BIBLIOTECA DI RIVISTA DI STUDI ITALIANI CONTRIBUTI ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA FAUSTO CURI Università degli Studi di Bologna Il fatto sessuale nella letteratura moderna è o dovrebbe [...] essere non più la tentazione diabolica degli asceti medievali né la delizia quasi gastronomica delle borghesie ottocentesche, bensì quale esso si rivela allorché si riesce a separarlo così dall’orrore moralistico come dall’edonismo volgare: un’azione di inserimento in un ordine cosmico e sovrumano. Inteso da questo punto di vista il fatto sessuale è effettivamente qualche cosa di più alto, di più misterioso e di più completo dell’amore; specie se s’interpreta l’amore come il semplice rapporto fisico-sentimentale tra l’uomo e la donna. A. Moravia I . Questa indagine è intenzionalmente, programmaticamente selettiva, parziale, e se si vuole monocroma e unilaterale1. Si sofferma su alcune opere, alcuni personaggi, alcuni temi, e trascura altre opere, altri personaggi, altri temi, pur importanti. Basti dire che un argomento fondamentale come il danaro non vi è neppure sfiorato2. Lo scopo è concentrare l’attenzione su due oggetti, il corpo e il sesso (di fatto si tratta di un unico oggetto) spesso nominati dagli studiosi ma quasi mai esaminati in modo approfondito, quasi vi fosse un tabù che ne impedisce l’analisi. Il tentativo (ché non di più di questo si tratta) è 1 Ringrazio la dottoressa Valentina Mascaretti – autrice dell’ampia e proficua indagine La speranza violenta. Alberto Moravia e il romanzo di formazione, Gedit, Bologna 2006 – per alcuni utili chiarimenti che mi ha fornito. 2 D’altro canto, per quanto riguarda gli aspetti economici e sociali, sarebbe stato difficile, in ogni caso, fare meglio di quanto ha fatto E. Sanguineti nella sua monografia Alberto Moravia, Mursia, Milano 1962, ora in ristampa presso l0 stesso Mursia. 204 FAUSTO CURI interpellare alcuni testi moraviani angolando quanto meglio possibile su certi temi privilegiati, per vedere se, investiti da una luce che lascia nell’oscurità altri temi, essi mostrino qualche particolare interessante. Chi cerca oro non cerca contemporaneamente diamanti. Io non cerco né oro né diamanti, anche perché credo che non li troverei. Cerco il senso di certe narrazioni e di certi oggetti che mi hanno colpito e che mi paiono avere un rilievo distintivo, e solo di quelli. D’altro canto, se non cerco né oro né diamanti, non cerco neppure perle. Quelle narrazioni e quegli oggetti mi sembrano significativi, niente di più. Se poi l’indagine, in alcuni casi, tiene conto, per quanto le è possibile, anche di certe esigenze storiografiche, ciò, mi pare, è il minimo che uno studioso debba assumere come necessario. II. 1. A partire all’incirca dal 1880 la sessualità diventa per la prima volta oggetto di ricerche scientifiche. Quando si parla di “ricerche scientifiche” occorre intendersi: gli standard di scientificità di quel tempo non sono neppure lontanamente paragonabili con quelli di oggi, segnatamente se si fanno entrare nel discorso le neuroscienze e gli studi sul genoma. Basti pensare, e del resto è noto, che, da tempo, alcuni contestano o mettono in dubbio il rigore scientifico dello stesso Freud, senza tener conto del fatto che la “scientificità” della psicoanalisi, come ha ben mostrato Mario Lavagetto, non può essere identificata con quella delle cosiddette scienze della natura, dal momento che riguarda la vita psichica degli esseri umani e il loro linguaggio. E’ sufficiente, d’altra parte, accostare i Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) di Freud alla famosa Psychopathia sexualis (1886) di Krafft von Ebing, costruita con un metodo meramente classificatorio, per vedere agevolmente la distanza davvero abissale che separa un’opera dall’altra e quali straordinari progressi metodologici abbia compiuto e eccellenti risultati abbia conseguito in pochi anni la psicoanalisi. Né l’attenzione del lettore, per quanto riguarda la sessualità, può arrestarsi ai pur fondamentali Tre saggi. Giacché intorno a quell’argomento Freud indaga in diverse sue opere di importanza capitale, da Frammento di un’analisi d’isteria. (Caso clinico di Dora), del 1905, a Le mie opinioni sul ruolo della sessualità nell’etiologia delle nevrosi, del 1906, da La morale sessuale “civile”e il nervosismo moderno, del 1908, a Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, del 1910, da Al di là del principio di piacere, del 1920, a Il disagio della civiltà, del 1930, per citarne solo alcune. E con la stessa precisione con cui disegna la struttura dell’apparato psichico ricostruisce le varie fasi attraverso le quali passa la vita sessuale dell’individuo. Non si tratta, peraltro, soltanto di questo. Freud, infatti, ha il merito di estendere la nozione di sessualità ben oltre i limiti tradizionalmente ad essa assegnati, scoprendo l’esistenza della sessualità infantile e analizzando la vita sessuale di quelli che egli chiama “invertiti”. 205 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA 2. In generale, io non ho avuto l’impressione che l’astinenza sessuale giovi a formare uomini d’azione energici e indipendenti o pensatori originali, né audaci liberatori e riformatori, bensì ch’essa formi molto più frequentemente dei codardi perbene...3 Di solito Freud non è così spietatamente sarcastico; al contrario egli è capace quasi sempre di bilanciare le esigenze della società e della civiltà con le esigenze pulsionali, pur facendo intendere chiaramente ai suoi lettori che sacrificare queste ultime in nome di quelle comporta inevitabilmente sofferenze e malattie psichiche più o meno gravi. Uno dei meriti maggiori di Freud è infatti aver reso consapevole il pubblico dell’importanza di un’equilibrata attività sessuale per il conseguimento di una vita serena o almeno non tormentata da divieti, rimorsi e punizioni; e aver mostrato gli scompensi e i guasti che la repressione sessuale provoca nell’esistenza degli esseri umani. E’ questo Freud infinitamente saggio e comprensivo, coraggioso e franco che interessa particolarmente il nostro discorso. Perché è lo studioso che, mentre difende e cerca di salvaguardare ciò che di più umano è nell’uomo, cioè l’attività sessuale e il piacere che ne consegue, è anche lo studioso che, per così dire, restituisce dignità e importanza a quell’attività, sottraendola alle proibizioni e alle condanne stolide che la parte più retriva della società, cioè la sua maggioranza, impone ad essa. Il saggio La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno è, da questo punto di vista, esemplare, tanto più che solo alcuni singoli punti di esso, di importanza secondaria, possono, oggi, risultare ‘invecchiati’ o ‘inattuali’, e tanto più che la repressione, che sembrava quasi scomparsa, è invece ritornata a farsi minacciosa, o, peggio, pericolosa. L’esordio è estremamente chiaro: Se si prescinde dai modi più indeterminati di essere “nervosi” e si considerano le forme vere e proprie di malattie nervose, l’influsso deleterio della civiltà si riduce essenzialmente alla repressione dannosa della vita sessuale dei popoli (o dei ceti) civili operata dalla morale sessuale “civile” presso questi imperante. Più avanti Freud aggiunge: Da un punto di vista tutto generale, la nostra civiltà è edificata sulla repressione delle pulsioni. Dopo aver distinto quelle che chiama “nevrosi vere” o “nevrosi tossiche” dalle “psiconovrosi” o “nevrosi psicogene”, Freud conclude che “il fattore 3 S. Freud, La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno (1908), in Opere,V, Torino, Boringhieri 1972, p. 424. 206 FAUSTO CURI essenziale” nella “causalità” di entrambi questi gruppi di malattie nervose è “quello sessuale”. Ed ecco alcuni ammonimenti, apparentemente ovvi, in realtà preziosi: In una certa misura il soddisfacimento sessuale diretto sembra indispensabile per la maggior parte delle organizzazioni [ingenite]; è una misura individualmente variabile il cui difetto si sconta con fenomeni che, in forza della loro azione nociva sulla funzione e de loro carattere soggettivo di dispiacere, devono essere considerati stati morbosi.[...] L’esperienza insegna che per la maggior parte degli uomini vi è un limite al di là del quale la loro costituzione non può adeguarsi alla richiesta della civiltà. Tutti coloro che vogliono essere più nobili di quanto la loro costituzione non permetta soccombono alla nevrosi; sarebbero stati più sani se fosse stato loro possibile essere peggiori. [...] E’ una delle più gravi ingiustizie sociali che il modello di vita civile esiga da tutte le persone un’identica condotta sessuale, che a taluni riesce facile, grazie alla loro organizzazione naturale, ma che ad altri impone i più gravi sacrifici psichici, benché, a dire il vero, tale ingiustizia venga annullata nella maggior parte dei casi dall’inosservanza dei precetti morali. Freud insiste, mostrando non solo quanto la cosa gli stia a cuore, ma anche quanto essa risulti oggettivamente, socialmente importante: Si può dire [...] che il compito di dominare un moto così potente quale è quello della pulsione sessuale, per altra via che non sia quella del soddisfacimento, è tale da assorbire tutte le forze di una persona. Solo una minoranza riesce a dominare tale moto [...] La maggior parte degli altri diventa nevrotica o subisce danni in altro modo. L’esperienza mostra che la maggioranza delle persone che compongono la nostra società non è costituzionalmente all’altezza del compito dell’astinenza. [...] Non conosciamo miglior salvaguardia contro la minaccia, che proviene allo sviluppo sessuale normale da predisposizioni anomale e disturbi evolutivi, dello stesso soddisfacimento sessuale. [...] Chi conosce sino infondo i fattori che determinano le malattie nervose, ben presto giunge alla convinzione che l’aumento di tali malattie nella nostra società dipende dalle accresciute limitazioni sessuali. Né si tratta soltanto di “malattie nervose”. Freud precisa infatti: Rifacendomi al tema dell’astinenza toccato nel primo punto, devo affermare che l’astinenza comporta anche altri danni oltre a quelli delle nevrosi, e che 207 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA nella maggior parte dei casi l’importanza di queste nevrosi non viene pienamente apprezzata4. Fino a questo punto, Freud sembra essersi limitato a una difesa, seppure saldamente tenace e vigorosamente ragionata, dell’attività sessuale nei confronti della repressione. Ma la posizione difensiva a un certo momento viene meno per lasciare il posto all’esposizione di una tesi divenuta presto famosa e che, in un primo momento, non può non avere suscitato sorpresa in alcuni lettori: La pulsione sessuale [...] mette enormi quantità di forze a disposizione del lavoro d’incivilimento, e ciò a causa della sua particolare qualità assai spiccata di poter spostare la propria meta senza nessuna essenziale diminuzione d’intensità . Chiamiamo facoltà di sublimazione questa proprietà di scambiare la meta sessuale originaria con un’altra, non più sessuale ma psichicamente affine alla prima. Il “lavoro d’incivilimento” è, per Freud, tutto ciò che giova allo sviluppo della civiltà, e, in primo luogo, l’attività intellettuale e artistica. Che non nasce, dunque, dal cervello e dai sensi dell’essere umano ma ha origine in quella stessa pulsione sessuale deputata alla procreazione e, prima ancora, a procurargli il più intenso piacere che egli sia in grado di procacciarsi. Freud aggiunge (ma l’esemplificazione, apparentemente del tutto sensata, sembra smentire per metà la tesi esposta): Il rapporto tra la sublimazione possibile e l’attività sessuale necessaria oscilla naturalmente moltissimo secondo gli individui e persino secondo i diversi tipi di professione. Un artista astinente è pressoché inconcepibile, mentre un giovane studioso astinente non è certo una rarità. Mediante la continenza quest’ultimo può guadagnar vigoria disponibile per i suoi studi, mentre è probabile che nel primo l’operosità artistica sia potentemente stimolata dall’esperienza sessuale5 Comunque sia, ci troviamo di fronte a una sorta di grandioso ossimoro biologico e sociale, in forza del quale sublime e antisublime tendono a coincidere e a identificarsi. Si comprende così meglio la ragione (non certo l’unica) per la quale lo studioso della vita sessuale ha dedicata un’attenzione altrettanto vivace all’attività artistica. E si comprende altrettanto bene la ragione (non certo l’unica) per la quale, di fronte alla varietà e alla ricchezza 4 5 Ivi, pp. 414, 416, 417, 419, 420, 421, 422, 423. Ivi, pp.416, 424 208 FAUSTO CURI delle manifestazioni dell’inconscio e della pulsione sessuale, questo scienziato abbia sempre la sciato trasparire una tacita, composta ammirazione. 3. Discorrendo della “traslazione positiva”, cioè della traslazione di “sentimenti affettuosi”, che occorre distinguere da quella “negativa”, concernente “sentimenti ostili”, Freud precisa: La traslazione positiva si scompone poi a sua volta in traslazione di sentimenti amichevoli o affettuosi, capaci di pervenire alla coscienza, e in traslazione delle propaggini di tali sentimenti nell’inconscio. A proposito di questi ultimi l’analisi dimostra che essi risalgono regolarmente a fonti erotiche, per cui siamo costretti ad ammettere che tutti i rapporti sentimentali di simpatia, amicizia, fiducia e simili, da cui nella nostra vita traiamo vantaggio, per quanto puri e non sensuali possano apparire alla nostra autopercezione conscia, sono geneticamente collegati con la sessualità e si sono sviluppati da brame puramente sessuali attraverso un’attenuazione della meta sessuale. Originariamente non abbiamo conosciuto che oggetti sessuali e la psicoanalisi ci dimostra che anche le persone che nella vita reale ci limitiamo a stimare o ammirare possono continuare ad essere oggetti sessuali per il nostro inconscio6. Il brano è tolto da Dinamica della traslazione (1912), che, per essere un saggio ‘tecnico’, è ben conosciuto dagli studiosi mentre è ignoto o poco noto ai lettori comuni. I primi non hanno certo avuto motivo di sorpresa nel leggere lo scritto freudiano, al contrario i secondi, qualora ne abbiano avuto cognizione, si saranno molto probabilmente stupiti, non senza, magari, un moto di repulsione. Il fatto che a noi interessa mettere in luce è che fra i “lettori comuni” occorre annoverare anche molti autorevoli scrittori e che, insomma, l’ignoranza di alcuni aspetti fondamentali della sessualità caratterizza gran parte della letteratura occidentale. Se tale ignoranza è, dentro certi limiti, giustificabile, ben più grave risulta quello che Freud, in più luoghi della sua opera, chiama “ripudio della sessualità”, da cui, quasi sempre inconsciamente, sono in molti ad essere affetti, non esclusi, sembra, certi grandi narratori. Più che la poesia, infatti, è la narrativa ad apparire spesso afflitta da ignoranza o da ripudio della sessualità. La poesia, sia perché è capace di un’immediata adesione all’oggetto che alla narrativa sembra mancare, sia perché più della prosa narrativa si giova di strumenti retorici o di modi allusivi, alla sessualità si avvicina in qualche caso con invidiabile franchezza. Lasciamo pure da parte i paradigmi, come, poniamo, le neglette poesie di Giorgio Baffo, o certi folgoranti sonetti del Belli o la sublime Ninetta del Verzee di Carlo Porta. Lasciamo anche da parte alcuni esempi illustri e assai noti, a partire dal “la bocca mi baciò tutto tremante” dantesco, 6 Freud, Dinamica della traslazione, (1912), Ibid., VI, 1974, p.529. 