Anno accademico 2009-2010
Storia del teatro e dello spettacolo
Cattedra della prof.ssa Paola Quarenghi
Seminario integrativo
Entrino gli attori: il corpo e la scena
a cura di Maia Giacobbe Borelli
Indice degli argomenti
Prima lezione (4 novembre 2009): Entrino gli attori, il corpo e la scena
1- Introduzione generale al seminario : il rapporto tra corpo, scena e società.
2- Il corpo, la persona e la maschera.
3- Breve storia dell’idea di corpo in Occidente I: Platone o dove nasce la dualità anima-corpo.
4- Sant’Agostino: il dolore come esercizio della volontà e come prova della superiorità dello spirito
sul corpo.
5- Donne, madonne, mostri e altre rappresentazioni del corpo nel Medioevo.
6- Il combattimento tra Quaresima e Carnevale.
Seconda lezione (18 novembre 2009)
Mente, persona, identità, la nascita dell’uomo moderno.
7- Breve storia dell’idea di corpo in Occidente II: dalla dualità anima-corpo a quella mente-corpo
René Descartes).
Terza lezione (9 dicembre 2009)
Essere avanguardia, essere movimento, essere contro la società. Vita e opere di tre artisti
esemplari: Jarry, Duchamp e Artaud.
8- Breve storia dell’idea di corpo in Occidente III: dal conflitto dell’individuo con la ragione al
conflitto dell’artista con la società moderna.
9- Artisti esemplari: vita e opere di Alfred Jarry (1873-1907)
10- Artisti esemplari: vita e opere di Marcel Duchamp (1887-1968).
Quarta lezione (16 dicembre 2009)
Le avanguardie teatrali del Ventesimo secolo: i maestri e la pedagogia teatrale.
11- Breve storia dell’idea di corpo in Occidente IV: il potere ormai controlla totalmente il corpo. Il
corpo è una merce.
1
12- Artisti esemplari: Antonin Artaud (1896-1948), la vita tragica di un homme-théâtre (prima
parte: Artaud e il teatro in scena).
Quinta lezione (18 gennaio 2010) I maestri e il metodo: Jerzy Grotowski. Il corpo oggi è un
residuo.
13-Artisti esemplari: Jerzy Grotowski (1936-1999), il filosofo del teatro.
14- Breve storia dell’idea di corpo in Occidente V: la scena del terzo millennio ha inghiottito il
corpo.
2
Prima lezione: Entrino gli attori, il corpo e la scena
1- Introduzione generale al seminario: il rapporto tra corpo, scena e società
Il seminario si occupa di come la professione dell’attore si sia evoluta, nel corso di alcuni momenti
cardine della storia del teatro, di pari passo con l’evoluzione del concetto stesso di persona dalla scena
antica a quella contemporanea. Esiste uno stretto rapporto tra l’evoluzione dell’idea di corpo nel corso della
storia europea e la sua rappresentazione nei teatri. La scena teatrale è quindi il luogo dove codificazioni
sociali, ruoli, tipi, stereotipi e cliché, caratteristici di un determinato periodo storico, si sono via via
concentrati ed esaltati in modi sempre diversi. Secondo lo storico Alain Badiou «la rappresentazione è
sintomo (da leggere, da decifrare) di un reale di cui essa è la localizzazione soggettiva come
misconoscenza.» 1. La persona dell’attore è una figura sociale sospesa, nel corso della storia del teatro, in uno
spazio ambiguo tra l’ammirazione e la condanna, spesso oggetto di pregiudizio negativo e persecuzione o di
curiosità ammirata per la sua anomalia. L’attore deve la possibilità di esercitare la sua professione, come la
sua stessa esistenza, al rapporto di stretta interdipendenza con i cambiamenti culturali intervenuti nella
società occidentale. Insomma, per l’attore senza fama c’è sempre stata la fame. Per il ruolo che lo spettacolo
svolge a livello sociale, i momenti di riprovazione e di esaltazione, le censure e le persecuzioni degli attori,
sia da parte del Potere spirituale che di quello temporale, sono accompagnati e si alternano in alcuni momenti
storici con i privilegi e la rapida ascensione sociale. Da sempre, se è vero che in tempo di crisi si chiudono i
teatri, è anche vero che i potenti, quando sono in festa, non dimenticano di offrire spettacoli al popolo e di
esaltare gli attori. Come dice Guy Debord «lo spettacolo si presenta contemporaneamente come la società
stessa, come una parte della società, e come strumento d’unificazione. In quanto parte della società, è
espressamente il settore che concentra ogni sguardo ed ogni coscienza.» 2.
Storicamente è solo alla fine del periodo medievale che, per la prima volta, si affaccia l’idea che
l’individuo, qualsiasi sia la sua professione, sia portatore di un qualche diritto specifico. Figuriamoci un
attore. Questa nozione è strettamente legata a quella d’identità e prende corpo proprio dalla possibilità di
associare ad ogni persona un particolare corpo, per ognuno differente. La parola persona corrisponde
etimologicamente alla maschera dell’attore, ma soprattutto, secondo il diritto, all’idea di un essere umano
come detentore di diritti, in quanto membro della società, inteso nelle sue qualità particolari e nelle funzioni
che svolge in seno ad essa. Persona è anche il suo corpo, in relazione al suo aspetto esteriore, e il corpo per
un attore è il primo strumento di lavoro. A partire da questo particolare punto di vista, che lega la storia del
concetto di persona alla considerazione verso l’individuo-attore da parte della particolare comunità di cui
esso è espressione, ruolo sociale e diritto individuale dell’attore si rivelano strettamente interconnessi sulla
scena.
Questo è vero anche oggi, esprimendosi nella presenza “dal vivo” del corpo dell’attore in teatro,
caratteristica unica e residuale dello spettacolo teatrale in un mondo dominato dai nuovi media. Le
problematiche gender e trasgender che colpiscono in pieno la nostra cronaca, per esempio, sono state
anticipate nella drammaturgia teatrale, vedi, tra gli altri, dagli scritti di Sarah Kane come dalle analisi di
Judith Butler, per la quale ogni performatività era legata al genere sessuale e di Donna Haraway 3. Secondo
queste teorie ogni identità è frutto di una formattazione obbligata.
Il percorso del seminario si compone di cinque tappe: nella prima tappa troviamo i discorsi sulla
dualità di Platone come dei Padri della Chiesa. A partire da questa concezione duale che penalizza il corpo e
la sua esibizione, in favore dell’anima, abbiamo letto i testi de Le confessioni di Sant’Agostino che misero
all’indice attore e pantomimo nel teatro antico. In seguito, abbiamo affrontato l’uso politico e religioso delle
metafore del corpo nel Medioevo: il grottesco, deforme e mostruoso, con la figura del giullare e del buffone
di corte, ma anche come il corpo viene raccontato e messo in mostra nelle chiese e nelle piazze. Nel terzo
incontro abbiamo descritto il corpo della concezione moderna, quella da Cartesio in poi.
Poi nella quarta e quinta lezione ci siamo occupati, con un ampio salto temporale, del secolo appena
trascorso, quello delle avanguardie artistiche e teatrali che misero in crisi la società moderna. Abbiamo
esaminato come casi esemplari le biografie di alcuni artisti, performer e uomini di teatro: Alfred Jarry, che
1
Alain Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 64.
Guy Debord, La società dello spettacolo, Agalev, Bologna 1990, p.10.
3
Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995.
2
3
chiude il vecchio e inaugura, con il suo Teatro dell’Assurdo, il secolo Ventesimo, Marcel Duchamp, il primo
performer, Antonin Artaud, a cui si ispirano le rivoluzioni teatrali del secondo Novecento, Jerzy Grotowski,
il maestro-pedagogo che cerca di riportare il teatro alle sue origini sacre.
Il Ventesimo secolo si è occupato con un accanimento senza precedenti del corpo, indagandone il
ruolo e l'espressione, mettendolo al centro di nuovi modi di rappresentare il mondo, esplorandolo con la
scienza, manipolandolo con la tecnica, costruendone artificialmente l’immagine secondo il gusto culturale e
l’idea sempre nuova di bellezza. Oggi, agli inizi del terzo millennio ancora ci interroghiamo sulle ragioni del
corpo cercando di ampliarne i limiti fisici e di sconfiggere la morte. Questo ultimo desiderio non è nuovo,
bensì il frutto di una lenta elaborazione dell’idea di corpo che viene da lontano e che si è via via evoluta e
consolidata nel tempo: dalle prime distinzioni tra anima e corpo di Platone all’esaltazione di un’individualità
assoluta, onnipotente e solitaria che trova i suoi epigoni nel sentire contemporaneo, dove il corpo non è altro
che il residuo di un mondo naturale ormai condannato all’estinzione.
2- Il corpo, la persona e la maschera.
Il corpo, inteso come strumento che ciascuna cultura utilizza e plasma secondo uno stile e degli
obiettivi specifici, è stato studiato in antropologia fin dagli anni ’30, quando Marcel Mauss pubblicò un suo
famoso articolo sulle “tecniche del corpo”. Tali tecniche – ad esempio il particolare modo di camminare, di
danzare, di gestire o di tenere in braccio un neonato - vengono sviluppate in modi diversi da ciascuna cultura.
Il corpo, pur essendo il più naturale degli strumenti tecnici, è dunque allo stesso tempo “culturalizzato”, cioè
specificamente adattato allo stile e alle esigenze di una singola cultura. Inoltre le differenze tra i sessi
producono dovunque differenze sostanziali a livello delle "tecniche del corpo". Nella storia dell’antropologia
il corpo viene dunque abbastanza precocemente tematizzato nei suoi due aspetti fondamentali,
indissolubilmente intrecciati tra loro: quello della naturalità del corpo in quanto ente determinato
biologicamente da un lato, e quello dell’azione plasmante che ogni cultura produce su di esso dall’altro.
In quest’ultimo senso si comprende immediatamente come tale azione di trasformazione culturale del corpo
non può che essere arbitraria, provvisoria, in qualche misura revocabile. In un altro saggio, per certi versi
speculare a quello sulle tecniche del corpo apparso negli stessi anni (“Una categoria dello spirito umano: la
nozione di persona, quella di io”), Mauss parla di tale intervento plasmatore operato della cultura
sull’individuo nei termini di una sorta di “maschera”. La concezione della persona, in molte culture, non è
altro che quella di una maschera che la società sovrappone al volto o al corpo, una maschera che può essere
cambiata ad ogni cambiamento di status.
Nell’immagine della maschera, e di una maschera che aderisce perfettamente al volto, troviamo a
mio parere una metafora molto bella di come la cultura venga “incorporata” nelle nostre strutture biologiche,
nel nostro corpo appunto, in una forma che tuttavia non risulta mai definitiva: una maschera è fatta in un
certo senso per essere cambiata. La cultura sembra dunque mantenere costantemente una sua capacità di
modificare i corpi, radicandosi in una biologia che, da parte sua, non sembra opporre resistenze veramente
definitive.4
4
Cecilia Pennacini: « Il corpo e la maschera » in Il corpo e le donne tra filosofia e antropologia, seminario della
Fondazione Gramsci di Torino, seconda lezione, 2000 (vedi al sito www.gramscitorino.it).
4
3- Breve storia dell’ idea di corpo in Occidente I: Platone o dove nasce la dualità anima-corpo
Il corpo è la tomba dell’anima
Platone5
Così, secondo Platone, il corpo è la tomba e la prigione dell’anima, il contenitore che la soffoca e la
oscura. Il gioco linguistico del soma sèma di Platone6 segna la fine di un tempo felice delle origini nel quale
l’essere umano e il mondo non erano che pura luce. Da allora noi siamo tumulati in questo sepolcro che ora
ci portiamo appresso:
Allora, la Bellezza si vedeva nel suo splendore, in un coro felice avevamo una beata visione […]
contemplando nella iniziazione misterica visioni integre, semplici, immutabili e beate, in una pura luce,
essendo anche noi puri e non tumulati in questo sepolcro che ora ci portiamo appresso e che chiamiamo corpo,
imprigionati in esso come l’ostrica.7
Con l’anima chiusa strettamente dentro il corpo come tra le valve di un’ostrica, non abbiamo più possibilità
di contemplare visioni integre, semplici, immutabili e beate.
Secondo Platone, seguendo un modello di rigoroso dualismo, l’uomo è formato da due parti distinte,
una che tende verso l’alto, l’anima, e l’altra verso il basso, il corpo: da una parte la sfera negativa, intesa
come il corpo, la materia, il tempo, la morte, l’ignoranza, il Male, dall’altra la pienezza, la conoscenza,
l’anima, il Bene. Le due parti non sono assimilabili e si detestano cordialmente. Il destino dell’uomo viene
spiegato in questi termini: Esiste come un sentiero che ci porta nella direzione giusta, ma fino a che avremo
un corpo e la nostra anima sarà confusa a una simile bruttura, noi non giungeremo mai a possedere ciò che
desideriamo.8
Se ne deduce che la morte del corpo fosse il momento della liberazione dell’uomo, l’unico mezzo
per superare la realtà terrena e infine possedere ciò che desideriamo, abbandonarsi alle sacre visioni e
divenire pura luce, riunendosi infine al mondo sovrannaturale.
L’attore della tragedia antica, sprovvisto di una sua specifica volontà individuale, era colui attraverso
il quale gli Dei stessi esprimevano la propria volontà e le proprie leggi. Il teatro poteva essere strumento
educativo e avvicinare l’uomo alla vera conoscenza, dato che la mania, proveniente dalle Muse, attraverso la
celebrazione di innumerevoli imprese degli antichi, educa i posteri9. Ma questo non era merito della
personalità, gestualità o presenza scenica dell’attore, bensì delle Muse che attraverso lui si esprimevano,
perché chiunque si presenti alle porte della poesia senza essere ispirato dalla mania delle Muse, convinto
che gli basterà la tecnica per essere un bravo poeta, sarà un poeta mancato, perchè la poesia di chi é in sè
viene oscurata da quella di coloro che sono in preda a mania 10.
5
Questo concetto è esposto da Platone sia nel Fedro, vedi successiva citazione, che nel Fedone, in Gorgia 493 A, in
Cratilo, 400 C e anche in Repubblica X, 611.
6
Il corpo (soma) è tomba (sema), secondo l' etimologia del Cratilo di Platone, ma è anche segno (sema).
7
Platone, Fedro, cit., par. 250 B e C. Altra traduzione dello stesso frammento (Diego Fusaro): La bellezza invece era
splendida a vedersi a quel tempo, quando, con un coro felice ( noi seguendo Zeus , altri seguendo chi un dio chi un
altro ), si contemplava il beato spettacolo che essa offriva alla vista e si era iniziati a quella che é lecito chiamare la
più beata delle iniziazioni, che noi celebravamo in condizione di assoluta perfezione e immuni da tutti quei mali che ci
attendevano successivamente. Perfette, semplici, immutabili e beate erano le visioni a cui eravamo iniziati e che
contemplavamo in una luce pura, anche noi puri e senza questo sepolcro che ora portiamo in giro chiamandolo corpo,
legati ad esso come ostriche.
8
Platone, Fedone, par. XI.
9
Platone, Fedro, 245 A.
10
Ibidem.
5
4 - Sant’Agostino: il dolore come esercizio della volontà e come prova della superiorità dello
spirito sul corpo
Abbiamo visto come Platone nel Fedro parli di essere chiusi nella prigione del corpo, imprigionati in
esso come l’ostrica, anche se il corpo rimane comunque parte dell’individuo stesso, la sua parte ottusa,
pesante, in opposizione a quella luminosa :
Ogni anima si prende cura di tutto ciò che é inanimato e vaga per tutto il cielo, apparendo ora in una forma ora
in un'altra. Quando dunque l'anima é perfetta e dotata di ali, vola in alto e governa tutto il mondo; mentre,
quando ha perduto le ali, precipita fino a raggiungere qualcosa di solido e, stabilitasi lì, assume un corpo
terreno che, a causa della forza dell' anima, sembra muoversi da sé. Tutto l'insieme, anima e corpo ad essa
unito, prende il nome di vivente ed é definito mortale.11
La separazione tra anima e corpo sarà ripresa dalla filosofia cristiana, in particolare da Sant’Agostino, in
maniera ancora più radicale, arrivando a prefigurare un conflitto irrisolvibile tra natura e cultura, con l’uomo
sottomesso allo spirito che vuole liberarsi del suo corpo. Invece di cercare un equilibrio tra le due forze,
come era in Platone nella sua famosa immagine del carro tirato da due cavalli, dove il vivente deve gestire la
sua dualità, si arriva ad un paradossale annientamento della carne, attraverso il disprezzo del corpo stesso,
esercitato con gli strumenti del digiuno e dei castighi corporali. La fusione desiderata è dello spirito umano
con il divino, nessuna mediazione è più possibile con la sua carne.
Citiamo da Le confessioni di Sant’Agostino :
Vivo era tuttavia in me il pensiero di Te, non dubitavo punto dell’Essere a cui dovevo stringermi ;
ma ero io che non riuscivo ancora a questa fusione, perché il corpo preda della corruzione
appesantisce l’anima, e il vivere terra terra deprime lo spirito che va disperdendosi in mille pensieri.12
Per gli gnostici13 il corpo era solo materia, carne, la parte maledetta, la parte dell’uomo votata
all’invecchiamento, alla morte, alla malattia. Corrispondono a questo modello religioso le asserzioni che
vedono il corpo come fonte di tutti i mali. Non soltanto sede di malattie, ma esso stesso malattia, un niente
incurabile, finzione degenerata in calamità [… ] e tanto mi accaparra e mi domina che il mio spirito non è
che viscere14. Si desidera una specie di sublimazione del corpo, di sua morte ai piaceri, restando però in vita.
E la stessa prova del martirio dei santi è un impossibile tentativo di controllo della volontà individuale sulle
leggi della natura, la cui narrazione tende a dimostrare come il corpo santo non sia sottoposto al dominio dei
sensi, bensì superiore ad esso, grazie all’aiuto di Dio. Per questo i sensi - a partire dalla vista, il più acuto dei
sensi che giungono a noi attraverso il corpo - portano alla corruzione dello spirito. Le tentazioni della carne,
sono estremamente pericolose per l’uomo di fede che deve usare l’esercizio del dolore come tecnica
spirituale per domare i desideri del corpo. Il teatro, diffuso a Roma dalla Grecia antica, patria dei falsi Dei,
operando proprio attraverso la vista e l’udito, era oltremodo dannoso e disturbante allo sviluppo dell’anima.
Per questo venne ripudiato dai cristiani e proibito dagli ultimi Imperatori attraverso una serie di editti. Piano
piano si perse memoria degli scritti teatrali e, almeno ufficialmente, venne cancellata ogni traccia della
tragedia attica e delle migliori commedie.
Sant’Agostino, che era stato a suo tempo grande frequentatore dei teatri romani, descrive in questo
modo l’esperienza di assistere ad uno spettacolo:
Le rappresentazioni teatrali, vive immagini del mio miserando stato ed esca al mio fuoco, mi esaltavano. Come
si può spiegare che l’uomo in esse vuole soffrire per avvenimenti luttuosi e tragici di cui però non vorrebbe
fare l’esperienza? Proprio il dolore cerca in essi lo spettatore, proprio il dolore gli dà piacere. Miseranda follia !
E succede che uno ne è tanto più sconvolto quanto meno è a sua volta immune da tali passioni: però quando
quei mali toccano lui direttamente parla di infelicità, quando soffre degli altrui parla di pietà. Ma che parte può
avere la pietà nelle finzioni sceniche? Lo spettatore non è chiamato a portar aiuto, ma invitato soltanto a
11
Platone, Fedro 246 C.
