PROGETTO RI-SCRITTURE
Capitolo III
Teatro Stabile delle Marche e LeArt’ - Teatro
presentano
Gabbiano IL
da
VOLO
ANTON ČECHOV
uno spettacolo di
LEO MUSCATO
CON
ELENA ARCURI Madame, attrice
ANDREA PINNA Kostja, suo figlio
GIULIO BARALDI Zio, un vecchio
DENIZ ÖZDOĜAN Nina, una Musa
ANDREA COLLAVINO uno scrittore
SIMONE LUGLIO un Uomo, amministratore
FRANCESCA CUTOLO una Donna, sua moglie
VINCENZA PASTORE Mascia, loro figlia
RUFIN DHO un Dottore
ALEX CENDRON un Maestro
BARBARA BEDRINA una Badante
LEO MUSCATO
CARLA RICOTTI
DISEGNO LUCI ALESSANDRO VERAZZI
ARRANGIAMENTI MUSICALI ELENA ARCURI
DRAMMATURGIA E REGIA
SCENE E COSTUMI
GABBIANO di Anton Čechov
Gabbiano di Anton Čechov è una delle opere più rappresentate al mondo.
L’opera ha come sfondo la provincia russa, dove ogni cosa agonizza e naufraga, dove la vita impigrisce e gli
uomini istupidiscono.
In questa provincia, immobile e tetra, c’è chi ha accettato supinamente una condizione quasi vegetale, e altri
che lottano ancora contro l’appiattimento, l’azzeramento delle loro esistenze, delle loro ambizioni, della loro
volontà di riuscire. Ogni tanto provano ad uscire dal pantano in cui si trovano cercando rifugio nella memoria
di un tempo in cui sono stati migliori. Pensano a “Com’era bello dieci, quindici anni fa..” Ma quando il ricordo
svanisce, a loro non resta altro che la coscienza più o meno acuta del fallimento e l’amara certezza di una
condizione senza via d’uscita.
Il fallimento separa, isola ciascun personaggio nel proprio disperato universo; difficilmente trovano un modo
per comunicare fra loro senza ferirsi, senza aggredirsi; ascoltano di preferenza se stessi, frantumando la
propria angoscia in frasi o monologhi che mancano di un vero destinatario.
Anche l’amore, in questa situazione, diventa impossibile. I personaggi Cechoviani amano sempre le persone
sbagliate, le persone che non possono rispondere, che non possono accettare. Medvedenko ama Maša, che
ama Kostja, che ama Nina, che ama Trigorin, che è amato dall’Arkadina. C’è poi il disperato amore filiale di
Kostja e Arkadina; quello geloso fra Polina e Dorn; e l’amore sconfinato di tutti verso l’Arte, il Teatro.
LO SPETTACOLO: Gabbiano / IL VOLO
E il nostro lavoro intende soffermarsi proprio su quest’ultimo aspetto.
Il Teatro - per ciascuno di loro - sembra rappresentare la possibilità ultima di evasione. Ognuno vive il teatro
in modo diverso: chi come auto-celebrazione, chi come possibilità per diventare “famoso”; chi come mestiere
logorante, chi come illusione di cambiare il mondo con le nuove forme; chi come ricerca dell’intima verità
delle cose, chi come ricordo dei bei tempi che furono; chi come possibilità di evasione dalla sfiducia in se
stessi, chi come sogno mancato; altri ancora come perdita di tempo.
In questo caso, il lavoro drammaturgico è consistito essenzialmente in una ri-scrittura scenica dell’opera di
Cechov. Il testo è stato epurato da ogni riferimento spazio temporale e, a parte i tre giovani: Nina , Kostja e
Mascia; gli altri personaggi non hanno nome e sono identificati per categorie: un’attrice, uno scrittore, un
dottore, un maestro, ecc. Non vivono nella provincia russa, ma sono comunque isolati in un luogo astratto:
ricordo di un teatro in bilico fra il cielo e il mare.
