William Schuman: The Symphonies (and selected orchestral works). Seattle Symphony; Gerard Schwarz director. Naxos American Classics. William Schuman: The Symphonies (and selected orchestral works). Seattle Symphony; Gerard Schwarz director. Naxos American Classics. I lavori di William Schuman sono una sorta di tesoro nascosto: rappresentano una parte importante, se non fondamentale, del linguaggio sonoro del Novecento. Ed è un tesoro che la Naxos racchiude in cinque cd dove all’integrale delle sinfonie si affiancano altri brani che al compositore hanno dato particolare fama e successo: “New England Triptych”, “Judith”, Circus Overture”, “Night Journey” e le Variazioni su “America” di Charles Ives. Una “raccolta” che si fa apprezzare per la grande macchina sinfonica che erge di fronte all’ascoltatore: ipnotica, drammatica, suadente, ironica, plastica, imprevedibile. Difficilmente catalogabile, se non per il fatto che Schumann è riuscito – nella sua carriera – ad organizzare una sintesi compositiva che fosse sì americana ma anche universale. Poliritmica, soprattutto, ma anche essenziale nel fine di esprimere i mordenti di un mondo in cambiamento. Attraversato dalla Seconda Guerra Mondiale, dalle tragedie e dalle rinunce. Dalla sofferenza e dalla ricerca di uno spirito Alto che facesse da tramite tra l’umanità e la scoperta di un significato che si ritrova, come ebbe a dire il compositore, nella musica stessa. Scura e sensoriale, percettiva e perspicace. Rarefatta, aleatoria, squisitamente cangiante: Schuman dipinge scenari apocalittici e pastorali con una forza che nasce dal particolare strumentale. Ogni singola famiglia è trattata con meticolosa cura nell’estensione timbrica al fine di trasformare il suono in una curva espressiva. E che richiede a chi ascolta un vissuto emozionale senza riserve. Nella lettura di Schwarz, le sinfonie di Schuman si presentano come un unico, immenso impianto di una musica senza confini. Letteralmente travolte da un desiderio di raccontare, incidere, marcare. I lavori di Schuman, dunque, non debbono essere considerati semplici episodi compositivi, ma placche di un affresco che si costruisce nota dopo nota. Schwarz , in questo caso, si offre come interlocutore privilegiato tra il pubblico e il musicista. Non cerca di ottenere l’effetto ma l’affetto. Non la provocazione, ma la purezza dello stile. Non l’eccezione – nei tempi e nel fraseggio – ma la regola di una conduzione pulita e chirurgicamente devota al segno originale. Il risultato è ottimo se si decide di ascoltare la raccolta senza concedersi pause: un cd dietro l’altro per ricostruire la storia di un artista che ha sempre puntato alla coerenza e all’eleganza. Alla temerarietà senza eccessi. E alla logica senza compromessi. Davide Ielmini Marlene Kuntz: “Canzoni per un figlio”. Emi Music. Marlene Kuntz: “Canzoni per un figlio”. Emi Music. Poesia liquida: non c’è nulla, oggi nella musica italiana, che somigli ai Marlene Kuntz. Nulla che segua la sua scia. Nulla che possa essere, nello stesso punto e con la stessa regolarità così piacevole. Diretta. Spogliata da esosità e tradimenti artistici. “Canzoni per un figlio” è un concept-album, non una raccolta. Arrangiamenti nuovi, spostati al centro del suono, interessati anche all’acustico ma mai troppo morbidi o levigati. E’ il cambiamento – in meglio – verso una direzione dove il battito si trasforma in palpito, l’elettrico sfuma nell’intimità, il testo è recitazione. Non sempre urlata. Anzi, spesso la voce trasuda di una debolezza voluta ma formidabile nell’arredare la scena di un mondo nuovo. Più adatto ad un figlio. Forse, meno cinico. Ci vuole qualcuno che spieghi e che guidi: è sufficiente un libretto per introdurre all’ascolto. Per