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CONTRIBUTI
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
FAUSTO CURI
Università degli Studi di Bologna
Il fatto sessuale nella letteratura moderna è o dovrebbe [...] essere non più la
tentazione diabolica degli asceti medievali né la delizia quasi gastronomica
delle borghesie ottocentesche, bensì quale esso si rivela allorché si riesce a
separarlo così dall’orrore moralistico come dall’edonismo volgare: un’azione
di inserimento in un ordine cosmico e sovrumano. Inteso da questo punto di
vista il fatto sessuale è effettivamente qualche cosa di più alto, di più
misterioso e di più completo dell’amore; specie se s’interpreta l’amore come il
semplice rapporto fisico-sentimentale tra l’uomo e la donna.
A. Moravia
I
.
Questa indagine è intenzionalmente, programmaticamente selettiva, parziale,
e se si vuole monocroma e unilaterale1. Si sofferma su alcune opere, alcuni
personaggi, alcuni temi, e trascura altre opere, altri personaggi, altri temi, pur
importanti. Basti dire che un argomento fondamentale come il danaro non vi è
neppure sfiorato2. Lo scopo è concentrare l’attenzione su due oggetti, il corpo
e il sesso (di fatto si tratta di un unico oggetto) spesso nominati dagli studiosi
ma quasi mai esaminati in modo approfondito, quasi vi fosse un tabù che ne
impedisce l’analisi. Il tentativo (ché non di più di questo si tratta) è
1
Ringrazio la dottoressa Valentina Mascaretti – autrice dell’ampia e proficua
indagine La speranza violenta. Alberto Moravia e il romanzo di formazione,
Gedit, Bologna 2006 – per alcuni utili chiarimenti che mi ha fornito.
2
D’altro canto, per quanto riguarda gli aspetti economici e sociali, sarebbe
stato difficile, in ogni caso, fare meglio di quanto ha fatto E. Sanguineti nella
sua monografia Alberto Moravia, Mursia, Milano 1962, ora in ristampa presso
l0 stesso Mursia.
204
FAUSTO CURI
interpellare alcuni testi moraviani angolando quanto meglio possibile su certi
temi privilegiati, per vedere se, investiti da una luce che lascia nell’oscurità
altri temi, essi mostrino qualche particolare interessante. Chi cerca oro non
cerca contemporaneamente diamanti. Io non cerco né oro né diamanti, anche
perché credo che non li troverei. Cerco il senso di certe narrazioni e di certi
oggetti che mi hanno colpito e che mi paiono avere un rilievo distintivo, e solo
di quelli. D’altro canto, se non cerco né oro né diamanti, non cerco neppure
perle. Quelle narrazioni e quegli oggetti mi sembrano significativi, niente di
più. Se poi l’indagine, in alcuni casi, tiene conto, per quanto le è possibile,
anche di certe esigenze storiografiche, ciò, mi pare, è il minimo che uno
studioso debba assumere come necessario.
II.
1. A partire all’incirca dal 1880 la sessualità diventa per la prima volta oggetto
di ricerche scientifiche. Quando si parla di “ricerche scientifiche” occorre
intendersi: gli standard di scientificità di quel tempo non sono neppure
lontanamente paragonabili con quelli di oggi, segnatamente se si fanno entrare
nel discorso le neuroscienze e gli studi sul genoma. Basti pensare, e del resto è
noto, che, da tempo, alcuni contestano o mettono in dubbio il rigore
scientifico dello stesso Freud, senza tener conto del fatto che la “scientificità”
della psicoanalisi, come ha ben mostrato Mario Lavagetto, non può essere
identificata con quella delle cosiddette scienze della natura, dal momento che
riguarda la vita psichica degli esseri umani e il loro linguaggio. E’ sufficiente,
d’altra parte, accostare i Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) di Freud alla
famosa Psychopathia sexualis (1886) di Krafft von Ebing, costruita con un
metodo meramente classificatorio, per vedere agevolmente la distanza
davvero abissale che separa un’opera dall’altra e quali straordinari progressi
metodologici abbia compiuto e eccellenti risultati abbia conseguito in pochi
anni la psicoanalisi. Né l’attenzione del lettore, per quanto riguarda la
sessualità, può arrestarsi ai pur fondamentali Tre saggi. Giacché intorno a
quell’argomento Freud indaga in diverse sue opere di importanza capitale, da
Frammento di un’analisi d’isteria. (Caso clinico di Dora), del 1905, a Le mie
opinioni sul ruolo della sessualità nell’etiologia delle nevrosi, del 1906, da La
morale sessuale “civile”e il nervosismo moderno, del 1908, a Un ricordo
d’infanzia di Leonardo da Vinci, del 1910, da Al di là del principio di piacere,
del 1920, a Il disagio della civiltà, del 1930, per citarne solo alcune. E con la
stessa precisione con cui disegna la struttura dell’apparato psichico
ricostruisce le varie fasi attraverso le quali passa la vita sessuale
dell’individuo. Non si tratta, peraltro, soltanto di questo. Freud, infatti, ha il
merito di estendere la nozione di sessualità ben oltre i limiti tradizionalmente
ad essa assegnati, scoprendo l’esistenza della sessualità infantile e analizzando
la vita sessuale di quelli che egli chiama “invertiti”.