La nostra ri-scrittura scenica mira ad esasperare il duello fra generazioni che si disputano il dominio della
politica culturale; la parabola della lotta fra coloro che detengono il potere (i vecchi mestieranti Arkadina e
Trigorin) e quelli che non l’hanno e vorrebbero strapparglielo (i giovani Nina e Kostja, destinati essi stessi a
diventare dei mestieranti). Kostja, ha poco più di 20 anni e vive un conflitto enorme: sente di avere un talento
smisurato, crede che il teatro abbia bisogno di nuove forme e lui sente di possederle. Nella sua testa, c’è
come un chiodo che lo tormenta e che lo costringe a cercare una risposta alla domanda: “Chi sono io
veramente? Grotowskji o una nullità?” Quando si è giovani e si hanno tante domande che affollano la mente,
si ha anche bisogno di qualcuno che dia delle certezze. Kostja, davanti a sé ha risposte contrastanti; la
ragazza che ama e che lui considera la sua Musa ispiratrice gli dice che nei tuoi testi non c’è niente, non ci
sono personaggi vivi; sua madre gli dice che non è in grado di scrivere nemmeno una stupida farsa da
quattro soldi; di contro, un uomo che ha appena visto un suo lavoro gli dice che lo spettacolo gli è piaciuto
moltissimo:” Un po’ strano, non ho visto la fine, ma l’emozione che mi ha dato è stata forte. Voi avete talento,
e dovete continuare”.
A chi credere? Kostja è giovane, eppure parla con la consapevolezza di un grande maestro. Ma il teatro
tradizionale, con i suoi rappresentanti (sua madre), non accetta la contraddizione di questa posizione; non
crede possibile che la giovinezza possa essere sposa della sapienza. E allora cosa fa? Niente. Non dà a
Kostja nemmeno la soddisfazione di opporsi a lui contrastandolo o criticandolo: semplicemente lo scavalca,
lo annienta considerandolo una nullità.
Lo spettacolo, nel suo aspetto formale, esplora l’aspetto tragicomico del mondo creato da Cechov,
astenendosi da ogni principio di credibilità legato al naturalismo della quarta parete. Tenta di sviluppare un
discorso sul teatro, oggi; sulla necessità di farlo e di vederlo. Si avvale di interpreti provenienti da nazionalità
diverse; ognuno di loro è un’ “eccellenza” di generi teatrali differente: prosa, teatro danza, clownerie, canto
lirico. Questo perché crediamo nelle alchimie generate dalle diversità. Intendiamo evocare un mondo in cui
possa risultare credibile qualunque sentimento scaturisca dall’animo umano, indipendentemente dal colore
della pelle che lo contiene e dalla lingua che lo esprime. Continuiamo a credere che in una rappresentazione
teatrale nulla sia più importante delle persone di cui è fatta; e quando queste hanno il coraggio di mettersi
completamente in gioco, tutti gli assurdi della vita iniziano a diventare credibili, fino al punto di riuscire a
parlare anche di ciò che è difficile persino da nominare.
Il gruppo di lavoro si è andato formando nel corso LABORATORIO ITINERANTE - VERSO ČECHOV, condotto da
Leo Muscato e organizzato in sette sessioni di lavoro svolte in tutta Italia.
RECENSIONI
QUANTO AMORE IN QUEL LAGO STREGATO DALLA POESIA
di Francesco Rapaccioni (www.teatro.org)
Non ci sono muri in questo “Gabbiano”, il respiro è la misura di tutte le cose. Quel respiro che consente di
volare. La vita descritta nel Gabbiano è libera da ogni struttura drammaturgica, è il ricordo di un sogno: “la
vita va rappresentata come ci appare nel sogno” dice Nina.
Lo spazio scenico è una piattaforma irreale, come sospesa nel vuoto, che galleggia, libera, nell'aria, sopra
l'acqua, fra il cielo e il mare. Come un gabbiano. Sulle tavole chiarissime di legno di betulla poggia un
essenziale teatro greco, all'antica, con le gradinate. O quel che ne rimane. Raggiungibile con due passerelle
ancorate alla terraferma. Forse.