Sant’Agostino, «La carne contro lo spirito», in Le confessioni, Cap. XVII del Libro VII.
13
La gnosi è un movimento filosofico-religioso che si diffuse in Medio Oriente nei secoli che vanno dal primo avanti
Cristo al terzo secolo dopo Cristo. Gli gnostici sostenevano che la materia fosse un deterioramento dello spirito e
l'intero universo una depravazione della Divinità, ed insegnavano che il fine ultimo di ogni essere era il superamento
della bassezza della materia ed il ritorno allo spirito Genitore.
14
Emil M. Cioran, Le Mauvais Démiurge, Gallimard, Paris 1969, p. 54.
12
6
soffrire e quanto maggiore è la sofferenza tanto maggiore è il plauso per colui che impersona tali finzioni. Che
su quelle umane sciagure, antiche o favolose esse siano, sono rappresentate in modo da non dargli brividi, lo
spettatore se ne parte annoiato, criticando: se poi ne è commosso. se ne sta là attentissimo e contento.
Vi è dunque una forma di amore per le lagrime, per i dolori. Certo, l’uomo è portato al godimento. O questo
solo si ama nel dolore che, mentre a nessuno piace la propria infelicità, piace invece il sentimento della pietà
perché è una forma di partecipazione al dolore? Sentimento che sgorga dalla stessa vena dell’amicizia. Ma a
che tende? Dove finisce? E perché poi va a perdersi in un torrente di pece bollente, in immense vampate di
cupa passione in cui volontariamente si tramuta e si deforma, deviato e umiliato dalla sua celeste limpidezza?
Ripudieremo allora la compassione? No, certo. Si può talvolta amare anche il dolore; ma tu, o mia anima,
rifuggi da ogni immondezza, sotto la protezione del mio Dio, Dio dei nostri padri, degno di lode, esaltato nel
corso di tutti i secoli; fuggi ogni immondezza.15
Difficile resistere alle tentazioni degli spettacoli, i cui accadimenti passionali si fanno strada nel
corpo attraverso la vista e l’udito; proibirne la realizzazione era l’unica difesa alla debolezza della carne
secondo i cristiani. Sant’Agostino ci racconta le avventure di Alipio, suo discepolo, che, nonostante i suoi
sforzi, ricade varie volte nel vizio di spettatore:
Non pensando affatto a rinunziare alla carriera mondana magnificatagli dai genitori, Alipio mi aveva preceduto
a Roma per studiare il Diritto: ed ivi fu travolto contro ogni credenza e in una misura incredibile dalla passione
per gli spettacoli dei gladiatori. Ne aveva avuto dapprima disgusto e odio; ma alcuni amici e compagni di
studio un giorno tornando dal pranzo imbattutisi in lui, per quanto opponesse forte resistenza, con amichevole
prepotenza lo trascinarono nell’anfiteatro: era un giorno di quegli spettacoli crudeli e malvagi. Egli badava a
dire: «Forse che trascinando e costringendo il mio corpo a rimanere in quel luogo credete di poter costringere
anche il mio animo e i miei occhi a quello spettacolo? Vi sarò, ma come un assente, ed avrò vittoria di voi e di
esso». Ma non ostante questa affermazione, gli amici lo trascinarono seco, forse anche punti dal desiderio di
far la prova della sua forza d’animo.
Quando vi arrivarono e trovarono modo di mettersi a sedere, tutto già respirava inumana voluttà. Alipio, chiuse
le porte degli occhi, inibì al suo animo di prender parte a quegli orrori. E almeno avesse chiuso anche le
orecchie! Ad un certo istante del combattimento un immenso urlio di popolo lo fece sussultare: vinto dalla
curiosità e come pronto, di qualunque cosa si trattasse, a disprezzare e a vincere anche la vista, aperse gli occhi
e l’anima sua fu colpita da una ferita più grave di quella ricevuta nel corpo dal gladiatore che per un istante
aveva voluto guardare: e cadde ben più miseramente di quegli, la cui caduta aveva provocato tale clamore:
entrò nelle sue orecchie, gli fece sbarrare gli occhi, sicché si formasse una breccia attraverso la quale fosse
ferito e abbattuto quell’animo più temerario che forte, tanto più debole in quanto cercava in se stesso la forza
che avrebbe dovuto cercare in Te. Vedere quel sangue e imbeversi di crudeltà fu tutt’uno: non ne distolse gli
occhi, anzi ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta criminale, ebro di
sanguinario piacere. Non era più quello che era venuto, ma uno della plebaglia tra cui era venuto e degno
compare di quelli che ve lo avevano condotto. Che più? Guardò, gridò, si entusiasmò; se ne venne via portando
seco una febbre che lo spinse a tornarvi non solo con quelli che lo avevano trascinato, ma primo di essi,
16
trascinatore di altri.
Con queste confessioni delle sue debolezze, con le sue proibizioni, Sant’Agostino pone le
fondamenta della morale dell’Occidente cristiano per i secoli a venire. Una morale che s'articola intorno ad
assiomi molto preciso: diabolizzazione della carne, celebrazione della verginità, elogio della continenza,
condanna dei piaceri e dei divertimenti, il teatro in primo luogo.
La donna resta impigliata nella condanna del teatro da parte della Chiesa e potrà cominciare a prenderne
parte solo a partire dal Medioevo.
15
16
Sant’Agostino, « Appassionata mania per gli spettacoli», in Le confessioni, Cap. II del Libro III.
Sant’Agostino, «Alipio nell’anfiteatro», in Le confessioni, Cap. VIII del Libro VI.
7
5- Donne, madonne, mostri e altre rappresentazioni del corpo nel Medioevo
Una morale così stretta si afferma inevitabilmente attraverso la condanna decisa e radicale di chi non
vi si attiene. La nozione di corpo diverso, mostruoso, disobbediente, si fa immediatamente strada. A partire
dalle immagini presenti nell’iconografia del teatro medievale, tra bestialità ed esaltazione negativa della
differenza di genere, emergono, attraverso la divisione tra ciò che è bene e ciò che non lo è, i percorsi che
portano alla moderna nozione di corpo e d’individuo. L’immagine diabolica e mostruosa del corpo è presente
sia nell’iconografia medievale che contemporanea, tra codificazioni, ruoli, tipi, stereotipi e cliché.
Il corpo della donna in particolare condensa molti discorsi relativi all’idea di corpo per i cristiani:
esso è naturalmente il luogo del Peccato e il rifugio del Male, a partire dall’amicizia di Eva con il serpente.
Si annuncia una distinzione tra corpi buoni e cattivi, corpi domati e selvaggi, ovvero bestiali. La particolare
capacità generativa del femminile, temuta, e per questo tenuta a distanza, è relegata nel mondo naturale,
legata al diabolico, mondo che è proprio delle bestie, esseri che, come la donna, sono sprovvisti di anima. Il
precipitare dei pensieri sul corpo del mondo medioevale ha dato ampio spazio alle immagini di santi e
martiri, di madonne e diavoli peccatori, ma anche a giullari, a danzatrici esotiche, ninfe e fate dei boschi,
fanciulle innocenti e vecchie streghe pericolose - come le tre che annunciano il dramma di Macbeth - o a
quelle mostruose creature, metà donne e metà bestie, che proiettano il racconto nelle acque pericolose della
mitologia e del folclore. Così, nella letteratura medioevale, si è destrutturato, prima, e ricostruito poi,
all’interno di un rigido “nuovo ordine” normativo, l’ordine ecclesiale, il corpo originario, generatore e
depositario dei misteri primigeni, che appartiene alla donna.
Già l’antichità aveva fatto precipitare la paura del femminile in impersonificazioni mostruose.
Queste erano irrimediabilmente non umane, “altre”, impossibili da normalizzare, temute dall’uomo per la
loro potenza.
I mostri nell’antichità non erano inferiori, bensì divini protagonisti, come gli altri eroi: Leviatano (il
primordiale serpente marino che inghiotte gli uomini), ma anche Chimera, Echidna, Lamia, Medusa, Idra di
Lerna, le Erinni, le Parche, le Furie. I mostri medievali, invece, sono esseri impossibilitati a elevarsi verso
Dio, costretti a tenere lo sguardo sempre rivolto alla terra, come le bestie.
Ed ecco, tra le figure femminili che emergono nell’immaginario medioevale e lasceranno un segno
profondo nella cultura occidentale anche nei secoli successivi, i corpi mostruosi di Melusina e di Undine,
donne a coda di pesce o serpente che, a partire dalle figure semi-divine della mitologia greo-romana o
celtica, parenti di Ishtar e di Nix, diventeranno protagoniste della letteratura e aldilà. Melusina si afferma
come emblema del casato del Duc de Berry, a partire da un racconto commissionato a Jehan d’Arras verso il
1380. Undine è uno spirito marino che, secondo un’antica storia germanica, sposa un cavaliere per poter
acquisire una forma umana e soprattutto per avere un’anima immortale. All’opposto di questi corpi diversi,
parenti dei mostri mitologici e dei serpenti, troviamo il corpo immacolato di Maria, la Vergine, il cui culto
prende il sopravvento in Europa a partire dall’XI secolo, colei che schiaccia invece la serpe, conquistando
così, più che una decente forma “umana”, una vicinanza agli angeli, creature senza sesso. Le storie di queste
donne mostruose, e la vita della purissima Madre di Dio, sono rappresentate nelle chiese e nelle piazze,
luoghi dello spettacolo medievale e giganteschi laboratori d’anticonformismo popolare, dove la diversità e il
mostruoso sono temuti ma al contempo seducono. Queste figure femminili testimoniano della ricchezza dei
rapporti che si sono freneticamente intrecciati tra mito e immaginario, nell'epoca importante della
costruzione non solo dell’identità occidentale ma anche della stessa idea di corpo. Il gioco e gli intrecci tra la
teratologia, scienza delle mostruosità e la teatrologia, scienza delle rappresentazioni teatrali, per quanto
riguarda il Medioevo potrebbe portare a scoprire molte fertili analogie. Attraverso immagini e
rappresentazioni popolari si è costruito l’obiettivo di allontanare il corpo della donna dal mondo naturale, per
reinventarlo in tutto e per tutto come corpo culturale, corpo continuamente ri-costruito. Alla fine dell’Età di
Mezzo fu ormai chiaro che solo il Potere si poteva arrogare il diritto di dare la vita, insieme a quello di dare
la morte ai suoi sudditi.
Le rappresentazioni antiche entrarono nei luoghi e nell’immaginario religioso e vennero riproposte
dalla Chiesa sotto nuove forme:
Il teatro non è nato dalla Chiesa, ma è piuttosto entrato nella chiesa, offrendo alla liturgia modi e schemi
tradizionali, quindi senza origini precise e limitate nel tempo. E gli elementi profani e comici che si trovano
negli stessi drammi sacri non dimostrano, come pretende qualche semplicista, che anche il teatro profano o
8
comico è nato dal culto, ma che invece gli elementi profani forzavano, per così dire, ed invadevano le stesse
sacre rappresentazioni.17
La storia del teatro francese sembra cominciare con il Jeu d’Adam, primo dramma sacro di cui sono
rimaste tracce scritte : di autore ignoto, scritto in lingua anglo-normanna con parti in latino tratte dalla
Bibbia. Lo spettacolo era diviso in tre parti : il peccato originale, il delitto di Caino, la sfilata dei profeti,
manca il finale. Il manoscritto appare come un elenco infinito di personaggi biblici: il Coro, la Figura (il
Signore), Adamo, Eva, il Diavolo, Abele, Caino, diavoli, Abramo, Mosè, Aronne, David, Salomone, Balaam
sull’asina che parla, Daniele, Abacuc, Isaia, l’Ebreo, Nabucodonosor e altri.
Successivamente i drammi sacri concentrano la narrazione quasi profana dei vari miracoli della
Vergine, per esempio quelli descritti nel manoscritto Cangé conservato alla Bibl, Naz de France: Un enfant
que Notre Dame resucita, L’empereris de Romme, La Nonne qui laissa son abbaie, Guibour, La legende
d’Amis (Amico) et Amille (Amelio), Une beau mystère de Notre-Dame :
Come andiamo vedendo, è la leggenda medievale di Notre-Dame che nel secolo XIV invade la scena con tutti i
suoi elementi patetici e sovrannaturali. La Vergine è il deus ex machina di questo teatro come lo era, del resto,
della letteratura narrativa fiorita intorno a lei, ma un deus ex machina al quale si prestano atti e soprattutto
sentimenti familiari, una morale che talvolta può sembrarci paradossale, una giustizia che non sempre è la
nostra giustizia. La concezione di avvocata, di rifugio dei peccatori è applicata fino alle estreme conseguenze:
ciò perché secondo il sentimento medievale la Vergine, che ha dato al mondo il Redentore, cerca piuttosto di
redimere che di punire l’umanità restata imperfetta.18
Citiamo, sempre dal testo di Italo Siciliano, in quale forma venivano organizzate le Confraternite della
Passione per la rappresentazione dei Misteri, tra le poche forme di spettacolo regolate e lecite nel XIV secolo
francese:
Per organizzare, rappresentare e in parte finanziare gli spettacoli ben presto si formano delle Confraternite
della Passione, la cui esistenza è attestata con sicurezza fin dal 1371. Un editto di Carlo VI, del 4 dicembre
1402, accordava a quella di Parigi privilegi speciali. [...] Municipi, signori e ricchi borghesi contribuivano alle
spese, che erano spesso ingenti. Nelle grandi solennità religiose e civili i promotori facevano comporre una
Passione e, ottenuta la licentia ludendi dalle autorità ecclesiastiche e laiche, ne mettevano su la
rappresentazione. Il teatro era drizzato sulla piazza più importante della città. Si procedeva quindi alla
pubblicità che cominciava con il «cry», annunzio che veniva fatto al pubblico qualche settimana prima o
addirittura qualche mese prima della rappresentazione. Alla vigilia di questa aveva luogo la cosiddetta
«montre» o parata: preceduto da trombettieri, araldi, uomini d’arme un interminabile corteo composto da
ecclesiastici, da tutti gli attori che indossavano i loro costumi, dagli organizzatori, dai «registi», dagli autori,
attraversava le principali vie della città fermandosi ai punti più importanti.
Gli attori erano forniti dai soci della confraternita, dal clero, da borghesi e operai, talvolta anche da grandi
signori. Nelle passioni del XV secolo che erano composte di alcune decine di migliaia di versi e la cui
rappresentazione durava parecchi giorni, certe parti erano molto faticose e addiritttura pericolose. I personaggi
femminili erano per lo più rappresentati da adolescenti. Alcuni di questi dilettanti rivelavano delle qualità
eccezionali di attore e acquistavano una rapida popolarità. A Metz un giovane barbiere rappresentò così bene
la parte di Santa Barbara che fra il pubblico che versava abbondanti lagrime si trovoò una vedova che voleva
adottarlo e un canonico che gli fece fare a sue spese gli studi a Parigi. Una ragazza del popolo apparve così
patetica nella recitazione dei 2300 versi della parte di Santa Caterina che un grande signore se ne innamorò e la
sposò nonostante la differenza di classe. Ma il mestiere comportava anche dei pericoli: a Metz nel 1437 il
curato Nicolle che rappresentava Cristo sulla croce si sentì male e dovette essere portato giù in grande frettta e
rianimato con l’aceto; un altro prete che faceva Giuda si impiccò con tanto impegno che per poco non perdette
la vita. Un’altra volta un canonico che, vestito da San Michele, doveva portare un messaggio del Signore a
Giuseppe d’Arimatea, precipitò da una notevole altezza per il cattivo funzionamento del secret, del
meccanismo, cioé, che doveva sostenerlo in aria.
Davanti ai palchi ed ai recinti destinati al pubblico si drizzava la scena che ordinariamente era divisa in tre
grandi sezioni: a destra c’era il Paradiso, per lo più formato da due piani, dove stava Dio circondato dagli
angeli e da personaggi allegorici; a sinistra, in forma di torre, c’era l’inferno la cui bocca si apriva al momento
giusto per lasciare scappare fumo, fracasso e demoni; nel centro parecchie “loges” o “mansions” che
rappresentavano i diversi luoghi dell’azione. Un cartello talvolta dava le indicazioni necessarie. Per lo più gli
17
Italo Siciliano, Il teatro medievale francese, Biblioteca di Saggi e Lezioni Accademiche, Francesco Montuoro
Editore, Venezia 1944, p. 12.
18
Italo Siciliano, Il teatro medievale francese, op. cit., p. 86.
9
attori stavano nelle mansioni aspettando di entrare in azione e passavano da una mansione all’altra: così il
pubblico abbracciava con un solo colpo d’occhio scene e personaggi. è la cosiddetta “mise en scène”
simultanea.
Il regista, anzi i registi, avevano non poco da fare per guidare una rappresentazione così complessa e decoratori
e macchinisti gareggiavano nella ricerca di trucchi e meccanismi. Si vedevano volare gli angeli, S. Pietro che
camminava sulle acque, cioè su di una tavola invisibile, Simone il Mago che precipitava al suolo. Un trucco fa
compiere tre salti alla testa di S. Paolo e scaturire tre fontane al posto dove era caduta, un altro fa scendere lo
Spirito Santo sotto forma di una colonna di fuoco. Il fico di Giuda perde improvvisamente tutte le foglie, una
legione di diavoli si trasforma sotto gli occhi degli spettatori in porci che si precipitano in mare.
Con tali mezzi, con una massa imponente di attori, in quest’atmosfera febbrile fatta di pietà e di curiosità, si
svolgeva nel Medio Evo la rappresentazione, commovente e divertente, della vita e della morte di Gesù.19
6- Il combattimento tra Quaresima e Carnevale
Così riassume le problematiche del corpo uno dei più grandi conoscitori dell’Età di Mezzo, Jacques Le Goff,
che insieme a Nicolas Truong ha pubblicato recentemente una interessante storia del corpo nel Medioevo :
La dinamica della società e della civiltà medievale è il risultato di tensioni: tensione tra Dio e l’uomo, tensione
tra l’uomo e la donna, tensione tra la città e la campagna, tensione tra l’alto e il basso, tensione tra la ricchezza
e la povertà, tensione tra la ragione e la fede, tensione tra la violenza e la pace. Ma una delle principali tensioni
è quella tra il corpo e l’anima. E più ancora all’interno del corpo stesso. 20
E ancora:
Nel Medioevo il corpo è, ripetiamolo, il luogo di un paradosso. Da un lato, il cristianesimo non cessa di
reprimerlo: «Il corpo è l’abominevole rivestimento dell’anima», dice il papa Gregorio Magno. [...] La vita
quotidiana degli uomini del Medioevo oscilla tra Quaresima e Carnevale, un combattimento immortalato da
Pieter Bruegel nel celebre quadro del 1559, Le Combat de Carnaval et de Carême. Da un lato il magro,
dall’altra il grasso. Da un lato digiuno e l’astinenza, dall’altro bisboccia e golosità. Quest’equilibrio detiene
senza dubbio il posto centrale che il corpo occupa nell’immaginario e nella realtà del Medioevo.21
Negli spettacoli medioevali trovavano spazio sia la trasgressione del Carnevale che la figura paurosa
della morte (le danze di morte, la Cena Cipriani, ecc.), tutto trasfigurato e sublimato in frenetiche danze
collettive. Si esorcizzano i grandi temi religiosi con lo spettacolo comico e d’intrattenimento popolare. A
volte le narrazioni non sono più classiche e mitologiche ma quotidiane e i personaggi non sono più figure
allegoriche o religiose ma sono colti nel pieno delle loro faccende terrene. Deriviamo dalle farse e dalle
pastorali medievali quei tipi, personaggi, soggetti e autori teatrali delle prime commedie che allontaneranno
dalla scena teatrale gli Dei in favore di un lavoro di rispecchiamento nella scena teatrale dell’uomo comune e
delle sue problematiche individuali. Possiamo tentare un confronto tra lo spettacolo medievale e la
percezione moderna che ha preso il via da questo immaginario forgiando così la sensibilità europea?