209 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA per la verità niente affatto allusivo. Lo stesso Dante, del resto, autore delle stupende e stupendamente “gentili” lodi in onore di Beatrice, nonché di poesie come quella che ha per incipit Per una ghirlandetta ch’io vidi mi farà sospirare ogni fiore7 è autore anche, come è noto, delle rime petrose, in particolare di quella canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro8, nella quale non occorre essere un freudiano per riconoscere la presenza evidente di una forte carica di sadismo: Così nel mio parlar voglio esser aspro com’è ne li atti questa bella petra, la quale ognora impetra maggior durezza e più natura cruda... .............................................................. S’io avessi le belle trecce prese, che fatte son per me scudiscio e ferza, pigliandole anzi terza, con esse passerei vespero e squille: e non sarei pietoso né cortese, anzi farei com’orso quando scherza; e se Amor me ne sferza, io mi vendicherei di più di mille... Freud può però tornare assai utile quando, in Pulsioni e loro destini (1915), osserva che il dolore “mentre viene suscitato in altre persone, procura un godimento masochistico nello stesso soggetto che si identifica con l’oggetto che soffre”9. Cosicché la petrosa in questione potrebbe costituire un esempio da manuale della dottrina freudiana. 4. Lasciamo Dante e veniamo alla modernità, per comodità sempre italiana. D’Annunzio, si sa, per certe cose è un maestro. Ma non ha sempre la mano felice. Dovendo, per esempio, rappresentare una fellatio, in Invocazione, incomincia bene, aggredendo l’oggetto direttamente e con una giusta dose di sensualità, ma poi si perde con una serie di figure retoriche (perifrasi, 7 D. Alighieri, Vita nuova - Rime, 10 ( LVI), in Opere minori, I, I a cura di D.De Robertis e G.Contini, Ricciardi, Milano- Napoli 1995, p. 327. 8 Ivi., 46 (CIII), p.447. 9 Freud, Pulsioni e loro destini (1915), in Opere cit., VIII, 1976, p. 24. 210 FAUSTO CURI metafora, paronomasia) da far perdere ogni piacere al lettore. Che si accorge subito che a interessargli non è tanto il “dolce atto” quanto una sapiente costruzione retorica: o bocca sinuosa umida ardente che a me, dove più forte urge il desio, a me sommerso in un profondo oblio suggi la vita infaticabilmente; o gran chioma diffusa in su’ ginocchi miei nel dolce atto; o fredda man che spandi il brivido e mi senti abbrividire... Al contrario nel Peccato di maggio si avverte quasi una sordità, una rozzezza linguistica, una perdurante enfasi, indegne di tanto artefice: e con avide mani su pe’l suo corpo ascesi, e tremar come un’arpa viva il suo corpo intesi... Riscattate, in parte, nei versi seguenti da una vivace sensualità, fra un eccesso di immediatezza e un eccesso di costruzione e di artificio. In compenso non facilmente dimenticabili, in Le belle, sono le poppe bianche rotonde e dure di Giulia Farnese, fra le quali “un fante” versa, dolcezza che si aggiunge a dolcezza, “le confetture”. Ma sopratutto non dimenticabile è il nudo di Isaotta al bagno, con quei “ginocchi” di uno splendore abbagliante: Ella, composta in vago atteggiamento, a mezzo della rara conca emerge; e la fante con anfore d’argento pianamente d’ambrate acque l’asperge. A ‘l diletto elle freme, e con un lento gesto la chioma rorida si terge. Come tondi i ginocchi e come bianchi! Han da ‘l respiro un dolce moto i fianchi e il petto ad ogni brivido s’aderge. Il quarto verso, con ogni parola che inizia con la vocale “a” e termina con “e” è uno dei più armoniosi che D’Annunzio abbia mai scritto. E si stenta a non chiedersi se le “acque” siano “ambrate” naturalmente o perché hanno 211 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA assunto il colore fra bruno e bianco del corpo della fanciulla che vi sta immersa e le pervade di sé. Ma non si perda di vista la catena delle “r”, presenti quasi in ogni verso, che sembrano richiamarsi e avere la funzione di dar maggiore volume e rilievo nell’explicit al “petto” che “ad ogni brivido s’aderge”. Indossati, senza dir nulla, i panni del marito, ecco Giovanni Pascoli approfittare della situazione, e della raccolta dei filugelli, per contemplare a sazietà i seni nudi dell’amata Rosa: Ma tu ti sganci il candido corsetto, o bionda Rosa. Fuori è chiaro il sole, e due colombi tubano sul tetto. Ti slacci il busto: Odore di viole bianche è nell’orto. Oh lascia come prima Bello è come è. Non altro fior ci vuole. Ci son due bocci che hanno il rosso in cima. C’è poco da scherzare, Pascoli è perdutamente innamorato della sorella Ida, ma solo quando egli la traveste da Rosa la sua coscienza morale gli consente di vederla e di guardarla senza che intervenga la censura del Super-io, come chissà quante volte l’ha sognata ad occhi aperti, combattendo ogni volta un’aspra battaglia dentro di sé per esaudire il proprio delirio visivo. E la battaglia deve essere stata aspra anche al momento della prima stesura dei versi, se un abbozzo, in luogo dei “due bocci che hanno il rosso in cima”, reca esplicitamente “tra le tue mammelle”, “tra le tue bianche verginee mammelle”. “Non lo conosci il bacio capovolto?” chiede imperterrito Corrado Govoni alla “bella avventuriera”. Diciannovenne, delirante di libidine, per imposizione dell’editore aveva dovuto sostituire con altri versi assai più castigati Vas luxurie, un’intera sezione della sua opera prima, Le fiale (1903), in cui spiccavano sonetti intitolati La mia vulva, Spasimo, Fame di carne. Anni dopo, in Suona il silenzio, da Canzoni a bocca chiusa (1938), a proposito della “tromba delle caserme”, dirà più moderatamente: Le ragazze in camicia al buio sospirano fiutando a quel suono un odore di sabato e di sigaro. Inturgidiscono i capezzoli Tanto lo trovano buono. 212 FAUSTO CURI Ma, a proposito di “fame di carne”, non si può non notare che, ora palese, ora celata, ma non per questo meno evidente, la pulsione sessuale pervade alcune liriche del Sentimento del tempo di Ungaretti: Tonda quel tanto che mi dà tormento, la tua coscia distacca di sull’altra... Dilati la tua furia un’acre notte! Ma anche, con la “notte” sempre metaforica protagonista: Hai chiuso gli occhi. Nasce una notte piena di finte buche, di suoni morti come di sugheri di reti calate nell’acqua... Ancora la “notte”, non però usata metaforicamente: ......................................... Era una notte afosa quando improvvise vidi zanne viola in un’ascella che fingeva pace... Diurno, solare è invece l’ambiente in cui si compie questa invocazione: O leggiadri e giulivi coloriti che la struggente calma alleva, e addolcirà, dall’astro desioso adorni, torniti da soavità, o seni appena germogliati, già sospirosi, colmi e trepidi alle furtive mire, v’ho adocchiati. L’aggettivazione non potrebbe essere più ricca e precisa, e il poeta, con quei ‘germogli’ che gli tocca ‘adocchiare’, più “desioso”. 5. Tranne i nominati, e tranne Saba (“E non aveva che la sua cosetta”), nel Novecento italiano, però, non c’è molto altro di cui tener conto. Il “ripudio 213 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA della sessualità” sembra dominare sovrano, i poeti, segnatamente gli ermetici, paiono – sia detto con il rispetto che meritano - colpiti da una crisi passeggera di disfunzione erettile, a volte addirittura da scopofilia, le povere ragazze da loro cantate attendono invano qualcosa di più sostanzioso e tangibile dei versi e nel frattempo rischiano di finire disincarnate. E valga il vero: Cardarelli, non appena vede passare la “vergine adolescente”, perde subito la testa e straparla di “un pescatore di spugne” che nessuno sa chi sia, ma intanto non fa un passo o muove una mano verso la fanciulla. Si capisce che lei abbia il corpo “difficoltoso e vago”, ma qualcosa da stringere ci sarà pure. Montale, celebrato poeta d’amore, di Esterina non ci lascia vedere neppure il costume da bagno, che certo non era un bikini, le altre donne, per non cadere in tentazione, le trasforma subito in uccelli o in altri animali; Sereni esclama soavemente “In me il tuo ricordo è un fruscio / solo di velocipedi che vanno / quietamente...”; Luzi scrive con molta compunzione una poesia intitolata Cimitero di fanciulle e, per non profanare il luogo, pensa bene di limitarsi a evocare “mani chimeriche” e “ciglia deserte”; Caproni è tutto eccitato dalla vista di Alessandra Vangelo (“Natiche ne ho viste, e reni / altere, su tacchi alti. / Ma il petto (e io facevo salti / così, io, nel mio letto), / quel petto che esortazione, / gente, era all’erezione”), ma ha voglia di stare bene eretto, non sembra riesca ad andare oltre un rapporto, come dire, autoreferenziale; Quasimodo pianta addirittura in asso le donne viventi e intrattiene un molto spirituale dialogo con il simulacro di Ilaria del Carretto. Che pensare di tanta coerenza quaresimale e di tanta fratesca cautela? Un “fioretto” collettivo offerto a San Luigi Gonzaga? Un coro di “voci bianche”? Una poetica della rinuncia e del sacrificio? E a consolare le ragazze, chi ci penserà? Ci penseranno, si capisce, i Novissimi, carnali, disinibiti, sfrontati, carnevaleschi, senza ritegno, capaci perfino di coinvolgere le mogli nelle loro orge. Da Porta, da Giuliani, da Sanguineti si potrebbe citare abbondantemente. Ma se si deve documentare una vera ebrezza dionisiaca, che include il cannibalismo, ed è però tutt’altro che sprovvista di autoironia, scegliamo L’ultima passeggiata, 7, di Sanguineti, il quale, avessimo mai avuto dei dubbi, in Postkarten, 35, ci ha comunicato chiaramente quello che pensa del piacere sessuale: a quella reginella ridarella, a quella raganella griderella, la bella sopranella in sottanella, a quella stella bianca, stella nana, unica mia sovrana disumana, alla sua bianca mano, al piede bianco e stanco, e storto, e morto, a quel suo buco nero, buco vero, dunque io parlo, e così parlando dico: felice la tua faccia di vinaccia, felici le tue braccia di focaccia, principessina di uvaspina, manducabile inconfutabile, amabile potabile: felice, mia selvaggia, chi ti assaggia, 214 FAUSTO CURI candeggiante albeggiante, sola, tra due lenzuola: felice il tuo sensibile cannibale, felice chi ti inghiotte in una notte, chi ti concuoce veloce, e ti digerisce e smaltisce, e ti chilifica e chimifica: felice chi ti dice, e ti nientifica: III 1. La dottrina del corpo come strumento dell’anima ha dominato per secoli la filosofia. E’ chiaro che una tale dottrina non ha più, oggi, alcuna possibilità di sussistere. Nel pensiero di alcuni, siano essi filosofi o persone comuni, potrebbe anzi prevalere l’idea opposta, che cioè sia “l’anima”, o meglio la vita psichica, a essere “strumento” del corpo, nel senso che spesso sono la condizione in cui si trova il corpo e il comportamento che esso assume a determinare la condizione e il comportamento della vita psichica. Ma quale è il comportamento del corpo più tipicamente corporale, quello che meglio lo rivela come esistenza corporea, organica, biologica? Si tratta, è evidente, per un verso della malattia, per un altro verso dell’attività sessuale. La massima espansione e la massima depressione del corpo sono le condizioni che rivelano il corpo a sé stesso, e quelle che più profondamente incidono sulla vita psichica. Una filosofia del corpo, ma anche solo il pensiero non filosofico del corpo, devono dunque non prescindere dalla malattia e dalla sessualità. Nietzsche ha dedicato al corpo uno dei capitoli più importanti di Così parlò Zarathustra e lo ha intitolato Dei dispregiatori del corpo. Anche chi non ama Nietzsche dovrebbe solo per questo capitolo essergli grato. E’ vero che da certe affermazioni nietzschiane può derivare, e purtroppo è derivata, un’idea tutta muscolare e aggressiva della vita umana. Ma il fascismo non ha bisogno di filosofie per affermarsi e salutare degli “eroi” nei mercenari, nei generali felloni e in chi vive muscolarmente e aggressivamente la propria esistenza. Gli basta una democrazia malata e qualche imbonitore servo consapevole o inconsapevole del capitalismo. Scrive dunque Nietzsche: ... Il risvegliato e sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione...10 Da quando Nietzsche ha così parlato, la ragion corporale è la sola ragione che guida ogni “risvegliato e sapiente”. E’ la ragion corporale che, per esempio, ha guidato Freud nella costruzione della dottrina psicoanalitica. Ed è principalmente sulla base dell’analisi della vita sessuale, e quindi del corpo, 10 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-1885), Milano, Adelphi 1986, p.34. 215 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA che egli ha elaborato quella dottrina. A pensarci bene, che cosa è la psicoanalisì se non una psicologia radicata nel corpo? E’ il corpo che sogna. Riguardano il corpo gli “atti mancati”. Si producono nel corpo i sintomi. E dai bisogni del corpo nascono, o con il corpo sono strettamente, organicamente collegate, sia le “pulsioni di autoconservazione”, come, per esempio, quella legata alla fame, sia le pulsioni sessuali. O, per giovarsi della denominazione complessiva introdotta da Freud nella sua ultima teoria, le “pulsioni di vita”. Veramente Freud procede con fermezza ma anche con molta cautela, badando a distinguere ogni volta che sia necessario. Da notare, per prima cosa, è che al rapporto fra lo psichico e il somatico egli si dedica con tenacia fin dalle sue prime prove, quando è ancora un giovane medico e i suoi studi sono ancora preanalitici. Giustamente lo giudica un tema fondamentale, che occorre affrontare prima di passare ad altre questioni. Si guardi, per esempio, il saggio Trattamento psichico, del 1890. Freud, per certe malattie, vi sostiene con convinzione la dipendenza del corpo dalla vita psichica. Esiste, egli premette, un “indirizzo unilaterale della medicina in direzione del corpo”; questo “indirizzo”, però, “ha subito man mano negli ultimi quindici anni un mutamento”. Si è scoperto, infatti, egli prosegue, che in certi malati ì segni del male non provengono se non da un mutato influsso della vita psichica sul corpo, e che dunque la causa prima del disturbo è da ricercarsi nella psiche. Il primo importante passo è compiuto. Ma si tratta di perseverare e di procedere. Volgendo l’attenzione agli “affetti”, Freud osserva: Gli affetti nel senso più stretto sono caratterizzati da un rapporto del tutto particolare con i processi somatici, ma a rigore tutti gli stati psichici, anche quelli che siamo abituati a considerare “processi di pensiero”, sono in certa misura “affettivi, e non uno di essi è privo delle espressioni somatiche e della capacità di modificare processi somatici. Non senza aggiungere: I processi della volontà e dell’attenzione sono anch’essi in grado d’influenzare profondamente i processi corporei e di avere una parte notevole, come promotori o come inibitori, nelle malattie somatiche. [...] Nel giudicare dolori che di solito si annoverano tra i fenomeni somatici, bisogna in genere prendere in considerazione la loro dipendenza oltremodo evidente da condizioni psichiche11. 11 Freud., Trattamento psichico (1890), in Opere cit., I, 1967, pp. 96, 97,98. 