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ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
2. In generale, io non ho avuto l’impressione che l’astinenza sessuale giovi a
formare uomini d’azione energici e indipendenti o pensatori originali, né
audaci liberatori e riformatori, bensì ch’essa formi molto più frequentemente
dei codardi perbene...3
Di solito Freud non è così spietatamente sarcastico; al contrario egli è
capace quasi sempre di bilanciare le esigenze della società e della civiltà con
le esigenze pulsionali, pur facendo intendere chiaramente ai suoi lettori che
sacrificare queste ultime in nome di quelle comporta inevitabilmente
sofferenze e malattie psichiche più o meno gravi. Uno dei meriti maggiori di
Freud è infatti aver reso consapevole il pubblico dell’importanza di
un’equilibrata attività sessuale per il conseguimento di una vita serena o
almeno non tormentata da divieti, rimorsi e punizioni; e aver mostrato gli
scompensi e i guasti che la repressione sessuale provoca nell’esistenza degli
esseri umani. E’ questo Freud infinitamente saggio e comprensivo, coraggioso
e franco che interessa particolarmente il nostro discorso. Perché è lo studioso
che, mentre difende e cerca di salvaguardare ciò che di più umano è
nell’uomo, cioè l’attività sessuale e il piacere che ne consegue, è anche lo
studioso che, per così dire, restituisce dignità e importanza a quell’attività,
sottraendola alle proibizioni e alle condanne stolide che la parte più retriva
della società, cioè la sua maggioranza, impone ad essa. Il saggio La morale
sessuale “civile” e il nervosismo moderno è, da questo punto di vista,
esemplare, tanto più che solo alcuni singoli punti di esso, di importanza
secondaria, possono, oggi, risultare ‘invecchiati’ o ‘inattuali’, e tanto più che
la repressione, che sembrava quasi scomparsa, è invece ritornata a farsi
minacciosa, o, peggio, pericolosa. L’esordio è estremamente chiaro:
Se si prescinde dai modi più indeterminati di essere “nervosi” e si
considerano le forme vere e proprie di malattie nervose, l’influsso deleterio
della civiltà si riduce essenzialmente alla repressione dannosa della vita
sessuale dei popoli (o dei ceti) civili operata dalla morale sessuale “civile”
presso questi imperante.
Più avanti Freud aggiunge:
Da un punto di vista tutto generale, la nostra civiltà è edificata sulla
repressione delle pulsioni.
Dopo aver distinto quelle che chiama “nevrosi vere” o “nevrosi tossiche”
dalle “psiconovrosi” o “nevrosi psicogene”, Freud conclude che “il fattore
3
S. Freud, La morale sessuale “civile” e il nervosismo moderno (1908), in
Opere,V, Torino, Boringhieri 1972, p. 424.
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essenziale” nella “causalità” di entrambi questi gruppi di malattie nervose è
“quello sessuale”. Ed ecco alcuni ammonimenti, apparentemente ovvi, in
realtà preziosi:
In una certa misura il soddisfacimento sessuale diretto sembra
indispensabile per la maggior parte delle organizzazioni [ingenite]; è una
misura individualmente variabile il cui difetto si sconta con fenomeni che, in
forza della loro azione nociva sulla funzione e de loro carattere soggettivo di
dispiacere, devono essere considerati stati morbosi.[...] L’esperienza insegna
che per la maggior parte degli uomini vi è un limite al di là del quale la loro
costituzione non può adeguarsi alla richiesta della civiltà. Tutti coloro che
vogliono essere più nobili di quanto la loro costituzione non permetta
soccombono alla nevrosi; sarebbero stati più sani se fosse stato loro possibile
essere peggiori. [...] E’ una delle più gravi ingiustizie sociali che il modello di
vita civile esiga da tutte le persone un’identica condotta sessuale, che a taluni
riesce facile, grazie alla loro organizzazione naturale, ma che ad altri impone i
più gravi sacrifici psichici, benché, a dire il vero, tale ingiustizia venga
annullata nella maggior parte dei casi dall’inosservanza dei precetti morali.