Anche in momenti più tardi troviamo influenze con storie del passato che diventano storie universali nelle
nuove riscritture, incontrando il favore di un pubblico che si appassiona sempre di più al teatro.
Lo stesso Amleto, elaborato agli inizi del 1600 a partire da una novella di Boezio scritta nel sesto secolo
d.C., deve la sua fama anche al modo molto chiaro in cui illustra agli uomini del suo tempo quel conflitto tra
l’individuo e la ragione che era sempre più presente all’interno della società moderna.
19
Italo Siciliano, Il teatro medievale francese, op. cit., pp. 102-104.
Jacques Le Goff e Nicolas Truong, Une histoire du corps au Moyen Age, Liana Levi, Paris, 2003, p. 11.
21
Jacques Le Goff e Nicolas Truong, op.cit., pp. 39-40.
20
10
Seconda lezione: Mente, persona, identità, la nascita dell’uomo moderno.
7- Breve storia dell’idea di corpo in Occidente II: dalla dualità anima-corpo a quella mentecorpo
Io, pilota del mio veicolo...
René Descartes 22
Da René Descartes (1596-1650) in poi, il corpo sarà espulso dall’idea stessa di persona, sarà mero veicolo
materiale dell’intelligenza, la vera sede dell’io. D’ora in poi quello che darà identità all’uomo sarà il
pensiero, e il corpo mero veicolo della mente. Niente più spirito, ma l’identificazione dell’individuo con le
sue capacità mentali:
Così, poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi ce la fanno
immaginare. E dal momento che ci sono uomini che sbagliano ragionando, anche quando considerano gli
oggetti più semplici della geometria, e cadono in paralogismi, rifiutai come false, pensando di essere al pari di
chiunque altro esposto all'errore, tutte le ragioni che un tempo avevo preso per dimostrazioni. Infine,
considerando che tutti gli stessi pensieri che abbiamo da svegli possono venirci anche quando dormiamo senza
che ce ne sia uno solo, allora, che sia vero, presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano
introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che
mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi
qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni
più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore
come il primo principio della filosofia che cercavo. Poi, esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che
potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che
non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della
verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di
pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto
alcuna ragione di credere ch'io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta
solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo
che questo io, e cioè la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche
più facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche se il corpo non esistesse.23
Il modello di Descartes vede il corpo funzionante come un ingranaggio meccanico perfetto perché creato da
Dio, il grande ingeniere, e comandato dall’anima attraverso il nostro cervello, dove ha sede:
Ed in verità si può benissimo paragonare i nervi della macchina che vi descrivo ai tubi delle macchine di
queste fontane; i suoi muscoli e i suoi tendini agli altri diversi congegni e molle che servono a muoverle; i suoi
spiriti animali all’acqua che le muove, di cui il cuore è la fonte e le concavità del cervello sono i castelli.
Inoltre, la respirazione e altre siffatte azioni che sono per essa naturali e ordinarie e che dipendono dal corso
degli spiriti, sono come i movimenti di un orologio o di un mulino che il corso ordinario dell’acqua può
rendere continui. Gli oggetti esterni, che con la loro sola presenza agiscono contro gli organi dei suoi sensi, e
che con questo mezzo la determinano a muoversi in parecchie maniere diverse, secondo la disposizione delle
parti del suo cervello, sono come degli estranei che, entrando in alcune delle grotte di queste fontane, causano
essi stessi, senza pensarvi, i movimenti che vi si fanno in loro presenza. Infatti, non possono entrarvi che
camminando su certe piastrelle disposte in modo tale che se, per esempio, si avvicinano ad una Diana che si
bagna, la faranno nascondere entro delle canne, e se procedono oltre per inseguirla, faranno venire verso di essi
un Nettuno che li minaccerà con il suo tridente; o, se vanno da qualche altro lato, faranno uscire un mostro
marino che vomiterà loro dell’acqua in faccia; o cose simili, secondo il capriccio degli ingegneri che le hanno
fatte. E infine, quando l’anima ragionevole sarà in questa macchina, avrà la sua sede principale nel cervello e
sarà lì come il fontaniere che deve essere nei castelli ove vanno a rendersi tutti i tubi di queste macchine,
quando vuole provocare o impedire o cambiare in qualche maniera i loro movimenti.24
22
René Descartes, Discours de la méthode (1637), dossier VI, 2. L’idea è ripresa dalla concezione platonica.
René Descartes, Discours de la méthode (1637), dossier IV. Qui illustra il suo celebre motto: cogito ergo sum.
24
René Descartes, l’Uomo (1630), Parte I, La macchina del corpo.
23
11
Nei suoi scritti Descartes mette in chiaro il rapporto tra l’anima e il corpo, indicando la mente come il luogo
dove l’anima pilota e governa un corpo di pura materia: Suppongo che il corpo non sia se non una statua o
macchina di terra che Dio espressamente forma per renderla a noi più somigliante.25
Nel diciottesimo secolo il medico e filosofo francese Julien de La Mettrie26 con l’opera L’Homme-Machine
(1748), porta agli estremi il pensiero meccanicista di Descartes. Per Julien de la Mettrie non solo il corpo, ma
l’universo intero è soggetto unicamente alle leggi della fisica. L’intervento di Dio non è più necessario
perché tutto funziona per forza d’inerzia, come risultante di un’iniziale energia cinetica:
Io non mi sbaglio affatto, il corpo umano è un orologio ma immenso, e costruito con tanto d’artificio e
d’abilità, che se la ruota che serve a indicare i secondi si è appena fermata, quella dei minuti gira e va sempre
sulla sua strada; come la ruota dei quarti continua a muoversi, e così le altre, quando le prime, arrugginite o
disturbate per qualsiasi motivo, hanno interrotto il loro cammino.27
25
Ivi.
Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), considerato il fondatore delle scienze cognitive. Ateo convinto, fu
perseguitato per i suoi scritti in cui sosteneva che il fine della vita era la ricerca del piacere e che l’anima era
un’invenzione dei teologi. Ipotizzò inoltre che l’uomo abbia avuto origine dagli animali.
27
Julien Offray de La Mettrie, L’Homme-Machine (1748), in L’homme et la machine, Hachette, Paris 1973, p. 72.
26
12
Terza Lezione: Essere avanguardia, essere movimento, essere contro la società. Vita e opere
di tre artisti esemplari: Jarry, Duchamp e Artaud.
8- Breve storia dell’idea di corpo in Occidente III: dal conflitto dell’individuo con la ragione
al conflitto dell’artista con la società moderna.
Nel secolo scorso la vita dell’artista era spesso al centro dell’attenzione: così il corpo dell’attore era
perennemente sotto lo sguardo curioso e morboso dello spettatore, in scena e ancor di più fuori scena. Da una
parte il sistema dello spettacolo, divenuto poderosa macchina economica, alimentava gli articoli di giornale
e i gossip sulla vita dei divi per aumentare il pubblico dei teatri, dall’altra la volontà di trasgredire le regole
sociali, per distinguersi proprio in quanto artista dalle masse dei consumatori, portava alcuni a condurre
azioni esemplari sia nella produzione delle proprie opere che sul piano della vita personale.
Occupiamoci di alcuni artisti dell’avanguardia, di cui si alimenterà poi la seconda parte del
Novecento per portare avanti le sue profonde trasformazioni: in primo piano Antonin Artaud, ma anche
Alfred Jarry e Marcel Duchamp. La loro vita eccentrica è emblematica delle tensioni vissute nella prima
parte del secolo. Ma quali sono le principali caratteristiche di quel momento storico? Espansione e
introversione, spettacolo e guerra, enormi masse che si scontrano in nome delle ideologie.
Il secolo dei Lumi inizia idealmente con un anno mirabile, il 1895, anno dell’invenzione del
dispositivo cinematografico da parte dei fratelli Lumière, con il meccanismo di scorrimento della pellicola
ripreso dai meccanismi delle macchine cucitrici e dei telai meccanici della fabbrica di tessuti della famiglia
Lumiére a Lione, ma anche anno dell’invenzione dei raggi X da parte di Röntgen. L‘Occidente guarda fuori,
in un movimento di espansione mondiale che completa e sancisce - attraverso le due grandi guerre - i
processi di conquista iniziati nei secoli precedenti e le tante guerre tra i popoli, le etnie e gli stati della parte
nord contro i popoli del sud del mondo, ma ci si guarda anche dentro, per la prima volta da vivi: l’individuo
entra in un processo d’introspezione, in maniera sempre più esasperata. Un labirinto dal quale non trova
ancora oggi l’uscita, per lunghi anni l’individuo si perde nei meccanismi identitari ed etnici, che hanno usato
il corpo, la genetica, come specchio e come legittimazione dell’oppressione dell’uomo sull’uomo.
Senza più passare per il cadavere, senza fermare i processi vitali, è finalmente possibile guardare dentro il
corpo, e non solo in senso psicologico (Freud ha cominciato a farsi strada da Vienna verso tutti i salotti e
divani delle città europee). Chi sono io e dove è questo mio io? Si domandano in molti nel mondo delle arti.
E il mondo scientifico risponde. Inconscio e inconoscibile si mischiano e confondono nella scoperta
dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande. Nuovi orizzonti e nuove frontiere del mondo
macroscopico e di quello microscopico si affacciano alla narrazione.
Emblematico è il caso del quadro di Gustave Courbet, l’Origine du Monde (1866), occultato negli
anni Cinquanta da un’opera del pittore surrealista André Masson nello studio di Jacques Lacan, lo
psicoanalista sposato all’attrice Sylvia Maklès, già moglie di Georges Bataille. Il quadro di Masson è posto
sopra al precedente, come una cortina teatrale che cela e disvela il grande mistero: il sesso femminile.
Il corpo e le sue parti anatomiche sono simboli visibili dei nodi invisibili dell’inconscio, i labirinti della
mente intorno a cui dibatte la borghesia tutta e si interroga: da dove dunque veniamo? ma anche: cosa
abbiamo dentro?
L’esperienza della caverna, da cui sgorga l’acqua fertile della sorgente originaria, ma anche quella
della grotta di cui parla Platone, è proiettata nel corpo femminile che è stato rappresentato nel quadro di
Courbet. Misteri dell’immagine ed evocazione dell’inconscio per cercare nel corpo della donna l’origine del
mondo.
La lezione di Gaston Bachelard si fa strada, solo l’immaginazione è in grado di gestire questa
quantità infinita di dati scientifici sulla realtà che vengono proposti come oggettivi dalla modernità. Le
immagini nascono da zone profonde dell’individuo, il subconscio poetico guida le creazioni originali
dell’arte attraverso la fantasia. Ogni fantasia è originale e dinamica in quanto ritaglia nel caos del reale il
proprio universo. Da lì la coerenza e la persistenza degli universi artistici.
Come abbiamo detto, in campo sociale si afferma l’antropologia e la sua variante razzista,
l’etnologia, che cerca di giustificare con criteri scientifici l’oppressione dell’uomo sull’uomo fondata su
questioni morfologiche e di territorio. L’idea di razza arriva a punte di aberrazione con il nazismo e intanto
la borghesia si rinnova, diversifica il suo campo d’azione, trova nuovi territori per lo sfruttamento
13
economico, sfruttamento che entra anche nel campo della conoscenza, con l’editoria e la galleria d’arte, la
società opprime ed esalta la figura dell’artista maledetto. Si riempiono le sale di spettacolo ma anche le
piazze con la protesta sociale e politica. Dal punto di vista industriale, settore economico dominante in
Europa, il corpo dell’individuo è in effetti di proprietà del capitalista, che detiene i mezzi di produzione e dà
lavoro al proletario, il lavoratore che ha come suo unico bene i figli. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo
non passa più per la schiavitù, abolita ovunque nel mondo durante il secolo, ma passa ormai per la posizione
sociale. Gli individui si aggregano in grandi movimenti di massa, divisi per ideologie sociali e culturali. Le
avanguardie artistiche si mobilitano contro i conservatori, che dai loro centri di potere non lasciano spazio
alle nuove generazioni. Il loro movimento è omologo a quello dei proletari in lotta contro i capitalisti che li
sfruttano, masse di uomini che si contrappongono, alla ricerca di spazio vitale per esprimersi.
Nel campo dello spettacolo si guarda con curiosità alle altre tradizioni, al mondo extraeuropeo,
conosciuto in Francia attraverso le esplorazioni coloniali. E così le esposizioni universali diventano momenti
cruciali per l’arte, come lo erano già stati nel secolo precedente i saloni per le arti plastiche e pittoriche dove
si erano svolte le lotte per l’affermazione degli impressionisti. Intorno ai saloni e alle esposizioni si portano a
compimento i musei creandone il pubblico, si affina e afferma il mercato dell’arte, e le avanguardie si
assumono il ruolo provocatorio di porre il problema degli scopi dell’arte all’interno della società di massa.
Lo spettacolo tutto, anche il teatro, entra a far parte del grande gioco della comunicazione di massa,
in un confronto serrato con l’arte cinematografica, come prima la pittura era entrata in rotta di collisione con
il realismo della fotografia. I teatranti aderiscono ai movimenti d’avanguardia e ne formano di nuovi, gli
attori si fanno acclamare come superuomini, nasce il culto delle star, che, specie al cinema, fanno sognare il
pubblico, e nel frattempo si afferma la figura del regista, che guida le masse degli attori e delle maestranze
verso un radioso futuro del teatro dove tutti saranno liberati, almeno per una sera, dal peso ingiusto del
lavoro e dello sfruttamento, come dall’oppressione del corpo e delle sue leggi fisiche. Per alcuni la parola
d’ordine è divertirsi (deviare dal solco del giogo quotidiano) per altri è divergere (cambiare strada) o magari
addirittura essere utile, efficace ed eversivo. Per altri ancora il teatro è innegabilmente politico. Il Novecento
teatrale, secondo Marco De Marinis, oltre che con Stanislavskij a Mosca (nascita del Teatro d’Arte, 1897)
inizia a Parigi con due eventi : l’apertura del Théâtre Libre di André Antoine (1887), ma anche la messa in
scena di Ubu Roi di Alfred Jarry il 10 dicembre1896 con la regia di Lugné-Poe al Théâtre de l’Oeuvre. Chi
era e da dove veniva Jarry, l’uomo dell’Ottocento che rivoluzionerà il nuovo secolo?
9- Artisti esemplari: vita e opere di Alfred Jarry (1873-1907)
Padre Ubu – Cornoventraglia ! non avremo demolito tutto
se non demoliamo anche le rovine28.
Alfred Jarry
Scrittore e drammaturgo, inventore di paradossi e fantasmagorie, esploratore dell’assurdo con la Patafisica,
scienza delle soluzioni immaginarie, che accorda simbolicamente ai lineamenti le proprietà degli oggetti
descritti per la loro virtualità29, Jarry nasce nel 1873 in Francia a Laval, nel dipartimento di Mayenne (Pays
de la Loire) e comincia a scrivere prima ancora dei tredici anni. La primavera 1888 è contrassegnata dalla
sua esplosione poetica, influenzata dall’opera di Victor Hugo e dall’incontro più significativo della sua vita
artistica con l’ampolloso professore di fisica, Félix-Frédéric Hébert. Questo anziano insegnante, simile in
tutto alle caricature di cui fu oggetto, diventerà nel tempo il calco per la figura di Ubu (lo stesso nome ne è
un derivato).
Nel 1891 si trasferisce a Parigi per continuare gli studi di «retorica superiore» al Liceo Henri IV, dove è
allievo di Henri Bergson, di cui segue con passione le lezioni, in particolare si interessa alle teorie sul riso e
sul tempo.
Il 28 aprile 1893 pubblica Guignol, che riceve il premio mensile per la prosa, nel quale fa la sua comparsa
ufficiale Père Ubu; è l’inizio dell’amicizia con Marcel Schwob - e altri intellettuali parigini - e di una
carriera fulminante e scandalosa.
Nel 1895 pubblica in volume César-Antéchrist, in cui si delineano alcune delle più articolate e sorprendenti
intuizioni del suo teatro, il cui principio ispiratore viene definito «araldico» e si discosta da ogni altra
28
29
Esergo a Ubu incatenato, in Alfred Jarry, Ubu, Adelphi, Milano 1990, p.108.
Alfred Jarry, Gesta e opinioni del dottor Faustroll patafisico, Giordano, Milano 1966, p. 31.
14
concezione conosciuta. Questo testo verrà apprezzato soltanto in chiave avanguardistica dal movimento dada
e quindi ritenuto un esempio di antesignano del teatro dell’assurdo.
Collabora, come attore prima e segretario poi, con il regista Aurélien Lugné-Poe a cui espone i suoi progetti
teatrali. Si presenta al lavoro sempre in tenuta da ciclista. La bicicletta è per lui la macchina per antonomasia:
simbolo del moto e, secondo lui, protesi esoscheletrica dell’impalcatura ossea del corpo umano.
A Parigi, con l’entrata in società e i primi successi letterari, si concede lussi al disopra delle sue effettive
possibilità, inizia a contrarre debiti sempre più rilevanti, che non salderà mai. Sulla sua vita si intrecciano
aneddoti, veri e falsi, a non finire: è un personaggio che recita la sua parte, molto simile a quella di un
buffone, sul palcoscenico della belle époque, e la società mondana gliene è riconoscente: lo accoglie a
braccia aperte, e gli permette anche di esplodere in pubblico qualche colpo di pistola (fortunatamente sempre
a vuoto).
Il 10 dicembre 1986 è la prima dell’Ubu Roi al Théâtre de l’Œuvre: si tratta di un vero scandalo, lo
spettacolo risulta incomprensibile agli stessi critici che non sanno decidersi se decretare la nascita di una
stella del firmamento simbolista o schierarsi dalla parte del pubblico urlante, che più volte minaccia di voler
trasformare la serata in una rissa colossale.
Nonostante tutto (l’alcool, la salute, i debiti, le follie esibizionistiche, i sempre più vani tentativi di trovare
una maschera alla propria solitudine, gli sforzi per sopravvivere al prorpio narcisismo, l’omosessualità...) è
sempre più attivo nella sua produzione letteraria.
Nel gennaio del 1897 su La Revue Blanche appare una risposta di Jarry alla pessima accoglienza della critica
di Ubu Roi, è una prima occasione pubblica in cui l’autore presenta una visione coerente e allo stesso tempo
corrosiva della sua idea di teatro. La fama di uomo dello scandalo cresce e all’autore si comincia a
sovrapporre la maschera del personaggio. Jarry stesso sembra accettare questa identificazione e sempre più
spesso appare in pubblico sotto le vesti di Ubu, con il volto imbrattato di cerone.
All’inizio del 1898 il Théâtre des Pantins mette in scena Ubu Roi con le marionette di Pierre Bonnard. Segue
un periodo relativamente felice durante il quale tenta di fondare una comune con i suoi amici, il Phalanstère.
Dal 1904 nuove difficoltà economiche lo colpiscono, insieme ad alcuni problemi di salute. Nel 1906
pubblica il primo capitolo de La Dragonne per la rivista di Paul Valery e diviene amico, fra gli altri, di
Guillaume Apollinaire.
