
Wìch A Pict. Ma è Mason, fino ad allora in ombra come autore, a rivelarsi il solista forse più
avveduto. Il suo Grand Vizir's & Garden Party è un montaggio percussivo fantasioso e
solido, in cui il riferimento all'avanguardia è ben altro che velleitario. UMMAGUMMA,
peraltro, resta un episodio isolato, perché altre saranno le preoccupazioni del gruppo nei tre
anni successivi, e avranno a che fare soprattutto con il superamento della canzone.
Testa matta ride
Nel frattempo, la vicenda di Barrett è proseguita, con sviluppi da un lato prevedibili, dall'altro
decisamente singolari. Sorvoleremo qui su gran parte delle sue vicissitudini biografiche, che
hanno alimentato un mito duro a morire, per concentrarci sullo specifico musicale.
Il 13 maggio 1968, dunque, la carriera solista di Barrett vede il suo inizio ufficiale. È Peter
Jenner, uno dei due manager della Blackhill, a portare il suo protetto ad Abbey Road per
una serie di sedute d incisione. In due mesi vedono la luce composizioni di variabile
interesse e, soprattutto, completezza: Silas Lang, Late Night due strumentali intitolati Lanky
più un altro chiamato Rhaniadan; per la prima volta Svd tenta di mettere su nastro un'antica
idea, una versione cantata della poesia giovanile di Joyce Golden Hair, e azzarda una
nuova, impegnativa composizione dal provvisorio titolo Clowns & Jugglers. Il problema è
che Jenner aveva in mente un Barrett artista problematico e difficile, vero terrore degli
austeri tecnici di Abbe Road, ma non l'uomo tormentato e frammentato che ha di fronte.
Dopo un paio di mesi, abbandona ogni tentativo: Barrett non rivedrà più una sala d'incisione
fino all'anno seguente.
Per aggiungere qualche nota biografica, nel frattempo Barrett vive insieme a una coppia di
hippies che non trovano di meglio che nutrirlo letteralmente a tè e acido lisergico. ~
necessario un altro scompenso, che lo conduce a un breve ricovero psichiatrico a
Cambridge, per indurre Syd a cambiare collocazione. Nel 1969 dopo un soggiorno a casa
della madre, Barrett va a vivere, con il consenso dei manager, insieme all'artista pop Duggie
Fields. La vita meno sregolata sembra avere su di lui un buon effetto, tanto che il io aprile
1969 il chitarrista torna in studio, questa volta sorto la supervisione del giovane produttore
Malcolm Jones, suo ammiratore di vecchia data. deciso a Care di lui di nuovo un musicista
attivo.
Cominciano così a nascere le canzoni che costituiranno l'ossatura del primo album solista di
Svd Barrett, THE MADCAP LAUGHS: Love You, No Good Trying, Terrapin. oltre a un pezzo
di splendida desolazione, che inspiegabilmente non raggiungerà il pubblico prima del 1988:
Open. Jones recluta una settimana più tardi due musicisti per accompagnare Barrett, Willie
Wilson. ex bassista dei Jokers Wild di David Gilmour, e il giovanissimo barterista Jerry
Shirley degli Humble Pie, con i quali vengono incisi altri pezzi, No Man's Lande Here I Go
(anche se non va trascurato l'apporto su tre pezzi dei Soft Machine di Robert Wyatt e Mike
Ratledge, che sovraincideranno strumenti in Love You, No Good Trying e su una versione di
Clowns & Juggelers che sarà pubblicata solo anni più tardi).
Le registrazioni sono indubbiamente faticose. Barrett non lavora mai "con" il gruppo, ma
piuttosto da solo, senta neanche guardare i comprimari, che sono obbligati a cercar d'intuire
quando si verificheranno gli inevitabili cambi di tempo e di chiave che sono ormai una
costante dello stile barrettiano. Ne soffrono i pezzi, che mantengono un andamento
bizzarramente indeciso, proprio a causa dello scollamento del gruppo. Malcolm Jones è a
sua volta esausto quando propone a due ex colleghi di Barrett di subentrare alla produzione.
Roger Waters e (soprattutto) David Gilmour avevano assistito con interesse misto a
scoramento alle sedute di Jones e accettano di fornire tre giorni del proprio prezioso tempo
per completare l'album (la EMI sta ormai facendo pressioni per rientrare dei propri
investimenti, finora a fondo perso, sull'ex stella psichedelica). In tre giorni nasce una nuova
versione di Clowns & Jugglers, quella definitiva, reintitolata Octopus, più due canzoni
acustiche, quindi, a ritmo sempre più febbrile, altre tre canzoni acustiche, che andranno a
costituire l'ultima parte dell'album, tutte incise in un solo pomeriggio (il 26 luglio 1969).
Purtroppo la fretta è poco adatta alle peregrinazioni barrettiane, e gli ultimi pezzi prodotti dal
duo Waters/Gilmour si rivelano frammentari e inconclusi, con il rumore del leggio su cui
Barrett legge i testi, e in un caso (If It's In You) addirittura una falsa partenza e
un'interruzione. Ripensandoci, Gilmour disapproverà la propria stessa scelta: "Volevamo
immettere nel disco un elemento di autenticità per cercare di chiarire quel che stava
accadendo. Non volevamo essere crudeli, anche se in retrospettiva c e almeno una
canzone che preferirei non aver fatto".
Pubblicato nel gennaio 1970, THE MADCAP LAUCHS ottiene un successo certo non
travolgente, ma sufficiente a confermare Syd come artista dotato d'un suo seguito. La
EMI/Harvest non frappone pertanto obiezioni all'idea di Barrett (e di Gilmour, ormai divenuto,
forse per effetto dei sensi di colpa, il grande mentore dell'antico sodale). E Gilmour ad
accompagnare un terrorizzato Barrett a suonare in concerto e alla radio per promuovere il
disco; ed è sempre Gilmour, ormai suo produttore titolare, a rientrare con lui in studio pochi
giorni dopo la pubblicazione di MADCAP per lavorare a nuovi pezzi.
La disgregazione
Questa volta l'idea è di registrare un disco dall'inizio alla fine, con una sorta di gruppo
stabile: Barrett, lo stesso Gilmour al basso, Shirley alla batteria e Rick Wright alle tastiere.
Fin dall'inizio appare però evidente che la condizione di Barrett è in via di ulteriore
deterioramento. In anni successivi Gilmour ricorderà con autentica angoscia quei giorni,
come pure Jerry Shirley: "Lasciava che fossero tutti gli altri a seguirlo o a cercare di capire
quello che voleva, finché non se ne usciva improvvisamente con una spiegazione
chiarissima. Quando succedeva, sembrava normale fino all'intoppo successivo, e mi
chiedevo se ci stava semplicemente mettendo alla prova". Sta di fatto che, a parte pochi
pezzi suonati davvero in gruppo (i primi registrati, Maisie e Gigolo Aunt), la maggior parte
delle canzoni sono incise da Barrett alla chitarra acustica, con successive sovraincisioni del
gruppo, a volte compensatorie di sezioni lasciate incompiute dall'autore: come in Dominoes,
che Barrett tronca all'improvviso, e Gilmour e Wright completano con una bella tessitura
strumentale nel miglior stile di quel periodo dei Floyd.
In sei mesi di sofferenze l'album si completa, dando anche origine ad alcuni pezzi erratici e
inconcludenti, che riappariranno anni dopo nell'album OPEL. BARRETT, questo è il titolo del
disco, esce a novembre e ottiene un apprezzamento assai minore rispetto all'opera
precedente. Ma il problema maggiore è l'autore, che nelle apparizioni pubbliche si rivela
sempre meno capace di mantenere un Ho logico. Negli anni successivi, il suo unico legame
con il mondo dello spettacolo si ridurrà a visite periodiche negli uffici della casa discografica
per riscuotere i suoi diritti d'autore. Paradossalmente, è proprio nei primi anni '70 che la
stella, per molti versi già postuma di Barrett inizia a splendere: Bowie inneggia a Barrett nel
suo PINUPS, Kevin Ayers gli dedica una canzone, nasce persino una Syd Barrett
Appreciation Society, con un suo organo, la rivista Terrapin. A metà del decennio, più d'un
gruppo del nascente punlt lo vorrebbe come collaboratore o produttore (i Damned e gli
stessi Sex Pistols). A tutti Barrett, che in questo periodo vive (quasi da eremita,
vistosamente ingrassato e con la testa completamente rasata) nel residence londinese
Chelsea Cloisters, oppone nient'altro che un mutismo straniato.