Freud insiste, mostrando non solo quanto la cosa gli stia a cuore, ma anche
quanto essa risulti oggettivamente, socialmente importante:
Si può dire [...] che il compito di dominare un moto così potente quale è
quello della pulsione sessuale, per altra via che non sia quella del
soddisfacimento, è tale da assorbire tutte le forze di una persona. Solo una
minoranza riesce a dominare tale moto [...] La maggior parte degli altri
diventa nevrotica o subisce danni in altro modo. L’esperienza mostra che la
maggioranza delle persone che compongono la nostra società non è
costituzionalmente all’altezza del compito dell’astinenza. [...] Non
conosciamo miglior salvaguardia contro la minaccia, che proviene allo
sviluppo sessuale normale da predisposizioni anomale e disturbi evolutivi,
dello stesso soddisfacimento sessuale. [...] Chi conosce sino infondo i fattori
che determinano le malattie nervose, ben presto giunge alla convinzione che
l’aumento di tali malattie nella nostra società dipende dalle accresciute
limitazioni sessuali.
Né si tratta soltanto di “malattie nervose”. Freud precisa infatti:
Rifacendomi al tema dell’astinenza toccato nel primo punto, devo affermare
che l’astinenza comporta anche altri danni oltre a quelli delle nevrosi, e che
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nella maggior parte dei casi l’importanza di queste nevrosi non viene
pienamente apprezzata4.
Fino a questo punto, Freud sembra essersi limitato a una difesa, seppure
saldamente tenace e vigorosamente ragionata, dell’attività sessuale nei
confronti della repressione. Ma la posizione difensiva a un certo momento
viene meno per lasciare il posto all’esposizione di una tesi divenuta presto
famosa e che, in un primo momento, non può non avere suscitato sorpresa in
alcuni lettori:
La pulsione sessuale [...] mette enormi quantità di forze a disposizione del
lavoro d’incivilimento, e ciò a causa della sua particolare qualità assai
spiccata di poter spostare la propria meta senza nessuna essenziale
diminuzione d’intensità . Chiamiamo facoltà di sublimazione questa proprietà
di scambiare la meta sessuale originaria con un’altra, non più sessuale ma
psichicamente affine alla prima.
Il “lavoro d’incivilimento” è, per Freud, tutto ciò che giova allo sviluppo
della civiltà, e, in primo luogo, l’attività intellettuale e artistica. Che non
nasce, dunque, dal cervello e dai sensi dell’essere umano ma ha origine in
quella stessa pulsione sessuale deputata alla procreazione e, prima ancora, a
procurargli il più intenso piacere che egli sia in grado di procacciarsi. Freud
aggiunge (ma l’esemplificazione, apparentemente del tutto sensata, sembra
smentire per metà la tesi esposta):
Il rapporto tra la sublimazione possibile e l’attività sessuale necessaria
oscilla naturalmente moltissimo secondo gli individui e persino secondo i
diversi tipi di professione. Un artista astinente è pressoché inconcepibile,
mentre un giovane studioso astinente non è certo una rarità. Mediante la
continenza quest’ultimo può guadagnar vigoria disponibile per i suoi studi,
mentre è probabile che nel primo l’operosità artistica sia potentemente
stimolata dall’esperienza sessuale5
Comunque sia, ci troviamo di fronte a una sorta di grandioso ossimoro
biologico e sociale, in forza del quale sublime e antisublime tendono a
coincidere e a identificarsi. Si comprende così meglio la ragione (non certo
l’unica) per la quale lo studioso della vita sessuale ha dedicata un’attenzione
altrettanto vivace all’attività artistica. E si comprende altrettanto bene la
ragione (non certo l’unica) per la quale, di fronte alla varietà e alla ricchezza
4
5
Ivi, pp. 414, 416, 417, 419, 420, 421, 422, 423.
Ivi, pp.416, 424
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FAUSTO CURI
delle manifestazioni dell’inconscio e della pulsione sessuale, questo scienziato
abbia sempre la sciato trasparire una tacita, composta ammirazione.
3. Discorrendo della “traslazione positiva”, cioè della traslazione di
“sentimenti affettuosi”, che occorre distinguere da quella “negativa”,
concernente “sentimenti ostili”, Freud precisa:
La traslazione positiva si scompone poi a sua volta in traslazione di
sentimenti amichevoli o affettuosi, capaci di pervenire alla coscienza, e in
traslazione delle propaggini di tali sentimenti nell’inconscio. A proposito di
questi ultimi l’analisi dimostra che essi risalgono regolarmente a fonti
erotiche, per cui siamo costretti ad ammettere che tutti i rapporti sentimentali
di simpatia, amicizia, fiducia e simili, da cui nella nostra vita traiamo
vantaggio, per quanto puri e non sensuali possano apparire alla nostra
autopercezione conscia, sono geneticamente collegati con la sessualità e si
sono sviluppati da brame puramente sessuali attraverso un’attenuazione della
meta sessuale. Originariamente non abbiamo conosciuto che oggetti sessuali e
la psicoanalisi ci dimostra che anche le persone che nella vita reale ci
limitiamo a stimare o ammirare possono continuare ad essere oggetti sessuali
per il nostro inconscio6.