Non c'è Russia, non c'è Ottocento. Ma c'è tutto Cechov dentro. Sono stati eliminati i riferimenti
spaziotemporali a vantaggio di momenti di vita quotidiana in cui si riconosce un mondo lontano da sé e non
raggiungibile, come l'altra parte di un lago se non si è capaci di nuotare. Da questa irraggiungibilità deriva la
necessità del Teatro, la necessità di focalizzare i rapporti umani. Una “tensione verso l'alto” che diventa
unica ragione di vita, come per Icaro. Unica possibilità di volare. Per chi il Teatro lo fa e per gli spettatori.
Leo Muscato non utilizza traduzioni, perchè riscrive il testo con una lingua propria, cogliendo dentro ciascun
personaggio un'intonazione diversa, che risuona insieme alla faccia dell'interprete, al suo colore di voce, alla
sua presenza fisica, al suo modo di muoversi, di essere, di cantare.
Il giovane regista sottolinea gli spunti divertenti del testo non allo scopo di strappare una risata incongrua,
ma per coglierne, per la prima volta in Italia, il tragicomico. Battute e giochi di parole conquistano il pubblico,
a considerare la lunga fila di giovanissimi nei camerini dopo la recita per salutare attori sconosciuti. Cechov
pretendeva che i suoi lavori fossero dati come vaudeville, senza neppure il sospetto di soluzioni dolorose,
anzi con punte addirittura comiche, tanto da voler far apparire Gabbiano (qui volutamente senza articolo,
come nell'originale) come le Nozze mozartiane o le Smanie goldoniane. Gags, spunti burleschi, scatti
semantici dal carattere comico che svapora in un'afflizione straniante (Ol'ga Knipper rivelò che Cechov
amava i clown e gli eccentrici, creature con aspetti caricaturali).
Il motivo dominante in questa messa in scena, coprodotta con intelligenza e lungimiranza dal Teatro Stabile
delle Marche e da Leart', è l'amore, l'amore tra gli uomini e l'amore per il teatro. Muscato concentra
l'attenzione su rapporti umani difficili e complicati che degenerano in conflitti: ogni personaggio sembra
amare la persona sbagliata. In tutto il teatro di Cechov la bellezza coincide con l'amore, complesse
ramificazioni di amore e di passioni abortite, tortuosi tracciati di destini che si accavallano. Ci sono gli
elementi essenziali dell'arte cechoviana, l'attitudine rassegnata e dolente a un ineluttabile sempre sottinteso
(qui vissuta con ironia), l'attenzione morbosa per il dettaglio psicologico evidenziato dagli oggetti-simbolo, la
costruzione di un'atmosfera più che di una vicenda, l'uomo-monade che galleggia nel mare della vita.
La drammaturgia cechoviana è fitta di elementi che assumono un valore emblematico. Muscato coglie
l'essenziale del carattere di ogni personaggio e lo evidenzia iconicamente con oggetti-simbolo: Arkadina uno
specchio grande; Nina uno specchio piccolo e un paio di ali; Trigorin una macchina per scrivere, la stessa
che dopo avrà Kostja quando diventa anch'egli scrittore, mentre prima ha un manoscritto; il dottore una
borsa; il maestro una cartella da scuola; l'amministratore un leggìo da musica e la bacchetta in mano del
direttore d'orchestra, lui che dirige la vita nella tenuta; la moglie una flashante macchina fotografica; lo zio è
sulla sedia a rotelle, “mi tocca stare qui tutto l'anno”; Masha una sedia sulle spalle, l'immobilità. Intuizione
poetica sono le ali di Nina, bianche e soffici nei primi due atti, poi un'ala è spezzata quando se ne va con
Trigorin, rendendole impossibile il volo, alla fine sono imbrattate di catrame, di petrolio, insozzate dallo
sciupìo della vita e dell'anima nell'eccessiva mercificazione in quell'altrove troppo vagheggiato.