avvicinare i giovani. Per dire ciò che non hanno e che, probabilmente, potrebbero perdere. Però, <la felicità non è impossibile / La stupidità la rende facile…Se sai bene ciò che fai / La felicità sarà sempre raggiungibile…Se non sai quello che vuoi / L’infelicità sarà spesso incomprensibile>. Così questo disco nasce da un principio che il gruppo ha fatto suo negli anni: “Assecondiamo la curiosità piuttosto che il calcolo”. E allora ecco un elenco di episodi di vita sparsa, che ricordano ancora i Sonic Youth, imbarazzati a volte da questa veste cangiante. Non solo gli inediti “Canzone in prigione” (scritta per una colonna sonora) e “Un piacere speciale”, ma anche “A fiori di pelle” (con la delicatezza degli archi) e “Canzone ecologica” (con le gocce sonore del piano). Non solo “Pensa” ma anche il sobbalzare lirico tex-mex di “Trasudamerica” con gli ottoni di Roy Paci. E la tromba che svetta. Non solo “Io e Me” (di una forza scatenante) ma anche “Ti giro intorno”. Una radiografia che rivela un corpo non ancora conosciuto: quello dei Marlene Kuntz post-Sanremo. Ancor più decisi a ribaltare il loro repertorio nelle luci della scuola d’autore, senza rinunciare però ai grumi del noise rock. Ed è così che li vogliamo. Davide Ielmini Chick Corea / Stefano Bollani: “Orvieto Concert”. ECM 2222 (Distribuzione Ducale Dischi). Chick Corea / Stefano Bollani: “Orvieto Concert”. ECM 2222 (Distribuzione Ducale Dischi). “Orvieto Concert” é da ascoltare rigorosamente in cuffia: Chick Corea e Stefano Bollani hanno uno stile che ben li caratterizza, ma quando l’incontro pianistico gioca sul contrappunto, sulle tessiture più increspate, sugli intrecci poliritmici, è consigliabile affidarsi alla tecnologia. I due si incontrano per la prima volta sul palco, ed è – come facile intuire – un capirsi a prima vista. Perché Bollani adora la musica latina e Corea quel jazz lirico che entra senza troppi complimenti anche nell’alveo europeo dell’improvvisazione e della musica colta. Le personalità sono simili: incisivo il pianismo di Corea (che alla linfa spagnoleggiante non rinuncia, rilasciata sui tasti come note sulla carta), strutturato, senza dubbio – non sempre però – criptico. Spensierato quello di Bollani. Ma anche elastico, sornione, disciplinato quando si decide di passare al setaccio le melodie di “Jitterbug Waltz” di Fats Waller, “Nardis” di Miles Davis, “Retrato Em Branco E Preto” di Antonio Carlos Jobim. Timbrica poi più “brunata” quella di Corea e più “limpida” quella di Bollani. Tocco, infine, da virtuosi della tastiera: senza temere confronti con chi, le ottave, le allena sugli Studi di Chopin. Atmosfera di gran classe: ispirata, divertita, che mette il pepe dove non si può dire. Cavalcata musicale, dunque, che rispolvera lo spleen di due artisti allergici alle prove ma sempre più ispirati dal confronto e dall’idea di improvvisare. Con fraseggi articolati, rapidi, sontuosi. Bollani dice di ispirarsi a Corea, e Corea a Bollani: insomma, tanti i complimenti fra i due. Ricambiati anche dal pubblico, che si avverte ipnotizzato di fronte alla bellissima rivisitazione di “Armando’s Rhumba” di Corea o di “If I Should Loose You”. Così, tra standard della grande tradizione jazzistica, brani devoti alla scuola della bossa-nova e original a firma di Corea e Bollani, il concerto si trasforma in un baldanzoso scoppiettio di atmosfere. Tutte diverse e tutte selezionate dalla sensibilità di questi pianisti che dell’Ecm sono punte di diamante. Davide Ielmini Enrico Rava Quintet: “Tribe”. Enrico Rava Quintet: “Tribe”. ECM 2218 (Distribuzione Ducale Dischi). Non c’é molto da aggiungere, a ciò che già é stato scritto in passato, sull’attività di Enrico Rava per la Ecm. Prima di tutto, musica