BIBIKOVA A.M., MOSCA La rappresentazione del corpo umano nel romanzo di Luigi Pirandello «Il fu Mattia Pascal» Il mio intervento è il risultato della ricerca sulle rappresentazioni del corpo nel romanzo del 1904 «Il fu Mattia Pascal» di Luigi Pirandello. La ricerca è concentrata sopratutto sulla concezione del brutto a livello del corpo umano, sulle trasformazioni corporali del personaggio pirandelliano e i motivi connessi. Il tema del fisico nell'opera pirandelliana è già stata messa a fuoco da alcuni studiosi e critici letterari. Però una frase in particolare, scritta a proposito dei personaggi di Pirandello da Giacomo De Benedetti nel suo lavoro «Il personaggio uomo» è diventata canonica: «comincia nel romanzo e nel racconto l'invasione vittoriosa dei brutti»1 . Le deformazioni fisiche riguardano prima di tutto il volto del personaggio pirandelliano, la parte più espressiva della persona. Secondo De Benedetti, le deformazioni dei tratti facciali dei personaggi pirandelliani sono legate all'azione dell'inconscio entrato in scena: «l'oltre della persona». Leggendo Pirandello si notano alcuni momenti comuni nelle sue opere varie. Il personaggio è riconoscibile per un particolare del fisico. Per Mattia Pascal è il suo occhio, di cui lui parla ironicamente: «un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo, altrove»2. Già dall'infanzia quest'occhio gli cagiona dei problemi: doveva portare sulla sua «faccia placida e stizzosa» 3 grossi occhiali rotondi che gli avevano imposto per raddrizzarglielo. Leggiamo ai primi capitoli del romanzo: «Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, li buttai via e lasciai libero l'occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto, se dritto, quest'occhio non m'avrebbe fatto bello»4. Dopo ritorneremo agli occhiali nella vita del protagonista del libro. A questo punto bisogna notare che infatti non era solo l'occhio che faceva Mattia Pascal, diciamo, «particolare»: aveva «un barbone rossastro e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la fronte spaziosa e grave» 5. La consapevolezza del fatto che non è bello induce il personaggio alle prime meditazioni sui cambiamenti che una persona può o non può subire: «Forse, se fosse in facoltà dell'uomo la scelta d'un naso adatto alla propria faccia […] forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rassegnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto» 6. Per il contrasto, il fratello di Mattia, Berto, era «bello di volto e di corpo»7 e non sapeva staccarsi dallo specchio. Alcuni critici, tra i quali Alberto Asor Rosa, fanno notare il ruolo dello specchio e del guardarsi allo specchio nei romanzi e nei racconti di Pirandello8. Proprio guardarsi nello specchio e vedervi la propria immagine riflessa avvia nel personaggio il pensiero che poi lo porta alla perdita dell'identità. Comunque se a Berto il guardarsi allo specchio serve solo per accertarsi della propria bellezza d'uomo, per Mattia è un'altra cosa. Lui ricorda in particolare un giorno quando, dopo una grande lite tra la zia Scolastica e la vedova Pescatore, suocera di Mattia, in cui si era intromesso, Mattia non poteva smettere di ridere delle proprie sciagure e si è visto come da un nuovo punto di vista. I personaggi di Pirandello sono spesso rappresentati nelle sue opere come pupazzi o burattini che recitano una parte nel teatrino dal cielo di carta della vita, finché uno strappo in questo cielo non innesca l'epifania, lo svelamento della loro esistenza. La pena del vivere induce l'uomo a crearsi un guscio, che nella realtà sono le sue numerose maschere, un inganno per vivere. «Mi vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare […] e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo»9. È proprio quest'immagine che fa scappare via di casa Mattia e poi iniziare il suo viaggio. Bisogna anche sottolineare a questo punto anche il ruolo del riso, altro indicatore nell’opera pirandelliana dello straniamento del personaggio dalla propria personalità. Il viso di Mattia, attore della tragedia buffa, alterato dal riso, sgraffiato e lagrimante, rappresenta una maschera espressiva del suo stato d'animo, della sua sofferenza. I tratti «brutti» dei personaggi pirandelliani spesso sono una maschera che esprime il dolore, la sofferenza, l'infelicità, l'angoscia, le disillusioni della vita, l'inconscio sconvolto. Il riso, in questo caso dell'estrema disperazione, funziona come un meccanismo protettivo per non impazzire affrontando il paradosso della vita. Renato Barilli nel suo libro «Pirandello. Una rivoluzione culturale» scrive a proposito del fatto che il «ridere di fronte a sciagure, rafforzata da una caratteristica fisica»10 (l'occhio) mette in