Uno dei momenti più alti dello spettacolo è il “rito” della rappresentazione teatrale: i personaggi entrano in
scena incatenati da un lungo drappo bianco che vela loro gli occhi, recando in mano candele. Si siedono;
all'inizio della recita di Nina, il drappo scivola via e non obnubila più la vista. Il teatro svela e rivela. Il teatro
rende consapevoli. E liberi. Liberi anche di partire. Nel primo atto ci sono arrivi e nell'ultimo partenze. Le
valige, movimentate sempre con grande leggerezza, alla fine sono pesantissime, cariche di errori, di
sofferenze, di vita vissuta.
I sentimenti sono ingigantiti dall'assidua presenza del canto, un incessante accompagnamento sonoro. E i
momenti più maturi e convincenti sono proprio quelli cantati, nella compattezza di uno spettacolo che vive di
vibranti immagini rarefatte, ritratti di gruppo e di individui alla ricerca di un sentimento per cui valga la pena
vivere.
I personaggi si muovono ciascuno secondo un proprio codice comportamentale e subiscono una sorta di
livellamento che esclude un protagonista in senso stretto. Muscato mette in risalto l'aspetto predominante
del carattere di ciascuno, evidenziandone il potenziale tragicomico. Appare riduttivo definire i protagonisti
“attori” quando sono anche cantanti bravissimi, mimi, giocolieri. Il gruppo di giovani, compatto e fortemente
coeso, si è formato nel corso di laboratori condotti dallo stesso regista in tutta Italia e in intense sessioni di
prova a Montelupone, sulle colline marchigiane prospicienti il mare.
Su Mascia si è concentrata l'attenzione registica: Cechov insinua il dubbio che possa essere figlia del
dottore, secondo Muscato lo è e lo si intuisce dalle treccine rasta e dalla pelle scura (l'interprete del dottore è
di colore). Vincenza Pastore è una Mascia che si imborghesisce nel corso del dramma, i capelli rasta
diventano prima uno chignon poi un'acconciatura più elaborata coi capelli lunghi e lisci; anche
l'abbigliamento si imborghesisce, gli anfibi neri lasciano il posto alle ballerine eleganti, da signora bene, però
il nero luttuoso resta. Come resta la sedia-simbolo su cui alla fine si carica sopra le spalle il corpo senza vita
di Kostja e le ali di Nina sporche di petrolio. I personaggi continuamente entrano ed escono dalla scena, è il
moto di anime che cercano invano risorse fuori da sé: alla fine rimane solo Mascia: riuscirà a salvarsi? A
maturare? A raggiungere, se il termine ha ancora un senso, un equilibrio?
Il Kostja di Andrea Pinna ha l'entusiasmo degli animi giovani; gioca a “m'ama, non m'ama” con le sedie da
sistemare per la recita sul lago. E' il più cechoviano dei personaggi; allo zio che gli dice “il teatro è
necessario, nessuno può farne a meno”, egli risponde “ma ci vogliono nuove forme, se non ce ne sono è
meglio niente”. Giulio Baraldi è lo zio, ironico e disincantato, distaccato e illuso, rassegnato alla vita ma non
alla necessità di prendersi in giro.
Elena Arcuri è Madame, una Arkadina quarantenne altissima che torreggia dai sandali col tacco smisurato,
la figura esilmente sottolineata dal tailleur pantalone e dal caschetto di capelli corvini, una donna annoiata e
incapace di amare. Da sottolineare che la Arcuri ha curato gli arrangiamenti musicali, essenziali per la
riuscita della messa in scena. E come dimenticarla mentre canta con la voce roca e iscurita, seduta di profilo
sulla passerella?
Andrea Collavino è un Trigorin che sente visceralmente la necessità dello scrivere, che vive una missione,
come Cristo che tanto ricorda quando rimane nudo con un drappo di stoffa addosso: “vivo col fucile puntato,
ho una palla di ghisa che mi rotola in testa e mi trascina alla scrivania”. La storia con Nina è un “inciampo”, la
sua vita è scrivere, febbrilmente: registrare per raccontare.