stimolante. Curiosa, in seconda battuta. Avvolgente, come se fosse nebbia nella metropoli. E poi, epidermica, nascosta, tenebrosa. Non facile: perché il jazz di Rava, negli anni, ha assorbito la riflessione, la strategia strumentale e timbrica, la flessuosità del pensiero e dei solo. Così, “Tribe” somiglia tanto all’ennesimo capitolo di un racconto sonoro nel quale la composizione – più che altro, lo stile, il segno, il carattere – è la regina saggia di un jazz che si trasforma lentamente. E che, lentamente, fluisce. Senza rinunciare al gusto di comunicare con chiarezza il passaggio da una ballad ad un post-bop più articolato e dal passo deciso. Dopo Easy Living, Tati, The Words and the Days, The Third Man e New York Days, il trombettista genovese si concentra ancora sull’esplorazione della musica più lirica ma meno esposta. Certo, ammaliante ma senza accecare. E’, insomma, l’ideale compagna di viaggio per chi vuole ferire di malinconia concedendosi però il lusso di qualche piccolo colpo di testa. Con un quintetto nel quale le giovani promesse – e i giovani che le promesse le hanno ormai mantenute – svettano per bravura, entusiasmo, capacità di dirigersi tutte insieme verso la meta decisa dal Maestro Rava. Gianluca Petrella al trombone, per esempio, è ancora un ragazzotto che ha fatto incetta di premi e affascina gli americani (e nel gruppo di Rava richiama forse la stessa affinità del trombettista con Roswell Rudd, ai tempi della New Thing), mentre Gabriele Evangelista è nato nel 1988, si diploma in contrabbasso al conservatorio “P. Mascagni” di Livorno (sua città natale), studia jazz con Salvatore Bonafede. Nel 2010, dopo i corsi Siena Jazz, entra a far parte del quintetto di Rava. Su Giovanni Guidi, classe 1985, dice lo stesso trombettista: “Uno dei pianisti italiani più interessanti e originali. E io che lo conosco bene ed ho il piacere di suonare con lui con una certa frequenza, posso affermare con certezza assoluta che non è che l’inizio di una storia che prevedo straordinaria”. Il senso di “Tribe” è tutto qui: voglia di fare, mettersi alla prova, dimostrare che il jazz si può inventare giorno dopo giorno. Come il quintetto fa con alcuni vecchi brani scritti da Rava negli anni ed ora affidati alle “unghiate” di chi, per età, è meravigliosamente incosciente. Davide Ielmini Giovanna Pessi / Susanna Wallumrod: “If Grief Could Wait”. Giovanna Pessi / Susanna Wallumrod: “If Grief Could Wait”. ECM 2226. E’ ormai un dato di fatto, riconosciuto e accettato: la musica antica rappresenta lo specchio di un bisogno contemporaneo che non sempre si riesce a soddisfare. E allora lo stile seicentesco, in questo caso di Henry Purcell, si ritrova a dover condividere lo spazio con le liriche di Leonard Cohen e Nick Drake. Come dire: i poeti restano tali con il passare dei secoli, delle mode, dei capricci del pubblico. Questo disco della coppia Pessi (all’arpa barocca) e Wallumrod (alla voce) non è semplice: perché il gusto musicale è quello che lascia in ereditàla ScholaCantorumBasiliensis dove la prima ha studiato per cinque anni. In poche parole, un’immersione totale nella conoscenza dell’antichità e dei suoi stilemi. E’ così, in effetti, che la vivono le due protagoniste: musica che è commento, accompagnamento, arricchimento, disfacimento (in senso del tutto positivo) del testo originale. Si vedano Cohen e Drake per capire come e dove il tessuto armonico di una canzone può essere disfatto – come si disfa un lavoro a telaio – per poi ritrovare un senso nuovo del tempo: allungato nel timbro riflettente della Wallumrod, con le “code” sulle vocali e le strofe estese sugli accenti. Lavoro di scienza interpretativa, rielaborato nel pensiero, scandito nella trasparenza degli