Muore per una meningite tubercolare il primo novembre 1907 in solitudine nella sua ultima dimora, una
baracca che chiama Tripode, alla periferia di Parigi. Sarà sepolto dai pochi amici rimastigli e più tardi le sue
spoglie saranno disperse in una fossa comune.30
Nonostante le sue disavventure, la sua vita sarà un esempio illuminante per molti artisti del Novecento che lo
seguiranno, decisi a rompere definitivamente con le convenzioni della tradizione teatrale. Il primo fra tutti fu
Antonin Artaud che, insieme a Roger Vitrac, a lui intitolerà vent’anni dopo il suo piccolo teatro, attivo a
Parigi nel periodo dal 1926 al 1928.
Le sue teorie sulla forza rivoluzionaria dell’ironia, ispirate al realismo grottesco di Rabelais, edificate
sull’identità dei contrari e su ipotesi paradossali non lontane da quelle elaborate più tardi da Einstein, ma
anche la sua azione, che cercherà di mettere in pratica la dimostrazione per assurdo - secondo la quale si può
verificare la validità di un’affermazione assumendo che il suo contrario sia veritiero e confutandone
successivamente la correttezza - così come l’insieme della sua vita, saranno fonte d’ispirazione principale
per il movimento Dada31 e per quello surrealista32:
Jarry, uomo dell’ Ottocento, che irride la borghesia bigotta, era in definitiva un irredimibile
visionario. A lui e alla sua opera il merito di aver aperto degli squarci impensabili attraverso il
tempo, di aver preceduto e preconizzato l’intero teatro del Novecento, dada, surrealismo e rispettivi
post, smascherando le future evoluzioni del rapporto morboso tra uomo e macchina e l’insuperabile
conflitto con il Tempo. Serve allora rifarsi al sarcasmo di questo estensore di universi paralleli.33
30
Notizie tratte da Vincenzo Accame, Jarry, il Castoro 88, Milano 1974, notizie biografiche, pp. 85-88 e da «Colui che
nasce sotto in nome di Alfred Jarry», in Alfred Jarry, Scritti patafisici, :duepunti edizioni, Palermo 2009, pp. 113-123.
31
Movimento attivo dal 1916 a Zurigo ad opera di Tristan Tzara.
32
Il movimento surrealista data la sua nascita nel 1919 quando Aragon, Breton e Soupault fonderanno la rivista
Littérature a Parigi.
33
G.S. «Postfazione» in Alfred Jarry, Scritti patafisici, :duepunti edizioni, Palermo 2009, p. 133.
15
10- Artisti esemplari: vita e opere di Marcel Duchamp (1887-1968).
Le tele di Duchamp non raggiungono la cinquantina e furono eseguite in meno di dieci anni: infatti abbandonò
la pittura propriamente detta quando aveva appena venticinque anni. Certo, continuò "a dipingere", ma tutto
quello che fece a partire dal 1913 si inserisce nel suo tentativo di sostituire la "pittura-pittura" con la "pitturaidea". Questa negazione della pittura che egli chiama olfattiva (con riferimento all'odore di trementina) e
retinica (puramente visiva) fu l'inizio della sua vera opera. Un'opera senza opere: non ci sono quadri se non il
Grande Vetro (il grande ritardo), i ready-mades, alcuni gesti e un lungo silenzio.
Octavio Paz
Francese, amico di Francis Picabia, Tristan Tzara, Guillaume Apollinaire, Man Ray, Alfred Stieglitz,
maestro di André Breton, Marcel Duchamp inizia come pittore cubista, espone con successo nel 1909 al
Salone degli Indipendenti di Parigi, poi smette di dipingere nel 1913 ancora giovanissimo. Proprio al 1913
risalgono i primi schizzi e le prime note per la Mariée, e in quell'anno realizza anche il suo primo readymade
Ruota di bicicletta. Nel 1915 è a New York; qui conosce Man Ray. L’esposizione americana Armory Show
ne determina il successo negli Stati Uniti (grazie anche al lavoro dei collezionisti Walter e Louise
Arensberg). Alla mostra annuale della Society of Independent Artists di New York del 1917 presenta, con lo
pseudonimo di Richard Mutt, il suo readymade Fountain, un orinatoio elevato a opera d’arte. E' la prima
volta che un readymade viene presentato in pubblico, ed è anche la prima volta che Duchamp si cela dietro
uno dei sui alter ego. Il comitato direttivo della Society, che non può per regolamento rifiutare alcuna opera
degli iscritti occulta Fountain; Duchamp per protesta rassegna le dimissioni, seguito da Arensberg. A partire
da questa data adotta pseudonimi, dopo Richard Mutt, ecco la misteriosa Rrose selavy (la vie est eros): con
questo nome si fa fotografare variamente come donna nel 1921. Inventa prodotti in vendita (il profumo La
Belle Haleine) e consente ai suoi estimatori di investire su di lui con le Obbligazioni per la Roulette di Monte
Carlo, opere su carta vendute nel 1921.
Le sue tele "in movimento" (culminate nel Nudo che scende una scala, n. 2) potrebbero essere
etichettate come futuriste, ma il contatto di Duchamp con questi artisti fu nullo, e l'unica ispirazione
dichiarata era la cronofotografia di Edweard Muybridge.
Un esempio emblematico del valore della casualità nel pensiero dell'artista è 3 stoppages étalon (3
rammendi tipo) del 1913 che esprime appunto l'uso pianificato e incondizionato di un procedimento
aleatorio. In essa 3 fili di un metro ciascuno vennero fissati per sempre, mediante lacca, nelle tre diverse
curve che essi assunsero, naturalmente e casualmente, una volta lasciati cadere da un metro d'altezza su di
una superficie di stoffa blu. Quelle tre curve costituirono il profilo di altrettante sagome in legno conservate
come "campioni" metrici: una unità di misura fissata per sempre da un evento istantaneo e casuale.
L'orinatoio Fountain (Fontana, 1917) e la Monna Lisa con baffi e pizzetto di L.H.O.O.Q. (in francese suona
come “lei ha caldo al c.”, 1919), benché probabilmente travisati come semplici gesti iconoclasti, sono
certamente tra gli oggetti più famosi dell'arte del XX secolo. L'influenza di Duchamp sugli artisti successivi,
benché enorme e ingombrante, è molto mediata, tanto che non è facile riconoscere degli epigoni diretti. Di
sicuro, il concetto di ready-made, insieme al problema del gesto dell'artista come "selettore" dell'oggetto
d'arte, sono stati il punto di partenza per le varie forme di arte concettuale. Il ready-made è un comune
manufatto di uso quotidiano (un attaccapanni, uno scolabottiglie, un orinatoio, ecc.) che assurge ad opera
d'arte una volta prelevato dall'artista e posto così com'è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli
sarebbe propria. Il valore aggiunto dell'artista è l'operazione di scelta, o più propriamente di individuazione
casuale dell'oggetto, di acquisizione e di isolamento dell'oggetto. Nulla più.
Dopo la prima guerra mondiale torna a Parigi frequenta Tristan Tzara, Andre Breton, altri dadaisti, artisti e
intellettuali che da lì a qualche anno avrebbero dato vita all'avventura surrealista. Torna a New York nel
1920 e fonda con Katherine Dreier e Man Ray la Société Anonyme - Museum of Modern Art Inc., società
che ha lo scopo di promuovere l'arte moderna negli Stati Uniti. Sempre a New York nel 1921 attende con
Man Ray alla pubblicazione di New York Dada¸ usando il nome di Rrose Selavy, suo secondo e più famoso
alter ego nato l'anno precedente. Nel bienno successivo fa spola tra New York e Parigi, partecipa inoltre a
importanti tornei di scacchi, cui da molti anni dedicava gran parte del suo tempo ottenendo anche ottimi
piazzamenti a tornei internazionali. Nel 1923 il Grande Vetro (già degli Arensberg ma acquistato nel 1921
da Katherine Dreier) è lasciato definitivamente incompleto. In quello stesso anno emette le Obbligazioni per
la Roulette di Monte Carlo e parte per la Costa Azzurra a tentare la fortuna alla roulette. In questi anni
continua a vivere tra New York e Parigi. Nel 1933 partecipa a Parigi alla Exposition Surréaliste. L'anno
seguente, sempre a Parigi pubblica La Boîte Verte (tirata in 300 esemplari), che raccoglie note, disegni e foto
16
sulla Mariée. L'anno seguente espone i Rotoreliefs al Concours Lepine di Parigi come brevetto industriale. E'
a New York nel 1936 e l'anno seguente tiene la sua prima personale all'Arts Club di Chicago. Nel 1938
collabora con Breton e altri all'allestimento dell'Exposition Internationale du Surréalisme alla Galerie des
Beaux-Arts di Parigi. Per l'allestimento vengono creati dei vari environment ante litteram, come 1200 sacchi
di carbone, con sacchi di carbone, appunto, sospesi dal soffitto
Un’opera di Duchamp non è esattamente quello che si ha davanti agli occhi, quanto l’impulso che
quel segno rimanda allo spirito di chi la guarda. Questa sua caratteristica, profondamente innovativa per la
sua epoca, è divenuta una modalità di creazione sempre più comune tra gli artisti contemporanei.
17
Quarta Lezione: le avanguardie teatrali del Ventesimo secolo: i maestri e la pedagogia
teatrale.
11 - Breve storia dell’idea di corpo in Occidente IV: il potere ormai controlla totalmente il
corpo. Il corpo è una merce.
Le avanguardie teatrali del secolo scorso, fecero del corpo dell’attore un gioco, uno strumento di
liberazione oppure il territorio inesauribile della sperimentazione, il corpo si trasforma in un’ossessione da
cui tutto comincia e tutto finisce. La centralità del corpo in scena nei diari e nelle biografie di attori e
danzatori, in primo luogo Antonin Artaud, ma anche nel percorso di Jerzy Grotowski con la sua ricerca della
verità a teatro oltre la rappresentazione, e con l’elaborazione di specifiche tecniche del corpo per la
formazione dell’attore. Il teatro europeo del Ventesimo secolo si diversifica in una vasta area di rapporti
multiculturali da intendere per le relazioni che si vanno stabilendo sia in senso diacronico che sincronico con
le correnti teatrali precedenti, come con le altri arti e scienze (per esempio antropologia, filosofia, arti
plastiche, letteratura). E’ in questo senso che si va affermando l’idea che non esista più il teatro, uno solo,
bensì i teatri, tanti quanti i luoghi che possono ospitare gli spettacoli, ormai usciti dal classico edificio
teatrale e svincolati dalle convenzioni e dalle rigidità che si erano in esso stabilite. Anche in senso geografico
l’espansione dello sguardo teatrale porta, dopo aver esplorato il teatro russo di Mejerchold e Stanislavskij, e
quello cinese dell’Opera di Pechino, o giapponese di Sada Yacco e degli altri danzatori che primi arrivarono
in Europa, ad assumere lo sguardo che trapela dal teatro polacco, lo sguardo di Tadeusz Kantor e di Jan Kott,
al di là dalla cortina di ferro eretta nel secondo dopoguerra tra i due blocchi. Così il mondo occidentale
scopre il teatro di Jerzy Grotowski negli anni Sessanta, ben prima della caduta del muro di Berlino.
Secondo la definizione di Ferdinando Taviani territorio teatrale è ora non solo quello di scena ma
anche quello di chi ne rifonda i principi con la scrittura, i cosiddetti uomini di libro. Praticare il teatro
equivale a riflettere sui suoi scopi. Le diverse idee di teatro si incontrano e si scontrano, divise per correnti e
movimenti che si ispirano ai diversi maestri. Fare il teatro diventa un’arte che si impara e si insegna nelle
scuole e sui libri, oltre che con i metodi di allenamento del corpo.
Alcuni, come i commediografi ungheresi degli anni Trenta, rimettendo al centro del teatro il testo e
le sue possibilità narrative, sviluppano un’arte raffinatissima che sarà assorbita rapidamente dalla
cinematografia, facendo la fortuna di registi come Frank Capra e Billy Wilder, altri vedono nella scena
l’unica vera arte multimediale e piegano il testo al predominio del corpo dell’attore e alle potenzialità della
sua gestualità o azione fisica. Nasce la pedagogia teatrale nelle le scuole di teatro, si approntano i metodi,
che dovrebbero, se seguiti fedelmente, risolvere tutti i problemi : il mimo, la danza, Dalcroze, StanislavskijStrasberg, e il training del teatro povero di Jerzy Grotowski e di Eugenio Barba. Ma come si trasmette
un’eredità? chiede Eugenio Barba. La tradizione del teatro è sempre quella del corpo indomito e ribelle, che
opera un meditazione sociale su se stesso. Se il discorso sul senso del teatro prende sempre più spazio,
l’esempio di Antonin Artaud viene usato a simbolo di questa necessità di trasformazione e di rivolta, una
rivoluzione con il teatro.
Intanto lo spettacolo tutto, anche il teatro, entra a far parte del grande gioco della comunicazione di
massa, in un confronto serrato con l’arte cinematografica, come prima la pittura era entrata in rotta di
collisione con il realismo della fotografia. Per alcuni la parola d’ordine è divertirsi (deviare dal solco del
giogo quotidiano) per altri è divergere (cambiare strada), magari addirittura essere utile, efficace ed eversivo.
Per altri il teatro è innegabilmente politico.
Tutto è lecito, tutto è possibile in nome di un teatro divenuto ormai arte sempre più marginale e
minoritaria. Si parla tanto di rivoluzione e intanto le sale dei teatri si svuotano.
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12- Artisti esemplari: Antonin Artaud (1896-1948), la vita tragica di un homme-théâtre
(prima parte: Artaud e il teatro in scena, dal 1916 al 1937)
La vita di Antonin Artaud (1896-1948), lo scrittore francese che ha rivoluzionato il teatro della
seconda metà del ventesimo secolo, può essere suddivisa in due tappe fondamentali: ci occuperemo qui solo
della prima, che data a partire dal periodo della sua adolescenza fino all’internamento in clinica psichiatrica
nel 1937.
Non è da sottostimare l’influenza cosmopolita delle sue origini familiari: Artaud nasce il 4 settembre
1896 a Marsiglia, figlio maggiore di una buona famiglia francese di origine levantina, che intreccia parentele
pericolose per la salute - dato che le nonne Caterine e Marie Chilé erano sorelle, e quindi i due genitori,
Euphrasie Nalpas e Antoine Roi Artaud, cugini primi tra loro - nonché radici greche, maltesi, italiane e forse
armene. Il giovane Antonin cresce quindi all’interno di una famiglia benestante e cattolica, in ambiente
poliglotta e cosmopolita, parlando indifferentemente greco moderno con la nonna, italiano con la balia e
francese a scuola e in società. Comincia a pubblicare e ad esprimersi artisticamente molto presto: a
quattordici anni scrive già alcune poesie, ispirate a Baudelaire, Rimbaud e Edgar Allan Poe, che saranno
pubblicate nel 1916.
Arrivato a Parigi nel primo dopoguerra, Artaud si avvicina al mondo letterario, psicoanalitico e
cinematografico che era al centro della vita culturale francese, e entra a far parte del gruppo dei surrealisti di
André Breton. Già conosce Jean Paulhan, personaggio che sarà per molti anni al centro della vita letteraria
francese, che gli pubblica la Correspondance avec Jacques Rivière, corrispondenza cominciata nel 1923 e
data alle stampe nel 1927, uno dei primi esempi in letteratura di pubblicazione di uno scambio di lettere che
assume l’importanza non di documento accessorio della vita di uno scrittore, ma di corpus letterario in sé.
Questa modalità, la pubblicazione delle sue stesse lettere agli amici, sarà una costante dell’opera di Artaud.
A Parigi ha inizio la sua attività teatrale, qui elabora la sua teoria dell’atto utile a teatro, allontanandosi dal
gruppo dei surrealisti già dal 1926. Per Artaud l’azione fisica era lo strumento necessario alla creazione della
propria personalità, per riuscire ad essere non solo quello che per origine, classe, destino, si è dalla nascita,
ma soprattutto quello che concretamente si fa e si realizza di sé nel corso della vita. Decide quindi di
allontanarsi da ogni movimento letterario che resta confinato in un ambito solo teorico, per dedicarsi al teatro
come mezzo per cambiare effettivamente la sua vita.
Entra così, a ventitrè anni, nel mondo teatrale, prima nella compagnia di Lugné-Poe e dall’ottobre
del 1921 nell’Atelier di Charles Dullin. Recita in alcune pièce, tra queste Il piacere dell’onestà di
Pirandello34, dove per recitare un uomo d’affari arriva in scena con un trucco ispirato dalle maschere cinesi,
trucco piuttosto bizzarro in una commedia moderna.35
Sulla multiforme attività dei primi anni di Artaud a Parigi, Evelyne Grossman scrive:
L’alternanza regolare di periodi di straripante creatività seguiti da episodi di depressione e di sofferenza acuta
caratterizza la quotidianità della vita di Artaud. Gli anni 1926-1927, in questo senso, non sfuggono alla regola.
Da un lato scrive e pubblica molto (Fragments d’un Journal d’Infer [Frammenti di un giornale d’Inferno], L’Art
et la Mort [L’arte e la morte]), getta le basi del Teatro Alfred Jarry, continua a lavorare nel cinema (Le Juif
errant [L’ebreo errante] di Luitz-Morat, La passione di Giovanna D’Arco di Carl Dreyer, Verdun, visions
d’histoire [Verdun, visioni di storia] di Léon Poirier), pubblica la sceneggiatura di La Coquille et le Clergyman
[La conchiglia e il prete]; dall’altro, abbandona dopo una decina di sedute la psicanalisi, confessa di essere
«ricaduto pesantemente nel laud[ano]».36
I suoi scritti più noti sul teatro risalgono ai primi anni Trenta: in un articolo del luglio 1934 Artaud, con il
pretesto di una finta recensione a se stesso, spiega molto chiaramente la sua idea di teatro: farne una sorta di
atto utile. A unire il teatro con la vita, in questa fase della sua ricerca, sembrano essere i Grandi Miti del
Passato, che sono stati inventati per far durare e manifestare le ‘forze pure’. Occuparsi di questi miti, di
34
La Volupté de l’Honneur è il titolo con cui è tradotto in francese Il piacere dell’onestà, di Luigi Pirandello, messo in
scena da Charles Dullin nel 1922. Il Petit journal del 23 dicembre 1922 ne parla come della coraggiosa opera di un
giovane autore italiano.
35
Cfr. Charles Dullin, Lettera a Roger Blin, pubblicata in K revue de la poesie, Parigi 1-2 giugno 1948 per
commemorare la morte di Artaud.
36
Evelyne Grossman, Antonin Artaud, un insurgé du corps [A.A., un insorto del corpo], Gallimard, Paris 2004, p. 30
19
metafisica e occuparsi di teatro sembrano per lui, in questi anni, momenti della stessa ricerca: è dalla pelle
che faremo entrare la metafisica negli spiriti, dichiara Artaud nel 1935 37.
Per ricordare brevemente le tappe fondamentali del pensiero teatrale di Artaud, riprendiamo da
Grossman le informazioni sull’attività del Théâtre Alfred Jarry:
Nell’autunno del 1926, poco prima della sua esclusione dal gruppo surrealista, fonda con Roger Vitrac e Robert
Aron il Teatro Alfred Jarry il cui finanziamento è largamente sostenuto da Yvonne e René Allendy, il celebre
psicanalista che aveva fondato il gruppo di studi filosofici e scientifici della Sorbona. L’amicizia e l’entusiasmo
di questa coppia avrebbero a lungo sostenuto i progetti di Artaud sia a teatro che al cinema.