Il brano è tolto da Dinamica della traslazione (1912), che, per essere un
saggio ‘tecnico’, è ben conosciuto dagli studiosi mentre è ignoto o poco noto
ai lettori comuni. I primi non hanno certo avuto motivo di sorpresa nel leggere
lo scritto freudiano, al contrario i secondi, qualora ne abbiano avuto
cognizione, si saranno molto probabilmente stupiti, non senza, magari, un
moto di repulsione. Il fatto che a noi interessa mettere in luce è che fra i
“lettori comuni” occorre annoverare anche molti autorevoli scrittori e che,
insomma, l’ignoranza di alcuni aspetti fondamentali della sessualità
caratterizza gran parte della letteratura occidentale. Se tale ignoranza è, dentro
certi limiti, giustificabile, ben più grave risulta quello che Freud, in più luoghi
della sua opera, chiama “ripudio della sessualità”, da cui, quasi sempre
inconsciamente, sono in molti ad essere affetti, non esclusi, sembra, certi
grandi narratori. Più che la poesia, infatti, è la narrativa ad apparire spesso
afflitta da ignoranza o da ripudio della sessualità. La poesia, sia perché è
capace di un’immediata adesione all’oggetto che alla narrativa sembra
mancare, sia perché più della prosa narrativa si giova di strumenti retorici o di
modi allusivi, alla sessualità si avvicina in qualche caso con invidiabile
franchezza. Lasciamo pure da parte i paradigmi, come, poniamo, le neglette
poesie di Giorgio Baffo, o certi folgoranti sonetti del Belli o la sublime
Ninetta del Verzee di Carlo Porta. Lasciamo anche da parte alcuni esempi
illustri e assai noti, a partire dal “la bocca mi baciò tutto tremante” dantesco,
6
Freud, Dinamica della traslazione, (1912), Ibid., VI, 1974, p.529.
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ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
per la verità niente affatto allusivo. Lo stesso Dante, del resto, autore delle
stupende e stupendamente “gentili” lodi in onore di Beatrice, nonché di poesie
come quella che ha per incipit
Per una ghirlandetta
ch’io vidi mi farà
sospirare ogni fiore7
è autore anche, come è noto, delle rime petrose, in particolare di quella
canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro8, nella quale non occorre
essere un freudiano per riconoscere la presenza evidente di una forte carica di
sadismo:
Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda...
..............................................................
S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille...
Freud può però tornare assai utile quando, in Pulsioni e loro destini (1915),
osserva che il dolore “mentre viene suscitato in altre persone, procura un
godimento masochistico nello stesso soggetto che si identifica con l’oggetto
che soffre”9. Cosicché la petrosa in questione potrebbe costituire un esempio
da manuale della dottrina freudiana.
4. Lasciamo Dante e veniamo alla modernità, per comodità sempre italiana.
D’Annunzio, si sa, per certe cose è un maestro. Ma non ha sempre la mano
felice. Dovendo, per esempio, rappresentare una fellatio, in Invocazione,
incomincia bene, aggredendo l’oggetto direttamente e con una giusta dose di
sensualità, ma poi si perde con una serie di figure retoriche (perifrasi,
7
D. Alighieri, Vita nuova - Rime, 10 ( LVI), in Opere minori, I, I a cura di
D.De Robertis e G.Contini, Ricciardi, Milano- Napoli 1995, p. 327.
8
Ivi., 46 (CIII), p.447.
9
Freud, Pulsioni e loro destini (1915), in Opere cit., VIII, 1976, p. 24.
210
FAUSTO CURI
metafora, paronomasia) da far perdere ogni piacere al lettore. Che si accorge
subito che a interessargli non è tanto il “dolce atto” quanto una sapiente
costruzione retorica:
o bocca sinuosa umida ardente
che a me, dove più forte urge il desio,
a me sommerso in un profondo oblio
suggi la vita infaticabilmente;
o gran chioma diffusa in su’ ginocchi
miei nel dolce atto; o fredda man che spandi
il brivido e mi senti abbrividire...
