Dal Kantismo all’Idealismo: Il dibattito sulla cosa in sé: Schulze: Nel suo “Enesidemo” attacca Kant. Secondo Shulze, Kant non è stato capace di superare Hume (l’enesidemo moderno). Hume affermava: “quanto all’origine delle impressioni io non so dire se esse provengano da un oggetto esterno alla sensibilità, dall’interno di me o se sono create da un essere superiore”. Kant affermava: “la cosa in sé è la causa non sensibile delle nostre sensazioni”. Per Kant non è dall’esperienza che deriva la causalità (Hume), ma è la forma a priori della causalità che influenza l’esperienza. Secondo Schulze questa riflessione di Kant è impossibile, poiché la categoria della causalità deve riferirsi a qualcosa di sensibile, come l’esperienza e non alla cosa in sé che non è sensibile. Per questo motivo egli sostiene che la filosofia di Kant, in realtà, dovrebbe ridursi, a quella di Hume. Jacobi: Jacobi era un estremista monarchico, che considerava negativa la filosofia moderna. Per lui, infatti, il razionalismo equivale all’ateismo. Egli afferma che la filosofia di Spinoza, derivante dal puro razionalismo, non è altro che un pensiero ateo, nonostante incentrato tutto su Dio. Teismo: Dio persona che si raggiunge attraverso una rivelazione (religione rivelata); Deismo:Divinità che si raggiunge attraverso l’uso della ragione (dio architetto, religione razionale). Secondo Jacobi, Kant è un razionalista che non è riuscito a concludere il proprio pensiero. Egli, infatti, afferma che senza la cosa in sé non è possibile entrare nella critica della ragione pura, mentre con la cosa in sé non è possibile restarvi dentro. Per questo era necessario farne a meno e toglierla completamente. Attraverso questo passaggio Jacobi gettò le basi per l’idealismo di Fichte, anche se in realtà il suo obiettivo era totalmente diverso: l’idea di Jacobi, infatti, era quella di trasformare la filosofia kantiana in una fede, attraverso un sapere immediato, e, in quanto tale, inattaccabile da ogni critica. Fichte: Introduzione: Kant aveva riconosciuto nell’io penso il principio supremo della conoscenza. Tuttavia questo atto di autodeterminazione era limitato, poiché supponeva già data l’esistenza: esisteva, infatti, il contenuto della cosa in sé. Alcuni filosofi avevano però obiettato contro la cosa in sé e avevano tentato di eliminarla. Fichte trae le conseguenze di queste premesse, e le porta a compimento. Il nuovo Io di Fichte: Eliminata la cosa in sé, l’io, da solo principio formale del conoscere, diventa principio formale e materiale della conoscenza. A questo punto l’io si trova svincolato dal limite e non è più soltanto finito, ma anche infinito. In questo senso la deduzione trascendentale di Kant diventa in Fichte assoluta, poiché fondata su un principio assoluto che crea il soggetto e l’oggetto dei fenomeni a seguito di un’intuizione intellettuale. La dottrina della scienza: Fichte, attraverso al sua Dottrina della Scienza, vuole raggiungere una filosofia che si configuri come un sapere assoluto. La deduzione fichtiana si distingue in tre momenti: 1. L’Io pone se stesso (tesi): Questo è la posizione assoluta della dottrina di Fichte, che ha come carattere fondamentale il momento riflessivo. Per Fichte ogni cosa esiste in rapporto alla coscienza e la coscienza stessa è tale solo in rapporto con se stessa e dunque quando è autocoscienza. L’Io, essendo auto-posizione e auto-creazione è un’intuizione intellettuale di se stesso. L’Io è simultaneamente attività agente e prodotto dell’azione stessa, è attività auto-creatrice e infinita. 2. L’Io pone il non Io (antitesi): L’Io oppone a se stesso qualcosa che gli è opposto e che, tuttavia, è in se stesso: il non Io (mondo). 