Il Teatro Alfred Jarry, il cui nome è un omaggio al maestro della patafisica, inventore del personaggio di Ubu Re
e grande ispiratore del teatro Dada, s’inscrive nella linea del primo surrealismo. La sua ambizione è affermata in
modo chiaro: farla finita con l’illusione e l’artificio, fare in modo che ogni pièce sia «una sorta di operazione
magica» inscrivendo la realtà direttamente sulla scena — tutti principi che annunciano il futuro Teatro della
Crudeltà. Paragonando uno spettacolo riuscito alle evoluzioni quasi coregrafiche di una retata di polizia
(paragone che Breton gli avrebbe a lungo rimproverato), Artaud terminava nel 1926 il «Manifeste pour un
théâtre avorté [Manifesto per un teatro abortito]» affermando la propria volontà di raggiungere il pubblico «nel
modo più pericoloso possibile»: «Lo spettatore che viene da noi saprà che viene a sottoporsi a una vera e propria
operazione, in cui non solamente il suo spirito, ma i suoi sensi e la sua carne sono coinvolti. D’ora in avanti
andrà a teatro come va dal chirurgo o dal dentista. [...] Deve essere ben convinto che noi siamo in grado di farlo
urlare.»
In poco più di due anni di breve esistenza, in mezzo a innumerevoli difficoltà tecniche e finanziarie, a numerosi
scandali e gazzarre surrealiste — quel che Artaud chiamerà più tardi con un po’ di magniloquenza «l’ostilità
pubblica» —, il Teatro Alfred Jarry riuscì tuttavia a presentare quattro spettacoli, fra cui Il sogno di Strindberg
(il 2 e il 9 giugno 1928) e Victor, ou les Enfants au pouvoir [Victor, o i bambini al potere], di Roger Vitrac (in
dicembre 1928 e gennaio 1929). Le testimonianze che ci rimangono, così come certe fotografie d’epoca,
consentono di immaginare la forza e l’inventività delle messe in scena di Artaud. Come i quattro «giacenti»
collocati su delle barelle nella messa in scena del Sogno: dei manichini che raffiguravano dei malati.
Redige ancora due progetti di messa in scena, uno per la Sonata degli spettri di Strindberg, l’altro per Le Coup
de Trafalgar [Il colpo di Trafalgar] di Roger Vitrac, ma, a causa dei finanziamenti insufficienti, decide di porre
fine all’esperienza del Teatro Alfred Jarry. Fallimento o successo? Il Teatro Alfred Jarry fu senz’altro, come
sottolinea il critico Henri Béhar, «uno dei più rivoluzionari della prima metà del secolo». E fu in ogni caso una
delle prime tappe che avrebbero portato Artaud ai grandi testi teorici degli anni trenta e alla sua definizione di un
nuovo «Teatro della Crudeltà».
È questo il linguaggio teatrale nuovo che Artaud intende mostrare e far sentire nella messa in scena del 1935 di
una pièce di cui è lui stesso autore, I Cenci, tragedia in quattro atti da Shelley e Stendhal. Sarà il primo e ultimo
spettacolo del Teatro della Crudeltà. [...]
La messa in scena che Artaud concepisce per I Cenci è ampiamente descritta nelle lettere e nei testi redatti
all’epoca; egli elenca il «movimento gravitazionale» che anima i personaggi, le vibrazioni delle onde Martenot
che pongono lo spettatore «al centro di una rete di vibrazioni sonore», «quell’andirivieni matematico degli attori
gli uni attorno agli altri, che disegna nell’aria della scena una vera e propria geometria», i manichini, le scene di
Balthus.
Con poche eccezioni la critica non fu buona. Colette tuttavia scrisse: «L’attore peggiore, Antonin Artaud, non è
il meno interessante. Rauco, nero, angoloso, agitato, fa a pezzi il testo come peggio non si potrebbe, è
insopportabile, eppure lo sopportiamo. Perché la sua è la luce della fede.» A causa di problemi finanziari, le
recite si interrompono dopo diciassette rappresentazioni. In alcune note personali, a proposito di quel mese di
dicembre del 1935, Artaud concluderà: «Mese maledetto di un anno maledetto, l’anno delle delusioni e della
Sconfitta. Successo in senso Assoluto dei Cenci.» 38
Dice Henri Béhar, teorico del surrealismo:
Il Théâtre Alfred Jarry lascerà un segno, nonostante la sua breve esistenza, perché avrà tentato una vera
liberazione del teatro, una certa epurazione, rifiutando tutti gli orpelli e pregiudizi che lo ingombravano, e per
aver voluto fare del luogo teatrale un luogo magico nel quale lo spettatore veniva a superarsi, identificando i
suoi desideri più segreti a quelli rivelati sulla scena, procedendo così ad una purgazione delle passioni, infine
37
Antonin Artaud, Le Théâtre de la Cruauté, premier manifeste (1935), (1a versione pubblicata in NRF nell’ ottobre
1932, 2a versione scritta nel maggio 1933 e pubblicata in Le Théâtre et son Double), in Œuvres, p. 565.
38
Evelyne Grossman, Antonin Artaud, un insurgé du corps [A.A., un insorto del corpo], op. cit., pp. 30-33.
20
uscendo dalla sala come purificati dato che, Artaud lo scriverà ne Le Théâtre et son double: “Il teatro è fatto
per vuotare collettivamente gli ascessi”. 39
Nel teatro, non più inteso come l’esperienza effimera di una sera, Artaud aveva cercato la forza per resistere
alle prove del destino e per migliorare la vita stessa. Tracce di questo pensiero sono presenti in questi anni,
insieme e a volte ancor prima della scrittura di quei testi che lo resero famoso negli anni Trenta, dalla
pubblicazione sulla Nouvelle Revue Française del primo manifesto del Teatro della Crudeltà nel 1932, in
poi. Il teatro è questo rito da lui riportato alle sue primitive funzioni. Dopo aver assistito alla conferenza alla
Sorbonne del 6 aprile 1933 sul teatro e la peste, Anaïs Nin scrive:
Il teatro, per lui, è il posto dove gridare il dolore, la rabbia, l’odio, per rappresentare la violenza che c’è in noi. La
vita più violenta può germinare dal terrore e dalla morte.
Egli parlò degli antichi riti di sangue. Il potere del contagio. Il potere magico del contagio che noi abbiamo perso.
Le religioni antiche sapevano come promuovere riti che rendevano contagiose fede ed estasi. Il potere dei rituali è
andato perduto, ed è quanto lui vuole dare al teatro. Oggi nessuno può condividere i propri sentimenti con qualcun
altro, e Antonin Artaud vuole che il teatro realizzi questo compito, di essere il centro di un rito che ci svegli tutti.
Vuole gridare per suscitare ancora fervore ed estasi nella gente. Niente discorsi. Niente analisi. Contagio, mediante
la rappresentazione di stati d’estasi. Non un palcoscenico fisso, ma un rituale in mezzo al pubblico 40.
Artaud menziona questa conferenza in alcune lettere che scambia con Rolland de Renéville. Sottoscrivendo
le critiche che gli sono state rivolte, parla di qualcosa che oscilla perpetuamente tra il fallimento e la
buffonata più completa, la cui grandezza vien fuori solo a momenti41.
Nel 1935 Artaud scrive un meraviglioso testo dedicato all’atletica affettiva, alla tecnica d’attore, alle
possibilità di comunicare che l’attore dovrebbe possedere. In calce al testo scrive:
NB. Non c’e più nessuno che sia capace di gridare, in Europa, e specialmente gli attori in trance non sanno più
emettere grida. Siccome non sanno più fare altro che parlare, in teatro, e hanno dimenticato di avere un corpo,
allo stesso modo hanno dimenticato come far funzionare la propria gola. Ridotti a gole anormali, non è più
neppure un organo, ma un’astrazione mostruosa che parla: gli attori in Francia non sanno fare altro che
parlare.42
E si dedica a dimostrare come sia possibile arrivare all’anima educando direttamente il corpo, ovvero
percorrendo strettamente la strada della materia:
Credere a una fluida materialità dell’anima è indispensabile nel mestiere dell’attore. Sapere che una passione è
materia, che è soggetta alle fluttuazioni plastiche della materia, garantisce un dominio sulle passioni che
allarga la nostra sovranità. [...] Sapere che l’anima ha uno sbocco corporeo permette di raggiungere l’anima in
senso inverso 43.
Anche nel Primo manifesto del Teatro della Crudeltà, del 1932, sostiene che il teatro debba rimettere in
causa organicamente l’uomo e il suo mondo interiore:
In altri termini, il teatro deve perseguire, con tutti i mezzi, una rimessa in causa non soltanto di tutti gli aspetti
del mondo obiettivo e descrittivo esterno, ma del mondo interno, il che vuol dire dell’uomo, considerato
metaforicamente. È solo così, crediamo, che si potrà ancora riparlare a teatro dei diritti dell’immaginazione. Né
Humour, né Poesia, né Immaginazione, vogliono dire qualcosa, se per una distruzione anarchica, produttrice di
una prodigiosa volata di forme che saranno tutto lo spettacolo, non riusciranno a rimettere in causa
organicamente l’uomo, le sue idee sulla realtà e il suo posto poetico nella realtà. 44
39
Henri Béhar, «Le Théâtre Alfred Jarry, Antonin Artaud», in Le théâtre dada et surréaliste, Gallimard, Paris 1979, p.
300.
40
Anaïs Nin, Diario I (1931-1934), a cura e con un’introduzione di Gunther Stuhlmann, Bompiani, Milano 1979, p.219.
41
Antonin Artaud, Lettera a Renéville dell’8 aprile 1933, in Franco Ruffini, I teatri di Artaud, crudeltà, corpo-mente,
cit., p. 128 e in OC, V, pp.146-147.
42
Antonin Artaud, Un athlétisme affectif (1935), in Œuvres, Gallimard, Paris 2004, p. 589.
43
Antonin Artaud, Un athlétisme affectif (1935), op. cit., ivi . Traduzione in Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, a
cura di Gian Renzo Morteo e Guido Neri, Einaudi, Torino 1968, pp. 242-244.
44
Antonin Artaud, Le Théâtre et la Cruauté, premier manifeste (1ère version publié dans NRF en octobre 1932, 2ème
version écrit en mai 1933 et publié en Le Théâtre et son Double), in Œuvres, op. cit., p. 560.
21
Il lavoro sul corpo, questo rimettere in causa organicamente l’uomo-spettatore, deve servire ad agire sulla
sensibilità del corpo per renderla adatta ad una percezione più approfondita, una nuova percezione che
permetta di rimettere in gioco il senso della realtà e il posto dell’uomo nel reale, non solo per gli aspetti
descrittivi esterni, ma specialmente per quanto riguarda il suo mondo interiore.
Su questo principio vorremmo dare uno spettacolo nel quale questi mezzi d’azione diretta siano utilizzati nella
loro totalità ; è uno spettacolo che non teme di andare lontano quanto serve nell’esplorazione della nostra
sensibilità nervosa [...]e che s’indirizza all’organismo intero, esplorandone la sensibilità nervosa senza separare
il corpo dallo spirito. 45
Gli incontri con altre culture sono una delle chiavi che permettono di comprendere i suoi scritti sul
teatro, dove l’arte è una necessità vitale che trasborda dai confini dello spettacolo per sfociare nella vita
stessa e nella sua osservazione antropologica. Artaud fu, come sappiamo, molto colpito dalla scoperta del
Teatro Balinese, prima all’esposizione coloniale di Marsiglia del 1922, poi a quella di Parigi del 1931, e dal
suo viaggio in Messico, tra gli indiani Tarahumara, nel 1936. Queste esperienze di vita accompagnano la
genesi e l’evoluzione delle sue teorie sulla recitazione, poi esplicitate nella raccolta Il teatro e il suo doppio
scritta negli anni Trenta e pubblicata nel 1938.
Poi sulla sua idea di teatro scenderà il sipario spesso e buio dei molti anni di ricovero psichiatrico,
dal 1937 al 1946.
(Per approfondimenti relativi alla seconda parte della vita di Antonin Artaud, dal 1945 al 1948, fare
riferimento al saggio online Artaud e corpo che completa queste lezioni di seminario).
45
Ivi, p. 557.
22
Quinta lezione: I maestri e il metodo : Jerzy Grotowski. Il corpo oggi è un residuo.
13- Artisti esemplari : Jerzy Grotowski (1936-1999), il filosofo del teatro.
Profitta di quest’esperienza, non durerà a lungo.
Jerzy Grotowski
Il teatro è, per Grotowski, la ricerca dell’essenza, di una sintesi essenziale tra arte e vita, al centro
della scena non i personaggi ma le persone, il pubblico e chi agisce, i Performer. L’arte teatrale è arte
suprema del vivere, per l’attore come per lo spettatore, nella ricerca di un giusto equilibrio tra processo
organico dell’attore e composizione estetica dello spettacolo. Nell’ultima fase della ricerca di Jerzy
Grotowski (1980-1999) al centro è proprio l’esperienza individuale dell’attore che ritrova un flusso nelle sue
azioni. Il termine flusso, mediato dalla ricerca antropologica, denota la sensazione presente quando agiamo
in uno stato di coinvolgimento totale. è una condizione in cui un’azione segue ad un’altra secondo una logica
interna che sembra procedere senza bisogno di interventi consapevoli da parte nostra. A teatro l’esperienza
del flusso è individuale, l’attore si ritrova con il suo movimento immerso in un continuum armonico con il
resto del movimento dello spazio-tempo, si attenua la distinzione tra il soggetto e il suo ambiente, fra stimolo
e risposta, o fra passato, presente e futuro.46Trovare un movimento che non sia né artificiale né improvvisato,
una danza che non è danza, immergersi nel flusso attraverso l’azione fisica. Secondo Grotowski il centro
dell’azione teatrale è fuori dalla volontà, in bilico tra la coscienza e l’inconscio, l’attore deve guidare con
rigore il suo corpo perché trovi quello stato di abbandono alle forze superiori e pre-espressive che
accomunano tutti gli uomini.
Le due definizioni del lavoro teatrale da lui proposte nel corso della sua opera, Arte come
presentazione e arte come veicolo, sono due modi molto diversi di concepire il lavoro performativo, anche se
vivere insieme un’esperienza estetica (arte come presentazione) e fare lavoro su di sé (arte come veicolo) si
rivelano avere alla fine alcuni punti di contatto, come due modalità opposte di un’unica catena, quella che
permette di realizzare una composizione organica che può essere destinata, sia ad essere uno spettacolo, sia
come parte di una ritualità di cui si è partecipanti.47
Per la ricerca teatrale si trattava di unire nell’esperienza quotidiana la scena della vita con quella
dello spettacolo. Il teatro era considerato da Grotowski atto di vita48, strumento adatto a incidere
effettivamente nella realtà sociale, occasione per far vivere sia agli attori che agli spettatori una forte
esperienza di vita. Ecco come ne descrive la peculiarità rispetto alle altre arti e la funzione sociale.
NATURA DEL TEATRO
di Jerzy Grotowski
Alla base del teatro contemporaneo ci sono due illusioni. La prima crede che, siccome il film e la
televisione rivaleggiano con il teatro sul campo dei mezzi tecnici avanzati (montaggio, cambio di luogo di
azione, ecc.), anche il teatro dovrebbe, per fronteggiare questa rivalità, sviluppare la base meccanica,
l'organizzazione della scena, il trucco meccanico, l’implementazione delle nuove tecniche, ecc. Nella
strategia esiste il concetto di "staccarsi dal nemico". È stato a volte usato per mascherare delle sconfitte, ma
il suo senso vero è evidente. Il teatro basato su un trucco meccanico non è in grado di superare né il cinema
né la televisione. Da questo punto di vista, il teatro si troverà sempre svantaggiato. Dunque, non dovrebbe
mirare a ciò. Dovrebbe staccarsi da questa problematica e scegliere coscientemente la miseria: cioè scegliere
solamente ciò che gli appartiene, in cui non può essere imitato, ciò che determina la sua diversità.
La seconda illusione è intendere il teatro come sintesi di più arti... ma lo spettacolo in cui è presente
la letteratura, la pittura, l’architettura, il gioco delle luci, la musica, la recitazione, ecc. è solamente
un’accozzaglia di generi, nella quale si perde la personalità diversa del teatro. Cosa è il teatro?
46
Cfr. Victor Turner, Dal rito al teatro, capitolo «Dramma e riti di passaggio», Il Mulino, Torino 1986.
La terminologia sistematizzata successivamente da Jerzy Grotowski con il saggio Dalla compagnia teatrale all’arte
come veicolo, pubblicato nel 1993, permette di ben comprendere i fenomeni italiani nei teatri di ricerca della fine degli
anni Settanta e dei primi anni Ottanta.
48
Scrive Jerzy Grotowski: la mia strada è considerare il teatro come un atto di vita, «Ordine esterno, intimità interna»,
(1969) in Opere e sentieri, a cura di A. Attisani e M. Biagini, Bulzoni, Roma 2007, p. 43.
47
23
Cosa è il teatro nella sua diversità? In cosa non può essere imitato da nessun’altra arte? Qui sta il nocciolo
del problema. Non diremo nulla di nuovo se affermeremo che la diversità del teatro consiste nello scambio
che avviene tra l’attore e lo spettatore, nella loro relazione diretta e persistente. Tutti ne parlano, non sarebbe,
dunque, l’ora di trarne le dovute conseguenze? Non sarebbe l’ora di capire che l’attore, che entra in scena
con la pancia finta, il naso finto e tutto il trucco preparato in camerino, non colpisce il bersaglio della
teatralità che, invece, è centrato dall’attore che compare nel campo visivo dello spettatore così com’è, e
davanti ai suoi occhi – con l’aiuto del proprio corpo e dei propri impulsi psichici – costruisce una maschera
sul proprio viso; fa credere di trasformarsi da magro in grasso, da giovane in vecchio, da un personaggio in
un altro. Non sarebbe il caso di notare che la musica registrata su un nastro, amplificata dagli amplificatori o
anche eseguita da un’orchestra scorporata dal gruppo degli attori è un fattore estraneo in uno spettacolo
teatrale, è un approfittarsi dei successi degli altri, qualcosa che rientra nel campo della cleptomania? Non
sarebbe il caso di affermare che l’essenza della musica teatrale è costituita dalla composizione delle voci
degli attori oppure da un montaggio degli effetti sonori derivanti da un battere di una scarpa sul
palcoscenico, un oggetto della scenografia contro un altro oggetto, ecc.? Non sarebbe il caso di rendersi
conto che il costume non assume significato o senso attraverso la recitazione degli attori, dirò di più, che
l'attore non può trasformare o modificare il costume in base alle proprie azioni, e che invece esso è un’opera
di arte figurativa e non teatrale e che, come tutta la scenografia, non appartiene alla natura del teatro? Se
l’attore fosse un attaccapanni dove vengono appesi dei costumi oppure uno sfondo per mostrare la
scenografia che agisce al suo posto, tutto ciò che è creativo sarebbe dovuto alla preminenza dell'arte
figurativa sul teatro, all' annessione del teatro dovuta alla sua debolezza; in questa situazione il teatro non ha
nessun merito, in quanto non esiste. Anche il testo letterario diventa un testo teatrale non in quanto testo ma
per quello che riesce a farne un attore (per es. con l’intonazione, con il timbro della voce).