Al contrario nel Peccato di maggio si avverte quasi una sordità, una
rozzezza linguistica, una perdurante enfasi, indegne di tanto artefice:
e con avide mani su pe’l suo corpo ascesi,
e tremar come un’arpa viva il suo corpo intesi...
Riscattate, in parte, nei versi seguenti da una vivace sensualità, fra un
eccesso di immediatezza e un eccesso di costruzione e di artificio.
In compenso non facilmente dimenticabili, in Le belle, sono
le poppe
bianche rotonde e dure
di Giulia Farnese, fra le quali “un fante” versa, dolcezza che si aggiunge a
dolcezza, “le confetture”. Ma sopratutto non dimenticabile è il nudo di Isaotta
al bagno, con quei “ginocchi” di uno splendore abbagliante:
Ella, composta in vago atteggiamento,
a mezzo della rara conca emerge;
e la fante con anfore d’argento
pianamente d’ambrate acque l’asperge.
A ‘l diletto elle freme, e con un lento
gesto la chioma rorida si terge.
Come tondi i ginocchi e come bianchi!
Han da ‘l respiro un dolce moto i fianchi
e il petto ad ogni brivido s’aderge.
Il quarto verso, con ogni parola che inizia con la vocale “a” e termina con
“e” è uno dei più armoniosi che D’Annunzio abbia mai scritto. E si stenta a
non chiedersi se le “acque” siano “ambrate” naturalmente o perché hanno
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ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
assunto il colore fra bruno e bianco del corpo della fanciulla che vi sta
immersa e le pervade di sé. Ma non si perda di vista la catena delle “r”,
presenti quasi in ogni verso, che sembrano richiamarsi e avere la funzione di
dar maggiore volume e rilievo nell’explicit al “petto” che “ad ogni brivido
s’aderge”.
Indossati, senza dir nulla, i panni del marito, ecco Giovanni Pascoli
approfittare della situazione, e della raccolta dei filugelli, per contemplare a
sazietà i seni nudi dell’amata Rosa:
Ma tu ti sganci il candido corsetto,
o bionda Rosa. Fuori è chiaro il sole,
e due colombi tubano sul tetto.
Ti slacci il busto: Odore di viole
bianche è nell’orto. Oh lascia come prima
Bello è come è. Non altro fior ci vuole.
Ci son due bocci che hanno il rosso in cima.
C’è poco da scherzare, Pascoli è perdutamente innamorato della sorella Ida,
ma solo quando egli la traveste da Rosa la sua coscienza morale gli consente
di vederla e di guardarla senza che intervenga la censura del Super-io, come
chissà quante volte l’ha sognata ad occhi aperti, combattendo ogni volta
un’aspra battaglia dentro di sé per esaudire il proprio delirio visivo. E la
battaglia deve essere stata aspra anche al momento della prima stesura dei
versi, se un abbozzo, in luogo dei “due bocci che hanno il rosso in cima”, reca
esplicitamente “tra le tue mammelle”, “tra le tue bianche verginee
mammelle”.
“Non lo conosci il bacio capovolto?” chiede imperterrito Corrado Govoni
alla “bella avventuriera”. Diciannovenne, delirante di libidine, per
imposizione dell’editore aveva dovuto sostituire con altri versi assai più
castigati Vas luxurie, un’intera sezione della sua opera prima, Le fiale (1903),
in cui spiccavano sonetti intitolati La mia vulva, Spasimo, Fame di carne.
Anni dopo, in Suona il silenzio, da Canzoni a bocca chiusa (1938), a
proposito della “tromba delle caserme”, dirà più moderatamente:
Le ragazze in camicia al buio
sospirano fiutando a quel suono
un odore di sabato e di sigaro.
Inturgidiscono i capezzoli
Tanto lo trovano buono.
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FAUSTO CURI
Ma, a proposito di “fame di carne”, non si può non notare che, ora palese,
ora celata, ma non per questo meno evidente, la pulsione sessuale pervade
alcune liriche del Sentimento del tempo di Ungaretti:
Tonda quel tanto che mi dà tormento,
la tua coscia distacca di sull’altra...
Dilati la tua furia un’acre notte!
Ma anche, con la “notte” sempre metaforica protagonista:
Hai chiuso gli occhi.
Nasce una notte
piena di finte buche,
di suoni morti
come di sugheri
di reti calate nell’acqua...
Ancora la “notte”, non però usata metaforicamente:
.........................................
Era una notte afosa
quando improvvise vidi zanne viola
in un’ascella che fingeva pace...
Diurno, solare è invece l’ambiente in cui si compie questa invocazione:
O leggiadri e giulivi coloriti
che la struggente calma alleva,
e addolcirà,
dall’astro desioso adorni,
torniti da soavità,
o seni appena germogliati,
già sospirosi,
colmi e trepidi alle furtive mire,
v’ho
adocchiati.