Nel 1972, il batterista Twink e il bassista Jack Monck, incontrato Barrett a Cambridge,
ottengono la sua partecipazione a un gruppo chiamato Stars. L'unico concerto, come gruppo
di supporto per gli MC5 al Kìng's College Cellar di Cambridge. Il concerto è un disastro, il
Melody Makerlo massacra e un desolato Barrett lascia l'abborracciato gruppo. Ci saranno
ancora quattro sedute di registrazione nel 1974, dalle quali non uscirà nient'altro che
qualche sequenza di accordi mal combinati. Ci sarà, nel 1988, la pubblicazione di un album,
OPEL, costruito con i residui delle registrazioni dei due album ufficiali. Ma a questo punto
Syd Barrett è già da molti anni uscito definitivamente di scena.
L 'eredità
Nonostante un attività di durata assai breve, con risultati scarsi di numero e a tratti discutibili
quanto a compiutezza, Syd Barrett è un musicista amato e talvolta venerato, la cui opera è
stata a lungo contemplata e discussa. È indubbio l'influsso della vicenda biografica, della
progressiva dissoluzione d'un talento nella follia ma il senso della lettura di Barrett non si
esaurisce in questo.
Come testimoniano i tre album solisti, più ancora delle opere con i Floyd, la musica di
Barrett è sostanzialmente incompiuta: sia ad ascoltarlo sia a leggerlo, pare sempre che
Barrett stia per arrivare da qualche parte, stia per dire quel che è essenziale, ma che in
qualche modo non ci arrivi mai. Si crea così una costante tensione, un continuo
spiazzamento, in cui l'ascoltatore è insieme affascinato e deluso, preda dell'inquietudine.
Quella di Barrett è una forzata, involontaria poetica del frammento, in cui i concetti
(dissociati?) stentano a trovare nessi sequenziali: la storia promessa da una Love Song si
spezza brusca a metà, gelando le attese, le canzoni grezze come Feel o If It's In You
sembrano completamente inconcludenti.
Brani come Let's Split o Dolly Rocker, non a caso esclusi dalla discografia ufficiale e
recuperati soltanto in seguito, testimoniano bene questo risvolto dell'irrimediabile instabilità
barrettiana: idee ritmiche di bella sottigliezza, i già citati giochi armonici, un tessuto musicale
potenzialmente ricco, che non riescono a trovare piena coerenza, canzoni bruscamente
interrotte oppure stonate per metà. David Gilmour letteralmente ammattì per impedire al
proprio assistito di distruggere la sua stessa musica; non a caso canzoni come la biliosa
Ratso l'accidiosa Dominoes sono state salvate usando il primo nastro dimostrativo per
innestare le debite sovraincisioni.
Ma non è soltanto necessità patologica, la frammentarietà è in qualche modo costitutiva per
Barrett. Basti ascoltare la prima versione di Clowns & Jugglers, con i sofisticati Soft Machine
che faticano, sino a perdersi, a seguire i ritmi spezzati, interrotti e ripresi, i complessi cambi
d'accordo, gli accenti spostati di continuo da un Barrett frenetico. Le canzoni di Barrett
sembrano soffrire la possibilità stessa d'assumere forma compiuta. Solo in alcuni pezzi di
MADCAP c'è un tentativo di giocare con gli stili, dal blues alle canzoni da vaudeville al folk;
ma in seguito il catalogo di stili sarà perso e Barrett resterà solo con la propria impotenza
formale.
C'è anche un Barrett stranamente lirico, quello che appare nelle prime opere soliste: Opel
Terrapin, No Man 's Land con i loro ritmi più stabili, ma armonie e parole irrimediabilmente
plumbee. Ope! è un'elegia cupa e struggente, con testo melanconico, mentre le versioni
della joyciana Golden Hair e pezzi come Dark Globe mostrano una strana delicatezza.
Nel rapporto di Barrett con le parole sta forse la chiave migliore per la decifrazione
dell'artista. Man mano che la sua storia personale procede, il Barrett artista si aggrappa
sempre più alle parole, quasi fossero un legame estremo con il mondo dei codici condivisi,
della sanità mentale. Come quando cataloga impassibile i propri abiti in Vegetable Man; o
nel rigoglio verbale di testi come Octopus. Ma è palese che la sua vena visionaria si fa
progressivamente meno comprensibile, quelle che erano state magnifiche ambiguità
diventano incomprensibili assonanze: Wolfpack, per esempio, è un testo di decifrazione
ardua, Income Cigolo Aunt, come Rats la cui sezione finale sconfina nell'ins esatezza. Let's
Split sembra avere l'assonanza come unica guida. Fino all'estremo, toccante e drammatico,
di Word Song, in cui la voce monocorde di Syd si limita a elencare - ben evidenziando a
forza di staccati la mancanza di nessi - una serie di parole senza alcun rapporto reciproco (a
parte vaghe assonanze). Qui Syd Barrett sembra senz'altro fuori dal mondo dei significati.
Eppure gli archivi barrettiani, riaperti per l'ennesima volta nel 1993, riservano ancora delle
sorprese. Ad esempio, tre versioni di It Is Obvious (pezzo tra i più incisivi di BARRETT): la
prima riproduce la canzone nella forma finale, ma eseguita alla chitarra elettrica; la seconda
la trasforma in un blues alla Muddy Waters, con voce ruvida intonata un'ottava più in basso;
la terza, di nuovo alla chitarra acustica, ne fa una ballata lieve di sapore folk, con bello
spostamento di accenti. Tutto questo in un solo giorno, e proprio nel periodo in cui, a detta
di tutti i partecipanti alle registrazioni, Barrett manteneva con il mondo un contatto poco più
che larvale. Forse sta anche qui il fascino di Barrett: il confine tra patologia, creatività e
genio rimane, nel suo caso, impossibile da tracciare.
Prima di tutto, un'immagine (com'è inevitabile, trattando di Pink Floyd). L'immagine dei tanti
ritratti, delle infinite fotografie di concerto. Un impianto d'amplificazione, enorme, imponente,
mostruoso, circondato da pupazzi variopinti e schermi con sagome che S'arguiscono
animate. Al centro di tanto scenario, quattro omarini quieti, perbene, assai comuni, quasi
banali. Quattro uomini senza costume, senza atteggiamento recitativo, senza persona
scenica. In apparenza sommersi dai macchinari d'amplificazione e diffusione, i Pink Floyd
trionfano grazie alla normalità. Nel mondo variopinto del rock, è il grigiore a salvarli. E a
renderli diversi, autentici ghosts in the machine. Chi veda un filmato della loro vita
quotidiana vedrà persone per nulla notevoli, sempre vestite secondo i dettami del luogo
comune: pittoreschi nei tempi psichedelici, jeans e capelli lunghi negli anni informali, giacca
e cravatta dopo, quando il formalismo impera. Senza l'aura dell'eterna adolescenza spesso
imposta dal mito del rock. L'attempato David Gilmour degli anni '80 ostenta senza remore
pinguedine e fronte stempiata.
Il rosa nel loro nome - come sa chi abbia seguito il primo volume di questa storia per
canzoni - è entrato per caso, per puro gioco fonetico. Eppure ben si presta a rappresentarli,
colore medio e moderato, delicato e alieno dal dramma. Così è sempre stato il gruppo,
sfiorato qualche volta da eventi tristi o luttuosi, mai veramente toccato nella tranquillità
(esistenziale e sonora) che lo caratterizza. I Pink Floyd che queste canzoni ritraggono sono
ormai ben altra cosa dagli eroi psichedelici visti allo scadere degli anni '60. La musica, che
già s'è ammorbidita e addolcita negli anni successivi alla separazione dal fondatore Barrett,
evolve in suites sempre più complesse, diventando prima lenta e avvolgente, poi maestosa,
infine mastodontica, malata d'un gigantismo che affliggerà i loro ultimi spettacoli. Mai, però,
sarà turbata un'aurea medietà, che qualche volta saprà trasporsi anche in grandezza.