216 FAUSTO CURI Il predominio dello psichico sembrerebbe così accertato. Facciamo però attenzione. Quando, quattro anni dopo, Freud prende ad indagare intorno alla nevrosi d’angoscia, la prospettiva muta radicalmente. E’ il somatico che ora predomina. Se, infatti, si apre il saggio Legittimità di separare dalla nevrastenia un preciso complesso di sintomi come “nevrosi d’angoscia” (1894), si trovano affermazioni che non lasciano dubbi al riguardo: ... In un’intera serie di casi la nevrosi d’angoscia si presenta accompagnata a un’evidentissima diminuzione della libido sessuale [...] Il fatto che si tratti di un accumulo di eccitamento; che l’angoscia, la quale verosimilmente equivale a tale eccitamento accumulato, sia d’origine somatica, cosicché in definitiva viene accumulato eccitamento somatico; e che inoltre questo eccitamento somatico sia di natura sessuale e che contemporaneamente si abbia una diminuzione della partecipazione psichica ai processi sessuali: tutti questi indizi avvalorano, mi pare, l’ipotesi che il meccanismo della nevrosi d’angoscia va ricercato in una deviazione dell’eccitamento sessuale somatico dalla sfera psichica e in una conseguente utilizzazione abnorme di tale eccitamento. Con maggiore chiarezza subito dopo: L’organismo di un uomo sessualmente adulto produce, verosimilmente in continuazione, un eccitamento sessuale somatico che, periodicamente, giunge a costituire uno stimolo per la vita psichica In una lettera a Wilhelm Fliess (Minuta E), non datata ma verosimilmente dello stesso 1894, Freud, che si sta interrogando intorno alla nevrosi d’angoscia, comunica all’amico concetti analoghi: ... La fonte dell’angoscia non è da ricercarsi nell’ambito psichico. Essa deve quindi trovarsi in quello fisico; ciò che genera angoscia è un fattore fisico della vita sessuale [...] La tensione sessuale fisica, quando supera un certo grado, risveglia la libido psichica, che porta poi al coito [...] Nella nevrosi d’angoscia [...] la tensione fisica aumenta, raggiunge il livello di soglia al quale può risvegliare un affetto psichico, ma per una ragione qualsiasi il nesso psichico offerto è insufficiente, non giunge a formare un affetto sessuale, perché mancano le condizioni psichiche necessarie. Così avviene che la tensione fisica, non essendo legata sul piano psichico, si trasforma in ... angoscia. [...] Dove la tensione sessuale fisica è abbondante, si trasforma in angoscia nei casi nei quali essa non può subire la rielaborazione psichica che la trasformerebbe in affetto [...] Nella nevrosi d’angoscia si tratta di tensione 217 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA fisica che è incapace di trovare uno sfogo psichico, e conseguentemente si mantiene nel canale fisico12. Freud tornerà sulla questione nei Tre saggi sulla teoria sessuale, apparsi nel 1905 in un’edizione che, nel corso degli anni, verrà dotata di importanti giunte; e precisamente nel secondo paragrafo, intitolato Il problema dell’eccitamento sessuale, del terzo saggio, Le trasformazioni della pubertà. Ma, senza prolungare l’indagine oltre misura, e avviandoci anzi a concluderla, ci sembra importante osservare come fin dagli inizi Freud si sia preoccupato di mantenere la sua indagine psicologica strettamente legata alla riflessione sugli aspetti somatici, assegnando al corpo e ai suoi bisogni tutta l’attenzione che essi meritano e mostrando come, corpo e “anima” essendo indissolubilmente congiunti, l’analisi dell’”anima” e l’analisi del corpo non possano essere che due aspetti della medesima scienza psicologica. Ben noto è il cosiddetto “dualismo” freudiano, che si contrappone al “monismo” di Jung e che si afferma in ogni occasione dell’analisi. La stessa fondamentale nozione di “pulsione (Trieb)” può essere assunta come insegna di tale dualismo, se è vero che “La pulsione è [...] uno dei concetti che stanno al limite tra lo psichico e il corporeo”13. Il concetto è poi ribadito in Pulsioni e loro destini (1915): Se ora ci volgiamo a considerare la vita psichica dal punto di vista biologico, la “pulsione” ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua connessione con quella corporea14. Vale la pena ricordare che il saggio sulle Pulsioni fa parte della serie intitolata Metapsicologia; non senza notare che l’introduzione del “punto di vista biologico” in uno scritto metapsicologico mostra meglio di qualunque analisi l’importanza che ha per Freud quel “punto di vista”, e dunque il corpo. Sebbene poi Freud non rimanga sempre perfettamente fedele ai principi enunciati, dichiarando, per esempio, nel Compendio di psicoanalisi (1940): “Chiamiamo pulsioni le forze che supponiamo star dietro le tensioni dovute ai bisogni. Esse rappresentano le richieste corporee avanzate alla vita 12 Id., Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904, a cura di J.M. Masson, Boringhieri, Torino 1986, pp. 100-105. 13 Id.,Tre saggi sulla teoria sessuale (1905),in Opere cit., IV, 1970, p. 479. 14 Id., Pulsioni e loro destini (1915), in Opere cit., VIII cit., p.17. 218 FAUSTO CURI psichica”15. Ma già in Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni), del 1932, aveva osservato: Una pulsione si differenzia [...] da uno stimolo per il fatto che trae origine da fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta. La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene psichicamente attiva. Noi ce la rappresentiamo come un certo ammontare di energia, che preme verso una determinata direzione. Da questo premere le deriva il nome di “pulsione”16. Giova, nel caso, ripetersi: quanto più ci si addentra nello studio della dottrina di Freud, tanto meglio ci si rende conto che la psicoanalisi è una scienza psicologica radicata nel corpo, nei suoi bisogni, nei suoi desideri, nelle sue malattie. L’angoscia è una condizione psichica, ma, si è visto, la nevrosi d’angoscia (come, del resto, le altre “nevrosi attuali”, nevrastenia e ipocondria) ha radici organiche. 2. Parlando di Nietzsche si è accennato più sopra alla possibilità di una filosofia del corpo. Giova aggiungere, ora, che, in età moderna, tale possibilità è invero una necessità, dopo che nella filosofia hanno dominato per secoli prima il concetto della strumentalità del corpo, poi la dottrina dell’esteriorità del corpo, che, pur in modi diversi, hanno sempre umiliato il corpo vedendolo subordinato all’anima. Così, se Nietzsche è un elogiatore del corpo, vi sono stati successivamente filosofi che, senza giungere alla sua celebrazione, hanno però individuato e illustrato la specificità irriducibile del corpo, restituendogli dignità e illuminandone il valore. Fondamentali per l’intera filosofia novecentesca, e in particolare per pensatori quali Sartre e Merleau-Ponty, sono rimaste le nozioni di “corporeità” e di “corpo proprio” introdotte da Edmund Husserl nel Libro primo delle Idee per una fenomenologia pura (1913): Per venire in chiaro, io cerco la fonte ultima alla quale attinge nutrimento la tesi generale del mondo che io pongo nell’atteggiamento naturale, quella fonte la quale quindi rende possibile che io trovi coscienzialmente di fronte a me un mondo essente di cose, che in questo mondo io mi attribuisca un corpo proprio e che io mi possa articolare appunto dentro il mondo. Qualunque sia il modo di coscienza in cui io ho la dimensione mondana, quando in questo modo l’essere di questo essere è intenzionato come reale, può essere posta la 15 16 Id., Compendio di psicoanalisi (1940), in Opere cit., XI, 1979, p. 575. Id., Introduzione alla psicoanalisi (1932) ivi, p. 205. 219 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA domanda intorno alla giustezza di questa opinione intenzionale, e ogni dimostrazione riconduce, in ultima istanza, all’esperienza; e poiché lo strato fondamentale, portante, di ogni realtà, è la corporeità, si arriva sempre all’esperienza sensoriale. A questo proposito va considerata la percezione sensibile, che tra gli atti esperienti ha in un certo giustificato senso la sua funzione di una esperienza primitiva [Urerfahrung], e da cui gli altri atti d’esperienza traggono la maggior parte della loro forza fondatrice. Ogni coscienza percettiva ha la proprietà di essere coscienza della presenza in carne ed ossa di un oggetto individuale, che sul piano puramente logico è un individuo o una derivazione logico-categoriale dell’individuo17. Quali che siano gli sviluppi della dottrina husserliana, riconoscere l’importanza dell’”esperienza sensoriale”, e soprattutto della “corporeità” e del “corpo proprio”, in anni in cui dominano spiritualismo e idealismo è senza alcun dubbio una prova notevole di chiaroveggenza filosofica. Memorabile rimane comunque anche la pagina delle Meditazioni cartesiane (1931) in cui Husserl sviluppa il concetto di “appartentività”, ossia di ciò che “appartiene alla mia proprietà”, che è mio proprio e soltanto mio, raggiunto non immediatamente ma attraverso una serie di atti di “riduzione fenomenologica”: Tra i corpi di questa natura colti in modo appartentivo io trovo poi il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè l’unico a non essere mero corpo fisico [Körper] ma proprio corpo organico [Leib], oggetto unico entro il mio strato astrattivo del mondo; al mio corpo ascrivo il campo dell’esperienza sensibile, sebbene in modi diversi di appartenenza (campo delle sensazioni tattili, campo delle sensazioni termiche ecc.). Questo corpo è la sola e unica cosa in cui direttamente governo e impero, dominando singolarmente in ciascuno dei sui organi. Io percepisco, posso sempre percepire, con le mani sensazioni tattili e cinestesiche, con gli occhi sensazioni visive ecc.; i fenomeni cinestesici degli organi scorrono nell’io faccio e sottostanno al mio io posso. In seguito, ponendo in gioco le cinestesi, posso urtare, spingere, e cioè agire direttamente e quindi indirettamente con il mio corpo. Nella mia attività percettiva percepisco (o posso percepire) tutta la natura e in essa la mia corporeità propria che in quest’atto è perciò riferita a se stessa. [...] La messa in luce del mio corpo appartentivamente ridotto significa già un tratto della messa in luce della essenza appartentiva propria del fenomeno oggettivo “io come quest’uomo qui”18. 17 E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, I (1913), Torino, Einaudi 1965, p.84. 18 Husserl, Meditazioni cartesiane (1931), Milano, Bompiani 1989, V, pp. 119-120. 220 FAUSTO CURI Si noti: la “messa in luce della essenza appartentiva” dell’ego avviene in quanto vi sia stata, e solo se vi sia stata, la ”messa in luce” del “proprio corpo organico” (Leib). Dunque il corpo conta non soltanto come corpo, cioè come organo della percezione e dell’azione, ma anche come parte essenziale del processo che porta alla “messa in luce della essenza appartentiva” dell’ego. Di un’opera ampia e complessa come L’essere e il nulla (1943) di Jean-Paul Sartre a noi interessano logicamente i due capitoli che egli ha dedicato al corpo. E, in tali capitoli, non può che essere il tema del “desiderio sessuale” ad attirare la nostra attenzione. Scrive dunque Sartre nel capitolo dedicato a Le relazioni concrete con altri: Il mio tentativo originale di impadronirmi della soggettività libera dell’Altro attraverso la sua obbiettività-per-me è il desiderio sessuale. [...] Il desiderio e il suo inverso, l’orrore sessuale, sono delle strutture fondamentali dell’essereper-altri. [...] L’uomo, si dice, è un essere sessuale perché possiede un sesso. E se fosse il contrario? Se il sesso non fosse che lo strumento e come l’immagine d’una sessualità fondamentale? Se l’uomo non possedesse un sesso che perché è originalmente e fondamentalmente un essere sessuale, in quanto essere che esiste nel mondo legato ad altri uomini? [...] Il problema fondamentale della sessualità può dunque essere formulato così: la sessualità è un accidente contingente legato alla nostra natura fisiologica o è una struttura necessaria dell’essere-per-sé-per-altri? [...] Essere sessuato in effetti significa [...] esistere sessualmente per un Altrui che esiste sessualmente per me. [...] La prima apprensione della sessualità d’Altrui, in quanto essa è vissuta e sofferta, non saprebbe essere che il desiderio; è desiderando l’Altro [...] o cogliendo il suo desiderio di me che io scopro il suo essere sessuato; e il desiderio mi disvela al tempo stesso il mio essere-sessuato e il suo esseresessuato, il mio corpo come sesso e il suo corpo19. E’ evidente che, una volta che la filosofia è giunta ad interessarsi del corpo, essa non poteva non giungere ad interessarsi del corpo come sessualità e come sesso. Il merito di Sartre è di aver rivolto l’attenzione non soltanto alla sessualità dell’essere-per-sé ma alla sessualità dell’essere-per-sé-per-altri, cioè aver compreso che “questo enorme affare che è la vita sessuale” intanto è “enorme” in quanto non è “un accidente contingente legato alla nostra natura fisiologica” ma è una “struttura necessaria” del nostro essere-per-sé-per-altri, ossia del nostro vivere nel mondo legati ad altri esseri umani. Intanto il mio corpo è un corpo come sesso in quanto è fatto per un altro corpo come sesso che a sua volta è fatto per il mio corpo. Si tratta di ben altro che di una solidarietà sessuale. Si tratta del “desiderio”, che è la forza che dispone due 19 J. P. Sartre, L’être et le néant, Paris, Gallimard 1943, pp. 432, 433, 434. 221 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA esseri umani a essere fatti sessualmente l’uno per l’altro, ed è al tempo stesso la forza che mi consente di essere consapevole che possiedo un corpo come sesso, cioè come desiderio, perché vi è un altro corpo come sesso che mi desidera ed è da me desiderato. Sessualità è bivocità, pluralità, socialità. Sessualità vuol dire che nel mondo non sono solo. Potrò in realtà vivere nella più spaventosa solitudine. Ma questo sì, per quanto terribile, è soltanto un accidente. La “struttura necessaria” che è il mio corpo come sesso mi dispone a ben altro destino. Non possono esservi dubbi, Freud ha potentemente aiutato Sartre a scoprire l’importanza del desiderio. Anche perché Freud aveva in certo qual modo anticipato Sartre quando, in Al di là del principio di piacere (1920), che è un testo metapsicologico o per meglio dire pre-filosofico, aveva introdotto Eros e, suscitando non poche perplessità, lo aveva assimilato alla libido: “... La libido delle nostre pulsioni sessuali coinciderebbe con l’Eros dei poeti e dei filosofi che tiene unito tutto ciò che è vivente”20. Ma è con Sartre che il desiderio in quanto desiderio sessuale diventa oggetto della riflessione filosofica e si rivela quindi davvero come potenza erotica, come forza che congiunge e unisce. Concludiamo la nostra breve rassegna filosofica aprendo la Fenomenologia della percezione (1945) di Maurice Merleau-Ponty, che riserva al corpo ben sei capitoli. Dei quali quello che ovviamente più ci interessa è il quinto, che porta Il titolo sartriano di Il corpo come essere sessuato. Scrive MerleauPonty: La percezione erotica non è una cogitatio che intenziona un cogitatum; attraverso un corpo essa si protende verso un altro corpo, si effettua nel mondo e non in una coscienza. Uno spettacolo ha per me un significato sessuale non quando mi rappresento, anche confusamente, il suo possibile rapporto agli organi sessuali o agli stai di piacere, ma quando esiste per il mio corpo, per questa potenza sempre pronta ad amalgamare gli stimoli dati in una situazione erotica e ad adattarvi una condotta sessuale. C’è una “comprensione” erotica che non appartiene all’ordine dell’intelletto, giacché l’intelletto comprende appercependo un’esperienza sotto un’idea, mentre il desiderio comprende ciecamente collegando un corpo a un corpo21. Queste riflessioni sembrano non discostarsi molto da quelle di Sartre. Se però si procede nella lettura del libro di Merleau-Ponty, ci si avvede che, pur percorrendo una strada vicina a quella intrapresa dall’autore dell’Essere e il nulla, egli è più rigorosamente legato alla fenomenologia e al suo linguaggio di quanto non sia Sartre. E che, in ogni caso, l’oggetto principale del suo 20 Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere cit., IX, p. 236 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), Milano, Il Saggiatore 1965, p. 223. 