Tra musica e allucinazione: un nuovo concetto di sublime Nel Rock psichedelico la droga e la musica son stati fin dal principio due mondi profondamente connessi: una relazione legata da un’influenza reciproca e stretta. Le sostanze stupefacenti sono state per numerosi artisti lo strumento attraverso il quale poter annullare i freni inibitori della ragione e raggiungere uno stato estatico in grado di suscitare ispirazioni impossibili da cogliere nel territorio delimitato dai confini della logica e della razionalità umana. È un caso che le facoltà creative dell’uo- mo, portate all’estremo, possano essere così facilitate dall’assunzione di sostanze lesive per il suo corpo? Forse la dimensione fisica e quella spirituale, la realtà e l’iper- realtà vanno inevitabilmente a confliggere? La finitezza del corpo e la potenziale infinità delle emozioni, dei sentimenti, o perfino delle manifestazioni spirituali, sembrano essere in un certo senso inconciliabili: da una parte i limiti del corpo, dall’altra la pulsione, l’esigenza, il desiderio di manifestare la propria interiorità, dalla gioia al malessere, dall’euforia al tormento, comunican- dola attraverso i linguaggi dell’arte. In tal senso la droga diviene uno strumento immaginifico che, attraverso l’annientamento del corpo, porta alla risoluzione dell’eter- no conflitto tra l’io fisico e l’io spirituale. Ed è proprio in questa catarsi che risiede ciò che può essere considerato come un nuovo concetto di sublime artistico: ricon- ciliazione, libertà emozionale, ma soprattutto possibilità di esprimere una bellezza che la musica può far vivere al di fuori della prigionia dei confini fisici e delle facoltà cognitive. Questo era l’obiettivo che molti artisti del rock psichedelico intendevano raggiungere attraverso la ricerca di nuove sonorità, di nuove dimensioni musicali, di componi- menti che traducessero l’irrefrenabile desiderio di generare bellezza al di là di ogni logica, di ogni costrizione, di ogni convenzione, di ogni finalità razionale: anarchici della musica, anarchici dell’anima. The doors Le canzoni dei Doors erano permeate da una spiritualità e da un esistenzialismo difficili da penetrare e raggiungibili soltanto spingendosi al di fuori del territorio della percezione terrena. Questo è possibile solo varcando quelle porte della percezione, già descritte dal poeta visionario William Blake e riprese dall’autore inglese Aldous Huxley nel suo trattato sugli effetti della mescalina, che sono sempre state la cifra artistica e filosofica fondamentale della band, sin dalla scelta del nome “Doors”. La spiritualità dell’opera musicale del gruppo è frutto dell’affascinante e misteriosa personalità di Jim Morrison, eterno simbolo di trasgressione, di erotismo e di trascendenza. Al pari dei poeti ro- mantici, egli era solito modificare i propri sensi assumendo soprattutto alcol, acidi e hashish, al fine di ottenere un’alterazione sintetica che gli consentisse di raggiungere l’anelata “espansione della coscienza”. La sua attrazione per la dimensione irrazionale, insita nelle profondità dell’animo umano, gli valsero il soprannome di “Re Lucertola”, animale identificato con l’inconscio, il puro istinto e, tal- volta, le forze del male. La volontà di Morrison di superare le costrizioni e la povertà di significati della dimensione terrena è testimoniata dalla sua dichiarazione «Se la mia poesia cerca di arrivare a qual- cosa, è liberare la gente dai modi limitati in cui vede e sente.» Tuttavia Morrison era perfettamente consapevole del costo che tutto ciò comportava, tanto da affermare che “comprare droga è come comprare un biglietto per un mondo fantastico, ma il prezzo di questo biglietto è la vita.” Jimi Hendrix Jimi Hendrix non è stato solo il più grande chitarrista di tutti i tempi, ma è stato il primo a ribaltare davvero il processo creativo nell’esecuzione musicale: nelle sue memorabili improvvisazioni, non era lui a guidare la chitarra ma da essa veniva guidato, trasporta- to completamente dalla melodia in un viaggio che, abbattuta ogni barriera cosciente, si spingeva verso l’esplorazione delle più profonde dimensioni dell’ io. Nei suoi leg- gendari assoli le sue dita erano grado di accarezzare non solo le corde della chitarra, ma le più profonde corde dell’animo e della psiche degli ascoltatori. Un’arte quella di Hendrix che se non