La ricerca della suite
I Pink Floyd che si affacciano sulla scena degli anni '70 sono un quartetto ormai ben
consolidato, che ha il suo centro musicale e umano nel bassista e autore Roger 'Waters, il
miglior musicista, nel chitarrista David Gilmour, mentre Nick Mason e Richard Wright
evolvono insensibilmente verso un amabile anonimato. Il gruppo è però ambizioso,
insoddisfatto della dimensione ristretta della canzone. E quell'inquietudine che lo spingerà
per anni a cimentarsi con progetti sempre più ambiziosi, dapprima suites, quindi grandi
opere concettuali.
Già A SAUCERFUL OF SECRETS aveva indicato l'amore dei mancati architetti per le forme
complesse, con uno svolgimento articolato. L'idea di un rock d'ampio respiro, del resto, è
ben viva in tanti gruppi inglesi dell'epoca, anche se spesso risolta con idee
pseudosinfoniche di gusto alquanto discutibile. La scelta dei Pink Floyd è, almeno da
principio, differente. Prima di SAUCERFUL viene un'embrionale suite, mal conosciuta
perché mai approdata alla registrazione. Si tratta in realtà d'una semplice giustapposizione
di canzoni e intermezzi strumentali:
The Man, che nelle intenzioni del suo artefice Roger Waters vuoi essere la descrizione della
giornata d'un uomo medio contemporaneo, e che si giova anche almeno nelle prime
rappresentazioni di supporti visivi e rumoristici, con il gruppo a mimare in scena risvegli e
colazioni. The Man, che ha una durata complessiva di circa quaranta minuti, è utilizzato
come introduzione ai concerti del periodo 1969-70, per essere infine abbandonato.1 A parte
alcune canzoni preesistenti, l'unica sezione di The Man ad arrivare su disco è Daybreak,
pubblicata su ATOM HEART MOTHER sotto il titolo Alan 's Psychedelic Breakfast. Dopo un
secondo analogo tentativo, The ]ourney, i Pink Floyd sono pronti per progetti più ambiziosi.
Atom Heart Mother, pubblicata nel 1970 come brano guida dell'album omonimo, sembra
condurre il gruppo negli ambigui territori del rock classico, con orchestra e coro a
contrappuntare il quartetto rock. Ma prima che lo scozzese Ron Geesin - che già aveva
collaborato con Waters nella bizzarra colonna sonora del film The Body - ne curasse
l'orchestrazione scrivendone anche la magniloquente ouverture, Atom Heart Mother pareva,
a detta di Gilmour, un tema da film Western con sequenza d'accordi". Tema la cui prima
versione si dice fosse stata improvvisata da Waters e Mason con il solo ausilio di basso e
batteria.
Spogliata del rivestimento orchestrale, dei giochi stereofonici tentati con i cori, Atom Heart
Mother rivela un'intima inconsistenza, appena diminuita da un discreto lavoro di Gilmour e
Wright. Maggior coesione ha invece la suite dell'anno successivo, Echoes, anch'essa posta
a occupare una metà dell'album corrispondente, MEDDLE.
Echoes nasce dall'ennesima crisi creativa, che i Pink Floyd cercano questa volta di risolvere
provando nuove tecniche di composizione, come registrare i nastri di base uno alla volta,
senza ascoltarsi a vicenda. "Alla fine di gennaio [1971], riascoltammo quel che avevamo
inciso e ci ritrovammo con trentasei diversi frammenti, che a volte avevano una relazione gli
uni con gli altri, a volte no. Echoes fu costruito con quelli" ricorda Gilmour. L'architettura del
pezzo è più compiuta, un tema iniziale ripreso più volte con diverso arrangiamento e tempo
lievemente alterato, mantenendo insieme unità stilistica e varietà d'ambientazione. E
sempre accurato il lavoro sui suoni: la nota di piano che apre e chiude il brano è stata
attentamente studiata, dopo essere nata per caso dall'inserimento del piano in un'unità eco
Binson. E c'è qualche raffinatezza, come questa citata da Gilmour: "Considerate il coro
finale, l'infinito coro di fondo. Esistono effetti musicali attraverso i quali una melodia sembra
continuare... come nei disegni di Escher, dove le scale salgono salgono e non arrivano da
nessuna parte. Be', c'è una melodia che continua a essere suonata, e ancora e ancora, e al
tempo stesso sale verso frequenze più alte, in modo quasi impercettibile, e non arriva da
nessuna parte. Così è il coro di Echoes alla fine". Va dato atto a Gilmour d'aver
definitivamente affinato per questo album il proprio stile di chitarra, che gli permette
magnifici passaggi solisticì.
Le canzoni, in questi dischi, sono relegate in posizione secondaria rispetto alle suites e poco
aggiungono alla figura degli autori, di cui non fanno che delineare meglio le preferenze
musicali: intimismo per Waters, country rock per Gilmour, canzone classica o cocktail Jazz
per Wright. A parte forse l'accordo in Sol maggiore di chitarra acustica, fuso con il coro
(autentico) di tifosi del Liverpool, a sottolineare il testo coraggioso e sconsolato di Fearless.
Oppure l'ostinato di basso e il crescendo inquieto di One Of These Days, che testimonia una
seconda modalità compositiva: "I dischi rendono le improvvisazioni del giorno in cui ci
troviamo in studio, e possono essere d'un genere diverso da quello che proponiamo in
pubblico. Un pezzo come Gite One Of These Days è stato composto in un quarto d'ora"
(Gilmour).
Interludio cinematografico
A dispetto delle proprie stesse ambizioni, Roger Waters resta per tutto il periodo ricordato
un ottimo autore di canzoni. Ma le migliori, escluse dai dischi ufficiali, le riserva alle colonne
sonore di due film del regista francese Barbet Schroeder, More (1969) e La Vallée (1972). I
film, in sé per sé non sono granché, impregnati come sono di moda hippy all'europea; ecco
come li vede Fred Dellar, critico del New Musica/Fxpress. More: "Studente tedesco a Parigi
coinvolto da droghe e da una storia d'amore con ex lesbica, in un risibile melodramma che
tenta di provare che la droga uccide". LA VALLEE. "Graziosa hippytudine d'un ricco
capellone e dei suoi amici, che in Nuova Guinea cercano una valle nascosta, diventando
selvaggi lungo la strada. Quanto radicale, quanto chi?'. Eppure le colonne sonore sono
buona palestra per scrivere canzoni dolci o lasciarsi andare a godibili improvvisazioni di
blues, senza l'assillo di comporre la "grande opera". Waters, con Cymbaline o Free Four,
scrive testi di sicura presa, ricchi di visioni secondo una mai soppressa cifra stilistica del
gruppo, ma d'un immaginario sempre meglio disposto e controllato. In Free Four s'inserisce
per la prima volta il correlato autobiografico del padre di Waters ucciso in guerra, che tanta
parte avrà in THE WALL e THE FINAL CUT.
In contrasto con l'apprezzamento incondizionato di Barbet Schroeder stanno le difficoltà
incontrate dai Pink Floyd in altri progetti culturali voluti da un Waters irrequieto quanto
velleitario: ore e ore di sedute in uno studio di Roma di fronte ad Antonioni, per la colonna
sonora di Zabriskie Point, non partoriranno che il topolino dì tre pezzi alquanto anonimi. Poi
verrà il tentativo di comporre un balletto su temi della Recherche proustiana, che nessuno
dei quattro riesce a leggere, seguito da quello di scrivere la colonna sonora d'un cartone
animato di Alan Aldridge, Rollo, che non vedrà mai la luce per problemi di bilancio.
Saranno forse queste frustrazioni accademiche, o forse il ritrovato agio delle canzoni, come
sempre composte rapidamente, d'istinto; in ogni caso, nell'autunno del 1972 i Pink Floyd
tornano a incidere canzoni. Questa volta, però, come parti d'un progetto complesso e
articolato.