E adesso passiamo ai postulati relativi allo spazio teatrale. Se ciò che distingue il teatro è la relazione
che si crea tra l’attore e lo spettatore, lo spazio teatrale dovrebbe modificare questa relazione in base alla
struttura dello spettacolo. Non servono edifici nuovi, basta una sala vuota, dove per ogni prima viene
modificato il posto degli attori e degli spettatori. Allora diventano possibili le relazioni più diverse. Gli attori
possono recitare nei luoghi o nei passaggi creati tra gli spettatori, quasi come corifei della collettività a
diretto contatto con essa, alla quale impongono una situazione nel dramma (un ruolo passivo nell’azione).
Ma gli spettatori possono anche essere allontanati dagli attori, messi all’interno di una specie di recinto dal
quale si vedono solamente le loro teste; da lì seguono dall’alto gli attori come gli animali allo ZOO, in una
specie di prospettiva deformata; sono come gli spettatori della corrida, come gli studenti di medicina che
assistono ad un intervento, oppure, infine, come quelli che sbirciano, perciò conferiscono a priori una
sensazione di un illecito morale. Gli attori possono anche recitare tra gli spettatori senza tenerne conto,
guardando attraverso di loro come se fossero di vetro; possono ergere tra loro delle strutture e implementare
il pubblico non più nell'azione ma nell'architettura dell'azione, conferire loro un senso visivo oppure
sottoporlo alla pressione dello spazio, al suo addensamento, alla sua limitazione. Infine, si può conferire a
tutta la sala il significato di un posto molto concreto: “l’ultima cena” di Faust si svolge in un refettorio, dove
l’Abate Faust riceve gli ospiti ai grandi tavoli; come in un convivio barocco, gli fa assaggiare gli episodi
della propria vita recitati sui tavoli, tra gli spettatori. La varietà delle possibilità è infinita.
Nei teatri di piccole dimensioni l'arrangiamento di tutta la sala per ogni spettacolo sembra la
soluzione più semplice e non costa di più di una scenografia tradizionale. E anche se si volesse lasciare la
scena e la platea divise, vorrei che si traessero delle conclusioni, che per ogni spettacolo fosse stabilito un
nuovo legame tra lo spazio teatrale e la relazione attore-spettatore e le azioni degli attori. Non è difficile
capire che in un teatro così concepito, e che io vorrei contrapporre al teatro ricco, dunque, in una parola, in
un teatro povero, tutto si basa sulla recitazione dell’attore e sul lavoro del regista sull’attore.
Finora ho sempre evitato di rispondere alla domanda “quale teatro vuole il pubblico?”. In primis,
perchè il pubblico abituato da molti anni a confrontarsi con un teatro che si era allontanato dalla propria
natura, non può aver elaborato un proprio istinto. In secundis, perchè non sono certo - in relazione alla
sincerità della creazione artistica - se sia importante stabilire cosa il pubblico voglia oggi; forse sarebbe
meglio considerare cosa il pubblico potrebbe desiderare domani. E forse la nostra pratica dovrebbe essere
mirata a ciò che il pubblico potrebbe desiderare domani. Infine, in tertiis, perchè ritengo che il concetto di un
pubblico generale, omogeneo sia un concetto falso. Il pubblico è costituito dagli spettatori che hanno reagito
in modo simile (insieme) ad una “sfida”. Ma non sarebbe il caso di affermare che, ad esclusione di alcuni
periodi particolari, oggi, nella nostra epoca, un solo tipo di reazione non esiste? Come sostiene Flaszen -
24
critico teatrale e mio stretto collaboratore - il pubblico non esiste, ma compare in alcuni, determinati periodi
storici; al di fuori di questi periodi non esiste un pubblico, ma gli spettatori. Dunque, forse, sarebbe il caso di
differenziare i bisogni interiori, gli interessi, le possibilità? Se la risposta è sì, allora dobbiamo rinunciare
all'orgoglio e non parlare a tutti, ognuno deve parlare a quelli che sente più vicini, con i quali riesce a
stabilire un contatto, a quelli a cui, forse, è destinato. Per quanto mi riguarda e per quanto riguarda la gente
che lavora con me, noi aspettiamo uno spettatore che desideri guardarsi dentro, guardare la sua reale,
nascosta natura, uno spettatore pronto a gettare la maschera della vita attraverso un trauma, un attacco, il
superamento delle norme e dei luoghi comuni, attraverso la trasgressione; uno spettatore che nella sua
nudità, nella mancanza di difese e nella sincerità che sconfina nell’eccesso si guarda dentro. Ciò determina
l’eliminazione dei pensieri fossili e si traduce in un attacco agli strati del subconscio dello spettatore
piuttosto che in una discussione tra intellettuali. Il teatro, per sua natura, non è un esercizio intellettuale.
Agisce mediante l’attore, la sua corporalità spiritata o spirito reso corpo (come preferirei chiamarlo),
attraverso la sua fisiologia, il suo respiro, il suo “bios”. Si richiama agli strati della nostra personalità che, nei
tempi antichi, trovavano sfogo nei riti sacri, nel superamento dei tabù durante le cerimonie. Mette a
confronto, noi, contemporanei, con uno spirito collettivo, cioè con un mito o con la sua rappresentazione. Ai
tempi della larga diffusione della fede, il teatro svolgeva la funzione più o meno sacrale, la relazione tra lo
spettatore e il mito si riduceva in un’identificazione. Lo spettatore non distingueva la verità di un mito dalla
sua verità individuale e nella reazione alla verità collettiva esorcizzava anche la sua verità individuale.
Al giorno d’oggi non esiste più quella situazione religiosa, la fede non è più tanto diffusa. Per questo motivo
la relazione tra lo spettatore e il mito dovrebbe consistere in un confronto, in una misurazione della verità del
mito sulla propria pelle, provata dalle esperienze individuali e dell’epoca. Per trasgredire, per superare un
tabù, per conoscere la verità attraverso la profanazione “cerimoniosa” (nel medioevo questo fenomeno
veniva definito la “parodia sacra”), il mito deve possedere una vitalità comune; eppure viviamo in un’epoca,
nella quale muoiono se non proprio i miti, sicuramente le loro forme tradizionali. Per questo, oggi, il
“superamento” è legato alla violazione del tabù della corporalità. La verità corporale, reale, umana e
indubbia del mito costituisce l’unica occasione per trasgredire. Se l'attore che interpreta Gesù Cristo in uno
spettacolo che racconta il suo calvario in tutta la sua corporalità, si sottopone alle prove alle quali fu
sottoposto il suo prototipo (il che sconfina in un eccesso portato molto avanti) può, oggi, raggiungere la
“parodia sacra”, l’atto di trasgressione. Non perdiamo tempo, però, in ironiche supposizioni sulla reale
crocifissione dell’attore. Non si tratta di una crudeltà esteriore o della sua reale rappresentazione. Il nocciolo
dell’arte recitativa sta nell’offrire l’intimità del proprio corpo, in quel particolare denudarsi, che, ad una
prima occhiata, sembra impossibile, e nel quale si integrano tutti i poteri spirituali di un attore, nella
concentrazione che non ha niente a che vedere con il narcisismo, nel godere dei propri sentimenti, in una
parola, non in un “io”, ma in un “tu”. L’attore che utilizza un testo come trampolino di lancio, oppure come
un mito sceneggiato, per raggiungere questo tipo di trasformazione deve costruirsi un preciso spartito delle
proprie azioni.
Una piccola cronologia dell’attività svolta da Jerzy Grotowski:
Periodo dal 1957 al 1969: Arte come presentazione
1955 Diploma d’attore alla Scuola di Teatro di Cracovia e inizia un anno di scuola di regia al GITIS di
Mosca (Scuola di regia del Teatro d’Arte) dove studia Stanislavskij, Meyerhold, Vachtangov.
1957-58 Prime regie : Le sedie di Eugene Ionesco e Shakuntala di Kalidasa.
1958-1959 Messa in scena di Zio Vania di Cecov.
1959 Si stabilisce a Opole con il Teatro delle 13 file, insieme a Ludwig Flaszen, drammaturgo.
1960 Caino e il Faust di Goethe
1961 Gli Avi di Adam Mizkiewicz che è lo spettacolo del cambiamento. Si elabora il training dell’attore.
1962 Il nome della compagnia cambia in Teatr Laboratorium. Prima dello spettacolo Akropolis (seguiranno
cinque diverse versioni in pochi anni).
1963 Eugenio Barba porta i delegati dell’ITI da Varsavia a Opole per vedere Dr. Faustus di Marlowe.
1964 Invitato a partecipare alla giuria del Festival di Nancy.
1965 Il Principe Costante da Calderon e Slovacki. Il Teatr Laboratorium si sposta da Opole a Wroclaw e si
inaugura il 10 gennaio 1965 con una replica di Akropolis.
1966 Il Teatr Laboratorium esce dalla Polonia, invitato a Parigi al Festival del Teatro delle Nazioni da Jean
Louis Barrault, ad Amsterdam, Bruxelles, Danimarca e in Italia, porta in tournée lo spettacolo Il Principe
25
Costante a Milano e al Festival di Spoleto. Un giornale italiano scrive che Grotowski droga gli attori per
portarli al limite delle loro possibilità fisiche.
1967 Scrive il testo sul training per l’attore Vers un theatre pauvre.
1968 Lo spettacolo Akropolis debutta in Francia.
1969 Dal 16 ottobre realizza un lungo soggiorno a New York con i tre spettacoli alla Chiesa Metodista di
Washington Square, con quattro settimane di laboratorio di Riszard Cieslak alla NYU’s School of the Arts a
novembre, ispirando il Peformance Group e Manhattan Project di André Gregory. La rivista Time sceglie le
produzioni del Teatr Laboratorium come le migliori opere teatrali dell’intera decade. In un discorso tenuto a
New York davanti a registi e attori della Brooklin Academy il 22 febbraio 196949, afferma chiaramente di
voler raggiungere la vita attraverso il teatro: Né il teatro di parola, né il teatro fisico; né il teatro, ma
l’esistenza viva nel suo svelarsi50. Grotowski prende da solo la strada dell’India, in un lungo viaggio
solitario, per ritornare in Polonia nel febbraio 1970, intenzionato a non fare più spettacoli, anche se le
repliche di Apocalypsis, appena portato in scena dopo due anni di lavoro, proseguirono per altri dieci anni.
Decide di non fare più spettacoli teatrali avviando una ricerca sull’azione umana, ai limiti del teatro. Per lui
lo spettacolo teatrale non sarà più la scena principale della ricerca.
Sempre nel 1969, Marc Fumaroli pubblica, sulla rivista americana The Drama Review, la famosa intervista a
Grotowski dal titolo Ordine esterno, intimità interna, che così si conclude:
Tutto ciò che posso dire con certezza è che nel teatro della nostra civiltà non ho mai incontrato una
partecipazione diretta. Il Teatr Laboratorium cerca uno spettatore/testimone ma la testimonianza dello
spettatore è possibile unicamente se l’attore compie un atto autentico. Se non c’è atto autentico, che
cosa c’è da testimoniare?51
In questi primi dodici anni di attività, Grotowski raggiunta la fama mondiale, fu un grande maestro
dell’allenamento dell’attore (il training psico-fisico), elaborò uno stile originale di messa in scena (il teatro
povero), e un metodo di montaggio testuale (l’improvvisazione strutturata).
Periodo di mezzo: Parateatro dal 1969 al 1978 e Teatro delle Fonti dal 1976 al 1982
1970 La prima pubblicazione italiana del suo Per un teatro povero è del 1970, seguono numerose ristampe.
Il libro viene presto presto considerato indispensabile all’attività di ogni teatro di gruppo italiano.
1975 Il suo Teatr Laboratorium è stato nel 1975 ospite della Biennale di Venezia, contemporaneamente agli
spettacoli del Living Theatre, di Peter Brook, Bob Wilson, Ann Halprin, quell’estate incontra centinaia di
giovani, durante un enorme happening durato due mesi, culminato con la presentazione di Apocalypsis cum
Figuris sull’Isola di San Giacomo in Paludo.52
1977 Con il gruppo interculturale del Teatro delle Fonti (1976-1982) è a Ostrovina e Brizninka, in Polonia.
Il progetto prosegue a fasi alterne fino al 1979, compiendo viaggi ad Haiti, in India e in Africa.
1977-1982 progetto Czuwanie (The Vigil) diretto da Jacek Zmyslowski
1979 Presentazione del Progetto Albero delle Genti al CRT di Milano. Azione fisica comune delle guide e
dei partecipanti in uno spazio chiuso.
1980 Ultima rappresentazione a Roma del suo ultimo spettacolo teatrale: Apocalypsis cum Figuris, al
Palazzo delle Esposizioni.
1980 A primavera realizza una sessione aperta del progetto del Teatro delle Fonti, tra Palermo e Trappeto
(Sicilia) organizzata da Beno Mazzone del Teatro Libero di Palermo. In estate, quattro gruppi di lavoro
internazionali accolgono i partecipanti in Polonia: gli indiani (compresi i Baul), gli Haitiani (Saint Soleil di
Tiga e Maud Robart) e i due gruppi internazionali.
49
Il 1969 è un anno importante per il teatro italiano, è dello stesso anno anche il Manifesto di Ivrea sulla nuova scena
teatrale, tra Quadri, Bartolucci, Testori.
50
Jerzy Grotowski, «Risposta a Stanislavskij», (1969) in Opere e sentieri, op. cit., p.61. Vedi anche Un inédit de Jerzy
Grotowski - L'obscenité au théâtre, in “ La Quinzaine Littéraire ” 1, 101, Paris, 15 septembre 1970, pp. 26-28.
[dichiarazione alla Brooklyn Academy of Music, New York, dicembre 1969].
51
Jerzy Grotowski, «Ordine esterno, intimità interna», (1969), in Opere e sentieri, op.cit., p. 43.
52
Chi partecipa a quell’esperienza ritornerà alle scene – e al suo quotidiano- profondamente cambiato, pronto ad
assumersi il teatro come totalizzante modalità di vita : tra questi la coppia Lombardi-Tiezzi, dell’allora Compagnia Il
Carrozzone-Magazzini Criminali, o il trio Barberio Corsetti-Solari-Vanzi, dell’allora Compagnia La Gaia Scienza, che
dopo quest’esperienza si costituiscono in gruppo teatrale, debuttando nel 1976.
26
1981 Colpo di stato di Jaruzelski del dicembre 1981 e legge marziale in Polonia. Grotowski e il gruppo,
ormai apolidi, soggiornano tra Volterra, Pontedera e altri luoghi (Haiti e USA).
1982 Nella primavera del 1982, Jerzy Grotowski tiene un lungo seminario di studio, le “lezioni romane”, due
mesi di conferenze quotidiane presso il Dipartimento di Spettacolo dell’Università di Roma, nella gloriosa
sede del Centro Teatro Ateneo, venendo a contatto con alcune centinaia di studenti romani interessati al
teatro, futuri fondatori di compagnie e gruppi teatrali che faranno la ricerca teatrale nei decenni successivi.
Memorabile l’inizio della conferenza:
Vi parlerò di ciò che m’interessa. Ciò che m’interessa è connesso con ciò di cui mi occupo praticamente. Ciò di
cui mi occupo praticamente da parecchi anni è un programma che si chiama “teatro delle sorgenti”. In certi
momenti vi parlerò di alcune esperienze dirette di questo lavoro, ma più spesso girerò piuttosto intorno a questo
tema e anche troverò una serie di analogie per poter analizzare le possibilità pratiche.
Allora posso forse dire che sono le tecniche originarie dell’attore quelle di cui parlerò? Per una certa parte
probabilmente sì, nel caso di un certo tipo di teatro e anche di un certo tipo di attore. Molto spesso no,
specialmente se si considera il teatro nel senso occidentale della parola, cioé come una creazione audiovisiva che
è vista dall’esterno dallo spettatore.
[...]
Allora in verità parlerò piuttosto di ciò che io chiamo “le tecniche delle sorgenti”. Sono le tecniche che l’uomo
applica a se stesso.53
Terzo periodo dal 1983 al 1986: Objective Drama
1983 Si stabilisce ad Irvine, University of California, dove richiede asilo politico per sè e per i suoi
compagni polacchi del Teatro delle Fonti. Avvia il progetto The Objective Drama con un nuovo gruppo di
lavoro, tra cui Thomas Richards.
1984 Il 28 gennaio un giornale polacco, la Gazeta Robotnicza pubblica una lettera aperta dei suoi attori
(Mirecka, Molik, Cieslak e di Flaszen) che dichiarano, dopo 25 anni di attività, di sciogliere l’attività teatrale
e di chiudere a partire dal 31 agosto 1984 la sede di Wroclaw.
Ultimo periodo dal 1986 al 1999: Arte come veicolo
1986 Torna a Pontedera su invito del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, in
Italia (attualmente: Fondazione Pontedera Teatro), del suo direttore Roberto Bacci e di Carla Pollastrelli.
Resterà fino alla sua morte, avvenuta il 14 gennaio 1999 nella sua casa-laboratorio di Vallicelle, dove fonda
quella che può essere considerata la sua ultima creazione, il Workcenter di Jerzy Grotowski che dal 1996
prende il nome di Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards. A questa fase di lavoro non sono
più ammessi spettatori o partecipanti, ma solo sporadicamente alcuni testimoni. La sua ultima opera è quindi
la creazione non di uno spettacolo o di un corpus teorico, ma di un luogo, il Workcenter appunto e la
preparazione di una persona, Thomas Richards, con la trasmissione diretta a lui delle competenze accumulate
in tanti anni di esperienza.
Dal 1994 a oggi, Thomas Richards dirige Action, un'opera da lui creata e sulla quale sta proseguendo un
lavoro costante. Action struttura, in un materiale legato alle arti performative, il lavoro su se stessi degli
attuanti. È composta di linee di azioni elaborate nei dettagli, costruite con e attorno antichi canti vibratorii.
La maggior parte di questi canti sono di origine africana e afrocaraibica e si esprimono dunque in lingue
appartenenti a queste culture. In Action appaiono anche, spesso sotto forma di incantazioni, frammenti di un
testo in inglese tradotto parola per parola dal copto. Questo testo proviene da una fonte remota della
tradizione giudaico-cristiana; non si può dire niente con sicurezza sulla sua origine. Negli spettacoli teatrali
in senso stretto, cioè nell'arte come presentazione, in linea di massima uno degli elementi indispensabili è il
racconto, la narrazione. Si racconta una storia, anche se l'essenziale può essere qualcos'altro. Invece per
l'osservatore di Action sarebbe più pertinente non cercare una storia - l'analogia potrebbe essere la poesia
piuttosto che la prosa.
È qualcosa di molto antico, di piuttosto dimenticato. Nell'arte come veicolo ci sono opere, ma esse non
richiedono necessariamente la presenza di osservatori esterni, perché questo lavoro non si orienta verso lo
spettatore come verso un obiettivo. Per questo i testimoni possono essere presenti o no. Per le persone che
53
Jerzy Grotowski, Tecniche originarie dell’attore, prima lezione, 22 marzo 1982, traduzione a cura di Luisa Tinti,
Istituto del Teatro e dello Spettacolo, pp. 1-2.
27
agiscono (i doers, gli «attuanti») l'opera è una sorta di veicolo per il lavoro su se stessi, nel senso che, come
in certe vecchie tradizioni, l'attenzione per l'arte va di pari passo con l'approccio all'interiorità dell'essere
umano. Se si parla in termini di qualità di energia, in Action il lavoro sugli antichi canti vibratorii diventa
una sorta di itinerario che parte dal vitale, dal biologico addirittura, per andare verso il sottile: salita verso il
sottile e discesa di questo sottile verso il livello della realtà più ordinaria. Dal punto di vista degli elementi
tecnici, tutto in questo ambito di ricerca è quasi come in un normale lavoro teatrale di lunga durata. Si lavora
essenzialmente sui canti, ma anche sugli impulsi, la partitura delle reazioni, la logica delle più piccole azioni,
i modelli arcaici di movimento, la parola, così antica da essere quasi sempre anonima. Tutto dipende dalla
competenza artigianale con la quale si è capaci di lavorare, dalla qualità dei dettagli, dalla qualità delle azioni
e del ritmo, dall'ordine degli elementi. Dunque si cerca di essere impeccabili dal punto di vista del mestiere.