222 21 FAUSTO CURI interesse, e cioè la percezione, lo porta a conferire alla propria indagine una indiscutibile specificità. Conviene semmai notare che, anch’egli con l’ausilio di Freud, non soltanto conferma la “messa in luce” dell’importanza filosofica fondamentale del corpo e del sesso, ma arricchisce di nuove e originali argomentazioni una ricerca che, a un certo momento, non poteva, per certi aspetti, non essere ‘comune’ e che già solo per questo mostra la dignità e la rilevanza culturale assunte da temi fino a non molto tempo prima o negletti o giudicati secondari. Osserva ancora Merleau-Ponty: Riscopriamo la vita sessuale come un’intenzionalità originale e al tempo stesso la radice vitale della percezione, della motilità e della rappresentazione facendo riposare tutti questi “processi” su un “arco intenzionale” che nel malato si allenta, mentre nell’individuo normale dà all’esperienza il suo grado di vitalità e di fecondità. La sessualità non è quindi un ciclo autonomo. Essa è internamente legata a tutto l’essere conoscente e agente [...] Anche per Freud [...] la libido non è un istinto, cioè un’attività naturalmente orientata verso fini determinati, ma è la capacità generale, propria del soggetto psicofisico, di aderire ad ambienti diversi, di fissarsi attraverso differenti esperienze, di acquisire strutture di condotta. Essa fa sì che un uomo abbia una storia. Se la storia sessuale di un uomo fornisce la chiave della sua vita, è perché nella sessualità dell’uomo si proietta il suo modo di essere nei confronti del mondo, cioè nei confronti del tempo e degli altri uomini22. Non lasciamoci ingannare da certo linguaggio husserliano (“intenzionalità”, “arco intenzionale”, “esperienza”) né dal ricorso a Freud, che peraltro ci permette di comprendere meglio che il “malato” di cui si parla è uno psicopatico. L’analisi di Merleau-Ponty ha una propria originalità filosofica, segnatamente dove giunge a far incontrare la sessualità con la storia. Completando così una riflessione plurale sul corpo e sul sesso che conferisce piena dignità culturale a questioni sulle quali le ricerche dei filosofi avevano per molto tempo rifiutato di soffermarsi, preferendo mete più agevoli e molto meno interessanti e utili. “Torna la vecchia merda metafisica”, avevano già commentato preoccupati e sarcastici Marx e Engels nell’Ideologia tedesca. Modernità non è solo mettere a nudo l’ideologia come falsa coscienza, indagare il modo di produzione e il feticismo della merce, scoprire l’alienazione che colpisce il lavoro e l’intera vita dell’uomo; è anche portare in luce il valore della materialità e della fisicità, aderire con il proprio pensiero ad oggetti che non solo non sono estranei all’esistenza umana, ma ne costituiscono la parte misconosciuta eppure essenziale. 22 Ivi, pp.224, 225. 223 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA IV 1. Giunti a questo punto della nostra indagine, dovrebbe risultare evidente che l’opera di Moravia, per la frequenza con cui vi compaiono il corpo e il sesso e per l’importanza non solo narrativa che essi vi possiedono, ha un rilievo culturale e critico prima che letterario. Culturale non nel senso che ha comunemente la parola, giacché chiunque produce letteratura produce per ciò stesso cultura; ma nel senso che quell’opera propone interpretazioni del mondo, dell’essere umano e della sua esistenza nuove e originali, almeno per quanto riguarda l’Italia e l’età moderna. Nuove e originali anche perché le rappresentazioni a cui si affidano non si limitano a riprodurre la realtà ma ne esercitano una critica tanto implicita o interna ai fatti raffigurati quanto energica e vigorosa, astenendosi peraltro l’autore da qualunque intrusione moralistica. Occorre infatti guardarsi dal credere che il corpo e il sesso, così presenti e rilevanti, siano solo il prodotto di una vocazione personale (qualcuno forse direbbe “ossessiva), quando invece costituiscono gli elementi portanti di una visione del mondo che, pur con aspetti fortemente caratteristici per ciò che riguarda la realizzazione letteraria, partecipa di una generale ‘filosofia’. Quanto al corpo, e segnatamente al corpo femminile, conviene osservare, per prima cosa, che Moravia si allontana dalla consueta visione letteraria, che per intenderci rapidamente potremmo forse chiamare ‘romantica’, giacché lo distacca in modo netto dalla bellezza. Nei romanzi e nei racconti di Moravia il corpo femminile, contemplato di solito nella sua nudità, può essere desiderabile ma non è mai bello. Lo scrittore, al contrario, ne mette spesso in luce i difetti, gli aspetti disarmonici, abnormi, a volte quasi ripugnanti. Questo gli consente di concentrare l’attenzione sul corpo in quanto tale, piuttosto che sulla bellezza che tradizionalmente quel corpo esibisce e che tradizionalmente attira l’interesse del lettore, sviandolo da ciò che per Moravia è veramente significativo. Ecco la Carla degli Indifferenti, una delle prime donne, se non la prima, a comparire nell’opera moraviana: ...Gambe dai polpacci storti, ventre piatto, una piccola valle di ombra fra i grossi seni, braccia e spalle fragili, e quella testa rotonda così pesante sul collo sottile. Non conta nulla che Leo, contemplandola, esclami “che bella bambina”. Il commento è appunto di Leo, cioè di un personaggio, non del narratore. Così, in un altro luogo del libro, appartiene al personaggio Leo, non al narratore, questa ammirata descrizione che passa dal discorso diretto al discorso indiretto libero 224 FAUSTO CURI “Ah, che bella bambina” pensava intanto Leo; quella nudità l’accecava, non sapeva da dove incominciare, se dalle spalle delicate, magre e bianche o dal giovane petto di una tenerezza, di un candore di latte di cui i suoi occhi avidi e sorpresi non sapevano saziarsi. Quanto a Lisa, l’amante di Michele, non appare certo avvenente: Andò all’attaccapanni; non aveva addosso che una trasparente camiciuola che faceva ancor più corte le sporgenze del corpo, le gambe erano tutte scoperte fino alla piega profonda che staccava la rotondità delle natiche dalle cosce bianche e senza peli, i seni muscolosi, appena più bassi che a vent’anni, ne uscivano per metà con due rigonfi lisci e venati... La donna possiede una sua un po’ goffa sensualità, ma bastano poche parole a Moravia per abolire ogni possibilità di grazia e di venustà: “ancor più corte le sporgenze del corpo”, “i seni muscolosi”, “due rigonfi lisci e venati”. E si noti: comunicarci che le coscie sono “senza peli” evoca proprio i peli anziché una liscia bianchezza. Non basta: Moravia, con un’abilità linguistica che non si può non riconoscergli, provvede a stendere una leggera patina di sudiciume su un corpo già privo di leggiadria: ... Le venne in mente che erano passati tre giorni da quando si era lavata per l’ultima volta tutto il corpo e che sarebbe stato necessario prendere un bagno; esitò; era veramente indispensabile? Si guardò i piedi: le unghie erano bianche, parevano puliti... Del resto il sudiciume del corpo di Lisa è solo un piccolo segno della visione tutta negativa che della realtà ha il Moravia giovane. Assai di più contano la “nausea”, il “disgusto” e infine il vomito e la “saliva acida” di cui è preda Carla dopo che Leo l’ha ubriacata: ... La vide rizzar la testa, impaurita, pallidissima, con delle voci gutturali e dei gesti del mento che parlavano per la bocca chiusa; [...] invasata, Carla sorse sul letto appuntando gli sguardi sul trespolo, là, nell’angolo; Leo capì, prese il catino, lo tese appena in tempo: dalla bocca aperta, nel vaso arrugginito, la fanciulla emise un getto denso, multicolore e fumante, sostò, con un singulto delle viscere sconvolte ricominciò; [...] “Tutto è finito” pensava; e in verità, lo intuiva, qualche cosa doveva pur esser finito, senza piacere né dignità, in quel catino; cosa precisamente, non avrebbe saputo dire... Ciò che Carla e Michele provano è ben altro che ‘indifferenza’. E’ “nausea”, “disgusto”. E il vomito di Carla manifesta non solo quella “nausea” e quel 225 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA “disgusto”, ma anche il senso morale e fisico di una generale disfatta, patita “senza piacere né dignità”, e senza possibilità di riscatto. Ciò che “è finito” schifosamente “in quel catino” è la loro esistenza, anzi è l’intera realtà. Restiamo negli Indifferenti e, per concludere con quest’opera, guardiamo un ritratto di Mariagrazia, la madre di Carla: La madre si avvicinò; non aveva cambiato il vestito ma si era pettinata e abbondantemente incipriata e dipinta; si avanzò, là, dalla porta, con quel suo passo malsicuro; e nell’ombra la faccia immobile dai tratti indecisi e dai colori vivaci pareva una maschera stupida e patetica. La stessa Mariagrazia in un altro luogo del libro è definita “matura e disfatta”. 2. Il romanzo breve La disubbidienza ci offre due personaggi femminili particolarmente interessanti per la nostra indagine, la governante e l’infermiera, accomunate dall’essere entrambe donne mature in contrasto con la giovane età di Luca, il protagonista quindicenne del racconto, e dal suscitare entrambe nel ragazzo, in vicende e con esiti diversi, i primi turbamenti sessuali. La governante è così descritta: Era una donna sui trentacinque anni, di mediocre statura, resa forse anche più mediocre dalla disparità fra le spalle strette e la grossa testa dai capelli gonfi. Non era bella, coi suoi occhi torbidi e inespressivi, a fior di pelle, sempre pesti e battuti; le sue guance troppo bianche e un po’ sfatte; la sua bocca tumida e cascante, ombreggiata di scura peluria; ma questa scarsa avvenenza, quest’aria di cattiva salute erano in certo modo compensate dalla straordinaria vivacità e allegria del carattere. Superfluo osservare che le “spalle strette” e la “grossa testa” del corpo femminile sono, in Moravia, una sorta di locus communis o di leit-motiv di cui il narratore si giova non per collegare il personaggio di un’opera a quello di un’altra opera, ma per creare un ‘tipo’ di donna, o meglio un corpo femminile paradigmatico, di cui è importante mettere subito in luce le imperfezioni, le ”disparità”, le disarmonie fisiche, con lo scopo, si è visto, di annullare preventivamente nel lettore ogni banale attesa di leggiadria e concentrare la sua attenzione sul corpo in quanto tale, che, per essere un corpo comune di una donna comune, ben difficilmente potrebbe non patire quelle “disparità”. Anche Carla degli Indifferenti ha una”grossa testa” e “spalle [...] magre” e su quella testa “grossa”, “rotonda”, “pesante” Moravia non cessa di insistere. Si badi, però: le disarmonie fisiche del corpo femminile hanno quasi sempre, in Moravia, qualcosa di sensuale, di erotico, sembrano fatte per accrescere il desiderio maschile piuttosto che per smorzarlo o per suscitare disgusto. Questa funzione, se così si può dire, esercitano i “polpacci storti”, i “grossi 226 FAUSTO CURI seni” e quell’impagabile “testa rotonda così pesante sul collo sottile” di Carla, i “seni muscolosi”, “due rigonfi lisci e venati”, la “grossa coscia” di Lisa. Se torniamo alla governante, apprendiamo che vi è in lei una sorta di “puerilità”, che, tanto per cambiare, contrastava assai con una certa sensualità mal repressa e già più di donna matura che di ragazza, visibile nella stanchezza degli occhi, nella bellezza un po’ impura delle mani e nella mollezza dei fianchi. Superfluo notare che non vi potrebbe essere “bellezza” in quelle “mani” se essa non fosse “un po’ impura”. Ma non perdiamo questa scena assai significativa: Luca provava simpatia per la governante [...] Un pomeriggio, osservandola mentre caracollava attraverso il salotto con il bambino sul dorso, Luca no poté fare a meno di osservare la rotondità provocante dei fianchi alzati in aria nell’animalesco atteggiamento; e in un gesto che ella fece girandosi verso di lui, gli occhi, attraverso lo spacco della blusa, gli si posarono quasi suo malgrado sul petto che in quella posizione appariva nudo per tutto il contorno delle mammelle molto bianche e molli. Queste mammelle pendevano, proprio come quelle di una bestia, ballando ad ogni scossa; [...] Luca la guardava e per la prima volta non poteva fare a meno di trovare sconveniente che il bambino, cavalcandola, le battesse con le mani sulle natiche, come sulla groppa, appunto, di un cavallo. Non occorre osservare che l’imbestiamento della donna è l’atto supremo con il quale Moravia raggiunge un duplice esito: distaccare definitivamente l’immagine del corpo femminile dall’idea della bellezza e contemporaneamente rendere quel corpo più carnalmente sensuale. A suo modo non meno singolare e perturbante è il corpo dell’infermiera, alla quale spetta il compito di sedurre Luca: ... Ella si accostò al letto e, ritta e maestosa, fissandolo negli occhi con gli occhi scintillanti, levò le due mani, sin tolse il soprabito dalle spalle e lo depose sopra una seggiola. In questo gesto si chinò da parte rivelando il carattere massiccio e sformato del corpo: i fianchi non tondi ma quadrati, con larghe placche di carne impressa nel velo della camicia; il dorso vasto e spesso; le braccia mature. Ella rimase ferma un momento, come per permettere a Luca di ammirarla a suo agio; poi con un gesto possente di insofferenza, levò le braccia, sfilando per il capo la camicia. Sempre più su, sipario esitante e sbilenco, saliva il velo, a strattoni, scoprendo il suo spettacolo: le gambe grosse ma dritte simili a torri di carne bruna e accesa, il grembo, sola parte schiva e ombrosa tra tante esposte ridondanze; il ventre, 227 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA traboccante vascello di viscere vogliose; infine il petto stretto tra le due larghe ascelle nel gesto delle braccia alzate come un terreno scuro e collinoso tra due bianche strade deserte. Chi ha detto che la scrittura è la parte che meno conta nell’opera di Moravia, o è la meno felice, o, addirittura, che egli non sa scrivere? Nei lacerti che abbiamo citato fino a questo momento non c’è parola che non corrisponda perfettamente alla funzione che deve svolgere, senza questa scrittura funzionale, plastica, che aderisce agli oggetti come la pelle alle carne e tuttavia non è priva di metafore e comparazioni, la rappresentazione non avrebbe il vigore che possiede. Si potrà affermare che proprio nella scelta e nella gestione delle figure retoriche egli rivela, a volte, la sua ingenuità e la sua debolezza linguistica; e che in certi romanzi e racconti l’invenzione è fiacca e il racconto faticoso. Ma se, poniamo, La ciociara è un’opera scadente, la colpa non è certo della scrittura. O meglio, è dell’infelice mescidazione di due linguaggi eterogenei, l’uno colto, l’altro ‘popolare’. La scrittura, in altri casi, intrattiene con la propria materia un rapporto felicemente necessario. Quello che può sorprendere, semmai, è il carattere non premeditato, immediatamente inventivo, quasi (osiamo tranquillamente l’ipotesi) la parola sorgesse dalle profondità della vita inconscia, che, in certe occasioni, ha il linguaggio narrativo di Moravia. Peraltro, se l’ipotesi ha una sua fondatezza, ogni sorpresa dovrebbe venire meno: è stato Freud a mostrare lo stretto, radicale rapporto che stringe la sessualità all’inconscio. Riconosciamo, piuttosto, che il Moravia più persuasivo è quello che sa far funzionare perfettamente insieme vita inconscia e lucida logica costruttiva, ragion corporale e immaginazione. 