Il lato oscuro
La fortuna commerciale di THE DARK SIDE OF THE MOON, ottavo album dei Pink Floyd,
ne ha forse offuscato le qualità artistiche. Ma il successo enorme, le vendite cospicue
quanto persistenti, mutano vita e personalità del gruppo, e in un certo senso anche il
rapporto tra i suoi membri e il mondo, come ha osservato, quasi scusandosi, Rick Wright nel
1974; "Mi ha cambiato in tanti sensi, perché ha portato un mucchio di soldi, e ci si sente
assai sicuri di se se si riesce a vendere un disco per due anni. Ma nonostante il suo
successo, non è stato fatto in maniera diversa dagli altri nostri album... certo, sapevamo che
aveva più melodia dei precedenti, e c'era una concezione unitaria che lo percorreva
dall'inizio alla fine. La musica era più facile da assorbire, e la presenza di voci femminili
supplementari aggiungeva un tocco commerciale che nessuno degli altri nostri dischi
aveva".
Eppure, quando il gruppo si riunisce in uno studio di West Hampstead nel gennaio del 1973
le idee sono poche e l'unica canzone già pronta è Us And Them, scartata da Zabriskie
Point. Secondo i ricordi di Gilmour, "ci ritrovammo in una sala prove, e Roger se ne uscì con
l'idea di parlare di tutto quanto può portare la gente alla pazzia". E Waters sceglie di farlo
usando, dice, "un tema che corra per tutta l'opera, la vita esemplificata dal battito del cuore,
e così via. Ma anche altro, tutte quelle pressioni che sono anti-vitali...", Con sole e luna a
simbolizzare "vita e morte, luce e oscurità" ("And everything under the sun is in tune / But
the sun is eclipsed by the moon") Waters elenca i modi e i tempi di quella che in Time
definisce una "quieta disperazione, al modo inglese". Che, sul finire dell'opera, in panorami
sempre più sconsolati, sfocia nella follia d'un lunatic che ricorda da vicino il sempre
incombente Barrett. E un Waters già amaro, sarcastico a tratti. ma senza gli eccessi che
guasteranno certa sua produzione successiva. lì gruppo lo segue bene, con musicalità
morbida, sintetizzatori discreti e ampie aperture di slide guitar o di sognante chitarra solista.
Sono canzoni fatte d'un rock semplice per quanto sofisticato, prodotto con scrupolo
esemplare da Alan Parsons, che ottiene una perfetta presenza dei suoni registrati. Sfuggire
alla pompa sinfonica giova ai Floyd, che ritrovano vena abbandonandosi alla modestia.
E c'è spazio anche per qualcosa d'inconsueto, quella Money che è probabilmente il primo
singolo di successo su ritmo di 7/4, annunciato da un iniziale montaggio percussivo di
registratori di cassa (ottenuto con certosina pazienza, sincronizzando Ummenti di nastro):
"Avevo una melodia su quei 7/4, e sapevo che nell'opera ci doveva essere una canzone sui
soldi, e pensavo che la melodia potesse diventare una canzone sui soldi. Deciso questo, è
stato d'una facilità estrema costruire un'introduzione in 7/4 che le si adattasse. Spesso
penso che le migliori idee siano le più ovvie; quella è una cosa d'una fantastica ovvietà,
perciò suona così bene" (Waters). Non è tutto dolce per questi Pink Floyd attesi al fasto
dell'ovvietà.
Il successo è arduo da vivere, specie se sofferto. Così per due anni i Floyd si raggelano,
privi d'idee e voglia d'averne, quasi stanchi d'essere un gruppo. Provano a incidere un
album di musica non musicale, quasi uno sberleffo per quel rock che lì sta ingabbiando, con
elastici e bombolette d'aerosol al posto degli strumenti, ma lo abbandonano dopo aver
arrancato per tre pezzi. Insistono con i concerti, innumerevoli e sempre più colossali,
ricavandone denaro e seguito ma anche stanchezza ed esasperazione. Rientrano infine in
studio nei primi mesi del 1975. Faticosamente nascono tre brani, assai lunghi: Shine On
You Crazy Diamond, Paving And Droolinge You Gotta Be Crazy, che sono immediatamente
portati in tournée per ricevere fiedback dal pubblico. Quello che insiste nelle registrazioni,
con rifacimenti continui, è un collettivo di uomini "mentalmente malati" (Mason); eppure
emerge pian piano la struttura d'un album. Crazy Diamon4 che ormai ha raggiunto una
durata di venti minuti e oltre, ne occuperà la massima parte, mentre gli altri due brani
saranno eliminati in favore di canzoni più brevi e più vicine al tema del disco, che si
chiamerà WISH YOU WERE HERE: l'abbandono.
Shine On You Crazy Diamond è infine suddiviso in due parti, tra le quali s'inseriscono
wélcome To The Machine, glaciale pulsazione elettronica con interpunzioni di chitarra
acustica, Have A Cigar, straight rock serrato affidato alla voce di Roy Harper, e Wish You
Were Here, ballata watersiana bella e sconsolata. Ed è su Crazy Diarnond che poggia la
globalità dell'album. La suite, che appare più che altro una canzone enormemente dilatata, è
apertamente dedicata da Roger Waters a Syd Barrett: "Quella canzone parla di lui.
L'insieme del disco parla dell'assenza, d'un genere o dell'altro, e la sua follia ne era un
grande, impressionante esempio". Tutta costruita a partire da un'elementare frase di quattro
note, suonata da Gilmour alla chitarra, s'avvale di tastiere ambientali, sintetizzatori che si
stratificano costruendo una sorta di delicato wall of sound (e che saranno l'ultimo rilevante
contributo di Wright a un'opera dei Floyd). Il tema, di per sé quasi risibile, è ripreso con una
serie di variazioni: prima un assolo di sintetizzatore, poi di chitarra, poi di sassofono; quindi il
tema è cantato, ripreso su base di basso percussivo, ricantato, ripreso da strumenti ritmici,
fino a concludere con una ripresa dell'iniziale nota di sintetizzatore. La tecnica è ancora
quella di MEDDLE, qui però affinata e messa al servizio d'un testo che per una volta è lutto
e rimpianto vero.
"Non so perché ho iniziato a scrivere quel testo su Syd. Credo sia stato perché quella frase
di Dave suonava come un estremo rimpianto. Sono triste per Syd. Non lo sono stato per
anni. Per anni, penso, Syd è stato una minaccia, per via di tutte quelle balle scritte su lui e
noi. Naturalmente è stato molto importante, e il gruppo non sarebbe mai partito senza di lui,
che scriveva tutto il materiale. Non sarebbe mai successo nulla senza di lui, ma d'altra parte
non saremmo mai andati avanti con lui. Ma quando arrivò alle sedute di WISH YOU WERE
HERE - fatto ironico di per sé - vedere quest'uomo grosso, grasso e matto... il primo giorno
in cui arrivò io ero in lacrime" (Waters). Per ANIMALS, posteriore di altri due anni, i Pink
Floyd recuperano i due brani scartati da WISH YOU WERE HERE, You Gotta Be Crazye
Paving And Drooling. Sono ribattezzati però Dogs e Sheep per adattarli alla metafora
animalesca dell'album, in cui Waters vuoI rispecchiare l'umanità in figure quasi orwelliane di
animali: cani, porci pecore. La musica stessa risulta modificata, per meglio aderire ai testi,
ormai apertamente cupi, aggressivi e dissociati, tanto da far coniare a Karl Dallas l'epiteto di
"Pink Floyd". Perché Waters coglie anche, nelle parole più che nei suoni, un segno dei
tempi. Il 1977 è l'anno del punk e della sua protesta rabbiosa e destruente; il che permette al
bassista, ormai misantropo, di sfogare un livore che pare diretto a tutta l'umanità, appena
mitigato dalla breve dichiarazione d'amore di Pigs On The Wing, che incornicia con le sue
piccole note da folksong le tre canzoni dell'album. Di canzoni lunghe si tratta, non più di
suìtes. Dove un avveduto uso degli strumenti consente di dilatare i tempi degli intermezzi tra
le parti cantate, ricamando su una o due note e giocando molto sulle sonorità. Tutto ciò
porta a inevitabili fasi prolungate di stanchezza e ripetizione, com'è spesso accaduto alla
banda quando ha voluto abbandonare la forma rock. Cui ancora tornerà, ma in maniera
questa volta irrimediabilmente influenzata dall'amarezza quasi paranoide di Roger Waters.