Rufin Doh è il dottore di colore in cerca di una figlia da amare. Simone Luglio è il volitivo e dispotico
amministratore, Francesca Cutolo la di lui moglie svampita. Alex Cendron è il maestro positivo e posato.
Barbara Bedrina è la serva-badante dello zio e parla solo in russo, rappresentando le origini, il legame con la
terra, la musicalità di una lingua sontuosa e luminosa.
La Nina-Icaro di Deniz Ozdogan appare estranea rispetto al contesto e, significativamente, è stata scelta
una protagonista turca, che parla con accento straniero. Nina è una ragazzina di provincia che sogna di
diventare famosa, miss o velina poco importa: purtroppo, quella porta che conduce altrove è spalancata sul
nulla, sul vuoto. E il volo comporta uno schianto. La giovane ha una splendida voce ed è efficace il momento
in cui canta alla luna affacciata sul lago con le gambe che penzolano da quel teatro che è un pontile: “quanto
amore, lago stregato”. L'unico appunto è forse l'eccessiva verbosità dell'incontro finale tra Nina e Kostja che
sicuramente verrà “asciugato” nelle repliche. Ma l'immagine di Nina-Icaro con le ali che si stagliano nel buio
è indimenticabile ed è stata giustamente scelta per il manifesto.
La scena ariosa e libera è di Carla Ricotti (con la collaborazione di Barbara Borgolotto), qui in una delle sue
creazioni più alte, poetica ed evocativa fino alla commozione, come i costumi, infinite variazioni di tonalità
avorio senza riferimenti storici e geografici ma capaci di denotare i caratteri dei personaggi.
Necessariamente di nero Mascia, nelle progressioni verso la “borghesità” riferite.
Le azzeccate luci di Alessandro Verazzi creano tonalità decise e antinaturalistiche, dall'azzurro all'arancio; a
volte si fanno di taglio e si ingialliscono, virando al seppia, per creare una dimensione interiore in cui c'è tutto
il senso di questo spettacolo. Uno spettacolo splendido, di forte impatto, molto poetico, divertente, di
notevole rilevanza simbolica ma immediato, iconico.
In un momento difficile, in cui si cerca di avere tutto e subito e le parole si fanno confuse, questo è uno
spettacolo importante perchè mira all'essenziale e con il tempo giusto, il tempo interiore. Il tempo di vivere. Il
tempo di amare. Il tempo di volare? No, volare è impossibile. Se non a teatro con Leo Muscato.
Francesco Rapaccioni (www.teatro.org)
"Gabbiano / IL VOLO" : ECCEZIONALE PRIMA AL TEATRO VENTIDIO BASSO
ASCOLI PICENO Rivisitazione di rara originalità quella che Leo Muscato ha rappresentato
ieri in prima nazionale sul palco del teatro ascolano.
di Andrea Castelli (www.ilquotidiano.it)
Il progetto "Ri-Scritture" è un progetto ambizioso, finora di gran successo con i precedenti "Romeo e
Giulietta - Nati Sotto Contraria Stella" e "Casa di Bambola - L'altra Nora", rappresentazioni che girano ormai
l'Italia e il cui valore è ampiamente riconosciuto. Un progetto difficile, ma necessario.
Rivisitare, rimaneggiare Cechov, far credere che sia Cechov, quando è Leo Muscato. C'è il rischio di
apparire presuntuoso, ma alla fine risulta molto efficace.
Non è uno spettacolo classico. Il tocco inconfondibile del regista aleggia durante i due atti della geniale
rivisitazione. Una rivisitazione che ha dello sperimentale, con innesti dinamici e interpretativi che vanno al di
fuori degli schemi.
Molti storceranno sicuramente il naso, ma in questa felicemente strana concezione di teatro, il protagonista
assoluto della messa in scena è proprio il teatro stesso.
Il teatro, il mestiere di attore e di scrittore, l'arte, rappresentano la "possibilità di evasione" per ognuno dei
protagonisti, agonizzanti in quella che dall'originale provincia russa diviene semplicemente un luogo astratto,
che non è neppure paese, un luogo spersonalizzante e serenamente deprimente e oppressivo, "ricordo di un
teatro in bilico tra il cielo e il mare".