L’aggettivazione non potrebbe essere più ricca e precisa, e il poeta, con quei
‘germogli’ che gli tocca ‘adocchiare’, più “desioso”.
5. Tranne i nominati, e tranne Saba (“E non aveva che la sua cosetta”), nel
Novecento italiano, però, non c’è molto altro di cui tener conto. Il “ripudio
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ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
della sessualità” sembra dominare sovrano, i poeti, segnatamente gli ermetici,
paiono – sia detto con il rispetto che meritano - colpiti da una crisi passeggera
di disfunzione erettile, a volte addirittura da scopofilia, le povere ragazze da
loro cantate attendono invano qualcosa di più sostanzioso e tangibile dei versi
e nel frattempo rischiano di finire disincarnate. E valga il vero: Cardarelli, non
appena vede passare la “vergine adolescente”, perde subito la testa e straparla
di “un pescatore di spugne” che nessuno sa chi sia, ma intanto non fa un passo
o muove una mano verso la fanciulla. Si capisce che lei abbia il corpo
“difficoltoso e vago”, ma qualcosa da stringere ci sarà pure. Montale,
celebrato poeta d’amore, di Esterina non ci lascia vedere neppure il costume
da bagno, che certo non era un bikini, le altre donne, per non cadere in
tentazione, le trasforma subito in uccelli o in altri animali; Sereni esclama
soavemente “In me il tuo ricordo è un fruscio / solo di velocipedi che vanno /
quietamente...”; Luzi scrive con molta compunzione una poesia intitolata
Cimitero di fanciulle e, per non profanare il luogo, pensa bene di limitarsi a
evocare “mani chimeriche” e “ciglia deserte”; Caproni è tutto eccitato dalla
vista di Alessandra Vangelo (“Natiche ne ho viste, e reni / altere, su tacchi
alti. / Ma il petto (e io facevo salti / così, io, nel mio letto), / quel petto che
esortazione, / gente, era all’erezione”), ma ha voglia di stare bene eretto, non
sembra riesca ad andare oltre un rapporto, come dire, autoreferenziale;
Quasimodo pianta addirittura in asso le donne viventi e intrattiene un molto
spirituale dialogo con il simulacro di Ilaria del Carretto. Che pensare di tanta
coerenza quaresimale e di tanta fratesca cautela? Un “fioretto” collettivo
offerto a San Luigi Gonzaga? Un coro di “voci bianche”? Una poetica della
rinuncia e del sacrificio? E a consolare le ragazze, chi ci penserà?
Ci penseranno, si capisce, i Novissimi, carnali, disinibiti, sfrontati,
carnevaleschi, senza ritegno, capaci perfino di coinvolgere le mogli nelle loro
orge. Da Porta, da Giuliani, da Sanguineti si potrebbe citare abbondantemente.
Ma se si deve documentare una vera ebrezza dionisiaca, che include il
cannibalismo, ed è però tutt’altro che sprovvista di autoironia, scegliamo
L’ultima passeggiata, 7, di Sanguineti, il quale, avessimo mai avuto dei dubbi,
in Postkarten, 35, ci ha comunicato chiaramente quello che pensa del piacere
sessuale:
a quella reginella ridarella, a quella raganella griderella, la bella sopranella
in sottanella, a quella stella bianca, stella nana, unica mia sovrana disumana,
alla sua bianca mano, al piede bianco e stanco, e storto, e morto, a quel suo
buco
nero, buco vero, dunque io parlo, e così parlando dico:
felice la tua faccia
di vinaccia, felici le tue braccia di focaccia, principessina di uvaspina,
manducabile inconfutabile, amabile potabile: felice, mia selvaggia, chi ti
assaggia,
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FAUSTO CURI
candeggiante albeggiante, sola, tra due lenzuola: felice il tuo sensibile
cannibale,
felice chi ti inghiotte in una notte, chi ti concuoce veloce, e ti digerisce
e smaltisce, e ti chilifica e chimifica: felice chi ti dice, e ti nientifica:
III
1. La dottrina del corpo come strumento dell’anima ha dominato per secoli
la filosofia. E’ chiaro che una tale dottrina non ha più, oggi, alcuna possibilità
di sussistere. Nel pensiero di alcuni, siano essi filosofi o persone comuni,
potrebbe anzi prevalere l’idea opposta, che cioè sia “l’anima”, o meglio la vita
psichica, a essere “strumento” del corpo, nel senso che spesso sono la
condizione in cui si trova il corpo e il comportamento che esso assume a
determinare la condizione e il comportamento della vita psichica. Ma quale è
il comportamento del corpo più tipicamente corporale, quello che meglio lo
rivela come esistenza corporea, organica, biologica? Si tratta, è evidente, per
un verso della malattia, per un altro verso dell’attività sessuale. La massima
espansione e la massima depressione del corpo sono le condizioni che
rivelano il corpo a sé stesso, e quelle che più profondamente incidono sulla
vita psichica. Una filosofia del corpo, ma anche solo il pensiero non filosofico
del corpo, devono dunque non prescindere dalla malattia e dalla sessualità.