evidenza «l'estranietà di Mattia dalla massa dei suoi simili»11: «Mattia insomma appartiene alla categoria dei “segnati da Dio”, di coloro da cui, come vuole una voce popolare, bisogna guardarsi, giacchè il difetto esteriore più o meno rilevante sta a indicare che anche all’interno qualcosa non va. […] L'autore rovescia il difettuccio in segno di forza, in biglietto da visita per rivelare la presenza di una capacità di autoriflessione»12. Ritornando al testo del romanzo, vediamo che dal giorno dello straniamento da se stesso comincia la storia della trasformazione interna e del cambiamento della personalità, nonché dell'aspetto fisico di Mattia Pascal. Mattia va via dalla sua città natale, Miragno, si reca prima a Nizza, poi a Montecarlo, dove gioca alla roulette. Lì fra gli altri giocatori lui nota «un giovinetto, pallido come di cera, con un grosso monocolo all'occhio sinistro il quale affettava un'aria di sonnolenta indifferenza» 13 e perdeva sempre nel gioco, e la sua «ombra» (il motivo di cui si parlerà più tardi), un suo vicino che gli stava sempre accanto «un signore magro, elegantissimo, su i quarant'anni; ma aveva il collo troppo lungo e gracile, ed era quasi senza mento, con un pajo d'occhietti neri, vivaci, e bei capelli corvini, abbondanti, rialzati sul capo» 14. Il giovinetto diventa in un certo modo un sosia di Mattia Pascal, come si nota in seguito, leggendo il romanzo. Però già dall'inizio tutti e due sono uniti dalla menzione della particolarità di un occhio: lo strabismo di Mattia e il monocolo del giovinetto. Il giovinetto pallido poi si suicida con la rivoltella. E anche nella descrizione del suo corpo morto visto da Mattia il narratore attrae l'attenzione del lettore all'occhio del giovinetto: «Mi parve dapprima che la palla gli fosse uscita dall'occhio sinistro, donde tanto sangue, ora rappreso, gli era colato su la faccia. Ma no: quel sangue era schizzato di lì, come un po' dalle narici e dagli orecchi; altro, in gran copia, n'era poi sgorgato dal forellino alla tempia destra, su la rena gialla del viale, tutto raggrumato. Una dozzina di vespe vi ronzavano attorno; qualcuna andava a posarsi anche lì, vorace, su l'occhio»15. L'immagine di questa morte si riflette poi in un'altra visione, che Mattia Pascal dopo aver letto nel giornale del suicidio a Stìa, ha nel treno con il quale intende di ritornare a casa coi soldi vinti alla roulette. I compaesani e i parenti avevano scambiato il cadavere «in istato d'avanzata putrefazione»16 del suicida rinvenuto nella gora del mulino per il corpo di Mattia Pascal scomparso dal paese da alcuni giorni. «Mi vidi per un momento, lì nell'acqua verdastra della gora, fradicio, gonfio, orribile, galleggiante... Nel raccapriccio istintivo, incrociai le braccia sul petto e con le mani mi palpai, mi strinsi: “Io, no; io, no... Chi sarà stato?... mi somigliava, certo... Avrà forse avuto la barba anche lui, come la mia... la mia stessa corporatura... E m'han riconosciuto!...”»17. Il fatto che l'hanno dato per morto induce Mattia Pascal a pensare chi è lui e, dopo, a crearsi una nuova identità, quella di Adriano Meis. Sceso dal treno ad Alenga Mattia Pascal inizia a cambiare la sua identità cominciando dalla trasformazione del proprio aspetto fisico: va dal barbiere per farsi accorciare la barba. Dopo si guarda nello specchio: «Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d'odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch'egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell'occhio! “Ah, quest'occhio,” pensai, “così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d'occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l'aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese.” Non c'era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d'aspetto.»18 Ecco di nuovo che il protagonista mette gli occhiali che ora devono servirgli per nascondere i tratti della sua faccia, diciamo, vecchia, a maniera di una maschera. Il nuovo nome, Adriano Meis, il personaggio lo sceglie dopo e bada che questo nome quadri bene con il suo nuovo aspetto. Il riso diventa un'altra cosa caratteristica della nuova identità del protagonista: «mi sarei armato d'una discreta filosofia sorridente per passare in mezzo a questa povera umanità»19; «Avevo già effettuato da capo a piedi la mia trasformazione esteriore: tutto sbarbato, con un pajo di occhiali azzurri chiari e coi capelli lunghi, scomposti artisticamente: parevo proprio un altro! Mi fermavo qualche volta a conversar con me stesso innanzi a uno specchio e mi mettevo a ridere. “Adriano Meis! Uomo felice! Peccato che debba esser conciato così... Ma, via' che te n'importa? Va benone! Se non fosse per quest'occhio di lui di