In Action come in uno spettacolo del teatro d'arte, la struttura è ripetibile; ha un inizio, uno sviluppo e una
fine in cui ogni elemento deve avere il suo posto logico tecnicamente necessario.
Alcuni film documentari documentano la ricerca del Workcenter, prima e dopo la morte di Grotowski:
- Art as Vehicle, una documentazione filmata di Downstairs Action (opera creativa del Workcenter nel
campo dell'arte come veicolo, dal 1988 al 1992), filmata nel 1989 da Mercedes Gregory;
- ACTION in Vallicelle, una documentazione filmata di Action (opera creativa del Workcenter nel campo
dell'arte come veicolo, dal 1994 al presente), filmata nel 2006 da Jacques Vetter e prodotto da Tarmak Films,
Francia;
- Frammenti di opere performative del Workcenter filmati nel corso del progetto europeo Tracing Roads
Across (attivo dal 2003 al 2006).
Dice di lui Peter Brook in una intervista concessa a Wroclaw in occasione della commemorazione dedicata a
Grotowski nel decennale dalla morte, il 15 gennaio 2009:
PETER BROOK
JERZY GROTOWSKI: UN RICORDO
Il lavoro di Grotowski è unico, ciò che ha lasciato è un tesoro, e come ogni tesoro deve essere amato,
rispettato e trattato con grande, grande cura.
Ma trattare qualcosa con amore e cura non vuol dire tenerlo nascosto perché il lavoro di Grotowski era nato
nel teatro e il teatro è una forma, in cui un contratto avviene tra la gente, con la vita.
Oggi il lavoro di Grotowski deve servire nel futuro per uno scopo vitale, non è solo un corpus teorico, è un
corpus teorico nato da una pratica molto speciale e nessuno può immaginare di poter imitare Grotowski, ma
ci sono delle regole così preziose, che sostengono il suo pensiero e la sua pratica, che possono essere
d’ispirazione e di guida per le persone in vari campi in tutto il mondo.
Ecco perché è importante non perdere di vista il fatto che Grotowski era un uomo pratico, un uomo che
cercava grandi verità, attraverso forme diverse che appartengono alla vita. La sua ricerca era molto profonda
e molto alta e nello stesso tempo eminentemente pratica, perché era radicata nel corpo umano, e quello che
genera il corpo umano si esprime. Per questa ragione le due correnti che portò sempre avanti insieme – la
pratica del lavoro con le persone, sviluppandone le potenzialità, e il pensiero di una teoria che potesse durare
nel tempo – sono inseparabili.
[...]
PRIMA DOMANDA: Grotowski ha scritto: “Io sono Teacher of Performer”. Si può dire che nel teatro
contemporaneo gli attori possano imparare da quello che Grotowski proponeva e di cui era portatore?
Ci sono due cose completamente diverse, una è quella che chiamiamo “un metodo”: un metodo è qualcosa
che si può imparare in un libro, con il quale, se io voglio imparare una lingua, voi mi darete un libro dicendo:
“Questo è un metodo per imparare questa lingua”.
L’altro modo, che è infinitamente superiore, non è un metodo, ma l’influsso.
L’influsso, l’influsso che ha qualità, è molto più misterioso e passa attraverso molti canali diversi. Ecco
perché quelli che ingenuamente pensano che Grotowski, come l’Actor’s Studio di New York, fornisse un
metodo – così come la gente ha stupidamente creduto che esista un sistema Stanislavskij che si può seguire
per diventare un buon attore – non hanno capito la qualità essenziale di ciò che Grotowski stava facendo,
28
cioè aiutare a trasformare qualcosa nell’essere umano attraverso cui poter avvicinare le proprie capacità con
più coscienza e con più qualità.
E questo va molto più in là di quello che, in modo ordinario, si può chiamare un metodo d’insegnamento.
Direi che oggi la cosa più importante è riconoscere dove, nel mondo intero, persista il senso della ricerca di
una qualità molto alta in tutte le cose, che è quasi scomparso; e Grotowski è unico nel mondo del teatro,
perché può essere d’ispirazione per quelli che dicono: “Sì, posso essere un attore di grande successo, posso
essere un attore famoso, posso essere una grande star, posso fare un bel lavoro, ma questo ancora non va al
di là di un certo livello”. E avere l’ispirazione da qualcuno che può essere là, come una chiamata... c’è
qualcosa che è molto oltre, e si può andare alla sua ricerca, questo è molto importante; ed ecco perché c’è
così tanto da imparare da Grotowski, ma lui non può essere imitato, può essere trattato solo come fonte
d’ispirazione vivente – ciò che fu per tutta la vita – purché comprendiamo veramente da lui con che finalità
stava parlando.
[...]
TERZA DOMANDA: La formula “arte come veicolo” è molto spesso utilizzata quando si parla del
percorso di vita di Grotowski. Anche per lei l’arte è un veicolo? Se sì, verso dove?
Nel XIX secolo ci fu quello che secondo me divenne un culto disastroso, chiamato “arte per l’arte”, come
quest’altra parola orribile, “cultura”.
Per molta gente questi divennero oggetti sacri: l’arte; e la gente mi parla di teatro, di opera o di musica, come
se questi volessero dire qualcosa, per me tutto questo è merda, anche se perfino “merda” non ha alcun
significato, né buono né cattivo, fino a che non si tocca la sua realtà e si realizza che ha uno scopo, uno
scopo fondamentale nella vita, nello stesso modo in cui la merda ha uno scopo fondamentale nella vita: è il
veicolo di qualcosa che deve essere tirato fuori da un organismo sano.
Nello stesso modo, si può andare nella direzione opposta, dal fango verso quello che abbiamo visto oggi
come neve sciolta, che è parte di quello che la neve diventa: andare nell’altra direzione, verso il biancore, la
chiarezza, la purezza che “ci tocca”, della neve.
Anche la parola “biancore” non ha significato, “neve” non ha significato, è quello che “ci tocca” nel biancore
della neve. Così “neve” in se stessa non è la bellezza, è solo un veicolo, è una forma attraverso la quale
qualcosa che non ha forma, struttura, sapore, chiamato bellezza, può apparire.
Ecco perché fare dell’arte un dio è come fare del teatro un tempio.
Il teatro fu per lungo tempo, nel XIX secolo, e ancora quando io cominciai a lavorare, qualcosa di
indissolubilmente legato all’edificio teatrale, fino a che, nel corso del XX secolo, la gente scoprì che tutta la
tradizione del teatro è una relazione tra esseri umani.
Un teatro è utile se stai più comodo, se sei protetto dal freddo e dalla neve, se puoi sentire e se l’ambiente è
piacevole. Lo stesso è per un ristorante, ma anche un ristorante non è così importante come quello che
mangi.
In questo modo, molto, molto chiaro, Grotowski sentì fortemente che lui non faceva teatro per cercare il
successo, non faceva teatro perché la gente potesse gli dicesse: “è meraviglioso”, non faceva teatro perché la
gente gli dicesse: “che piacere ci hai dato”, non faceva teatro per fare qualcosa di bello, faceva teatro per
cercare qualcosa di sconosciuto, che è l’essenza profonda della vita umana, quello che, in modo maldestro,
per migliaia di anni è stato chiamato l’anima di un essere umano, perché non l’abbiamo mai visto.
Perché questo potesse apparire nella vita quotidiana, aveva bisogno di un supporto, qualcosa come uno
specchio che lo può riflettere. Ma uno specchio non è niente, uno specchio è lì per riflettere, ed un veicolo è
lì per trasportare, per essere quello che in termini più nobili si chiama una forma d’incarnazione: c’è
qualcosa che entra nell’aspetto carnale dell’essere umano e che non è lì per il suo piacere carnale ma come
54
veicolo di ciò che è stato incarnato.
54
Peter Brook, intervista su Grotowski, 15 gennaio 2009, Wroclaw, Polonia. Traduzione di Maia G. Borelli e Luisa
Tinti.
29
14 - Breve storia dell’idea di corpo in Occidente V: la scena del terzo millennio ha inghiottito
il corpo.
Il corpo-luogo non è né pieno né vuoto, non ha né dentro né fuori, così come non ha né parti, né
totalità, né funzioni, né finalità.
Jean-Luc Nancy 55
Oggi il corpo non è che un residuo, una rovina, una maceria che si corrode. La scena teatrale ne
mostra a volte la sparizione, con spettacoli come quelli della Tragedia endogonidia, M#10 Marseille (2007),
o di Hey Girl (2008) della Societas Raffaello Sanzio, o la performance Paso Doble del coreografo Josef
Nadji con l’artista Miguel Barcelò dove unico protagonista è un muro 56. Questa tendenza illustra lo
smarrimento dell’attore contemporaneo. In altri casi, al contrario, l’attore amplifica il ruolo del suo corpo in
scena fino a renderlo universo-mondo, come nella coreografia Körper di Sasha Waltz a Berlino (2001), o
nell’opera Le Grand Macabre (2009) diretta da La Fura dels Baus. In tutti i casi il teatro rispecchia il luogo
del conflitto contemporaneo tra il corpo naturale e l’idea che gli si è andata costruendo attorno. L’attore
oscilla in scena tra il desiderio di « rendere visibile l’invisibile» e quello di «far meglio vedere l’esistente»,
in entrambi i casi è una figura centrale del mutamento nell’epoca dell’estetica diffusa57.
La compagnia teatrale Societas Raffaello Sanzio 58 dichiarava nel 1995: « La scena restituisce il
limite del corpo e lo rimanda al suo proprio limite. Si percepisce la scena come quel luogo - unico al mondo dove chi parla sottrae, scava e accieca la parola che ha appena pronunciato; il luogo dove chi parla, alla fine,
vuole ritrarsi attraverso la voce» 59.
M.#10 Marseille, tragedia endogonidia X episodio, illustra in modo letterale l’autofagia del teatro
contemporaneo: il desiderio di mostrare l’azione teatrale facendo a meno dell’attore, dato che la scena di
questo spettacolo si è vuotata dei corpi e si è riempita di magma, ovvero ha divorato il suo attore. « M.#10
Marseille erige una costruzione di luci, dove masse gassose, vestite di colori, si organizzano e si sfidano a
duello come veri personaggi. Queste moltitudini di personaggi prendono il posto dei corpi reali e si muovono
come loro, come fossero esseri umani essi stessi»60.
In teatro, nicchia di resistenza contro la sovrabbondanza d’immagini mediatiche, il corpo subisce gli
attacchi delle immagini che cercano di levare peso e materia alla realtà. La confusione è totale: in certi
spettacoli, il corpo dell’attore è vissuto come totalmente superfluo e la scena è vuota, in altri, al contrario, i
perfomer lavorano il corpo con protesi tecnologiche che ne allargano i limiti spazio-temporali. I corpi degli
attori si tramutano allora in materia indifferenziata che si riduce in briciole; struttura modulare di pezzi
rimpiazzabili e non più organismo, complessità unitaria, come Descartes ci aveva insegnato. La scena
teatrale, proprio come quella reale, è oggi attraversata da un delirio d’onnipotenza biotecnologica.
Una rifondazione delle teorie della percezione e del ruolo degli spettatori di teatro è in corso, in una
corrente d’autodistruzione creativa che rimodella in modo irreversibile le coscienze contemporanee:
decostruzione, trasfigurazione, sovversione, inversione, regressione sono le tappe del processo che segna
pesantemente il corpo e le sue rappresentazioni performative. La riflessione teorica analizza le mutazioni
percettive degli spettatori e offre al teatro lo spettacolo dell’artificialità del corpo dell’attore, con la messa in
scena del suo disorientamento biotecnologico, incerto tra una brillante immagine digitale - nell’illusione di
una perfezione visiva definitiva - e la sua materialità imperfetta. In questo ultimo caso, per i giovani, abituati
a consumare immagini perfette, la rappresentazione teatrale diviene un’esperienza insolita, per la presenza de
visu e in situ dell’attore che mostra pubblicamente la sua carne, materia quanto mai fragile, avanzo di corpo
arcaico.
Ma l’esperienza è cambiata: vedere un corpo nudo in scena era negli anni Settanta qualcosa di molto
distante dal quotidiano, un’esperienza quasi irreale, trasgressiva. Oggi negli spettacoli teatrali non ci si limita
a mostrare la pelle nuda dell’attore, la sua superficie, come faceva il Living Theatre in Paradise Now. Gli
55
Jean-Luc Nancy, Corpus (2000), Cronopio, Napoli 2004, p. 16.
DVD de Paso Doble.
57
Cfr. Luisa Valeriani, Performers, Figure del mutamento nell’estetica diffusa, Meltemi, Roma 2009.
58
La compagnia Socìetas Raffaello Sanzio di Romeo Castellucci, Claudia Castellucci e Chiara Guidi è stata fondata a
Cesena nel 1981.
59
Claudia Castellucci, «Manifesto del Théâtre Khmer»,1985, in Claudia e Romeo Castellucci, Les Pèlerins de la
matière, éd. Les Solitaires Intempestifs, Besançon, 2001, p. 33.
60
Dal testo del depliant di presentazione dello spettacolo.
56
30
attori mettono in scena lo spettacolo dell’interno del proprio corpo: un cuore che batte o la traccia elettrica
dell’attività cerebrale, che sono esibiti dell’attore come prova tangibile della verità dell’atto teatrale.
Negli ambienti contemporanei c’è il rischio che il teatro passi dall’autonomia all’autofagia,
autodivorandosi a causa di una eccessiva mediatizzazione. Il corpo vero sparisce, rimane solo la sua
immagine. L’ultima frontiera del corpo in scena è oggi la sua sparizione dopo l’esplosione del suo sacco
dermico? Sulla scena non resta che uno spazio vuoto, ma non come quello indicato da Peter Brook, perché
senza più presenza umana, uno spazio attraversato soltanto da uan linea di luce, da un suono, da una
traiettoria che è già stata percorsa. Non ci resta che seguirne le tracce…
Da dove nasce il desiderio di fare a meno del corpo nello spettacolo contemporaneo? Affrontiamo
velocemente con questa breve storia dell’happening le tappe che hanno portato la scena all’assenza
dell’attore, in un breve excursus storico dal corpo al non corpo in scena.
Breve storia dell’happening
di Maia Borelli e Nicola Savarese
Quando John Cage si reca nel 1959 a Darmstadt, in Germania, e incontra il gruppo Fluxus, è un artista
che ha già compiuto alcune fondamentali esperienze, come i concerti di musica aleatoria. Alla fine degli
anni '40, Cage, musicista, filosofo e poeta, era stato artist in residence al Black Mountain College nella
Carolina del Nord, dove aveva invitato a collaborare con i suoi amici Julian Beck, regista teatrale, Merce
Cunningham, danzatore e coreografo, Robert Rauschenberg e Jasper Johns, artisti visivi, proponendo loro un
provocatorio laboratorio definito theater of mixed means. In una sorta di Bahaus americano - molti degli
insegnamenti del Black Mountain College sono ripresi proprio dal precedente movimento d'avanguardia
tedesco - Cage introduce l'elemento dell'indeterminatezza come centro per la riuscita della performance,
spostando quindi l'attenzione dall'opera d'arte come fatto compiuto ad una concertazione preliminare, appena
abbozzata fra gli artisti, e alla conseguente relazione che si stabilisce con il pubblico61. La relazione diviene
così essa stessa un avvenimento (happening = quello che sta avvenendo in questo momento ) e quindi una
nuova forma dell'arte. Nel suo libro The life of theatre, Julian Beck pone Cage tra i principali precursori
dell'improvvisazione con Music of Changes (1951)62. E certamente Cage fu all'origine di un dilagare di
performance e di happening in cui gli attori erano immersi in un'atmosfera sonora fluida e indistinta, ma
densa di immagini, i cui sviluppi erano, per lo più, affidati al caso.
Negli stessi anni, ispirandosi a Cage, un altro americano, Allan Kaprow63, sviluppò nuove tecniche di
relazione performativa con il pubblico, che coinvolgeva radunandolo in spazi non teatrali - fabbriche
abbandonate, aree industriali o all'aperto, loft - dove proponeva azioni provocatorie, per creare spettacoli
unici - da lui per la prima volta denominati happening - con l'attiva partecipazione degli spettatori. Gli
spettatori diventano così partecipanti e sono incoraggiati a stabilire proprie connessioni tra gli eventi
proposti. In sostanza, nella partita degli happening appena iniziata, gli artisti offrivano un ambiente
strutturato nel quale il pubblico poteva operare scelte del tutto personali o seguire le decisioni prese dalla
piccola collettività che si era appena formata, soluzioni improvvisate che finivano però per determinare
l'andamento di tutto lo spettacolo. Con questa de-localizzazione dello spettacolo e della responsabilità sulla
sua riuscita, il concetto di narrazione e di autore teatrale subiva, come è ovvio, un primo e profondo trauma.
Il fine ultimo del lavoro dell'artista era quello di proporre le condizioni per una generale “espansione della
coscienza”. Come scrisse Kaprow nel 1966, nel suo Untitled Guidelines for Happenings, “La linea di
demarcazione tra arte e vita dovrebbe essere mantenuta fluida, la più indistinta possibile”. A questo punto
l'arte poteva essere quella che si svolgeva senza più un pubblico, dato che ognuno poteva diventare parte
integrante dell'opera, di un'opera collettiva.
Di questa filosofia si nutrì certamente la pratica teatrale di Julian Beck e Judith Malina. La teatralità
del Living Theatre, il gruppo da loro fondato nel 1948, metteva in scena l'atto stesso della creazione,
lavorava sull'effimero e sulla forma aperta, diventando il luogo prescelto dove si poteva esprimeva ogni
resistenza e opposizione. Per il Living Theatre il teatro deve diventare il luogo dove si può produrre un
rapporto autentico tra esseri umani. Il tentativo di far partecipare il pubblico al gioco del teatro testimonia
questa ricerca di unità perduta: si fa teatro in funzione di un superamento delle separazioni fra gli individui.
61
Rosalee Goldberg, Performance Art: From Futurism to the Present, Thames & Goldberg, London 1979, pp. 79 e ss.
Questo concerto, il primo di musica aleatoria, fu ospitato nella sala Cherry Lane di New York gestita da Julian Beck e
Judith Malina agli esordi della loro carriera con il Living Theatre.
63
Allan Kaprow è morto nel 2006.
62
31
L'implosione della scena equivale ad una volontà di celebrare l'uguaglianza tra gli esseri umani. Per questo il
Living fa spettacoli dappertutto - strade, fabbriche, prigioni - situando il teatro, anzi realizzandolo,
unicamente come corpi che agiscono per gli spettatori. Si voleva ridare al teatro, nelle intenzioni non
diversamente dal teatro di ricerca europeo, la forza di una cerimonia di gruppo che fondasse l'unità di una
comunità.