(…) Muscato rende il dramma qualcosa di sconvolgente, a tratti strappa risate, a tratti stimola pesanti
riflessioni sulla condizione umana divisa tra l'arte e l'amore, dove sicuramente alla fine il più forte, l'unico che
può condizionare la buona riuscita dell'altra, è l'amore.
Per questo Kostia scrive di personaggi che non sono vivi, e Nina non riesce ad esternare il suo talento,
entrambi consapevoli delle loro capacità ma anche dei loro limiti.
E in una scenografia essenziale ma curatissima nei particolari, dove i colori chiari e candidi regnano sul
tutto, eccetto per Mascia, di nero vestita per mostrare il lutto del suo amore morto dal principio.
Tanto legno e sedie come elemento ricorrente sul palco.
Di rara eccezionalità in un opera del genere i momenti musicali.
Momenti corali, ricorrenti per tutta la rappresentazione; bravissimi anche tutti gli attori a partire dalla voce
d'angelo della Ozdogan.
Temi ricorrenti, brani che rimandano alla tradizione musicale est-europea, quasi come se fosse una marcia
triste che accompagna inesorabilmente tutta l'opera, accorgimento sicuramente innestato quasi genialmente.
15/03/2008
UN GABBIANO DI OGGI IN VOLO SULLE EMOZIONI DI IERI.
di Pierfrancesco Giannangeli (Hystrio XXI. 3 - luglio / settembre)
Classico, nostro contemporaneo. È la filosofia del teatro di Leo Muscato che, dopo essersi confrontato con
Shakespeare e Ibsen, ora completa la trilogia con Gabbiano / IL VOLO e si inserisce nel solco tracciato dalle
fortunate esperienze di Romeo & Giulietta / NATI SOTTO CONTRARIA STELLA e Casa di bambola /
L’ALTRA NORA, spettacoli che sono valsi a Muscato il Premio della Critica 2007. Lavori diversi, ma
accomunati da un identico approccio: quello di leggere i fatti con una lente contemporanea. Espressione che
non va interpretata come semplice attualizzazione, ma che in Muscato acquista una luce diversa. Per lui,
infatti, rendere contemporaneo un classico significa far vivere agli spettatori di oggi le stesse esperienze, in
termini di emozione, che quegli spettacoli provocarono in chi li vide la prima volta. Non di riscrittura, dunque,
si tratta, ma di sottolineatura di emozioni, sentimenti, personaggi. L’anima del testo, dunque, è quella che
Muscato intende far emergere con un lavoro affidato a undici giovani interpreti – scelti dopo un laboratorio
itinerante in tutta l’Italia – che si dimostrano totalmente coinvolti nel progetto. Il risultato del trasferimento nel
contemporaneo dell’idea originaria di Cechov è complessivamente buono. È una storia intima, di anime che
hanno trovato un autore capace di farle dialogare fra loro. Però, in fondo, si tratta di individualità che non
riescono a far altro che parlare con se stesse: un monologo risponde a un altro monologo e la somma fa un
finto dialogo. Uno sguardo acuto quello di Muscato, rappresentato come un viaggio verso un mondo astratto,
sospeso tra cielo e mare, e visivamente spiegato con una piattaforma da cui i personaggi non riescono a
staccarsi. Monologhi interiori, insomma, e se si tolgono i riferimenti spazio temporali, ciò che resta sono le
relazioni: non la storia, non la trama, ma la vita degli undici protagonisti. Che in due ore e quarantacinque
minuti, lo spettatore quasi spia dal buco della serratura, spesso immedesimandosi e identificandosi con le
sue pene. Un volo che, asciugato da qualche insistenza, decollerà con le repliche verso un soleggiato
orizzonte.