nasceva solo dal dolore, rampollava dal moto interiore di un’anima che lotta per esprimersi, qualunque sia il prezzo da pagare. E così la droga diventa per lui uno strumento duplice, un rifugio in cui poter fuggire le sofferenze della vita, e una palla demolitrice la cui potenza è in grado di abbattere i muri di un rifugio divenuto pri- gione. Una forza distruttiva che insieme alle macerie finirà lentamente con lo spazzare via se stesso. Una vita vissuta dall’alba al tramonto, dai trionfi di Monterey e di Woodstock alla solitudine degli ultimi giorni, torturato dall’abbandono, vinto dalla sofferenza. Un percorso umano in cui la musica è stata estasi e distruzione allo stesso tempo, espressione di vita e di morte. Come egli stesso disse: “La musica è il mio diario, il mio modo di liberare quel che mi porto dentro: tutto insomma.” Janis Joplin Improvvisazione e automatismo furono cifre fondamentali anche del percorso artistico di Janis Joplin, “la voce blues della storia del rock”. Le sue performance vibravano di un’inedita intensità, e durante il canto Janis sembrava rapita, im- mersa in uno stato “ultrapercettivo”, come se ogni singola parte del suo essere percepisse nel pieno delle proprie potenzialità la totalità dello spazio dentro e fuori di sé: uno stato di estasi costantemente pervaso da un’imponente carica erotica che come una scossa elettrica attraversava le sue esibizioni. Utilizzare il termine “interpretazione” è fuorviante se si parla di Janis Joplin: ogni performan- ce per lei era un momento intimo e totale allo stesso tempo, in cui vivere inten- samente ogni sfumatura emozionale del proprio io ed urlare all’esterno i propri sentimenti e la propria esperienza di sé con una potenza dirompente. Janis era una musa inquietante, una strega capace di incantare il pubblico, la sacerdotes- sa di un rock estremo senza distinzione tra fantasia scenica e realtà. Il suo era un canto unico e sublime, una grandissima espressione di libertà, da sempre desiderata, ricercata, fin da quando decise di lasciare gli studi alla Houston Uni- versity per cambiare vita, per arrivare infine alla congiunzione con la filosofia hippie. Una libertà che nemmeno il sesso più vorace, l’alcol o la droga erano in grado di darle. Una libertà mai trovata fino in fondo. Pink Floyd La sinestesia tra musica e immagini è sempre stata l’elemento chiave dell’opera musicale dei Pink Floyd. Immagini che possono vivere sol- tanto grazie alla musica e che sarebbero altrimenti vuote, ermetiche ed impenetrabili, e parallelamente una musica che si nutre e si enu- clea proprio a partire dalle immagini che evoca. D’altronde erano e resteranno la band di un geniale e folle pittore, il “diamante pazzo” Syd Barrett, che antepose sempre l’interesse per la pittura e per le imma- gini alla produzione musicale. L’indelebile segno lasciato da Barrett nel gruppo avrebbe per sempre riguardato la creazione di una musica perpetuamente rimbalzante tra il senso e il non senso, tra la libertà e il tormento, tra il tutto e il nulla. Una musica che è insieme creazione ed esplorazione multidimensionale, racconto e filosofia. I componimenti dei Pink Floyd sono sempre in una condizione di equilibrio instabile, come un pendolo in continua oscillazione tra realtà e sogno, tra visio- ne e allucinazione: tale dualismo è lo specchio della sofferente anima di Barret, il quale utilizzò la droga per spingersi talmente oltre le possi- bilità fisiche della realtà, da imboccare la “via del non ritorno” e restare vittima dell’LSD, prigioniero di una realtà allucinata che lo ha inghiot- tito e non lo ha mai più risputato su questa terra. A testimonianza di quanto profondamente l’eredità di Barrett abbia inciso nel percorso artistico del Pink Floyd vi sono non solo le frequenti citazioni dell’amico in numerose canzoni, ma soprattutto l’evidente e condivisa volontà da parte degli altri componenti di proseguire senza freni il proprio viaggio spaziale nella sperimentazione d’avanguardia, in un immaginario che si presenta nella sua forma più caleidoscopica e allucinata, i cui colori e le cui sfaccettature intendono giungere in ogni angolo della psiche e dell’animo dell’uomo. Una ricerca che in ogni concerto si traduce in un trip non solo musicale e rumoristico, quanto anche visivo, rendendo ogni show dei Pink Floyd era un’esperienza unica al mondo.