Nietzsche ha dedicato al corpo uno dei capitoli più importanti di Così parlò
Zarathustra e lo ha intitolato Dei dispregiatori del corpo. Anche chi non ama
Nietzsche dovrebbe solo per questo capitolo essergli grato. E’ vero che da
certe affermazioni nietzschiane può derivare, e purtroppo è derivata, un’idea
tutta muscolare e aggressiva della vita umana. Ma il fascismo non ha bisogno
di filosofie per affermarsi e salutare degli “eroi” nei mercenari, nei generali
felloni e in chi vive muscolarmente e aggressivamente la propria esistenza.
Gli basta una democrazia malata e qualche imbonitore servo consapevole o
inconsapevole del capitalismo.
Scrive dunque Nietzsche:
... Il risvegliato e sapiente dice: corpo io sono in tutto e per tutto, e
null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo.
Il corpo è una grande ragione...10
Da quando Nietzsche ha così parlato, la ragion corporale è la sola ragione
che guida ogni “risvegliato e sapiente”. E’ la ragion corporale che, per
esempio, ha guidato Freud nella costruzione della dottrina psicoanalitica. Ed è
principalmente sulla base dell’analisi della vita sessuale, e quindi del corpo,
10
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1883-1885), Milano, Adelphi 1986,
p.34.
215
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
che egli ha elaborato quella dottrina. A pensarci bene, che cosa è la
psicoanalisì se non una psicologia radicata nel corpo? E’ il corpo che sogna.
Riguardano il corpo gli “atti mancati”. Si producono nel corpo i sintomi. E dai
bisogni del corpo nascono, o con il corpo sono strettamente, organicamente
collegate, sia le “pulsioni di autoconservazione”, come, per esempio, quella
legata alla fame, sia le pulsioni sessuali. O, per giovarsi della denominazione
complessiva introdotta da Freud nella sua ultima teoria, le “pulsioni di vita”.
Veramente Freud procede con fermezza ma anche con molta cautela,
badando a distinguere ogni volta che sia necessario. Da notare, per prima
cosa, è che al rapporto fra lo psichico e il somatico egli si dedica con tenacia
fin dalle sue prime prove, quando è ancora un giovane medico e i suoi studi
sono ancora preanalitici. Giustamente lo giudica un tema fondamentale, che
occorre affrontare prima di passare ad altre questioni. Si guardi, per esempio,
il saggio Trattamento psichico, del 1890. Freud, per certe malattie, vi sostiene
con convinzione la dipendenza del corpo dalla vita psichica. Esiste, egli
premette, un “indirizzo unilaterale della medicina in direzione del corpo”;
questo “indirizzo”, però, “ha subito man mano negli ultimi quindici anni un
mutamento”. Si è scoperto, infatti, egli prosegue, che in certi malati
ì segni del male non provengono se non da un mutato influsso della vita
psichica sul corpo, e che dunque la causa prima del disturbo è da ricercarsi
nella psiche.
Il primo importante passo è compiuto. Ma si tratta di perseverare e di
procedere. Volgendo l’attenzione agli “affetti”, Freud osserva:
Gli affetti nel senso più stretto sono caratterizzati da un rapporto del tutto
particolare con i processi somatici, ma a rigore tutti gli stati psichici, anche
quelli che siamo abituati a considerare “processi di pensiero”, sono in certa
misura “affettivi, e non uno di essi è privo delle espressioni somatiche e della
capacità di modificare processi somatici.
Non senza aggiungere:
I processi della volontà e dell’attenzione sono anch’essi in grado
d’influenzare profondamente i processi corporei e di avere una parte notevole,
come promotori o come inibitori, nelle malattie somatiche. [...] Nel giudicare
dolori che di solito si annoverano tra i fenomeni somatici, bisogna in genere
prendere in considerazione la loro dipendenza oltremodo evidente da
condizioni psichiche11.
11
Freud., Trattamento psichico (1890), in Opere cit., I, 1967, pp. 96, 97,98.