LEO MUSCATO (drammaturgo e regista)
Studia Lettere e Filosofia a La Sapienza di Roma. Durante gli anni di Università entra a far parte della
compagnia di Luigi De Filippo, prendendo parte come attore agli spettacoli “Non è vero ma ci credo”,
“Quaranta ma non lo dimostra” e “La lettera di mammà”. Nel 1997 si trasferisce a Milano per studiare Regia
alla Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi” dove mette in scena i suoi primi spettacoli, orientandosi subito
sulla drammaturgia contemporanea. Fra i suoi maestri, Gabriele Vacis, Massimo Navone, Kuniaky Ida, Jerzy
Sthur, Roberto Bacci, Jury Alschitz, Jean-Claude Carriere.
Collabora come aiuto-regia a diversi spettacoli messi in scena da: Giorgio Marini, Massimo Navone, Gabriele
Vacis, Paolo Rossi.
Insegna drammaturgia al Centro Studi Holden diretto da Alessandro Baricco e al D.A.M.S. di Torino; e
recitazione presso diverse associazioni private.
Ha messo in scena venti spettacoli, fra cui: “Il viaggio di Alice” di Evelina Santangelo per la rassegna
Palermo di Scena, “Io e Matteo” di Annalisa De Lucia e “La cruna dell’ago” di Diego Papaccio al Teatro
Garybaldi di Settimo Torinese e al Piccolo Teatro di Milano - Teatro Grassi; il monologo “Solitudine” di
Beppe Fenoglio, interpretato da Beppe Rosso al Teatro Sociale di Alba; “La 12ª Notte” di William
Shakespeare, al Cortile Platamone di Catania; “Terra dei Miracoli” un suo testo andato in scena al Teatro
Franco Parenti di Milano; e “Rosso Malpelo” un adattamento dell’opera di Verga, al Teatro Arsenale di
Milano.
Ha curato la regia di diversi eventi teatrali, fra cui: “Maria Callas… Visse d’Arte”, all’Anfiteatro Romano di
Siracusa; “Ser Ciaua”, una mise en espace al Teatro Stabile di Bolzano, con Lella Costa; e “La ballata del
rosso castigo” scritto con Luca Scarlini e interpretato da Lucilla Giagnoni e Michele Di Mauro, nella Chiesa
del Redentore di Venezia, con il quale venivano aperti i festeggiamenti per il Redentore.
Dal 2005 porta avanti il suo PROGETTO RI-SCRITTURE, mettendo in scena tre capolavori della
drammaturgia mondiale Romeo & Giulietta / NATI SOTTO CONTRARIA STELLA da Shakespeare, Casa di
bambola / L’ALTRA NORA da Ibsen, e il recente Gabbiano / IL VOLO da Cechov.
L’11 giugno 2007, al Piccolo Teatro di Milano, l’Associazione Nazionale dei Critici Teatrali gli assegna il
PREMIO DELLA CRITICA 2007 come MIGLIOR REGISTA con la seguente motivazione:
Leo Muscato, trentaquattrenne, si colloca tra i registi più interessanti delle ultime generazioni. Dopo
gli studi alla Scuola D’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e un intenso praticantato come aiuto
regista in diverse produzioni, dal 2006 è il Direttore Artistico della Compagnia LeART’ - Teatro con la
quale ha avviato un interessante progetto di ri-scrittura di grandi classici della letteratura teatrale
mondiale. I primi due capitoli del progetto registico e drammaturgico, i recenti “Romeo & Giulietta NATI SOTTO CONTRARIA STELLA” e “Casa di bambola - L’ALTRA NORA”, rappresentano un
modo originale e spiazzante di affrontare i classici, rovesciando punti di vista, creando percorsi
metateatrale sull’essenza dell’attore, confondendo i generi senza forzature (dal comico al grottesco
al tragico), proponendo tracce di malinconica ironia unite a momenti di puro divertimento (come nel
caso dei sette maschi che interpretano Shakespeare), oppure (è il caso di Ibsen) attualizzandone la
cornice, accelerando i personaggi, survoltandoli, come capita alla sua Nora. Prove coraggiose,
dunque, quelle di Leo Muscato, che denotano una personalità registica in forte crescita ma già con
una cifra stilistica riconoscibile.