3. Ritorneremo su ciò che accade fra Luca e la sua infermiera, giacché si tratta di uno degli episodi capitali dell’intera opera moraviana. Non dimentichiamo, intanto che un’infermiera è anche nel racconto Inverno di malato e che anche questo personaggio, che pur appare brevemente, si presta a confermare le ipotesi su cui stiamo lavorando: La donna, una bruna piuttosto piccola, di forme sode e non brutta, ma dotata di una particolarità insolita, e cioè di una peluria vellutata e scura che le copriva gli avambracci, le guance, il labbro superiore e persino il collo, e faceva pensare a un corpo furiosamente villoso... Un Leit-motiv non sarebbe un Leit-motiv se non si ripresentasse: ora si tratta di “polpacci storti”, ora di una “grossa testa”, ora di “seni muscolosi”, ora della “bellezza un po’ impura delle mani”, ora di “fianchi non tondi ma quadrati”, ora di un imbestiamento. Nel caso della seconda infermiera, l’attenzione è colpita da “un corpo furiosamente villoso”. Che, altra conferma, proprio per essere tale accende la libidine di un personaggio maschile, 228 FAUSTO CURI Brambilla, “al quale quella particolarità della peluria ispirava una grande attrazione”. Si dirà forse che, soffermandosi sul corpo di donne mature, Moravia non può non metterne in evidenza il declino, lo sfascio. Ma la scelta non coatta di donne mature è già di per sé indicativa di un bisogno di mancanza di avvenenza, di fisicità attraente ma non leggiadra e in qualche modo ‘abnorme’. Prima di lasciare le pagine di Inverno di malato, guardiamo comunque l’immagine della giovinetta Polly: La Polly non mostrava più dei quattordici anni che aveva. Era bionda, coi capelli saggiamente tagliati all’altezza delle guance, aveva occhi cilestri, un volto pieno di salute, roseo e bianco, e, pur nella sua banalità, sarebbe stata graziosa, se non fosse stata una leggera pinguedine derivata evidentemente dalla lunga infermità, che le dava un aspetto pigro, addormentato e come sornione. Nulla insomma di precoce era in lei, anche in un senso tutto inconsapevole e fisico; semmai [...] la malattia pareva averla intorpidita e quasi respinta in una ritardata infantilità. Alla buon’ora. Dopo che per più di un secolo, in letteratura, l’adolescenza e la giovinezza, maschile ma soprattutto femminile, sono state (non senza qualche eccezione, per fortuna) il segno naturale della grazia, della bellezza, dell’eleganza, del fascino, ecco finalmente una fanciulla pingue e banale. E’ un segno minimo, se si vuole, ma è un segno diverso, che indica un mutamento culturale importante. 4. Esemplare per le “disparità” che presenta il suo corpo è Viola, la madre di Desideria protagonista della Vita interiore (1978): ... Era diversa se vista di fronte o di dietro. Se la guardavi di faccia vedevi una donna matura, dal corpo sciupato, smontato, disfatto. Il collo appariva come macerato, con due o tre collane di rughe torno torno; dal petto i seni le pendevano giù simili a due sacchetti bruni sgonfi e vizzi; il ventre, forse a causa di una gravidanza interrotta, era tutto un reticolato di pieghe sottili. Ma se le dicevi di voltarsi, allora vedevi la schiena di una donna giovane, sotto i trent’anni. Le spalle, il dorso, le natiche, le cosce apparivano misteriosamente e tuttavia eloquentemente graziose, sensuali provocanti. Le “disparità” nel corpo delle donne di Moravia non sono mai tali da escludere una capacità d’attrazione o di fascinazione. Viola ha questo di particolare che solo la parte posteriore del suo corpo è piacente, ma quella parte attira più del corpo della giovane e bella Desideria, quella parte è fatta per l’amore, o meglio per l’esercizio del sesso ed è la finalità biologica ed erotica di quel mezzo corpo che l’ha mantenuto giovane e desiderabile. 229 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA Perfino la conturbante diciassettenne della Noia, Cecilia, non è immune da “disparità”: Aveva infatti un seno magnifico, pieno solido e bruno, che però discordava e pareva, per così dire, quasi staccato dal busto il quale era, invece, quello gracile e magro di una adolescente. La vita era anch’essa quella di una fanciulla, incredibilmente snella e flessuosa; ma nei fianchi compatti e forti, riappariva il carattere adulto che si notava nel seno. [...] Ora, dalla cintola in giù, il corpo di Cecilia pareva avere la consistenza appunto delle cose che sono fatte di una materia molto densa e molto pesante. Come era forte, per esempio, l’attaccatura delle gambe all’inguine in confronto con quella delle braccia alle ascelle; quanto diversa dalla magrezza delicata del busto, l’insellatura vigorosa delle reni, la ridondanza muscolosa dei lombi, la compattezza massiccia delle cosce. Nella descrizione del corpo femminile Moravia trova le sue migliori risorse linguistiche; e pur se non lo dice esplicitamente, anche perché, in apparenza, non è lui a parlare, sembra pensare che sia la disposizione all’eros a modellare il corpo della donna, indipendentemente dall’età e da ogni altra condizione o stato che su quel corpo potrebbe incidere. Ma ecco la conclusione del passo che rappresenta il corpo di Cecilia: Adolescente dalla vita in sù, donna dalla vita in giù, Cecilia suggeriva un po’ l’idea di quei mostri decorativi che bsono dipinti negli affreschi antichi: specie di sfingi o arpie, dal busto impubere innestato, con effetto grottesco, in un ventre e due gambe possenti. “Mostri”? “effetto grottesco”? Lasciando stare gli altri personaggi femminili creati da Moravia, non solo Cecilia non ha nulla di veramente mostruoso e suscita tutt’altro che un “effetto grottesco”, ma incanta e seduce numerosi uomini. Probabilmente Moravia si proponeva di abbassare un poco la tensione provocata dalla descrizione del corpo nudo della ragazza, deviando il discorso in chiave, appunto, “grottesca”. Per la verità, poi, lo scrittore parla di “mostri decorativi”, e l’aggettivo attenua e specifica non poco il sostantivo. Tutte le donne, forse, sono per Moravia “mostri decorativi”, nel senso che le “disparità” che non mancano mai al loro corpo le rendono monstra, che vuol dire sia “fenomeni contro natura” (“arpie”) sia “meraviglie”, “prodigi”, per di più, non scordiamolo, “decorativi”. Proviamo a tirare alcune conclusioni. Moravia non ama il corpo della donna, anche se per lui la donna è soprattutto o soltanto il corpo di lei. Si potrebbe addirittura dire che non ama la donna, anche se ne è sempre fortemente attratto e mette sempre in evidenza la funzione fondamentale che essa esercita non solo dal punto di vista erotico. E’ la donna che, in certe opere 230 FAUSTO CURI moraviane, ‘genera’ l’uomo, non è mai l’uomo che ‘genera’ la donna. Volendolo o senza volerlo, Moravia rovescia il racconto biblico, che vuole la donna generata da una costola dell’uomo. E, quando avviene, la ‘generazione’ dell’uomo da parte della donna investe sia il piano fisico-sessuale sia il piano simbolico. 5. Ritorniamo a Luca e alla sua infermiera: Quando le sembrò che Luca l’avesse guardata abbastanza, ella aprì le coperte e vi si introdusse con maestà, stendendosi al suo fianco. Egli avvertì allora non già un abbraccio ma uno sprofondamento di tutta la persona in una carne immensa. E come la donna gli andava senza fretta con la mano lungo il corpo alla ricerca del suo sesso e, trovatolo, l’afferrava alla radice quasi avesse voluto strapparlo e lo faceva penetrare nel proprio, egli ebbe il senso preciso che lei lo prendesse per mano e l’introducesse, riverente, in una misteriosa caverna dedicata a un rito. Egli pensò che questa era la vita prima invocata e poco importava se si presentava a lui sotto spoglie autunnali. Pieno di gratitudine, si accorse che baciava il viso magro e bruno, dagli occhi socchiusi, immobile come un’effige. Ma era il viso dell’infermiera o quello di una deità salita dalla terra per darsi a lui? Certamente tra le sue mani e quelle membra distese sotto le sue passava il tremito di una venerazione. Intanto continuava il sollievo e riscattava con la sua freschezza e leggerezza l’ardore e il peso dell’abbraccio. Una pagina altissima, una delle più alte fra quelle che ha prodotto la narrativa italiana del Novecento. Di un’originalità suprema, giacché è il corpo della donna, o meglio è il suo sesso a procurare la rinascita dell’uomo. Il “sollievo”, la “gratitudine”, la nuova “vita” dell’uomo non provengono dalla mente, dalla parola di qualche creatura giovane e leggiadramente affascinante ma da una “misteriosa caverna” collocata in un corpo femminile sfiorito, che probabilmente ha ormai perduto la capacità della procreazione carnale ma non ha affatto perduto la forza di generare un’esistenza nuova dell’uomo che si è affidato a lei. Non vi è alcuna forzatura nell’attribuire al giovane il dubbio di trovarsi fra le braccia di “una deità”. Tutto è naturale, tutto accade come deve accadere, non vi è alcuna divinizzazione della donna, giacché quella “deità” non viene dal cielo ma è “salita dalla terra”. Non vi è contraddizione nelle parole del narratore, la creatura che giace accanto a Luca è una “deità” ctonia, viene dalle profondità della terra, come una nuova Persefone , e, come Persefone, reca fecondità. Certo, è facile rendersi conto che l’infermiera è una figura materna, così come Luca è una figura filiale (“Pieno di gratitudine, si accorse che baciava il viso magro e bruno...”’), l’importante è non dimenticare mai che questo personaggio materno non ha nulla di spirituale, che esso è carne e sesso e che è con la sua carne e il suo sesso che ridà, restituisce “vita” al ragazzo. Almeno in certa misura, lo stesso Moravia rende agevole 231 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA l’interpretazione del passo con la pagina che apre l’ultimo capitolo del romanzo: L’infermiera partì il giorno dopo, come aveva annunciato, non lasciando a Luca né rimpianto né disgusto, bensì quel grato sentimento di iniziazione definitiva non soltanto all’amore fisico ma anche a quello più generale verso le cose di cui aveva avuto il primo barlume destandosi dal delirio. Gli pareva di aver trovato finalmente un modo nuovo e tutto suo di guardare alla realtà, fatto di simpatia e di paziente attesa. Questo modo, lo avvertiva, comportava un ritmo di pensiero più calmo, più disteso, più sereno di quello di un tempo e insieme uno sguardo non più diretto e aggressivo, ma studiosamente e ineffabilmente esitante e cauto. Ormai, pensò, avrebbe visto le cose dapprima coi nuovi occhi che gli si erano aperti dentro quella notte e poi quelli che alla sua nascita erano stati abbagliati dalla prima luce del giorno. Seconda e più vera madre, l’infermiera l’aveva fatto nascere una seconda volta, dopo che era morto nel suo desiderio di morte. Ma capiva che questa seconda nascita non avrebbe mai potuto aver luogo se prima egli non avesse desiderato così sinceramente e assolutamente di morire. La pagina è notevole, ma ha una predominante funzione didascalica. Forse sarebbe stato preferibile fermare la narrazione al brano che abbiamo precedentemente trascritto in cui la “seconda nascita” non è interpretata ma avviene. Comunque sia, Moravia ci mette per così dire in bocca la parola più adatta a intendere ciò che è accaduto a Luca: “iniziazione”. Ha cura però di precisare che l’iniziazione non è soltanto all’amore fisico ma a un’accoglienza complessiva e cordiale al mondo. C’è un passo nelle Ideen di Husserl che non corrisponde perfettamente allo stato d’animo di Luca, al suo guardare le cose con ”nuovi occhi ”, ma descrive una condizione simile. La “neutralizzazione del mondo”, cioè la sua “messa in parentesi”, o, meglio ancora, la “messa fuori gioco del mondo obiettivo” dovuta alla “sospensione fenomenologica del giudizio”, spiega Husserl, corrisponde alla “conquista di una nuova regione dell’essere finora non rilevata nella sua caratteristica”23. ...Si dischiude per la prima volta [...] la sfera assoluta dell’essere, la sfera della soggettività assoluta o “trascendentale”; [...] Risulterà tuttavia come la regione della soggettività assoluta o trascendentale “porti in sé”, in un modo del tutto peculiare, [...] l’universo reale...24 Certo, Luca non attua alcuna “sospensione fenomenologica del giudizio”, ma la rivelazione dell’eros gli dischiude davvero “una nuova regione 23 24 Husserl, Idee cit., pp.65, 68, 70. Ivi, p.71. 232 FAUSTO CURI dell’essere finora non rilevata nella sua caratteristica”. A pensarci bene, il suo essere, o meglio il suo sentirsi, in un primo momento, “morto” non è condizione molto diversa dall’esperienza di chi si rivolge al mondo assumendo “l’atteggiamento naturale” e lo percepisce quindi in un’”oscura indeterminatezza”.25 6. Si dirà che, in Moravia, esistono eccezioni alla sfilata di donne dal corpo sfatto o privo di grazia. Ma sono eccezioni apparenti. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di donne viste e rappresentate attraverso gli occhi di un personaggio, non attraverso gli occhi del narratore. Il cui punto di vista, fisico, intellettuale, estetico, quindi, non è in gioco. Qualche problema pone uno dei capolavori di Moravia, Agostino. Ma, cercando di scioglierne i nodi, è forse possibile trovare una soluzione di ordine generale. Non c’è dubbio che fra gli intenti del narratore vi sia quello di mostrare lo stretto legame che congiunge l’adolescente Agostino alla madre, l’attrazione, e quindi la gelosia, più ancora che l’amore, che il ragazzo prova per la donna. Da ciò discende che il personaggio della madre, piuttosto che autonomamente, è rappresentato attraverso lo sguardo di Agostino e il viluppo di sentimenti che ella fa nascere in lui. Lasciamo ora stare quanto la lettura di Freud può aver contato nell’organizzazione del romanzo. Indipendentemente da altre considerazioni, è certo che uno dei meriti di Moravia sta nell’aver impostato il rapporto tra figlio e madre su una base prevalentemente sessuale, ma, al tempo stesso, nell’aver trattato l’argomento con una discrezione e una delicatezza che in lui non sempre sussistono. Detto questo, occorre chiedersi se nel raffigurare la madre lo sguardo del narratore ceda sempre a quello di Agostino. L’inizio del romanzo sembra non lasciare dubbi: “La madre di Agostino era una grande e bella donna ancora nel fiore degli anni”: è il narratore che parla, si dirà. La frase “ancora nel fiore degli anni” non può essere dell’adolescente. Ciò che segue immediatamente mostra però che, nel racconto, la “grande e bella donna” è percepita come tale dal figlio: e Agostino provava un sentimento di fierezza ogni volta che si imbarcava con lei per una di quelle gite mattutine. Gli pareva che tutti i bagnanti della spiaggia li osservassero ammirando sua madre e invidiando lui; [...] L’acqua liscia e pallida si squarciava sotto i loro tuffi. Agostino vedeva il corpo della madre inabissarsi circonfuso da un verde ribollimento e subito le si slanciava dietro, con desiderio di seguirla ovunque, anche in fondo al mare. Si gettava nella scia materna e gli pareva che anche l’acqua così fredda e unita serbasse la traccia del passaggio di quel corpo amato. Si potrebbe continuare a lungo e utilmente con le citazioni. Ma, anche limitandoci a questi esigui lacerti iniziali, abbiamo già appreso due cose 25 Ivi, p. 58. 233 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA importanti: che Agostino della madre ama soprattutto il “corpo” e che il suo gettarsi “nella scia materna” è, fino a un certo segno, figura del suo eros adolescenziale. C’è, nel romanzo, quasi un paradosso. Perché se il figlio vive, fino a un certo segno, “nella scia materna”, la madre vive tutta nello sguardo, nel desiderio, nella gelosia, nel “fastidio”, nel “malessere”, nella “ripugnanza”, nell’”acre e impura curiosità” del figlio. Fino a un certo segno, abbiamo detto. Nessuno dei due personaggi possiede infatti una piena autonomia. Ma Agostino, a un certo punto della storia, grazie allo sviluppo della sua vita psichica che Moravia disegna mirabilmente, tale autonomia conquista; la madre rimane invece immobile, senza vera vita, nella sua concupita bellezza. 