quell'imbecille, non saresti poi, alla fin fine, tanto brutto, nella stranezza un po' spavalda della tua figura. Fai un po' ridere le donne, ecco. Ma la colpa, in fondo, non è tua. Se quell'altro non avesse portato i capelli così corti, tu non saresti ora obbligato a portarli così lunghi: e non certo per tuo gusto, lo so, vai ora sbarbato come un prete. Pazienza! Quando le donne ridono... ridi anche tu: è il meglio che possa fare”.»20 Comunque, trasferitosi a Roma, tra le donne Adriano Meis ha un certo successo. Quando lui prende in affitto una camera nell'appartamento della famiglia Paleari, di lui si innamorano Adriana, la figlia del padrone di casa, e la signorina Caporale, un'altra inquilina. Gli occhi attenti delle donne notano tutte le stranezze del protagonista, anche il suo gesto abituale di stropicciarsi sempre l'anulare, come se avesse voglia di far girare un anello attorno al dito, l'anello del fidanzamento che Adriano Meis, nella sua fuga da tratti e caratteristiche di Mattia Pascal, aveva buttato nel water. Sono le donne che cominciano a chiedere Adriano Meis perché non vuole migliorare il proprio aspetto facendosi crescere almeno i baffi o meglio un po' di barba e - di più - assoggettarsi all'operazione sull'occhio strabico. L'innamoramento di Adriana fa crescere nel protagonista la decisione di cancellare dalla sua faccia il particolare associato per lui alla sua vecchia identità: «...lo specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un'operazione relativamente lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio, corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito.»21 Ma è la paura che fa sì che il protagonista prenda la decisione definitiva. Il cugino di Adriana, un tipo sinistro e disonesto del nome Papiano, trova un presunto parente di Adriano Meis e glielo presenta. Il protagonista caccia via il falso parente, ma comincia a temere che la sua storia esca allo scoperto se non quella volta, in seguito. «Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo specchio. In quella lastra l'immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell'occhio che solamente m'era rimasto di lui, mi parlò così: “In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! e vorresti dar la colpa a me, ancora a me […] Ti pare che possa bastare per il momento il cancellarti dalla faccia l'ultima traccia di me? Ebbene, segui il consiglio della signorina Caporale e chiama il dottor Ambrosini, che ti rimetta l'occhio a posto. Poi... vedrai!” »22 Dopo l'operazione e quaranta giorni al buio la trasformazione fisica di Adriano Meis è completa. Adriana vedendolo dopo l'operazione gli dice che pare un altro. Gli è cresciuta la barba, l'occhio non è più strabico. Ma il protagonista confessa che se lo sarebbe cavato con un dito, non gli importava più d'averlo a posto, anzi gli dava un certo fastidio. Non è cambiato solo l'aspetto del personaggio. Le cose sono cambiate anche dentro di lui. Ha capito che dopo aver espresso il suo amore ad Adriana durante una sessione spiritica, non può sposarla, perché per la legge non esiste. Una prova di questo Adriano Meis la ottiene subito, quando scopre che Papiano gli ha rubato i soldi dalla camera. Il protagonista non può neanche denunciare il furto e capisce, con assoluta chiarezza, che non ha diritti, essendo diventato come l'ombra di se stesso. In questo momento la sua ombra per lui diventa più materiale, ottiene il suo proprio corpo, diverso da quello del protagonista. Lui la guarda con lo straniamento: «L'ombra d'un morto: ecco la mia vita»23. Il protagonista, passando per le strade della città, cerca di uccidere la propria ombra mettendo il collo di essa sotto le ruote di carri e sotto i piedi di viandanti. È importante rilevare che anche in questa situazione il protagonista scoppia a ridere, maliziosamente. Non potendo trovare più la sua identità dice a se stesso: «il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma. Ma aveva un cuore, quell'ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell'ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch'era la testa di un'ombra, e non l'ombra d'una testa. Proprio così! Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi dè viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra.»24 Alla fine il protagonista decide di commettere un falso suicidio come Adriano Meis e ritornare a Miragno come Mattia Pascal. Ma neanche lì può di nuovo riavere i suoi diritti e la sua personalità. Anche se può ridiventare il bibliotecario nella biblioteca inutile del paese, non ha più la sua famiglia e l'occhio normale di Adriano Meis rimane sempre sulla sua faccia. Mattia Pascal si diverte visitando la propria tomba. Così nel romanzo di Luigi Pirandello si vede come la trasformazione fisica viene associata alla perdita dell'identità del protagonista. Si vorrebbe anche sottolineare l'importanza del concetto della bruttura alla quale nel romanzo sono legati i motivi del guardarsi allo specchio e alla fine la materializzazione dell'ombra del personaggio. È anche interessante l'interpretazione dell'immagine di Mattia Pascal nelle altre arti. Ad esempio, la bruttura fisica del protagonista non viene rappresentata in nessun modo né nel film di Pierre Chenal «L'homme de nulle part» (1937) con Pierre Pierre Blanchar come Mattia Pascal Blanchar come Mattia Pascal, né nell'altro film sul soggetto, «Le due vite di Mattia Pascal» (1985) girato da Mario Monicelli con Marcello Mastroianni. Marcello Mastroianni Se poi faremo attenzione alle copertine delle diverse edizioni come Mattia Pascal del romanzo di Luigi Pirndello, vedremo che spesso viene usata l'immagine del protagonista. Per essere precisi diciamo che a volte si usa anche il paesaggio e i ritratti dello scrittore, oppure un'immagine astratta. Comunque facendo attenzione alle copertine che rappresentano le figure umane (mettendo da parte quelle con le foto di Pirandello) si può vedere che spesso vengono usati quadri di pittori molto diversi sia nello stile sia per l'epoca in cui vivevano. Si può fare una classifica. Sulla copertina dell'edizione del romanzo pirandelliano può essere messo un ritratto piuttosto classico, spesso dal tocco impressionista, come ad esempio quello di Giovanni Boldini (Ritratto di John Singer Sargent del 1890 o quello di Sem del 1901) o di Cecilia Beaux (Ritratto di Henry Sturgis Drinker del 1898). “John Singer Sargent" di Ritratto di Sem oppure Georges Goursat di G.Boldini G.Boldini "Ritratto di Henry Sturgis Drinker" di Cecilia Beaux Questi quadri rappresentano dei personaggi borghesi e d'aspetto amabile, anzi a volte imponente, attraente o almeno normale, comune. Non si nota nessun segno di qualche brutta particolarità dei tratti facciali. Invece un'altra corrente della pittura, che viene spesso associata all'immagine di Mattia Pascal: l'espressionismo, trasmette l'idea dell'asimmetria dei tratti del personaggio. Come copertina del romanzo sono usati i quadri di Edvard Munch («Sera sul viale Karl Johan» del 1892) con le facce storte dei passanti o di Amedeo Modigliani («Ritratto di Léopold Zborowski» del 1918 o quello di Paul Guillaume del 1915) con i volti allungati e asimmetrici. Qui le deformazioni delle facce vengono rappresentate con tutta la perfezione dell'arte. "Ritratto di Léopold Zborowski" di A. Modigliani "Ritratto di Paul Guillaume" di A.Modigliani «Sera sul viale Karl Johan» di E. Munch Il terzo tipo dell'immagine che viene più spesso usato come copertina del romanzo “Il fu Mattia Pascal” è quella surrealista. Qui il campione assoluto è Rene Magritte: in copertina spesso vengono messi i suoi quadri, dove non si vede la faccia del personaggio rappresentato, ma soltanto la nuca. Ad esempio ne «La riproduzione vietata» del 1937 vediamo da dietro un uomo, che si guarda allo specchio, ma lo specchio non riflette che la sua nuca. Per un'altra edizione sulla copertina viene messo un particolare de «I misteri dell'orizzonte» (1955) con l'immagine dell'uomo visto da dietro. Lo stesso punto di vista lo troviamo sulla copertina con la riproduzione del «Vaso di Pandora» (1951). «La riproduzione vietata» di R.Magritte "Vaso di Pandora" di R.Magritte «I misteri dell'orizzonte» di R.Magritte Un'altro pittore la cui opera è stata ripresa nella copertina dell'edizione del romanzo è il famoso surrealista italiano Giorgio De Chirico. Viene usato il suo «Ritratto premonitore di Guillaume Apollinaire» (1914), dove il poeta francese è rappresentato come un busto scultoreo di stile romano classico, ma con gli occhiali neri che coprono gli occhi. In questo caso si allude forse agli occhiali blu di Adriano Meis. Come si può constatare, gli illustratori dei libri spesso sono più attenti al testo del romanzo che i registi dei film. «Ritratto premonitore di Guillaume Apollinaire» di G. De Chirico 1 G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti 1971, pp. 440-54. 2 L.Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori 1991, p. 16 3 Ibidem 4 Ibidem 5 Ibidem 6 Ibidem 7 Ibidem 8 Asor Rosa, La storia del “romanzo italiano”, in Il romanzo, III, Storia e geografia, Einaudi, Torino, 2003 9 L.Pirandello, op.cit., p. 41 10 R. Barilli, Pirandello. Una rivoluzione culturale, Milano, Mondadori, 2005, p.111-112 11 Ibidem 12 Ivi, p.112 13 L. Pirandello, op.cit., p.57 14 Ibidem 15 Ivi, p.66 16 Ivi, p. 73 17 Ibidem 18 Ivi, p.82 19 Ibidem 20 Ivi, op.cit., p. 90 21 Ivi, p. 130 22 Ivi, p. 149 23 Ivi, p. 185 24 Ibidem