Interludio concertistico
Fin dai tempi dell'UFO Club i Pink Floyd s'erano distinti per l'attenzione ai supporti scenici
durante i concerti. Il primo lightshow del gruppo era stato l'impianto raccogliticcio messo in
opera da un paio d'americani durante uno dei concerti alla Roundhouse. L'idea d'illustrare i
suoni tramite immagini astratte in movimento intrigò immediatamente Barrett, ancora fresco
di studi artistici. Ne derivarono rudimentali marchingegni, legno di balsa e vecchi
condensatori, dapprima messi in opera dai versatili Jenner e King, quindi da un tal Jo
Cannon, transfuga del Politecnico, assurto così alla leggenda dell' underground. Poche
diapositive liquide bastavano a destare i sensi gia iperstimolati nelle cantine londinesi; ma
ben altro serviva alla multimedialità d'un gruppo con pubblico internazionale. Così, insieme
alle dimensioni dei concerti, crescono per i Pink Floyd gli ausili extramusicali. Resi
necessari, tra l'altro, dalle scarse attitudini eroiche degli interessati. Se un Hendrix o un
Jagger erano spettacolo nel loro stesso esser sul palco, personaggi statici e alquanto
legnosi come Waters e Gilmour non s'offrono al pubblico come degni supporti di fantasie o
identificazioni. Entrano così in campo giochi di luce sempre più complicati, poi laser, poi
pupazzi e manichini, poi addirittura animazioni proiettate su schermi circostanti il
palcoscenico. Le dimensioni sono ormai quelle dell'evento rock", stadi traboccanti e tripudio
di folla, mentre luci e filmati ottundono lo spirito critico. Gli stessi Pink Floyd restano
perplessi di fronte agli osanna tributati alla "prima" di certi loro spettacoli, musicalmente
ancora disuniti e raffazzonati (i Pink Floyd hanno sempre modificato e affinato le loro
musiche nel corso delle tournées; i nastri illegali delle prime presentazioni di Crazy Diamond
svelano Waters, Gilmour e Wright impegnati in stonature invereconde del corale). Ma il
gigantismo degli spettacoli è anche fonte di frustrazione per gli stessi artisti. E nel corso
della massacrante tournée del 1975 che Roger Waters concepisce l'idea di erigere un muro
tra sé e un pubblico vissuto in modo sempre più persecutorio. E proprio nei concerti che
deriveranno dalla musica di quel muro Waters arriverà a far suonare un secondo gruppo,
mentre i quattro Pink Floyd si limitano a cantare e a stare sul palco. E una presa di
posizione ambigua, sospesa tra dissacrazione e disimpegno. Ma l'ambiguità è caratteristica
del gruppo nel periodo in cui vede la luce THE WALL.
A proposito di muri
Roger Waters è in genere descritto come uno schivo misantropo, professionista
irreprensibile e uomo freddo, per quanto sensibile e -specie nei tardi anni '70- sottilmente
paranoico. Man mano che i suoi testi crescono d'importanza, la necessità d'espressione
autobiografica acquista intensità crescente, da ultimo irrefrenabile. Risultato finale d'una tale
urgenza è il coinvolgimento dei Pink Floyd in un ambizioso progetto multimediale, sorta di
catarsi personale dai mali del rock. L'opera assumerà dapprima la forma d'un lungo album,
poi d'una serie di concerti d'inusuale ricchezza teatrale, infine d'un film: Per meglio chiarire
l'atmosfera dell'opera, riporto per esteso la smossi ufficiale del film: "Pink, un cantante di
R&R, se ne sta chiuso in una stanza d'albergo, da qualche parte a Los Angeles. Troppi
spettacoli, troppa droga, troppi applausi; un caso bruciato. Alla TV, un film di guerra fin
troppo familiare tremola sullo schermo. Confondiamo tempo e spazio, realtà e incubo, man
mano che ci addentriamo nei ricordi dolorosi di Pink e nell'inevitabilità della sua pazzia.
"Il nostro eroe è un bimbo nato durante la Seconda guerra mondiale nello stesso momento
in cui suo padre è ucciso in servizio nella battaglia di Anzio, per cui Pink cresce senza mai
conoscerlo. Sua madre dedica la vita al figlio e compensa la perdita del padre soffocando
Pink con il suo amore.
"Pink frequenta scuole che mirano a soggiogate i bambini invece di educarli. E esposto a
insegnanti che castigano e reprimono i bambini cercando di liberare le proprie miserabili
frustrazioni. La sua risposta a simili esperienze alienanti è di costruire lentamente un 'muro'
difensivo intorno ai propri sentimenti, per proteggersi da ulteriori ferite. Pink sposa la
fidanzatina della sua infanzia perché è convenientemente disponibile. "lì ragazzo è
cresciuto, è diventato cantante di R&R, suona in un gruppo, attratto dal 'potere della fama'
che lo aiuta a liberarsi dalle tormentose sensazioni di distacco, non solo da moglie o amici,
ma anche da se stesso. E una vita di ritorni in diminuendo. Come un tossicomane con la
sua droga, Pink necessita di crescenti dosi di applausi.
"Ma non è mai abbastanza. Le interminabili separazioni rendono il muro tra Pink e sua
moglie sempre più alto, finché non accade l'inevitabile - mentre lui è in tournée, lei
s'innamora di un altro uomo. L'ultimo mattone nel muro di Pink.
"Pink si chiude a chiave nella sua camera con una manciata di pillole e una groupie.
Distrugge i mobili e spaventa la ragazza fino a farla fuggire. Infine solo, drogato e con la TV
come unica compagnia, si ritira sempre più in sé, il muro è ora completo. In totale
isolamento dal mondo reale, la sua immaginazione vaga ai limiti estremi del suo incubo: le
sue paure peggiori, la probabile pazzia.
"S'immagina come un gelido demagogo, cui non è rimasto che l'esercizio del potere sul
proprio pubblico, incapace sia di pensare sia di curarsi di lui. Il suo manager, come sempre
preoccupato del prossimo spettacolo, irrompe nella stanza e un medico recupera Pink quel
tanto che basta a trascinano fuori dall'albergo e dentro la sua limousine. Ma Pink è ormai
lontano. E selvaggiamente allucinato, mentre il mondo svanisce, e s'immagina uno
spettacolo malefico, una Norimberga
R&R, in cui è lui il capo: l'accumulo degli odiosi eccessi del suo mondo e del mondo intorno
a lui. "È troppo per il suo nucleo di sentimenti umani, e Pink si ribella. BASTA! Segue il suo
auto-processo interiore, ove i testimoni della sua vita passata, le stesse persone che
avevano contribuito alla costruzione del muro, s'avanzano a testimoniare contro di lui. La
sentenza è che Pink deve 'abbattere il muro' prima che l'isolamento lo sprofondi nella
disgregazione morale dei suoi incubi."
Questa la base narrativa prima dell'album, poi del film. Forse discutibile, certo solida (e
vissuta). Così solida, purtroppo, da prevalere su qualsiasi idea musicale. La musica entra
totalmente al servizio del testo, non più pittorica né d'atmosfera, ma ormai a sua volta
"narrativa (in questo senso, THE WALL merita la denominazione di opera rock). Ma manca,
nella musica, un'unità stilistica, un'idea guida sonora. Troppi sono gli stilemi presi a prestito,
dalla disco music al country e al folk, fino all'elettronica e al rock forte, sinfonico
dell'apertura. Ma priva d'un principio unificante, questa musica rischia il pastiche stilistico.
Non basta, a pareggiare le ambizioni, l'emergere di qualche finezza, come la ripresa delle
frasi tematiche (ce ne sono due, I' Ooh Babe che ricorre fin dal secondo brano e il tema di
Another Brick In The Wall, che oltre che nelle tre versioni del pezzo torna anche in Hey You,
Waiting For The Wormse The TriaI). Alcune canzoni mostrano buona caratura, e la chitarra
solista di Gilmour ha il pregio consueto. Ma la musica è senza autonomia, è come affondata
nelle tante parole che affollano l'opera, e non l'aiutano la sezione ritmica troppo pesante né
l'orchestra pomposa voluta dal produttore Bob Ezrin. Probabilmente era ambizione di
Waters creare qualcosa che si ponesse al di sopra e al di là del linguaggio del rock,
un'opera in cui i tanti stili fossero un modo di disquisire sul rock, ponendosi in posizione
metalinguistica. Sembra però che le capacità non stiano alla pari dei desideri, che manchi la
profondità di Frank Zappa o Brian Eno, o degli stessi Beatles del 1968. Forse la chiusura di
In The Flesh voleva essere la riscrittura metalinguistica dei vecchi Pink Floyd; così com'è,
sembra la loro caricatura.