arrangiamenti musicali. Brani che si nascondono in loro stessi per lasciare il campo alla grandezza di chi li ha composti. Il quartetto, che si completa con Jane Achtman alla viola da gamba e Marco Ambrosini alla nychelharpa, non induge e si avvalora di una riservatezza che offre al suono una maggiore profondità. Nulla che faccia pensare, ovvio, alla prassi filologica nell’esecuzione. Piuttosto, una sperimentazione gradevole di ciò che può essere il pensiero musicale oggi in due giovani menti formatesi – è il caso della Pessi – al fianco di Rolf Liesveland e sotto la direzione di Philippe Pierlot, Harry Bicket, Nikolaus Harnoncourt e Marc Minkowski. Accade, così, che per capire meglio i nostri tempi – e i loro suoni- ci si debba rivolgere al passato lontano. Quando l’armonia era, forse, ancora un arcano votato alla difesa della vera bellezza. Davide Ielmini Paolo Fresu / A Filetta Corsican Voices / Daniele di Bonaventura: Mistico Mediterraneo. Paolo Fresu / A Filetta Corsican Voices / Daniele di Bonaventura: Mistico Mediterraneo. ECM 2203. Definita “Isola della Bellezza”,la Corsicaè una regione-nazione: affascinata dal separatismo, culla una sua identità che sfocia in conservatorismo e divulgazione. “Mistico Mediterraneo” ne è un buon esempio. Innanzitutto perché fa incontrare un trombettista sardo di fama come Paolo Fresu con un ensemblevocaleacappellacorsodialtrettantosuccesso:“AFiletta”(in italiano, felce). Poi, perché in questa incisione è la mistica – in quanto ricerca della estetica – a tracciare il cammino tra arcaico e moderno. Non la contemporaneità come la si intende, ma le sue estensioni di suono nella tradizione che rivive senza perdersi in se stessa. L’ensemble “A Filetta” nasce trent’anni fa, fondato da Jean-Claude Acquaviva, allora tredicenne, in Balagna. Si tratta di una storia di fascino, di conquista, di orgoglio. Ma, soprattutto, di musicalità: attraente, a volte meravigliosamente in sordina, evocativa. Sacra seppur profana. Perché dei vecchi riti, e delle superstizioni (“La folie di Cardinal” è costruita sulla strofa di un esorcismo), mantiene la forza sotterranea. E’ qui che la collaborazione con Fresu e Daniele di Bonaventura – al bandoneon – si fa preziosa: senza scalfiture, acrobatismi, tentazioni barocche. Trionfa, invece, la sintesi (il testo di “Le Lac” è quello di un mantra tibetano) e la primitività immediata, ribelle e rispettosa nello stesso tempo, di questi testi (anche del poeta corso Petru Santucci) cantati e recitati in latino, francese e corso. La lucentezza e il contrappunto delle voci stagliate sulla rappresentazione quasi teatrale del bandoneon – che non rinuncia ai soundscapes – si vaporizza lentamente nel tempo. Senza rinunciare alla tentazione – e questo vale soprattutto per Fresu – di riportare alla memoria ciò che Jan Garbarek ha fatto in “Officium” al fianco dell’Hilliard Ensemble. Emozioni forti (“Liberata” è dedicata alla Resistenza della Seconda Guerra Mondiale), dalle tinte in trasparenza con timbriche eccezionalmente levigate. Il “Dies Irae”, il “Gloria” (con il breve crescendo tremendo e febbrile), il “Gradualis” e il “Sanctus” sono vette di assoluta precisione. Allora, ci si accorge di quanto l’intero disco assuma la forma di una filigrana, di fronte alla quale il miglior commento è solo un sentito e religioso silenzio. Davide Ielmini Coldplay: MMylo Xyloto Coldplay: MMylo Xyloto. Emi Records 097 5532. I Coldplay hanno venduto 50 milioni di dischi. “Mylo Xyloto” è già un successo planetario: con la data a Dubai, poco tempo fa, hanno fatto sold out e raggiunto la somma di un milione di euro. La loro musica, composta come un cocktail nel quale variano le dosi degli ingredienti ma non i colori, saltella allegramente – con un’aurea falsamente riflessiva in testi e arrangiamenti – tra il brit-pop, un certo glamour anni Ottanta, richiami armonici e ritmici agli U2 e ventate di immediatezza melodica stile A-Ha. Dove, se non ci si riusciva con le note, la musica trovava una rapida soluzione nell’ammiccamento giovanilistico, nel romanticismo spietato, nella “riserva” di spontaneità e voce morbida. I Coldplay, purtroppo, sono uno di quei gruppi sui quali ci si dovrebbe interrogare: non sono forniti di un’originalità particolarmente spiccata, sono un misto di Beatles (nelle intenzioni) e rock alleggerito. Rappresentano un’icona contemporanea che di icona ha ben poco, se non la capacità di accendere i cuori dell’adolescenza ormonica pronta ad infiammarsi di fronte all’ennesimo riff riprodotto ad oltranza. Sono, i Coldplay, un gruppo che come tanti – oggi – non sono adatti a confezionare una colonna sonora adeguata ai nostri tempi di crisi. O, forse, chi scrive è così vecchio da pretendere che anche in questi nostri giorni nasca il Neil Young di turno o appaia miracolosamente, chissà da dove, un quartetto che non ci faccia rimpiangere i Led Zeppelin. La musica dei Coldplay è a tal punto costruita da pensare ad un organismo geneticamente modificato: troppo attenta, precisa, pulita. Con giri di accordi che rischiano di somigliarsi l’uno con l’altro e un risuonare continuo di punti di riferimento riadattati al momento. E’ questo che fa dei Coldplay l’ennesima realtà contemporanea di una musica che non ha molto da dire. O, se lo dice, non pone gli accenti al posto giusto. Parla al cuore, ma raccontando una storia già ascoltata da altre chitarre e in altre ballad strappalacrime. Sono dunque lontani i temi di “A rush of blood to the head”: il lavoro che fece attendere la svolta e la maturazione. Da parte sua ha ragione Chris Martin quando afferma che “avrebbe voluto recensire Ok Computer” dei Radiohead: quelli erano dischi! Davide Ielmini Pink Floyd: “A foot in the door – The best of Pink Floyd”. Pink Floyd: “A foot in the door – The best of Pink Floyd”. Emi Records. Non se ne avvertiva la necessità, perché non se ne sente la mancanza. I Pink Floyd ritornano nei negozi di dischi con il meglio prodotto in più di quarant’anni di musica. Ci sono brani cult che almeno tre generazioni conoscono a memoria: Hey You, See Emily Play, Another Brick in the Wall (part 2), Wish you were here e via di seguito sino a Learning to Fly e Confortably Numb. Un cd singolo di circa ottanta minuti per ripassare la storia non solo del rock psichedelico. “A foot in the door” non avanza sfide e non chiede rivalse: il mondo in cui viviamo è questo. E se a resistere, a incuriosire, a interessare e a far crescere – come ascoltatori – è ancora un gruppo nato sul finire degli anni Sessanta, è presumibile ci sia un vuoto che gli artisti contemporanei (e i talent-scout delle major discografiche) non riescono a colmare. Nulla di particolare, in tutto questo: sono i Pink Floyd di sempre, con un collage di cover storiche in copertina e una pulizia di suono che aiuta ad abbandonarsi al sogno. Un viaggio libero in una ricerca che se, anni fa, intimoriva qualcuno e rivoltava le certezze del sistema, ora appartiene al dna di una società stretta tra la sfiducia e l’incertezza del vivere. E, come spesso accade con le espressioni artistiche più lungimiranti e coraggiose, questi brani acquisiscono ancora spessore nel trattare problemi sociali mai del tutto risolti. Inutile filosofeggiare sull’importanza dei PF: questa raccolta ce li presenta nei migliori anni della loro vita. Con un solo rammarico: la scaletta non considera alcun brano da “Animals”. Conoscendo il gruppo, non si tratta certo di una dimenticanza. Davide Ielmini