3. L’Io oppone nell’Io, ad un Io divisibile un non Io divisibile (sintesi): Questo principio mostra come, nell’Io infinito, l’Io finito si trova ad essere limitato dal non Io, esattamente come questo è limitato dall’Io finito. Con il terzo principio è descritta da Fichte la situazione concreta del mondo, fatta di una molteplicità di Io finiti e di oggetti finiti. L’Io per Fichte è sia infinito che finito: finito perché limitato dal non Io; infinito perché il non Io esiste solo in relazione all’Io; L’Io infinito è l’insieme degli Io finiti; L’Io infinito, più che la sostanza degli Io finiti, rappresenta la loro meta. L’Io infinito, libero e privo di limiti, per l’uomo non è un’essenza data, ma una missione. L’uomo, infatti, è inteso da Fichte come uno sforzo verso la libertà, come una lotta inesauribile contro il limite. Questo compito che rappresenta l’uomo è in realtà irraggiungibile e mai concluso, poiché se l’Io finito riuscisse a superare tutti gli ostacoli, cesserebbe di esistere e subentrerebbe allo sforzo della vita, l’arresto della morte (essere libero è niente, divenirlo è cosa celeste). La scelta tra idealismo e dogmatismo: Fichte, dopo aver affermato che gli unici due sistemi filosofici possibili sono l’idealismo e il dogmatismo, cerca di illustrare i motivi che spingono alla scelta dell’uno o dell’altro. Egli afferma che l’idealismo consiste nel partire dal soggetto per poi spiegare, su di esso, l’oggetto, e che il dogmatismo, al contrario, consiste nel partire dall’oggetto per poi spiegare, su di esso, il soggetto. Nessuno di questi due sistemi riesce a confutare direttamente quello opposto. Che cos’è allora che determina la scelta verso l’uno o l’altro? Per Fichte la scelta deriva da un atteggiamento etico: nel dogmatismo, infatti,che si configura come razionalismo in gnoseologia e come un materialismo in metafisica, accade sempre che la libertà diventi problematica. Fichte definisce l’atteggiamento dogmatico come fiacco e necessariamente fatalista, poiché porta a considerare l’Io come un prodotto delle cose e un accidente del mondo, privandolo di qualsiasi libertà e autonomia. L’idealismo, invece, dove l’Io assume l’aspetto di un’attività auto-creatrice in funzione della quale esiste il mondo, si configura come una dottrina della libertà. La dottrina morale: Con la dottrina morale Fichte risponde a degli interrogativi rimasti irrisolti. Perché l’Io puro pone il non Io realizzandosi come Io finito? Il motivo è di natura pratica: l’io finito esiste per poter agire e il mondo esiste come teatro della sua azione. L’Io finito, infatti, deve agire moralmente per realizzare se stesso. Ciò significa che l’Io finito deve imporre al non Io la propria legge, facendo trionfare lo spirito sulla materia, mediante la sottomissione degli impulsi interni e la foggiatura della realtà esterna secondo il proprio volere. Ma come potrebbe esso agire moralmente in questo modo se non ci fosse alcuno sforzo e quindi nessun ostacolo da vincere? Questo ostacolo, allora, si configura con il non Io, che assume il carattere di una condizione indispensabile per l’azione morale dell’Io. Ovviamente questa azione morale, che porta all’infinità dell’Io rimarrà sempre inconclusa, altrimenti cesserebbe ogni sforzo. Riassumendo: L’Io è infinito, poiché si rende tale svincolandosi dagli oggetti che esso stesso pone, e pone questi oggetti perché senza di essi non potrebbe realizzarsi come attività morale. Lo scopo collettivo dell’io finito: Secondo Fichte, inoltre, l’Io finito può realizzare il suo dovere morale solo insieme agli altri Io finiti. In effetti, la deduzione dell’esistenza degli altri deriva dal principio per cui la sollecitazione al dovere può venire soltanto da esseri al di fuori di me, ma uguali a me: Io finiti, che, avendo il mio stesso scopo di libertà, sono costretti come