Quanto al testo, è amaro e sarcastico quanto la narrazione, assai più del già agro
ANIMALS. L'ironia di Waters ha perso la levità e la grazia di THE DARK SIDE OF THE
MOON, è ora appesantita, inequivocabile e quasi imbarazzante. Non stupisce che la tirannia
di THE WALL (e del suo creatore) inizi a dispiacere a qualcuno, all'interno stesso del
gruppo. Richard Wright si disimpegna dall'incisione, suonando tastiere incolori e anonime,
fino a esser spesso Sostituito da altri strumentisti di passaggio. E nella tournée che segue,
partecipa già nelle dimesse vesti di sessionman: dopo oltre dieci anni, il quartetto s'è
smembrato.
Tutto ciò non sembra essere avvertito minimamente dal pubblico, che decreta a THE WALL
un successo enorme, mitico. Waters, incontenibile, procede immediatamente alla
produzione del film, che condurrà in porto in un paio d'anni tra mille liti con il regista. E il film,
a sua volta, susciterà entusiasmi ulteriori, con i suoi disegni animati che portano sullo
schermo tutto quanto era stato finora visibile ai pochi privilegiati che potevano permettersi
un concerto dei Pink Floyd.
Reduce dai trionfi, Waters prosegue, di lì a un paio d'anni, la sua personale saga di
reminiscenze, che pare rivolta a dimenticare l'ombra del padre scomparso in guerra
(ovviamente nella battaglia di Anzio). Il tassello successivo di queste affermazioni sempre
più solipsistiche si chiama THE FINAL CUT, opera che sembra davvero mettere la parola
fine alla vicenda dei Pink Floyd.
THE FINÀL CUT abbandona definitivamente il formato rock - già messo in dubbio da THE
WALL - e anche il formato quartetto: non solo per la fuoruscita di Rick Wright, ma anche e
soprattutto per la predominanza del dialogo tra voce e orchestra (antica passione) in cui la
strumentazione elettrica interviene più che altro per punteggiare gli stacchi ed enfatizzare
certe sezioni. Non c'è unità ritmica, frammentata da cambi di tempo continui, né c'è il tono
costante del rock, in quest'opera che preferisce alternare pianissimi e fortissimi. Waters
dialoga con se stesso, non a caso la voce mantiene un registro sommesso e sussurrato,
quasi esausto, a suggerire l'estremo approfondimento d'un intimismo nato ai tempi di
Grantchester Meadows. La musica è anche qui alla ricerca di referenti, si richiama a forme
tradizionali quali ballate, Iulabies, soul music, persino cabaret, giocando spesso su melodie
complicate, che tradiscono la necessità di attenersi al testo: pochi album di rock sono
programmati come THE FINAL CUT. Anche il soul, che pretenderebbe istinto, è piegato alle
necessità dello scritto. Che Waters vuole per sé solo: Nick Mason si ritaglia uno spazio
soltanto per suggerire la ripresa del tema di Maggie, What Have We Done, che diventa leitmotiv dell'opera, mentre Gilmour lavora quasi da ospite, marginale quanto nelle canzoni di
Bryan Ferry (di cui diventa proprio in quei giorni collaboratore). THE FINAL CUT è davvero il
taglio ultimo. L'anno successivo sia Waters sia Gilmour S'impegnano in opere soliste, l'uno
per esplorare ulteriormente il proprio pessimismo, l'altro per cercar respiro in più semplici
canzoni. Waters non ha più bisogno d'un gruppo; e nel 1985 ne sancisce unilateralmente la
fine, dichiarando conclusi i Pink Floyd.
Interludio personologico-musicale
Pink Floyd, nel decennio che separa l'allontanamento di Barrett da THE WALL, è la
risultante delle arti e della personalità di quattro uomini. Prima era stato il supporto delle
fantasie di Syd Barrett, dopo THE WALL lo sarà di quelle di Roger Waters. Introverso e
sommesso, Waters si rivela guida nei momenti di passaggio quando è lui a dar le direttive
per superare le crisi. Gilmour gli somiglia nel professionismo, ma è uomo più socievole e
fattuale, deciso e a tratti ruvido, certo più a suo agio nel ruolo di rockstar controvoglia.
Richard Wright sta al margine, tra mille velleità classicistiche, e lascia sbiadire la propria
figura con il passare degli anni. Nick Mason è forse il più saggio: distaccato dal gruppo e dal
crescente alone di grandezza, ama sperimentazione e avanguardie sonore, ma non tanto da
disprezzare la sicura rendita del marchio Pink Floyd, cui continua a fornire una batteria
sicura e forte.
Le caratteristiche musicali dei Pink Floyd postbarrettiani sono più difficili da tratteggiare,
forse anche per le carenze innovative del quartetto, con gli anni sempre più evidenti.
Dimessi i panni dei ricercatori di suoni, ingenui ma inventivi, i Floyd si rivelano prima della
metà degli anni '70 un gruppo di rock alquanto tradizionale. Il cui carattere saliente è
l'adozione "d'una sorta di ritmo a quattro quarti lento. E l'altra cosa è prendere una linea
melodica e frustarla fino alla morte. Può darsi che una volta la suoniamo lenta e quieta, la
volta dopo un poco più dura, la terza più pesante". Sono considerazioni di Mason, a
proposito del "cliché Pink Floyd", che tratteggia con ottima sintesi il suono del gruppo fino ad
ANIMALS.
Come le migliori intelligenze del rock, i Pink Floyd sono maestri d'economia strumentale.
Sanno sfruttare con cura i mezzi tecnici non sempre eccelsi, fino a cavarne effetti che
prendono forza dalla propria stessa semplicità, come gli assoli del primo Richard Wright,
elementari e immaginifici. O come le linee di basso di Watets: la linea di due (due) note che
sta alla base di See Emity Play (1967) torna, appena rallentata e trasposta, in Careful With
That Axe, Eugene (1968), ricomparirà in brevi sezioni di Shine On You Crazy
Diamond(1975) per concludere la propria vicenda in Sheep (1977), con longevità
decennale.
Nick Mason stesso sa dar personalità alla sua pigra batteria dal rullante robusto, un poco
con l'abitudine di tenere il tempo sul crash (accentuando così al massimo il battete
scandito), un poco con una figura terzinata che pone a mo' di firma in apertura a tutti gli
album, da UMMAGUMMA fino a THE WALL. Quanto a David Gilmour, suo è l'onere del
lavoro strumentale più fino, imperniato su una chitarra solista agile, dalle forti tinte blues,
carica d'indimenticate reminiscenze hendrixiane. I suoi timbri saturati sono rimasti il vero
marchio dei Pink Floyd, anche fino a THE FINAL CUT. Non è sorprendente, allora, che sia
proprio Gilmour il più riluttante a metter fine alla ditta.
Pink Floyd terzo
Nel 1985, dunque, poco è rimasto di quelli che furono i Pink Floyd. Barrett vive con la madre
a Cambridge dimentico della musica e forse del mondo. Wright cerca di ritrovare ispirazione
in qualche disco svagato. Mason ha affidato il proprio presunto album solista a Carla Bley,
che ne ha fatto una squisita operina di jazz eccentrico - ove il contributo di Mason è quasi
impercettibile. Roger Waters s'aggira nei meandri della sua autobiografia e giudica Pink
Floyd un residuo fastidioso. Ma David Gilmour non sa trovar pace nel lavoro di chitarrista di
Bryan Ferry.