Come è noto, il Living Theatre ebbe una lunga esistenza64 e decise di emigrare dagli Stati Uniti
all'Europa nel 1964 dopo la censura dello spettacolo The Brig in cui, ispirandosi per la prima volta alle idee
del “teatro della crudeltà” di Artaud, metteva in scena la situazione violenta di un carcere militare dei
marine. Vale qui la pena di ricordare, a testimonianza di una continua e vivida relazione di persone e attività,
che proprio lo spettacolo The Brig venne filmato dal lituano Jonas Mekas e dal fratello Alfred65, fondatori a
New York della Anthology Film Archives e animatori della controcultura statunitense. Se ricordiamo questa
connessione è proprio per illustrare la contiguità tra le arti propria dell'ambiente americano, soprattutto
newyorkese, che fu più aperto forse dell'avanguardia europea al nomadismo espressivo degli artisti: una vera
trasmigrazione tra le arti, anche grazie ad una minore pressione dei pregiudizi accademici.
Negli anni '60, a New York, insieme al Living Theatre devono essere ricordati altri gruppi teatrali
americani che oscillano tra l'happening e la performance, come l'Open Theatre di Joseph Chaikin, il
Performance Group di Richard Schechner e il Wooster Group di Elizabeth Le Compte: e specialmente i
membri dello Squat Theatre che si trasferiscono dall'Ungheria a New York trasformando il loft in cui vivono
e la loro quotidianità in un'inquietante vetrina di spettacolo permanente da osservare dalla strada. Sono i
primi tentativi di concepire un'interattività di ruolo tra attore e spettatore in un ambiente appena strutturato.
Quello di far uscire lo spettatore dalla passività fu uno slogan degli anni Sessanta che si consumò nei rituali
degli happening, della body art ma anche in taluni spettacoli di danza, di teatro immagine e persino negli
sviluppi generati da un teatro superstrutturato come quello di Grotowski che nella fase del parateatro, fra il
1969 e il 1978, fece sperimentare un'ampia partecipazione dello spettatore all'azione. In quel periodo il
Teatro Laboratorio di Grotowski, abbandonata la via degli spettacoli, si ridefinì come “Istituto coinvolto
nella ricerca culturale delle aree periferiche dell'arte, e in particolare del teatro”66. Un altro artista polacco, il
pittore-scultore Tadeusz Kantor proponeva, al contrario, happening con una forte componente d'arte visiva
come la celebre Panoramique de la mére del 1967, dove lo stesso regista si propone come un direttore
d'orchestra che volta le spalle ai musicisti per dirigere le onde di un mare deserto. Segnato dal dadaismo e da
Duchamp, Kantor proporrà, con il suo gruppo Teatro Cricot, un “teatro della morte” in bilico tra sculture
povere, installazioni, macchine surrealiste e recitazione di attori confusi con i manichini di se stessi67.
Orientato verso una performance da costruire con oggetti diversi (cricotage = bricolage del Cricot) e da
vedere (mescolando generi spettacolari), più che verso l'evento unico e irripetibile, Kantor gioca con l'icona
dell'attore ingabbiato nella supemarionetta:
Il teatro degli automi continua.
Tutti ripetono i gesti interrotti che non
concluderanno mai, prigionieri di se stessi per sempre68.
In effetti, a partire dagli anni '70, il concetto di interattività fra sala e scena, cioè della diretta
partecipazione dello spettatore all'azione teatrale, viene progressivamente sostituito dalla prassi di
performance in cui l'attore deve recuperare il suo ruolo creativo come protagonista di un evento:
Il suo [dell'artista] intervento verbale, multimediale, musicale o danzato rimette il pubblico nel suo ruolo di
spettatore […] La parola performance vuol dire atto. Atto pubblico come opera d'arte. La performance nasce
dall'incontro di tutti i codici artistici e dalla loro decomposizione69.
64
In questa formazione fino alla morte di Julian Beck nel 1985. Il Living continua tutt'oggi la sua attività con Judith
Malina, che è ritornata ad operare a New York insieme ad Hanon Reznikov, morto nel 2009.
65
VHS The Brig, 1954, regia di Kenneth Brown, durata 66’. VHS Paradise Now, regia di Sheldon Rochlin, riprese di
Berlino del 1970, durata 104’. Diritti italiani Edoardo Fadini, Torino. VHS Agonia, regia di Bernardo Bertolucci, 1967,
durata 10’.
66
Wolford-Schechner 1997, 244.
67
VHS Today is your birthday again, intervista a Tadeusz Kantor, 1970, durata 28’. VHS Qui non ci torno più,
sottotitoli inglesi, 1989, durata 80’.
68
Kantor 2000, 223.
32
Ecco allora la scena di Kantor invasa da oggetti stravolti dalle loro funzioni, porte, banchi, sedie,
letti, croci, uniformi, coperte e manichini a volontà che danzano sull'onda di valzer ossessivi e marcette
militari amplificate a dismisura. Si tratta di mettere in scena l'ambiguità tra il reale e il teatrale con intrecci
ironici e ludici tra gesto estetico e gesto reale, tra rappresentazione ed evento, in cui il performer esprime la
sua libertà individuale variando in diretta l'azione. Da qui la necessità di porsi davanti allo sguardo degli
altri, e di ridare quindi di nuovo al pubblico il suo ruolo separato di spettatore.
Quando, sostituendo il pubblico dal vivo, giungerà la videocamera a incarnare, con la sua leggerezza,
lo sguardo estraneo e oggettivo, nascerà allora la videoarte.
Il movimento della videoarte ebbe il suo maggior sviluppo dopo il 1964, anno in cui la Sony iniziò a
commercializzare il portapack, un registratore di videocassette in formato mezzo pollice Betamax, da
abbinare alle prime videocamere portatili. Da qui ad immaginarsi le possibilità espressive del video, il passo
fu breve: la telecamera e il registratore portatile permettevano una ripresa dal vivo facile e immediata, e
questo attrasse subito anche i performer, come Joan Jonas, Ulay & Abramovic70, Gina Pane, Bruce Nauman
e altri, che erano interessati a trasmettere variazioni e amplificazioni dell'avvenimento spettacolare e non più
solamente diversivi a lato delle trasmissioni televisive. La videoarte fa così il suo ingresso ufficiale anche nel
mondo dello spettacolo dal vivo passando dall'arte visiva al teatro. Di questi esperimenti teatrali ricordiamo
Variations V (1965) di Paik con John Cage e Merce Cunningham, in cui i danzatori, entrando in un campo
magnetico con i loro movimenti, modificavano i suoni, le luci e le immagini che li circondavano.
Un esperimento estremo in questo campo, fu quello del californiano Bruce Nauman che dal 1968 in
poi iniziò a produrre videotape della durata di un'ora, in cui riprendeva semplici movimenti del suo corpo
come camminare, saltare, suonare il violino, ai fini di un'analisi puramente cinestetica71. Nonostante la
telecamera potesse giocare con una serie di posizioni (dal punto di vista frontale al capovolto), l'esperimento
si rivela monotono: per la prima volta tuttavia, l'attenzione del video si concentrava esclusivamente sul corpo
del performer inteso come dato oggettivo.
Negli anni '80, grazie ai costi limitati e alle possibilità tecniche introdotte dall’elettronica di consumo,
assistiamo ad una moltiplicazione esponenziale dei mezzi espressivi e di conseguenza all'affermazione di una
vera pluralità di voci e di artisti. Il fenomeno della videoarte, sia come linguaggio che come cultura,
introduce allora anche la necessità di usare le immagini elettroniche per trarne nuovi racconti della realtà. Gli
artisti si ramificano seguendo vari filoni di ricerca e dando vita a continue contaminazioni di generi 72.
Ricordiamo, per la manifesta contiguità con il teatro, la videodanza di Meredith Monk e Merce Cunningham,
le ricerche videomusicali di Robert Ashley, per finire con le notissime performance, dichiaratamente teatrali,
di Laurie Anderson, Bob Wilson e Philip Glass con profusione in scena di riprese video e di tecnologie73.
Alla ricerca delle radici dell’arte virtuale, possiamo così considerare l’eredità di tutti i “produttori di
immagini”, dal mondo del teatro a quello dei filmaker e degli artisti visivi. La domanda del XX secolo sulla
“funzione dell’arte” nella società di massa si ripropone inesausta anche a chi si occupa oggi della netart e del
cyberteatro: ciò che più conta in questo processo tecnico-artistico è il fatto che a cambiare sostanzialmente
non è solo l’arte ma anche il modo di fruire e di percepire dello spettatore condizionato dai mezzi di
comunicazione di massa, soprattutto dalla televisione.
Sia le immagini dei programmi televisivi, degli spot pubblicitari e degli effetti speciali che riempiono i
film e i telefilm, come quelle dei computer, soprattutto americani, non lasciano un tempo sufficiente per
integrare, su base cosciente, le informazioni percepite e richiedono continui, inattesi adattamenti. Questo
fenomeno ha provocato la rinuncia alla cosiddetta decodifica interiore e l’abitudine ad un ascolto disattento.
L'attenzione “disabilitata” dello spettatore si estende pertanto dalla fruizione di immagini mediate all’offerta
69
Lista 1997, 337. L'imponente volume di Giovanni Lista, La scène moderne, ha due capitoli dedicati ad un'analisi
dettagliata di questo crogiolo di arti e tecniche: Dalle tecnologie al multimedia (pp. 80-100) e Dall'happening alla
performance (pp. 330-347).
70
Betacam Ulay & Abramovic, Urlo e Specchio, durata 7’.
71
La cinestesia (lett. percezione del movimento) è un punto di vista importantissimo per attori e danzatori: è la
percezione consapevole della posizione o dei movimenti del proprio corpo attraverso la sensibilità muscolare. Da essa
dipende quindi anche la percezione dell'attore da parte dello spettatore.
72
Cfr. Huffman-Mignot 1987.
73
Per questi performer, artisti notissimi anche nel campo teatrale, cfr. Goldberg 1979.
33
delle arti tradizionali, come per esempio quella degli spettacoli teatrali, che invece necessitano di tempi più
dilatati per essere percepite e assimilate. Come afferma Gillo Dorfles:
il linguaggio televisivo ci ha abituato ad un tipo di percezione e di associazionismo delle immagini del tutto
diverso da quello di un tempo, costringendoci ad una accettazione acritica di quanto ci viene presentato 74.
Per gli stessi motivi, lo spettatore si è ormai disabituato ai tempi dilatati del teatro tradizionale che
spesso lo annoia.
In quali direzioni si è dunque mosso il teatro per affermare una propria nuova identità dopo l'avvento
della televisione75 e della connessa videarte?
Più direttamente spettacolare, con messinscene stilizzate e attori-danzatori avvolti da musiche
ripetitive e minimaliste, Bob Wilson propone un teatro per immagini e grandi quadri. A partire da Einstein
on the Beach del 1976, Wilson rilancia sulla scena internazionale la dilatazione del tempo dei suoi primi
spettacoli (soprattutto Deafman glance del '69) e un'architettura spaziale di luci e movimenti essenziali che
sostituiscono il linguaggio parlato. Dichiarando apertamente “non c'è teatro senza l'artificialità del teatro”,
Wilson immerge la scena in un universo astratto e geometrico e utilizza amplificazioni ed echi per
raddoppiare la voce, accentuando la separazione tra voci e corpi. Ne deriva una sorta di opera contemporanea
che trova giusta corrispondenza anche nel mondo del melodramma storico: in un'intensa messinscena della
Madama Butterfly di Puccini, del 1993, sopprimendo l'enfasi consueta del melodramma inquadra i cantanti
in una severa gestualità e in un'illuminazione cristallina. Un teatro a metà tra pittura iperrealista e
inquadrature cinematografiche che ricordano il rigore dei grandi cineasti del bianco e nero 76.
È interessante notare come anche uno scrittore-drammaturgo-regista come Heiner Müller sigilli in un
titolo, Hamlet-Machine (1977), la fascinazione per il mondo meccanico e tecnologico. In effetti Müller fu
sensibile alle forme del teatro d'avanguardia - rimase affascinato dalle concezioni sceniche del teatro di Bob
Wilson - e impiegò nelle sue messinscene una drammaturgia definita della sommersione (überschwemmung)
in cui utilizzava una moltitudine di tecniche diverse al fine di inondare il lettore/spettatore di segni teatrali
che si fatica a percepire77.
Tutti gli esempi di teatro tecnologico, o aiutato dalle tecnologie (augmented theatre, teatro potenziato), sono
entrati in conflitto più o meno aperto con le numerose esperienze che hanno condotto alcuni uomini di teatro
verso la cultura rigorosa delle tecniche del corpo: un conflitto in realtà più tra gli spettatori che tra i creatori
stessi ma che testimonia come il teatro abbia realmente vissuto una dicotomia con l'affermarsi dei mass
media e delle tecnologie da essi veicolate.
Posizioni tormentate sono state particolarmente comuni nell'ambiente teatrale, specialmente quando
negli anni '60 e '70 il teatro diventò per molti individui un'intensa questione di vita e di libertà. Da un lato si
ebbe così la gente di teatro votata all'affermazione dell'attore e delle tecniche del corpo, che esprimeva il più
totale scetticismo, se non diffidenza, verso tutto ciò che allontanava l'attore dalla sua umanità. Fautori del
training, del lavoro dell'attore su se stesso, del lavoro di gruppo che rende incandescente lo spettacolo, questi
attori sperimentavano il potenziamento artistico del corpo, come sede di tutte le contraddizioni ma anche di
tutte le virtù. Dall'altro lato, artisti e sperimentatori, disillusi forse dall'efficacia del teatro tradizionale, meno
propenso a sperimentare su di sé, catturati dalle suggestioni delle avanguardie storiche, dagli happening e
dalle performance audiovisive del mondo anglosassone e americano, anch'esse per altro basate su un uso
estremo del corpo, erano inclini ad accettare ogni congegno e ogni tecnica che potesse potenziarlo e
moltiplicarlo, gettandosi a capofitto in quella riproducibilità e commistione dei linguaggi che è la
caratteristica dominante di tutte le avanguardie artistiche del secondo Novecento.
Con l'avvento di Internet però, questa separazione di colpo si assottiglia fin quasi a scomparire: alla
diretta di suoni e immagini della televisione si aggiunge un ulteriore elemento di relazione che non esisteva
74
Dorfles 2000.
Per quanto riguarda la televisione e il suo rapporto con il teatro dobbiamo considerare alcuni fattori che hanno viziato
la relazione: la spinta al consumo data dalla tv ha modificato i gusti del pubblico anche in teatro. La centralità della tv
oggi impedisce al teatro di essere rappresentato in quanto tale, senza venir travolto dalle problematiche relative agli
effetti della programmazione TV, cioè alla ricerca della massima audience.
76
Franco Quadri, Robert Wilson o il teatro del tempo, Ubulibri, Milano 1999.
77
Crista Mittelsteiner in, Béatrice Picon-Vallin (a cura di), La scène et les images, CNRS Editions, collection Arts du
spectacle/Les Voies de la création théâtrale, Paris 2001, pp. 137-149.
75
34
nei media precedenti, quell'interattività che permette allo “spettatore” seduto davanti al computer di reagire a
caldo, con impulsi in tempo reale, e con parole e commenti dal vivo. L'interattività di Internet in realtà non
cancella la distanza ma attuando, in uno spazio virtuale condiviso, una reciprocità multisensoriale tra chi
agisce e chi guarda, offre davvero l'illusione che la barriera mediatica tra attore e spettatore sia saltata, e con
essa l'antico privilegio del teatro. Sappiamo bene che in Internet non c'è la compresenza fisica come in teatro,
che quindi la barriera non è venuta meno e lo spazio di Internet permane mediato: tuttavia esiste un
coinvolgimento in tempo reale, una condizione di liveness, come è stata definita78, che può essere più
emotiva di quella provata con i media precedenti. In ogni caso un coinvolgimento reale, identificato come
teatrale da quelli che lo hanno provato.
Forse bisogna riprendere dalla teoria teatrale del Novecento l’assunto che il vero spettacolo non è
quello ricostruito dalla macchina, artificiale ed eterodiretto, ma quello che l’uomo crea nella sua mente, che è
virtuale nella sua accezione più antica e naturale. Se non ci preoccupiamo di rimettere al centro della
macchina l’uomo e il suo corpo rischiamo di provocare, attraverso l’onniscienza e onnipresenza virtuale, una
inerzia e inazione reale.
Maia Giacobbe Borelli è autore con Nicola Savarese di TE@TRI NELLA RETE, Arti e tecniche
dello spettacolo nell’era dei nuovi media, Carocci, Roma, 2004. E-mail: [email protected]
Bibliografia delle principali citazioni:
Prima lezione: Entrino gli attori, il corpo e la scena.
Platone, Fedro, par. 245 A, 246 C, 250 B e C.
Platone, Fedone, par. XI.
Platone, Gorgia 493 A.
Platone, Cratilo, 400 C.
Platone, Repubblica X, 611.
Sant’Agostino, «Alipio nell’anfiteatro», in Le confessioni, Cap. VIII del Libro VI.
Sant’Agostino, «La carne contro lo spirito», in Le confessioni, Cap. XVII del Libro VII.
Sant’Agostino, « Appassionata mania per gli spettacoli», in Le confessioni, Cap. II del Libro III.
Seconda lezione: Mente, persona, identità, la nascita dell’uomo moderno.
Italo Siciliano, Il teatro medievale francese, Biblioteca di Saggi e Lezioni Accademiche, Francesco Montuoro
Editore, Venezia 1944.
Jacques Le Goff e Nicolas Truong, Une histoire du corps au Moyen Age, Liana Levi, Paris, 2003.
René Descartes, Discours de la méthode (1637).
René Descartes, l’Uomo (1630).
Julien Offray de La Mettrie, L’Homme-Machine (1748).
Terza Lezione: Essere avanguardia, essere movimento, essere contro. Vita e opere di tre
artisti esemplari: Jarry, Duchamp e Artaud.
Jean Clair, L’an 1895, L’Echoppe, Paris 2004.
Didier Ottinger, Hypothèses élémentaires sur l’origine du monde, L’Echoppe, Paris 2008.
Alfred Jarry
Vincenzo Accame, Jarry, il Castoro 88, Milano 1974.
Alfred Jarry, Scritti patafisici, :duepunti edizioni, Palermo 2009.
78
Auslansder 1999.
35
Marcel Duchamp
Alice Bellony, Marcel Duchamp, Greenwich Village, L’Echoppe, Paris 2001.
Marcel Duchamp, in Duchamp du signe, Flammarion, Paris 1994.
Quarta lezione: le avanguardie teatrali del Ventesimo secolo, i maestri, la pedagogia teatrale e il
metodo di formazione all’arte dell’attore.
Antonin Artaud
Antonin Artaud, «Le Théâtre de la Cruauté, premier manifeste» (1935), (1a versione pubblicata in NRF nell’
ottobre 1932, 2a versione scritta nel maggio 1933 e pubblicata in Le Théâtre et son Double).
Antonin Artaud, Un athlétisme affectif, (1935).
Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, a cura di Gian Renzo Morteo e Guido Neri, Einaudi, Torino 1968.
Antonin Artaud, L’ombilic des limbes (1925).
C. T. Dreyer, La passion de Jean d’Arc (1928), film.
Evelyne Grossman (a cura di), Antonin Artaud, Œuvres, Quarto Gallimard, Paris 2004.
Evelyne Grossman, Antonin Artaud, un insurgé du corps [A.A., un insorto del corpo], Gallimard, Paris 20
Paule Thevenin (a cura di), Œuvres Completes, Gallimard, Paris, 1950-1978.
Paule Thévenin, «Antonin Artaud dans la vie», in Antonin Artaud, ce Désespéré qui vous parle, Seuil, Paris
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paragrafo II.3.4 «Il corpo è il luogo dell’oppressione».
Quinta lezione: I maestri e il metodo : Jerzy Grotowski. Il corpo oggi è un residuo.
Jerzy Grotowski
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La scena del terzo millennio ha inghiottito il corpo
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