7. Fino a questo momento abbiamo sempre parlato di “narratore” e mai di “autore implicito” per la seguente ragione. I benemeriti studiosi che hanno proposto in sede narratologica la distinzione fra “narratore” e “autore implicito”, definendo quest’ultimo anche una sorta di “alter ego” dell’autore, e precisando, con Seymour Chatman, che l’”autore implicito” “Non è il narratore, ma piuttosto il principio che ha inventato il narratore insieme a tutto il resto della narrazione”26, si sono sempre dimenticati di compiere un’ulteriore distinzione, fra gli scrittori nei quali l’”autore implicito” è lontano dall’autore, come, poniamo, Svevo o Joyce, e gli scrittori nei quali invece l’”autore implicito appare vicino all’autore. Si potrebbe insomma dire che l’”alter ego” in alcuni è più alter che ego, in altri invece è più ego che alter; la visione del mondo di alcuni “autori impliciti” non coincide con quella dei rispettivi autori, la visione del mondo di altri “autori impliciti” sostanzialmente coincide o è prossima a coincidere con quella dei rispettivi autori. Moravia, se non ci inganniamo, appartiene a questo secondo gruppo ed è per questo motivo, ma anche per semplificare il discorso, che abbiamo preferito scegliere la denominazione di “narratore”. Lieti, tuttavia, che l’occasione ci consenta di precisare che anche Moravia costruisce di volta in volta, in modi diversi, a seconda delle diverse esigenze che impone la narrazione, un suo “autore implicito”, che, pur non differendo molto, almeno per quello che riguarda il tema della donna e le questioni sessuali, dall’autore, non coincide con lui. Questo può spiegare la circostanza che la madre di Agostino, e non soltanto lei per la verità, sia dotata della bellezza che manca a molte altre donne di Moravia. Un caso particolare, non però, ci sembra, particolarmente degno di attenzione, è quello della donna prima brutta, poi bella, o prima avvenente, poi sfiorita. Le citazioni dovrebbero riguardare la Desideria di La vita interiore e la “cortigiana stanca” del racconto omonimo, certamente uno dei migliori di Moravia. Ma, per quanto concerne Cortigiana stanca, il racconto ha, come dire, una sua naturalezza uno svolgimento ‘fisiologico’; mentre La 26 S. Chatman, Storia e Discorso, Parma, Pratiche 1981, p.155. 234 FAUSTO CURI vita interiore offre ben altri motivi di riflessione. Non che si tratti di uno dei romanzi più riusciti di Moravia; al contrario, nonostante i vantati “sette anni che è durata la stesura del libro”, o forse proprio a causa di essi, l’impressione è di trovarsi di fronte al tentativo un po’ velleitario e piuttosto artificioso e faticoso di aggiornare e modernizzare la propria ‘maniera’ sia per quanto riguarda la tecnica e la struttura narrativa sia per quanto riguarda i contenuti. E’ particolarmente interessante, a questo proposito, un’ intervista rilasciata a Enrico Filippini27 nella quale Moravia, che sta concludendo la stesura della Vita interiore, da’ prova di una notevole intelligenza autocritica: F. Lei una volta mi ha detto che i primi libri di uno scrittore sono un dono della vita, e che poi però si va avanti a colpi di cultura... M. Sì, io pensavo agli scrittori americani, che hanno spesso infanzie e adolescenze eccezionali. Allora le scrivono, e poi si ripetono, hanno una specie di religione della vita, e la cultura non gli serve. In Europa serve a far andare avanti questo bagaglio di esperienze vitali... Per me è stato così: il mio mondo era già fatto con Gli indifferenti. Poi la cultura mi ha permesso di andare avanti, fino a oggi. Insomma, gli scrittori hanno poco da dire. Io li divido in due generi: quelli che si ripetono e quelli che chiamo “esornativi”. Ecco, io sono tra i primi. [...] Non ho mai lavorato di sola cultura. Semmai, come ha insinuato un po’ malignamente Contini, in gioventù prevaleva in me il sentimento, e oggi prevale diciamo la mentalità, la concettualità, diciamo che ce n’è un 40% di troppo. La ragione, insomma, e la ragione in queste cose è un brutto affare... per me l’approccio dell’arte al reale è e deve rimanere sensuoso... Alcuni termini (“sentimento”, mentalità”) sono approssimativi, ma l’analisi è acuta e aderente. In quello che gli studiosi sono soliti definire il “terzo tempo”, o la “terza stagione”, della narrativa moraviana, e che si fa partire dalla Noia (1960), lo scrittore lavora davvero più con la “ragione” e con la “cultura” piuttosto che con il “sentimento” che aveva fatto nascere capolavori quali Gli indifferenti, Agostino, La disubbidienza. E si può essere d’accordo con Moravia quando riconosce che di quella che egli definisce “concettualità [...] ce n’è un 40% di troppo”. All’incirca in quegli anni egli ha aggiornato la propria cultura, le proprie tematiche, il proprio linguaggio. Per tacere d’altro, ha letto Wittgenstein, Sartre, Robbe-Grillet, non ignora la nuova avanguardia italiana, con la quale in certe occasioni dialoga, è attento a tutto ciò che di significativo accade nei più diversi campi. Una siffatta curiosità intellettuale non può che essere apprezzata. Se non fosse che, in sede narrativa, essa suggerisce poi, o meglio impone, scelte attentamente programmate e precostituite, a cui lo scrittore addiviene senza una vera vocazione, o, se si 27 “La Repubblica”, 16 novembre 1977. 235 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA preferisce, senza necessità, prevalentemente per calcolo, con l’intento dominante di mostrare che la sua opera è sempre all’altezza dell’attualità, si tratti della bomba nucleare o del terrorismo o dell’alienazione. Centrale rimane sempre, per fortuna, il sesso, che ora però viene trattato, come dire, analiticamente, senza l’antica discrezione. Il linguaggio corrisponde a questa nuova condizione intellettuale, è privo di qualunque accensione lirica, povero di figure retoriche, asciutto anche quando è diffuso. Il linguaggio di un referto, preciso, meticoloso. Il vero uomo che guarda è lo stesso Moravia, interessato a tutto e distaccato da tutto, attento anche alle cose in apparenza meno significanti, scrupoloso e minuzioso annotatore del reale. Che acquista una saldezza tangibile, fisica, materiale, anche quando si tratta di stati d’animo o di pensieri. E’ a questo linguaggio che corrisponde perfettamente la definizione di Luigi Baldacci, quando ha parlato di un “meraviglioso stile di plastica”28. Tutto ciò non significa che il ‘terzo’ Moravia sia poco interessante, significa che in questo scrittore vi è stato un mutamento profondo sia della cultura sia delle tecniche e che, pur continuando a distinguere i risultati, sarebbe incongruo cercare di sovrapporre il ‘terzo’ al ‘primo’ e trarne come conseguenza esclusivamente giudizi di valore. Conviene, semmai, notare il paradosso per il quale Moravia, che, in un primo momento, ha aperto la strada a Sartre, in un secondo momento segue, o sembra seguire, per certi aspetti, la strada percorsa da Sartre. Conviene anche tener conto di un’osservazione di Gianfranco Contini, il quale, definito Moravia “un illuminista”, ricorda che “la narrativa di molti settecentisti fu prevalentemente «di testa»”. 8. Ritornando alla Vita interiore, occorre riconoscere che l’opera merita attenzione per almeno due motivi. In primo luogo, essa contiene un catalogo completo (e narrativamente forse non sempre giustificabile) dei vari atti sessuali, dalla masturbazione al coito orale alla sodomia. Nonostante la fama immeritatamente acquisita di narratore “pornografico”, Moravia è sempre stato, se così si può dire, prudente e discreto nella selezione e nella descrizione degli atti erotici, e questa nostra indagine tenta di mostrare come l’eros abbia in lui motivazioni che vanno ben oltre l’azione sessuale banalmente intesa. L’attività erotica, insomma, nel Moravia più persuasivo, è sempre culturalmente e narrativamente giustificata, radicata in una visione del mondo nuova e originale. In La vita interiore ogni prudenza e discrezione vengono meno, ma soprattutto vengono meno le ragioni profonde di un’indagine dell’eros, lasciando il luogo a esibizioni non del tutto motivate e quasi dozzinali. Tranne che per un punto, invero capitale (e siamo così al secondo motivo). Abbiamo visto come, in Moravia, vi sia una particolare ‘generazione’ dell’uomo da parte della donna, e come tale ‘generazione’ sia rappresentata 28 L. Baldacci, Novecento passato remoto, Rizzoli, Milano, 2000, p.14. 236 FAUSTO CURI tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista simbolico. Ciò che a volte accade è che l’uomo desidera ‘ritornare’ nel corpo della donna, anche se essa non è la madre, ‘bussa’ al corpo della donna, alla sua matrice. L’atto non è soltanto erotico, o non è affatto erotico, simboleggia la funzione materna, procreativa, generativa della donna, o meglio del corpo della donna, della donna come corpo. Ma simboleggia anche il contrario, il desiderio di una fuga dalla vita, un bisogno di regressione, di ritorno al nulla prenatale. Quello che non è meno interessante è che, anche in questo caso, protagonista è il corpo della donna, la donna come corpo, senza la quale, come non è possibile la nascita, e la rinascita, così è impossibile la regressione al nulla. Il destino dell’uomo è, in qualsiasi occasione, nelle mani della donna, o meglio è nel suo grembo, che può generare la vita così come, sia pure simbolicamente, può spegnerla. Desideria: Ho capito che lui gemeva come chi si trova esposto al freddo, alla paura, allo sconforto e alla solitudine e bussa a una porta e non gli viene aperto. Lui voleva penetrare dentro di me, non già alla maniera dell’amante, ma come penetrerebbe o meglio rientrerebbe, se questo fosse possibile, un infante appena nato che si rifiutasse di vivere e volesse tornare di nuovo dentro il ventre materno e regredirvi a ritroso, per tutta la serie delle trasformazioni attraverso le quali è passato prima di nascere, fino a ridivenire embrione, germe, nulla. [...] Improvvisamente il mio sesso si sarebbe aperto abbastanza per permettergli di introdursi nel mio ventre e lui vi avrebbe fatto a ritroso, per trasformazioni successive, verso il buio e il nulla, lo stesso cammino che aveva seguito per venire alla luce. Forse il passo non ha l’intensità espressiva di quello relativo alla ‘rinascita’ di Luca nel corpo dell’infermiera, ma è certo uno dei più efficaci e memorabili di Moravia. Memorabile, in particolare, l’insistenza sul “nulla”, specie in quanto è propria di uno scrittore che, pur senza mai aprirsi alla serenità e alla gioia, si sofferma tanto spesso e con così vigile attenzione sulla vitalità corporale degli esseri umani. Né il tema del “nulla” può apparirci estraneo a Moravia o stravagante. Non si dimentichi, infatti, che, nella Disubbidienza, pur in una chiave non altrettanto cupa e drammatica, anzi, in una condizione di “sollievo”, e nella luce, appunto, della ‘rinascita’, accade qualcosa di simile a ciò che accade nella Vita interiore. Luca Ricordò che al momento dell’amplesso, egli aveva provato ad un tratto il desiderio forte di entrare tutto intero nel ventre della donna e rannicchiarsi in quelle tenebre calde e ricche con tutto il corpo, come vi si era rannicchiato prima di nascere. Ma ora capiva che quelle viscere altro non erano che le viscere stesse della vita [...] Sì, concluse, la vita doveva proprio essere questo; non il cielo, la terra, il mare, gli uomini e le loro sistemazioni, bensì una 237 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA caverna buia e stillante di carne materna e amorosa, in cui egli entrava fiducioso, sicuro che vi sarebbe stato protetto come era stato protetto da sua madre finché ella l’aveva portato in seno. La vita era essere sprofondati in questa carne e sentirne l’oscurità, il risucchio e lo spasimo come cose benefiche e vitali. Improvvisamente, comprese il significato del sollievo che l’aveva rinfrescato mentre l’infermiera lo schiacciava nel suo abbraccio. Ma non si dimentichi, soprattutto, che, alla ‘rinascita’, Luca giunge dopo aver desiderato e sfiorato la morte: Pur nel torpore della malattia, il suo desiderio di morte gli appariva semmai quale gli era apparso ogni volta che ci aveva pensato con chiarezza e determinazione: come un sacrificio necessario, conclusione inevitabile di una serie di altri sacrifici minori. Questo sacrificio gli riusciva amaro, ma non era l’amarezza che ispira una sorte ingiusta, bensì quella di chi si sente debole e solo di fronte a un compito schiacciante e sa che potrà assolverlo soltanto a caro prezzo: un’amarezza ineffabile, mescolata da non sapeva che gioia, quasi che con la morte egli sapesse di raggiungere un fine che aveva perseguito tutta la vita. Che fosse questo fine, non avrebbe saputo dirlo; ma sapeva di certo che era un fatto d’amore; se non altro perché lo spingeva a odiare così fortemente. Chi parla, è vero, è un ragazzo quindicenne, per di più immerso “nel torpore della malattia”: ma a nessun lettore, se già non lo conoscesse, sarebbe facile immaginare un personaggio moraviano così candidamente dedito a un’etica del “sacrificio” spinta fino alla “morte”. Tanto più che in Luca nasce per la prima volta l’idea della morte come di un’operazione magica che gli avrebbe permesso di creare un mondo meno assurdo, più amabile e più intimo, in cui ogni cosa fosse giustificata dall’amore. Egli comprese che doveva, non tanto a se stesso quanto alla realtà fuori di sé, di morire per darle un ordine e renderla viva. “Un sacrificio necessario”,“un mondo [...] in cui ogni cosa fosse giustificata dall’amore”: siamo sicuri che chi così si esprime è un adolescente in delirio e che alla sua voce non si sovrapponga o con essa non si fonda invece la voce dell’autore del saggio intitolato L’uomo come fine? Comunque sia, non solo, dunque, la morte non è estranea a Moravia, ma essa è spesso presente al suo pensiero non tanto in quanto morte, cessazione totale della vita, letale stato definitivo, ma in quanto simbolicamente corrisponde o precede una condizione diversa, che può essere soltanto un’uscita liberatoria dalla vita nel “nulla”, ma può essere anche una “nuova nascita”. In entrambi i casi, si capisce, la trascendenza è esclusa, tutto avviene nel corpo della donna e grazie al corpo della donna. Conviene osservare anche 238 FAUSTO CURI che nessuno scrittore come Moravia è mai stato tanto profondamente affascinato, o, meglio, tanto organicamente legato, quasi da un cordone ombelicale, al tema del ritorno nel grembo femminile, che, in lui, non è soltanto un tema letterario ma si configura come una vera e propria esigenza biologico-psicologica, da delegare, ma con rispetto e simpatia, alle indagini di un esperto psicoanalista. 