"Avevo tanto lavoro da fare come Pink Floyd, e non capivo perché abbandonare il nome del
gruppo." In breve, Gilmour e Mason decidono di chiamarsi ancora Pink Floyd, scontrandosi
con la decisa opposizione di Waters, che vuole il gruppo morto al suo comando. La
controversia finisce in tribunale (fatto questo che non contribuisce certo a smorzare i tratti
paranoici di Waters), perché la Pink Floyd Music, ragione sociale del gruppo, è ancora di
proprietà dei quattro a pari titolo. Per quanto molta critica internazionale si metta dalla parte
di Gilmour, anche per via della nota scontrosità e antipatia propria di Waters, va detto che
(da un punto di vista squisitamente artistico) non ha torto quest'ultimo a sospettare che Pink
Floyd abbia perso definitivamente la propria spinta propulsiva. Aneddoticamente, si può
ricordare un dibattito televisivo indiretto tra Gilmour e Waters, dove all'aspetto sciatto e
obeso, agli occhi liquidi del chitarrista si contrapponeva un Waters asciutto e intelligente,
con occhi guizzanti d'ironia. Infine il duo Gilmour-Mason vince il duello legale e acquisisce il
diritto a risuscitare il nome celebre. Che debutta nell'autunno del 1987, con un album
intitolato A MOMENTARY LAPSE OF REASON, mentre a Waters, piccato, non resta che
uscire quasi in contemporanea con il suo RADIO KAOS.
A MOMENTARY LAPSE OF REASON è opera in netta discontinuità rispetto alle precedenti.
Con Waters se n'è andata l'orchestra, è scomparso il tema unitario e anche il basso,
sostituito da un Tony Levin impeccabile quanto mercenario. Gilmour può infine sfogare la
chitarra in meritevoli assoli, non più imbracati da un copione, anche se la base del disco non
è chitarristica, forse perché composta con l'ausilio di un personal computer al posto del
registratore. Ci sono atmosfere tecnologiche, ritmi forti e uso di rumori registrati, nella
migliore tradizione del gruppo. E c'è anche quella chitarra così sognante, forse la più sentita
dai tempi di WISH YOU WERE HERE. Poco di nuovo, quasi nulla. I Floyd di Gilmour sono
un gruppo borghese, tranquillo, pago di costruire le atmosfere consuete, di raccontare sogni
e, perché no? qualche incubo.
Di concerti vecchi e nuovi
Gli ultimi anni '80 sono un periodo relativamente attivo per i vari membri dei Pink Floyd.
Sotto la guida di Gilmour, Nick Mason deve abbandonare le amate auto da corsa, e Richard
Wright le anche più amate isole greche, per confluire in una serie quasi infinita di concerti in
giro per il mondo. Ne deriverà anche un album doppio, il primo dal vivo per i Floyd dai tempi
di UMMAGUMMA. DELICATE SOUND OF THUNDER mostrerà che cosa è diventato
l'antico gruppo ambizioso nelle mani di Gilmour: una perfetta multinazionale del
divertimento, con tutti i suoni al posto giusto, tutti i debiti effetti speciali, una serie di
comprimari strumentalmente impeccabili e capaci anche di rimpiazzare i titolari (ormai né
Mason né Wright hanno più allenamento e voglia per reggere un intero concerto, e sono
così affiancati da un batterista e un tastierista di rincalzo).
Ma va ricordato che anche l'antagonista Roger Waters trova il modo di riproporsi
all'attenzione delle folle, dopo anni di oscurità. Lo fa con una versione della "sua" THE
WALL, offerta in mondovisione proprio dai residui del distrutto Muro di Berlino, con ospiti di
sicura presa spettacolare, da Van Morrison alla Band, da Cyndi Lauper a Sinéad O'Connor,
da Brian Adams a Jonì Mitchell. Se non dal punto dì vista creativo, da quello spettacolare i
Pink Floyd si dimostrano pronti alloro quarto decennio di esistenza.
Conclusioni provvisorie
Quale cifra, quale chiave di lettura per orientarsi sui Pink Floyd? Vediamo: l'immagine, prima
di tutto; i Floyd sono all'inizio gli immaginifici del rock. Loro connotazione di base è l'occhio,
lo sguardo. I predicati visivi sono una costante della loro opera, tra descrizioni e metafore,
da See Emily Play (osserva Emily) a Let There Be More Light (con la sua luce vivificante),
dall'immagine celebre del Muro ai due soli che chiudono l'epoca di Waters, fino alla ricca
messe d'immagini dei nuovi Floyd gilmouriani di LAUSE Or REASON. E le immagini sono
sorrette, a volte create, dalla musica, ove necessario con l'ausilio di suoni surreali - quelli di
Barrett, o anche quelli di SAUCERLUL Or SECRETS, - poi di suoni quotidiani, quelli delle
anatre di Grantchester Meadows o del Psychedelic Breakfast, quelli nitidi e tecnicamente
perfetti di THE FINAL CUT.
E la quotidianità potrebbe essere un'altra chiave. I Pink Floyd, dopo tutto, trovano la loro
dimensione più nel raccontare il quotidiano, la quiet desperation, che nella fantascienza e
nell'inconsueto, con una musica che adotta artifici sonoramente complessi ma musicalmente
semplici, rassicuranti, appartenenti al luogo comune.
E poi c'è la follia, naturalmente. Quella non simulata di Barrett, poi ricostruita da Waters e
poi ancora utilizzata come espediente artistico. contraltare inevitabile della banalità di ogni
giorno. Una follia che per Waters quasi s'identifica con la memoria, che assume nel suo
ultimo periodo importanza preponderante, tanto che anche la musica rinuncia all'autonomia
e sembra vivere di ricordi già ascoltati.
Certo è che la fase più fertile dei Pink Floyd si è presto conclusa. E si sarebbe tentati
d'affermare che Pink Floyd sia dopo tutto sinonimo di promesse non mantenute, di ambizioni
irrealizzate. Forse più che nei vasti progetti, gli sprazzi di grandezza del quartetto sono da
ricercarsi altrove, nei momenti di più felice abbandono, di autentica vena collettiva. I loro
"quattro quarti lenti" segnano un'epoca del rock, così come il contrasto tra la musica colorata
e le liriche grigie del miglior Roger Waters (per non dire delle creazioni oblique di Barrett).
Intelligenti più che intellettuali, i Pink Floyd stessi hanno ben conosciuto i propri limiti - e in
virtù di una tale coscienza sono riusciti tante volte a trascenderli. Vale la pena di riportare, a
mo' di conclusione, ancora un concetto del rude, lucido Gilmour: "Sono solo canzoni, il solito
genere di dischi, con chitarre e voci ad alto volume e tutte le solite cose. Che cosa puoi
dirne?".
Ritorno alla vita:
"Soldi, che sballo!/Prendi su a piene mani e metti via." Per anni è stato fin troppo facile
spiegare la reunion dei Pink Floyd con quest'aureo motto scolpito nel fumo-e-sogno dì
DARK SIDE OF THE MOON, anno di grazia 1973. Ma i rintocchi della division bell all'inizio
del 1994, sembrano suonare anche un'altra musica. Orgoglio, mettiamola così, voglia di
segnare per quanto possibile gli anni '90 dopo avere unghiato a fondo i tre decenni
precedenti: o puntigliosa vendetta, anche e soprattutto, smania di dimostrare che Roger
Waters, il convitato di pietra, il mai citato onnipresente Nemico, si era sbagliato quando
aveva sprezzantemente chiuso la partita - "non ce la farete mai senza di me". Per tutto
questo, e altro ancora che i Floyd non dicono (han scelto di tacere, dopo anni di torrenziali
polemiche e spieghe), THE DIVISION BELL suona come il disco più accurato e scrupoloso
da chissà quanto, forse dal THE WALL originale, 1979. Lo dice se non altro il tempo
impiegato a registrare, un anno e anche di più, secondo le vecchie abitudini: e lo conferma
la scelta di reintegrare Rick Wright in pianta stabile e non soltanto, com'era accaduto con
imbarazzo le ultime volte, come uno stipendiato de luxe. Proprio quando tutti erano pronti a
consegnarli agli archivi e a dimenticarseli, insomma, i Pink Floyd tornano a essere un vero
complesso e a progettare il futuro. Il 2000 non è così lontano e un Gilmour a quel punto
cinquantaseienne potrebbe anche salutarlo sciabolando la sua chitarra in sella a un maiale
volante.