me ad agire in modo che l’intera umanità risulti libera dai propri limiti. Il senso ultimo dello sforzo sociale dell’io coincide, dunque, nel farsi liberi e nel rendere liberi gli altri. Il dovere sociale del dotto: Per realizzare adeguatamente questo fine è necessaria l’azione di coloro che ne sono più consapevoli: gli intellettuali. I dotti sono gli uomini moralmente migliori e in quanto tali, devono farsi maestri del genere umano educandolo al raggiungimento della propria meta. La filosofia politica: Il pensiero politico fichtiano si svolge attraverso varie fasi strettamente legate alle vicende storiche contemporanee (la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche, la sconfitta di Jena). Si possono riassumere le sue idee nei punti seguenti: Inizialmente Fichte mostra una visione anti-dispotica dello Stato, incentrata sulla libertà di pensiero e simpatizzante alle idee giacobine, rousouiane della rivoluzione francese. Lo scopo del contratto sociale è per Fichte l’educazione alla libertà a cui è legato il diritto di rivoluzione nel caso lo Stato non permetta tale educazione. Fichte scorge il fine della vita comunitaria nella società perfetta degli uomini liberi e lo Stato rappresenta il mezzo per raggiungere tale società. In questo senso lo Stato è finalizzato al proprio annientamento, poiché il suo fine è quello di rendere inutile la sua educazione alla libertà una volta giunti ad una società perfetta. Lo stato, inoltre, è il garante del diritto. Questo riguarda solo le manifestazioni esterne della libertà nel mondo sensibile ed implica perciò una costrizione esterna. L’Io finito, infatti, è limitato dalle sue possibili azioni esterne, che si distinguono da quelle degli altri Io finiti. Ogni Io individuale non può agire senza i propri diritti naturali: la libertà, la proprietà, la conservazione. Ma questi diritti devono essergli garantiti da una forza superiore che si identifica con la collettività degli individui: lo Stato. Successivamente il filosofo afferma che lo Stato non deve limitarsi alla tutela dei diritti naturali, ma deve anche garantire a tutti i cittadini lavoro e benessere. Fichte perviene, dunque, criticando il liberismo, ad una forma di socialismo (perché basato su una regolamentazione statale) autarchico (perché autosufficiente sul piano economico). Fichte dichiara, inoltre, che lo Stato ha anche il compito di sorvegliare l’intera produzione e distribuzioni di beni. Esso deve organizzarsi come un tutto chiuso, fondato su un’economia pianificata e sull’isolamento. Tale chiusura commerciale risulta possibile solo se lo Stato ha nei suoi confini tutto ciò di cui abbisogna. Solo nel caso manchi di qualcosa può instaurare uno scambio con l’estero. Questa autarchia ha, secondo Fichte, il vantaggio di evitare scontri fra stati. I Discorsi alla Nazione Tedesca: La battaglia di Jena e la conquista della Prussia da parte di Napoleone comportarono un evolversi della filosofia di Fichte in senso nazionalistico. Nei Discorsi alla Nazione Tedesca Fichte esprime il tema dell’educazione. Secondo il filosofo il mondo ha bisogno di una nuova pedagogia rivolta non ad un’elite, ma ad un intero popolo e ad un’intera nazione. Nei Discorsi, Fichte, sostiene che solo il popolo tedesco sia capace di promuovere la nuova educazione, a causa di una supremazia linguistica e culturale rispetto agli altri popoli. Secondo il filosofo la nazione tedesca detiene una supremazia linguistica, in quanto è l’unica ad aver mantenuto intatta la propria lingua, e culturale, in quanto, fu sede della Riforma protestante, patria di Lutero e Kant, ed epicentro della cultura romantica e della nuova filosofia idealistica. Tutto ciò contribuiva a considerare il popolo tedesco come il popolo eletto per eccellenza.