9. Che la donna come corpo, oltre ad essere datrice di vita, sia anche in grado di provocare l’annullamento dell’uomo è un tema che Moravia tratta in due modi diversi nella Vita interiore. Per un verso è Erostrato che ‘bussa’ alla vagina di Desideria nel vano tentativo di penetrarvi con tutto il corpo e ritornare allo stadio prenatale; per un altro verso è la stessa Desideria che, accanendosi con la bocca sul sesso di Giorgio, tenta di ‘castrarlo’, di esaurirne le energie, insomma di annullarlo: ...Ho capito che per me l’amore orale non era un surrogato dell’amore normale, ma qualche cos’altro [...] Una maniera spiccia e rapida di servirmi della bocca per liberarmi di Giorgio, spegnendo il suo desiderio, castrandolo. [...] Ho aspettato, immobile e con la bocca colma di seme, che i sussulti dell’orgasmo si fossero esauriti, poi ho sentito distintamente che il membro non era più così gonfio né così lungo ma stava afflosciandosi e accorciandosi e allora, con mia sorpresa, mi sono accorta di provare per la prima volta una specie di oscuro compiacimento. [...] Ho guardato di sotto in su a Giorgio, l’ho visto disfatto, abbandonato indietro sul sedile, pallido, esausto, molle e sgonfiato, come il suo pene, con la bocca semiaperta e gli occhi socchiusi; e dalla gioia improvvisa che ho provato vedendolo così distrutto, ho capito finalmente che, per me almeno, il vero piacere dell’amore consisteva nello spiarne l’effetto castratorio nella persona del mio amante. Il risultato veramente ammirevole che Moravia consegue in queste pagine della Vita interiore sta principalmente in ciò, che una rappresentazione tutta simbolica è raggiunta attraverso un insistito indugio descrittivo sul sesso maschile e sul sesso femminile, ossia sugli aspetti più carnali dell’eros. Da un lato la bocca della donna diventa una cosa stessa con la sua vagina, con la differenza però che mentre la vagina può dare sia la vita sia la morte, la bocca inculca soltanto la morte; dall’altro lato lo sperma maschile è deprivato di ogni capacità generativa e ridotto a “una grossa bolla di seme caldo e vischioso” che alla bocca della donna è solo possibile sputare. Non esiste piacere sessuale per la donna, tranne quello sadico di annullare con il proprio corpo l’uomo, o di vederlo schiavo inerte di quel corpo. Quanto al piacere dell’uomo, esso sussiste solo come breve voluttà fisica e solo a patto di accettare l’umiliazione e lo svilimento della propria virilità. Il possesso, sessuale e psichico, è trasferito dal maschio alla donna. Ed è possesso assoluto, incondizionato, è dominazione. 239 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA 10. Il tema della regressione è trattato da Freud in diverse sue opere. L’opera che probabilmente ha colpito e influenzato il Moravia di certe pagine della Vita interiore è però Al di là del principio di piacere, dove la regressione ha un significato non psicologico ma filogenetico, riguarda, cioè, se così si può dire, la preistoria fisiologica o meglio organica dell’umanità. Il libro manca di solide basi scientifiche, giacché Freud vi procede per induzione, per ipotesi sperimentalmente non verificabili, ma ha indubbiamente un suo fascino. Si chiede Freud: ... Che tipo di connessione esiste fra la pulsionalità e la coazione a ripetere? A questo punto ci si impone l’ipotesi di esserci messi sulle tracce di una proprietà universale delle pulsioni, e forse della vita organica in generale [...] Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a ripristinare uno stato precedente al quale quest’essere vivente ha dovuto rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno [...] Supposto dunque che tutte le pulsioni organiche siano conservatrici, siano state acquisite storicamente e tendano alla regressione, alla restaurazione di uno stato di cose precedente, i fenomeni dello sviluppo organico dovranno essere ascritti all’influenza perturbatrice e deviante di fattori esterni. [...] In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota. [...] La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato29. D’altro canto non è difficile individuare nel comportamento di Desideria nei confronti di Giorgio un tratto manifestamente sadico. Discorrendo di “organizzazioni della vita sessuale” che egli chiama “pregenitali”, Freud, in Tre saggi sulla teoria sessuale, segnala una prima fase, “che è quella orale o, se vogliamo, cannibalesca”: L’attività sessuale in questa fase non è ancora separata dall’assunzione di cibo, gli elementi antagonistici in seno a tale attività non sono ancora differenziati. L’oggetto di un’attività è anche quello dell’altra, la meta sessuale consiste nell’incorporazione dell’oggetto...30 Non meno interessante ciò che egli aggiunge in Al di là del principi di piacere: 29 Freud, Al di là del principio di piacere cit., in Opere IX cit., pp. 222, 224. Id., Tre saggi sulla teoria sessuale cit., in Opere IV cit., p. 506. 240 30 FAUSTO CURI Abbiamo sempre riconosciuto la presenza di una componente sadica nella pulsione sessuale; come sappiamo, essa può rendersi autonoma e, sotto forma di perversione, dominare tutti gli impulsi sessuali di un individuo. Essa compare anche, come pulsione parziale dominante, in una di quelle che ho chiamato “organizzazioni pregenitali”. [...] Il sadismo entra al servizio della funzione sessuale nel modo seguente: nella fase orale di organizzazione della libido l’impossessamento erotico coincide ancora con l’annientamento dell’oggetto...31 V 1.A volte è bene trattare certe ovvietà come se non fossero ovvietà. Si guadagna in chiarezza. Potrà non persuadere le femministe più rigorose, ma che la donna esista spesso solo come corpo, e non esista come intelligenza e come cultura, nell’universo moraviano non dice nulla contro la donna. Una volta accertato che la vera ricchezza della donna è nel suo corpo, anche se, secondo il canone dell’etica borghese, l’uso che ella ne fa o è costretta a farne non è sempre benefico o commendevole, dotarla anche di intelligenza e di cultura potrebbe equivalere a stravolgere il senso di quella ricchezza. Che è ricchezza di natura e che non di rado consente alla donna-come-corpo di bastare a se stessa. Esemplare, in questo senso, è, come vedremo, la Cecilia della Noia, la quale, grazie al proprio corpo, e al sesso, diversamente dal protagonista maschile Dino, alla “noia” si sottrae. Ciò è tanto vero che anche personaggi intellettuali come la Carla degli Indifferenti e la Desideria della Vita interiore sono donne il cui corpo ha un’importanza determinante nella loro esistenza. D’altro canto, posto che la principale funzione della narrativa moraviana è funzione critica e satirica, ne deriva che qualunque intellettuale, uomo o donna (con l’unica eccezione di Michele della Ciociara) non può che essere un personaggio solo parzialmente positivo. E’ vero, Agostino è psichicamente e intellettualmente più complesso e più ricco di sua madre, Luca lo è più dell’infermiera e della governante, Mino di Adriana, Michele di Cesira e di Rosetta, Dino di Cecilia. Ma della schiera di personaggi maschili abominevoli o mediocri, a partire da Leo degli Indifferenti, passando per l’Astarita della Romana, per finire con Erostrato e Giorgio della Vita interiore, non è facile tenere il conto. E’ anche vero che Adriana della Romana e Cesira della Ciociara, per tacere ora d’altro, hanno una relativa concretezze e una relativa coerenza psichiche, che sono però guastate da quel linguaggio bastardo, fra di finta popolana e di raffinato scrittore. Come la rilevanza del sesso in Moravia è indirettamente rivolta a contrastare l’ipocrisia e il conformismo borghese, così la rilevanza del corpo femminile tende a contrastare la spiritualizzazione banale della donna. Tutto si 31 Id., Al di là del principio di piacere cit.,in Opere IX cit., p. 239. 241 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA tiene. E comunque, se alcuni personaggi maschili, a partire dal Leo degli Indifferenti, sono maschilisti, occorre riconoscere che non vi è traccia di maschilismo d’autore nella narrativa moraviana. Tranne che non si scambi per maschilismo l’attribuire a certi personaggi maschili una più cruda tormentosità, o una minore rassegnazione, di quelle di cui sono in genere portatrici le donne. Le quali – non si fa fatica a riconoscerlo -, esistendo prevalentemente come corpo, avvertono di necessità meno profondamente (il che non significa superficialmente) i disagi che con il corpo non sono connessi. Le anime belle si rassegnino. A un nichilista come Moravia non si può chiedere ciò che il suo nichilismo non può concedere. Anzi, conviene riconoscere che è per merito della donna che quel nichilismo a volte si attenua o viene meno. L’antifemminismo femminista di Moravia sta tutto nel ridurre la donna al suo corpo e al tempo stesso nell’esaltare quel corpo e la sua funzione erotica e generativa come forse nessuno scrittore ha mai fatto. Per questo si parlava prima di rilievo culturale e critico dell’opera moraviana. Già col mettere in luce l’importanza fondamentale della donna come corpo quell’opera esprime un’inedita visione del mondo e non soltanto una particolare idea della donna. Il corpo della donna moraviana è principalmente un corpo erotico ma non è soltanto un corpo erotico. O meglio: in alcuni casi esemplari la rilevanza erotica del corpo della donna moraviana ‘maschera’ la rilevanza della funzione capitale che quel corpo esercita, la quale, al di là dei pur ovviamente fondamentali aspetti biologici e fisiologici, è funzione generativa, maternale, maieutica. Meglio ancora: il corpo della donna è un corpo erotico in un senso non lontano da quello in cui Freud parla di Eros: il quale ha come fine di “complicare la vita, allo scopo naturalmente di conservarla32” e come meta di “stabilire unità sempre più vaste e tenerle in vita: unire insieme, dunque33”. Non per nulla Eros corrisponde a quelle che sempre Freud chiama “pulsioni di vita” (Lebenstriebe). 2. Come mostra La vita interiore, la visione del mondo di Moravia non sarebbe però una visione completa, critica e realistica se non comprendesse anche altri aspetti della funzione del corpo femminile. Che, oltre che funzione generativa, non è anche, in sé, funzione negativa, nichilistica, ma si lega necessariamente a ciò che di negativo e nichilistico è nella concezione del mondo moraviana. In altre parole: essendo, per Moravia, la donna, o meglio la donna come corpo, un essere che sia biologicamente sia psicologicamente è al centro della vita umana e ne dispone quasi sempre con quasi assoluta libertà o, almeno, esercitando un ruolo determinante, che è determinante anche quando è passivo, tutto ciò che accade di rilevante in quella vita, non esclusi gli atti che sono precisamente il contrario della creazione e dell’Eros freudianamente 32 33 Ivi, p. 502. Freud, Compendio di psicoanalisi cit., in Opere XI cit., p. 575. 242 FAUSTO CURI inteso, non può non trovare nella donna una non negligibile protagonista. Vita e morte degli essere umani passano per il corpo di lei, hanno in esso, qualunque cosa accada, uno strumento ‘creatore’. Perché anche la morte, se non è naturale ma viene inculcata, è il risultato di un’azione, è, insomma, ‘creazione’. 3. E’ ormai evidente che il sesso in Moravia ha una funzione praticosimbolica. E’, il suo, il sesso quale normalmente lo si intende e lo si esercita, strumento di massimo piacere di cui l’uomo è alla continua ricerca e che nel corpo della donna e negli atti di quel corpo trova il suo maggiore se non l’esclusivo mezzo di attuazione. E già la diffusa, ubiqua presenza del sesso come manifestazione corporale, come imprescindibile adempimento e espressione del desiderio carnale distingue Moravia da quasi tutti gli altri narratori, italiani e stranieri, nei quali il sesso o non compare o compare in forme sublimate. Quando si parla di “realismo” moraviano converrebbe concedere senza contrasto che esso non consiste soltanto nella descrizione dell’esercizio del sesso, precisando però che partecipa, senza che lo scrittore ne sia sempre consapevole, di una serie paradigmatica di posizioni ‘realistiche’, che ci piacerebbe poter riassumere non in un florilegio ma in una sorta di breve epitome. A iniziare, si capisce, da Sade, che sosteneva che compito del narratore è “farci vedere l’uomo non soltanto quale è o quale si mostra, [...] ma quale esso può essere, quale devono renderlo le modificazioni del vizio e tutte le scosse delle passioni”. Passando per il Leopardi di certe pagine dello Zibaldone, sulle quali molti benemeriti studiosi preferiscono sorvolare, come quella, per limitarsi a un solo esempio, in cui troviamo scritto : Sebbene l’uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un piacere materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale34. O quest’altra, nella quale, mentre condanna i “progressi della ragione e della civiltà”, è costretto a riconoscere che Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni vani come sono la gloria l’amor della patria la libertà ec. ec. cerca i solidi cioè i piaceri carnali osceni ec. in somma terrestri, cerca l’utile suo proprio...35 34 G. Leopardi, Zibaldone, p. 1025. Ivi, pp. 21-22. L’affermazione è realistica e insieme utopica, giacché il giovane Leopardi, pur sapendolo impossibile, aspira a un ritorno dei “beni vani”. “Bene illuminato” è, ovviamente, sarcastico. 243 35 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA Senza trascurare il giovane Marx che, esprimendosi in termini ancora hegeliani, nel 1843 fa notare a Ruge che La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che si fa conoscere al mondo la sua coscienza, che lo si ridesta dai sogni su se stesso, che gli si spiegano le sue proprie azioni36; ma soprattutto il Marx ben più maturo di Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, il quale afferma: La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione, è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni 37. Non dimenticando, però, né l’Artaud di Le théatre et la culture: La cosa più urgente non mi sembrava tanto difendere una cultura la cui esistenza non ha mai salvato un uomo dalla preoccupazione di vivere meglio e di aver fame, quanto di estrarre da ciò che si chiama la cultura delle idee la cui forza vivente è identica a quella della fame38; né il Brecht degli scritti sul realismo, sul quale, sebbene le Vispe Terese e le Carmelitane Scalze della letteratura italiana odierna si illudano di essersi liberate di lui (ammesso che lo abbiano mai letto), conviene ancora molto riflettere, a noi per primi, dal momento che egli afferma, fra l’altro, che “Per un realista i bisogni fisici sono di importanza capitale”39: Scrivere in maniera realistica non è una questione di forma. Tutti gli elementi formali che ci impediscono di giungere al fondo della causalità sociale debbono venire eliminati; tutti gli elementi formali che ci aiutano a giungere al fondo della causalità sociale, debbono venire chiamati a raccolta. [...] Il realismo non è una faccenda che riguardi soltanto la letteartura, è un’importante faccenda politica, filosofica, pratica e deve essere trattato e spiegato appunto come una faccenda importante che riguarda tutti gli uomini40; 36 K. Marx, Opere complete, III, Roma, Editori Riuniti, 1976, p.157. Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti 1966, p. 58. 38 A. Artaud, Le théâtre et son double, Paris, Gallimard 1964, p. 9. 39 B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, Einaudi 1973, p. 236. 40 Ivi, pp. 172, 185. 244 37 FAUSTO CURI né il Benjamin che, commentando Il volo di Lindberg dello stesso Brecht, ammonisce: “Stretti alla stretta realtà, è la parola d’ordine”41. Per finire con Sanguineti, che nelle sue poesie rappresenta assai efficacemente “gli stati d’animo del corpo (in lotta / contro gli stati d’animo dell’anima)”42. Si dirà che non sono quelli elencati i ‘referenti’ di Moravia. Infatti. Quando si escludano Sade e Marx, gli autori e i testi citati non sono i ‘referenti’ di Moravia, costituiscono un insieme assai vario di visioni del mondo che hanno in comune la specola e la prassi realistica e con le quali potrebbe tornare utile, un giorno, mettere a confronto la visione moraviana. Accontentiamoci, per ora, di poche osservazioni preliminari. Potrà sembrare strano o paradossale, ma a distinguere il realismo di Moravia sta, in primo luogo, una fondamentale componente simbolica o metaforica. Che non solo non infirma o deforma quel realismo, ma lo complica e lo arricchisce. Abbiamo visto ciò che accade in alcuni testi esemplari, quali La disubbidienza e La vita interiore. Esaminiamo ora, prima di concludere un’analisi al tempo stesso troppo estesa e troppo lacunosa, un romanzo come La noia, del 1960, con il quale si è soliti far iniziare la “terza fase”, o il “terzo tempo”, della narrativa dell’autore degli Indifferenti. Che cosa precisamente sia la “noia”, ci informa lo stesso Moravia nel Prologo del libro: La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. [...] Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza. [...] La noia [...] in fin dei conti, è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di uscirne. [...] Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo. La “noia”, dunque, non è l’”indifferenza”, ma è pur sempre una condizione di inadeguatezza dell’essere umano all’esistenza, un’incapacità o un’impossibilità di vita piena e autentica. Né si può dire che la “noia” sia la “nausea” di Sartre, alla quale assomiglia soltanto perché entrambe hanno la loro radice nell’assurdità dell’esistenza. La “noia”, anzi, è il contrario della “nausea”: essa, come spiega Moravia, è infatti “una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà”; la “nausea”, al contrario, è provocata da una sovrabbondanza di “esistenza”, o meglio di “esistenze”, che aggrediscono, sommergono, soffocano il soggetto senza che egli riesca ad 41 W. Benjamin, Dal Commentario brechtiano, in Avanguardia e rivoluzione, Torino, Einaudi 1973, p. 179. 42 E. Sanguineti, Reisebilder 23, in Segnalibro, Milano 1982, p.127. 245 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA attribuire loro un senso e quindi a includerle in un ordine. Al centro della Nausea di Sartre, che esce in Francia nel 1938, è un’incessante interrogazione intorno all’”esistenza”. Dapprima il protagonista-narratore riesce a comprenderla e a definirla solo sommariamente, o, meglio, negativamente: Se mi avessero domandato che cos’era l’esistenza, avrei risposto in buona fede che no era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi, ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata nell’esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine – nude, d’una spaventosa e oscena nudità. Poi però la sua intelligenza si fa più chiara, più netta, ma, con la scoperta che l’esistenza non è necessaria, è soltanto contingente, nasce la “Nausea”: ... Comprendevo la Nausea, ora, la possedevo [...] L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità. Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare, ma non li si può mai dedurre. [...] Orbene, non c’è alcun essere necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare [...] ecco la Nausea... Le citazioni potrebbero essere più numerose, ma non farebbero che confermare che, al di là della distanza che separa la “noia” dalla “nausea”, il rapporto Moravia-Sartre, o, se si preferisce, Sartre-Moravia, si fonda su alcune innegabili affinità, ma soprattutto su alcune profonde differenze. Romanzo ‘filosofico’ La Nausea, povero di eventi quanto è ricco di introspezioni, di analisi, di succinte ma dense elaborazioni teoriche; romanzo, La Noia, in cui la prevalente fattualità si integra e si alimenta continuamente delle assillanti riflessioni e degli abbozzi di ipotesi del protagonista. Ma poi: si può ammettere, o forse è giusto riconoscere, che Moravia, con Gli Indifferenti, ha inaugurato quello che viene chiamato l’esistenzialismo in letteratura; si dimentica però, di solito, di aggiungere, ed è dimenticanza non veniale, che il pensiero di Sartre, filosofo e narratore, è nutrito di fenomenologia prima che di esistenzialismo, mentre la narrativa moraviana, e non suoni come un 246 FAUSTO CURI rimprovero, è del tutto estranea alla fenomenologia. Tutto chiaro, dunque? Non precisamente: a parte l’esigenza di analisi approfondite, impossibili in questa sede, sussistono alcuni dubbi, non agevoli da risolvere, anche se da assumere, posto che abbiano qualche fondamento, non più che come piccoli segnali. In una pagina della Nausea leggiamo: E’ dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci sono lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto – il mondo esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. E’ strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa. [...] Faccio dunque paura, in questo momento? Doveva pur finire così. D’altronde m’è indifferente43. Questa scoperta che tutto è “indifferente” è una coincidenza casuale, o è l’esplicitazione non casuale di una condizione che Moravia aveva scoperto molti anni prima? Se, d’altro canto, di Sartre apriamo Il muro, uscito in Francia nel 1939, non abbiamo che da scorrere l’indice per accorgerci che uno dei racconti che compongono il libro si intitola Erostrato , che non è il nome del protagonista ma il soprannome che gli viene imposto in quanto egli ricorda il personaggio greco che, per rendersi famoso, bruciò il tempio di Efeso. Sarà una casuale coincidenza, ma Erostrato è non il nome ma il soprannome che, nella Vita interiore, Desideria sceglie per uno dei suoi amanti, senza che peraltro sussistano le motivazioni ‘culturali’ che hanno portato Sartre alla sua scelta. Ritorniamo alla Noia moraviana. Dalla “noia” sono affetti, ma in modo diverso, i due protagonisti del romanzo, Dino e Cecilia. La diciassettenne Cecilia – una delle figure femminili, ha ragione Sanguineti, fra le indimenticabili create da Moravia – è colpita dalla noia senza però soffrirne, accetta la noia come se si trattasse di una condizione normale, senza essere consapevole del carattere anomalo, patologico dello stato in cui è gettata. Dino, per contro, patisce tormentosamente la noia, che impedisce a lui uomo di toccare, raggiungere la realtà, di comunicare davvero con gli altri esseri umani, e a lui pittore di esercitare la propria arte. Neppure quando la noia si trasforma in gelosia sempre più acerba dell’amante desiderata, Cecilia, egli riesce a sfuggire alla noia. Che ne è del sesso? In molte pagine Moravia ne propone la nozione che comunemente se ne ha, o meglio l’immagine di due amanti insaziabili intenti a rapporti erotici sempre più focosi. A ben guardare, però, ci si rende conto 43 J.-P. Sarte, La Nausea,Torino, Einaudi 1990, p.166. 247 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA che l’interesse del narratore va oltre quell’immagine e che, attraverso di essa, egli ci propone due diverse, anzi opposte concezioni del sesso. Senza che ella se ne renda conto, giacché a lei la noia non incute sofferenza, e dunque non prova il bisogno di liberarsene, per Cecilia l’attività sessuale costituisce il solo momento in cui diventa consapevole di sé e del mondo. Cecilia conosce concretamente la realtà attraverso il sesso, e solo attraverso il sesso. Il sesso, per Cecilia, è, certo, desiderio, piacere, voluttà, ma è soprattutto conoscenza. Che poi ella confonda la conoscenza con il piacere, non conta, ciò che conta è che, assaporando la voluttà, ella si libera dalla noia, cioè dall’estraneità al mondo, diventa veramente partecipe della vita. Il corpo nudo di Cecilia è una delle immagini più vitali fra quelle create da Moravia, ma la vera, suprema vitalità di quel corpo è nel sesso sempre avido di lei, che, nel coito, rinnova la voluttà, e quindi la conoscenza, il contatto rigenerante con le cose. L’avidità di Cecilia, però, investe soltanto la sfera sessuale. Per quanto riguarda il resto della realtà, Cecilia, prigioniera com’è della “noia”, è del tutto apatica, indifferente, non è interessata neppure al danaro. Estranea ai fatti e alle cose in mezzo a cui vive, e che accetta con tranquilla passività, Cecilia, se Dino non la assillasse con le sue domande, se ne starebbe in un quasi perfetto silenzio, limitandosi a proferire le parole necessarie, singolare monaca devota all’eros. Il fascino del personaggio deriva in larga misura da questa mescolanza, e da questo contrasto, di avidità sessuale e di indifferenza esistenziale, di dedizione carnale e di astinenza linguistica. E sarebbe incongruo sostenere che Cecilia è già nella Carla degli Indifferenti, anche se l’indifferenza è presente in entrambe. Conviene piuttosto osservare che, creando il personaggio di Cecilia, Moravia ha per così dire riassunto in lei altri suoi personaggi femminili, conferendole però un tratto distintivo nuovo e fondamentale, che è appunto la “noia” congiunta con la passione carnale. Si aggiunga che, poiché, per Dino, Cecilia è “la realtà” (“Cecilia, ossia la realtà”, egli afferma), sia pure attraverso la percezione del protagonista del romanzo è il reale nella sua interezza ad essere contaminato dalla “noia”. Leggiamo una delle pagine che più efficacemente rappresentano Cecilia: Dopo l’orgasmo che le scuoteva più volte il corpo come una piccola crisi epilettica ma non turbava l’immobilità apatica del volto, Cecilia giaceva esausta sotto di me, un braccio ripiegato intorno la testa e l’altro abbandonato sul divano, il volto reclinato verso la spalla e le gambe allargate, come erano rimaste dopo l’amplesso. Per un attimo, quasi immediatamente dopo che io ero uscito da lei, Cecilia mi sorrideva ed era forse questo il momento più bello del nostro amore.Il sorriso, assai dolce, nel quale pareva rifluire e spegnersi la dolcezza del desiderio appagato, non contraddiceva, però, l’infantile ambiguità che ho già notato: pur sorridendomi, Cecilia non mi guardava o meglio non pareva neppure vedermi; così che pareva sorridere non tanto a me quanto a se stessa; come se fosse stata piuttosto grata a se stessa per aver 248 FAUSTO CURI provato il piacere, che a me per averglielo fatto provare. Questo sorriso, per quanto impersonale e solitario, era, tuttavia, l’ultima fase dell’amplesso ossia della comunicazione e quasi fusione dei nostri due corpi. Subito dopo eravamo in due sul divano, l’uno separato dall’altro, e bisognava parlare. A questo punto mi accorgevo, però, che all’appetito erotico, il quale, anche se non pareva riguardarmi direttamente, si serviva tuttavia di me per appagarsi, subentrava in lei l’indifferenza. Ma quando dico indifferenza non voglio già designare un atteggiamento di freddezza o di distacco. No, l’indifferenza di Cecilia verso di me, subito dopo l’amore, era semplicemente una mancanza completa di rapporti molto simile a quella che mi faceva tanto soffrire e che io chiamavo noia; soltanto che Cecilia, al contrario di me, non soltanto non ne soffriva affatto, ma anche non pareva neppure esserne consapevole. Era insomma come se lei fosse nata con quel distacco dalle cose che a me pareva l’intollerabile modificazione di una condizione originaria ben diversa; come se ciò che a me sembrava una specie di malattia, in lei fosse un fatto sano e normale. Perfetto il ritratto di Cecilia, come perfetti sono, in altri luoghi del libro, certi ritratti del corpo di lei, così come perfetta è la rappresentazione del passaggio della fanciulla dallo stato di beatitudine sessuale alla “noia” e all’”indifferenza” consuete. Da notare però anche che, discorrendo di Cecilia, Moravia trova modo di dirci qualcosa di essenziale su Dino, usando – vale la pena segnalarlo – un linguaggio che è più quello di un antropologo, o di un filosofo, che quello di un narratore: “l’intollerabile modificazione di una condizione originaria”. Il sintagma “condizione originaria” è proprio, di solito, di chi guarda l’essere umano da un punto di vista ontologico. Se, dunque, Moravia l’adopera consapevolmente (ma è lecito nutrire dei dubbi), sembra che egli intenda riferirsi a una sorta di ‘caduta’ filogenetica, a una catastrofe che non ha più nulla a che vedere con la storia, e in particolare con la modernità, e riguarda piuttosto la metafisica. Per questo la “noia” di Dino sarebbe irredimibile, come lo è, per certi cattolici, come Baudelaire, il peccato originale, e apparirebbe quindi incongruo vedere in essa soltanto “una specie di malattia”. Del resto il luogo su cui ci siamo soffermati non è l’unico in cui Moravia fa uso di un linguaggio ‘filosofico’; la frase seguente non consente dubbi: “Io ero solo con me stesso, ossia con l’angoscia che in quel momento era il mio unico modo di esistenza”. “Angoscia” e “esistenza” sono parole scelte certo non casualmente, anche se forse per impulso della memoria involontaria. Quanto alla funzione che il sesso esercita nell’esistenza di Dino, essa è opposta alla funzione esercitata dal sesso nell’esistenza di Cecilia. Dino è ossessionata dall’impossibilità di possedere veramente Cecilia. Si illude che il coito possa consentirgli una padronanza piena della fanciulla, permettendogli quindi di liberarsi dalla “noia”, e si accanisce dunque in copule sempre più 249 ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA frequenti e sempre più violente. Ma, al di là della voluttà che congiungersi con Cecilia gli concede, ogni volta si distacca dal corpo di lei con l’impressione frustrante di non averla posseduta, che ella continui a sfuggirgli, imprendibile, misteriosa, tanto più seducente quanto più sembra che quel corpo conturbante sia chiuso in una impenetrabile “autonomia”, e che di conseguenza a continuare a sfuggirgli siano la realtà, la vita. Singolare diventa l’esistenza psichica di Dino quando, alla “noia”, si aggiunge la gelosia, due condizioni che dovrebbero elidersi e che invece coesistono o si alternano senza mai venir meno: Provavo un dolore acuto che non mi dava requie e al tempo stesso un furore impotente per il fatto di provare questo dolore.Capivo infatti che, fino a quando avessi sofferto, non avrei potuto separarmi da Cecilia come tuttora desideravo. E capivo pure che con Cecilia non potevo che annoiarmi o soffrire: finora mi ero annoiato e avevo desiderato, di conseguenza, di lasciarla; adesso soffrivo e sentivo che non avrei potuto lasciarla finché non mi fossi di nuovo annoiato. Così lo stesso Dino fa il bilancio della propria vita: ... Io sentivo che il mio amore per lei, originato dall’incapacità di possederla, dopo avere oscillato violentemente tra la noia e il dolore, adesso andava assumendo pian piano l’aspetto di una specie di vizio a quattro fasi successive: tentativo di possesso diverso da quello sessuale, fallimento del tentativo, rabbiosa e inane ricaduta nel rapporto sessuale, fallimento anche di quest’ultimo, e quindi daccapo. Ma la cosa di cui non ero capace era di rassegnarmi all’inafferrabilità di Cecilia... Tirando le somme a nostra volta osserveremo che praticare il coito porta Cecilia a liberarsi dalla “noia” e pertanto, sia pure per breve tempo, a conoscere e a possedere la realtà; l’esercizio del sesso, pur non negandogli il piacere, ribadisce invece in Dino la convinzione che l’attività sessuale, ben più che un fatto inappagante e deludente, sia il simbolo di una condizione umana connotata da una radicale inadeguatezza e da un’irredimibile impotenza. Nelle pagine dello Zibaldone Leopardi annota che il desiderio del piacere negli esseri umani è infinito, mentre viene consentito ad essi un appagamento sempre limitato e finito. Questa discrasia, metafisica per Leopardi, è ribadita da Moravia, che sembra limitarla alla sfera sessuale, ma di fatto, pur storicizzandola, la assume in una chiave simbolica e la estende quindi, leopardianamente, all’intera realtà. A dispetto di certe annotazioni sospettabili di irrigidimento metafisico, La noia diventa così il romanzo che, attraverso una duplice, inedita rappresentazione del sesso, storicizza l’inadeguatezza dell’essere umano alla vita quale è venuta configurandosi 250 FAUSTO CURI nell’età moderna, inadeguatezza che l’attività sessuale può per un verso riscattare, per un altro verso ribadire. __________ 251