THE DIVISION BELL nasce dalla produzione di David Gilmour e Bob Ezrin, come già il
precedente MOMENTARY LAPSE OF REASON: la grafica è ancora una volta affidata
all'hipgnotico Storm Thorgerson. La conferma di quel team vincente è il segno, e non poteva
essere altrimenti, che il gruppo intende muoversi nella continuità rispetto al passato, senza
arrischiare una sola unghia di veramente nuovo. L'errore di Roger Waters non era forse
stato quello di disconoscere i Floyd come tabù, di immaginarli come un guscio che solo i
singoli membri (e massime lui) potevano animare? I Pink Floyd esistono, invece, immutabili
al di là di tutto e di tutti, monolite più Suggestivo e inquietante di quello scelto per la
copertina. Gilmour, Mason, Wright non possono far altro che assecondare quel mito,
continuando a disegnare vaporosi archi sonori che non portano da nessuna parte, a
concentrare la luce su pungenti assoli dietro cui c'è il vuoto, a stimolare l'attenzione con
immagini suggestive e superficiali, enigmatiche e vane - ieri le mucche nel prato di ATOM
H~RT MOTHER, oggi le pietre da Isola di Pasqua nella campagna inglese e i misteriosi
segni braille sul bordo del CD.
E tale il desiderio di replicare modelli già provati, che l'effetto è a tratti imbarazzante. Siamo
sicuri che l'inizio di Cluster One non fosse pronto da almeno dieci anni, con quella chitarragabbiano che si lamenta nel vuoto dei sogni di primo mattino? E What Do You Want From
Me, con la sua placida andatura che S'interrompe amara e brusca, non è forse un' outtake
di THE WALL, registrata lo Stesso giorno di Hey You? È come se un enorme computer
Floyd-onnisciente avesse catalogato tutti gli assoli, tutti i rhythm patterns, tutti gli effetti
speciali e le inflessioni vocali di una vicenda ormai trentennale e ora venisse usato da
Gilmour e i suoi per una ricombinazione, una fra i miliardi di quelle possibili. Echi di
MEDDLE, di DARK SIDE OF THE MOON, di ANIMALS rimbalzano così nell'orecchio e si
mescolano ad altri piccoli campionamenti non Floyd: la chitarra The Edge di Take ìt Back
("un sub-Simple Minds non del tutto U2"), l'andatura dylan-nashvilliana di Comìng Back To
Life, la citazione Sprinsgteeniana di Lost For Words (il "furto d'autore" riguarda
Indipendence Day) e il pop da ore piccole di Wearing The Inside Out, dove Richard Wright
riemerge con la sua voce titubante ventun anni dopo l'ultimo lead vocals - per la storia, era
Time, su DARK SIDE Or THE MOON. Anche gli spettri, immancabili in simili castelli del
passato, anche loro sono ben noti, o almeno così pare: è Barrett il golden boy catturato nella
nostalgica tela di Poles Aparte Waters il nemico a cui Gilmour apre invano la sua porta in
Lost For Words, una canzone che il grafico non a caso ha decorato con la foto di due guanti
da boxe.
Impossibile negare fascino a queste pagine, se non altro perché tipiche, perché
accuratamente simili ad altre passate fascinazioni. Che poi non accada nulla di veramente
significativo, che sia tutto un glorioso e retorico già-ascoltato, è cosa nota e forse anzi
l'elemento chiave del gioco. Ai fans piacciono proprio queste abluzioni nell'abitudine, questi
placidi refoli di "psichedelia rassicurante", com'è stato scritto bene, di "esperimenti senza
sperimentazione".
Due parole sui collaboratori. Ia novità è Polly Samson, giornalista del Sunday Times e
compagna di vita di Gilmour, che con il suo uomo spartisce buona parte dei testi. Altri
contributi vengono da Laird Clowes e da quell'Anthony Moore vent'anni fa impegnato su più
interessanti fronti con gli Slapp Happy - suoi i versi di Wearing the Inside Out, su musica di
Wright. I passaggi orchestrali sono diretti da Michael Kamen, già noto per le sue "armi letali"
con Eric Clapton. Gli strumentisti che accompagnano i Floyd sono gli stessi di Delicate
Sound Of Thunder, con l'importante eccezione di Dick Parry al posto di Scott Page al sax.
Parry è una figura di culto del mondo Floyd dai tempi di Dark Side Of The Moon e Shine On
You Crazy Diamond. A suo tempo si era ritirato dalla scene e conduceva una vita randagia,
vivendo su una roulotte per le strade di Cambridge. Si è rifatto vivo con i vecchi compagni
l'autunno scorso chiedendo se c'era qualcosa di nuovo e loro, per tutta risposta, l'hanno
ingaggiato per disco e tour.
Il tour, per l'appunto, ecco dove si verifica subito l'impegno dei vecchi/nuovi Floyd. Senza
por tempo in mezzo, il gruppo lo allestisce già nella primavera 1994, in coincidenza con il
lancio americano di THE DIVISION BELL. Quindici giorni di prove a marzo nel sorprendente
scenario di una base aerea di Palm Springs California lontano da occhi indiscreti: poi il
debutto senza rete già il 30 marzo, al Joe Robbie Stadium di Miami, davanti a una folla
entusiasta, (e fradicia, per la pioggia torrenziale) di 55.000 persone. Il programma del tour
prevede 54 date in tutto: in America fino al 18 luglio (East Rutberford, New Jersey) e poi in
Europa, da lisbona (22 luglio) alla maratona conclusiva di Londra dal 12 al 29
ottobre),passando per cinque date italiane a Torino, Udine, Modena e Roma. Numeri
giganti, come sempre: 200 uomini al seguito, 8 bus, 49 camion e un aereo privato, 700
tonnellate d'acciaio per le strutture, montabilì in non meno di tre giorni, pasti caldi ogni sera
per 220 persone, fra addetti ai lavori e ospiti.
Come in studio, anche in scena a prevalere è la voglia di collegarsi al passato. di essere
parte di una storia ormai consolidata che dalle luci stroboscopi che dell'UFO Club porta ai
combattimenti aerei sul palco di "The Wall Tour" e agli enormi letti volanti dei concerti '88.
Per questo il nuovo show può deludere i fans "bollvwoodiani", per come rinuncia a inseguire
gli U2 di "zooropa" sul terreno del più nuovo-più spettacolare-mai visto, preferendo un
attento montaggio di vecchie trovate sempre efficaci. Ecco dunque gli ormai leggendari
maiali volanti, il grande schermo circolare su cui si proiettano vecchi e nuovi il) la miriade di
raggi laser colorati e la sfera di specchi, grande peraltro come non è mai stata e
programmata per aprirsi e trasformarsi in fiore. I Floyd suonano in un palco semicircolare
lungo 57 metri e alto
18, con un disegno che ricorda quello dell'Hollywood Bowl. I roadies impiegano diciotto ore
per montano; accanto a quella struttura, viene sistemato un enorme dirigibile lungo 55 metri.
Lo spettacolo dura due ore e mezzo ed è un accorto viaggio nella storia Floyd. Comincia
con una Astronomy Dominé eseguita con bello scrupolo filologico (la versione di Miami si
può ascoltare nel mini CD di Take ìt Back appena edito) e prosegue poi con citazioni dal
repertorio più recente, MOMENTARY LAPSE OF REASON e buona parte di DIVISION
BELL. Dopo Keep Talking inizia una lunga serie dei greatest hits, a zig zag nel tempo,
interrotta solo dalla nuova High Hopes giusto al principio della seconda parte. Sono brani
che ogni appassionato di fede floydiana sa di aspettarsi, i più celebri e collaudati: da Sbine
On You Crazy Diamond a Another Brickìn The Wall da Wish You Were Here a Money e
Comfortably Numb, con arrangiamenti che apportano solo minime variazioni alle versioni
live già conosciute. Dopo una ventina di brani, Run Like Hell chiude il concerto, mentre il
cielo è solcato da fuochi d'artificio.
Ultime parole (per il momento). David Gilmour: "Quando siamo tornati sulle scene, con
MOMENTARY LAPSE Or REASON, il piglio era quello di chi strillava: 'Guardate, siamo
ancora qui!'. Era un album chiassoso. Il nuovo disco è molto più riflessivo e delicato, e per
questo lo preferisco a qualsiasi altra cosa abbiamo fatto dopo WISH YOU WERE HERE".
Nick Mason: "Il ritorno sulle scene mi ha reso di nuovo giovane, e credo che Roger ne sia in
parte l'artefice. Ho avuto l'impressione che, se non fossi stato pronto a rischiare tutto, allora
c'era qualcosa che non andava, e sarebbe stato meglio se avessi fatto l'architetto".
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