216
FAUSTO CURI
Il predominio dello psichico sembrerebbe così accertato. Facciamo però
attenzione. Quando, quattro anni dopo, Freud prende ad indagare intorno alla
nevrosi d’angoscia, la prospettiva muta radicalmente. E’ il somatico che ora
predomina. Se, infatti, si apre il saggio Legittimità di separare dalla
nevrastenia un preciso complesso di sintomi come “nevrosi d’angoscia”
(1894), si trovano affermazioni che non lasciano dubbi al riguardo:
... In un’intera serie di casi la nevrosi d’angoscia si presenta accompagnata a
un’evidentissima diminuzione della libido sessuale [...] Il fatto che si tratti di
un accumulo di eccitamento; che l’angoscia, la quale verosimilmente equivale
a tale eccitamento accumulato, sia d’origine somatica, cosicché in definitiva
viene accumulato eccitamento somatico; e che inoltre questo eccitamento
somatico sia di natura sessuale e che contemporaneamente si abbia una
diminuzione della partecipazione psichica ai processi sessuali: tutti questi
indizi avvalorano, mi pare, l’ipotesi che il meccanismo della nevrosi
d’angoscia va ricercato in una deviazione dell’eccitamento sessuale somatico
dalla sfera psichica e in una conseguente utilizzazione abnorme di tale
eccitamento.
Con maggiore chiarezza subito dopo:
L’organismo di un uomo sessualmente adulto produce, verosimilmente in
continuazione, un eccitamento sessuale somatico che, periodicamente, giunge
a costituire uno stimolo per la vita psichica
In una lettera a Wilhelm Fliess (Minuta E), non datata ma verosimilmente
dello stesso 1894, Freud, che si sta interrogando intorno alla nevrosi
d’angoscia, comunica all’amico concetti analoghi:
... La fonte dell’angoscia non è da ricercarsi nell’ambito psichico. Essa deve
quindi trovarsi in quello fisico; ciò che genera angoscia è un fattore fisico
della vita sessuale [...] La tensione sessuale fisica, quando supera un certo
grado, risveglia la libido psichica, che porta poi al coito [...] Nella nevrosi
d’angoscia [...] la tensione fisica aumenta, raggiunge il livello di soglia al
quale può risvegliare un affetto psichico, ma per una ragione qualsiasi il nesso
psichico offerto è insufficiente, non giunge a formare un affetto sessuale,
perché mancano le condizioni psichiche necessarie. Così avviene che la
tensione fisica, non essendo legata sul piano psichico, si trasforma in ...
angoscia. [...] Dove la tensione sessuale fisica è abbondante, si trasforma in
angoscia nei casi nei quali essa non può subire la rielaborazione psichica che
la trasformerebbe in affetto [...] Nella nevrosi d’angoscia si tratta di tensione
217
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
fisica che è incapace di trovare uno sfogo psichico, e conseguentemente si
mantiene nel canale fisico12.
Freud tornerà sulla questione nei Tre saggi sulla teoria sessuale, apparsi nel
1905 in un’edizione che, nel corso degli anni, verrà dotata di importanti
giunte; e precisamente nel secondo paragrafo, intitolato Il problema
dell’eccitamento sessuale, del terzo saggio, Le trasformazioni della pubertà.
Ma, senza prolungare l’indagine oltre misura, e avviandoci anzi a concluderla,
ci sembra importante osservare come fin dagli inizi Freud si sia preoccupato
di mantenere la sua indagine psicologica strettamente legata alla riflessione
sugli aspetti somatici, assegnando al corpo e ai suoi bisogni tutta l’attenzione
che essi meritano e mostrando come, corpo e “anima” essendo
indissolubilmente congiunti, l’analisi dell’”anima” e l’analisi del corpo non
possano essere che due aspetti della medesima scienza psicologica. Ben noto è
il cosiddetto “dualismo” freudiano, che si contrappone al “monismo” di Jung
e che si afferma in ogni occasione dell’analisi. La stessa fondamentale
nozione di “pulsione (Trieb)” può essere assunta come insegna di tale
dualismo, se è vero che “La pulsione è [...] uno dei concetti che stanno al
limite
tra
lo
psichico
e
il
corporeo”13.
Il concetto è poi ribadito in Pulsioni e loro destini (1915):
Se ora ci volgiamo a considerare la vita psichica dal punto di vista
biologico, la “pulsione” ci appare come un concetto limite tra lo psichico e il
somatico, come il rappresentante psichico degli stimoli che traggono origine
dall’interno del corpo e pervengono alla psiche, come una misura delle
operazioni che vengono richieste alla sfera psichica in forza della sua
connessione con quella corporea14.
Vale la pena ricordare che il saggio sulle Pulsioni fa parte della serie
intitolata Metapsicologia; non senza notare che l’introduzione del “punto di
vista biologico” in uno scritto metapsicologico mostra meglio di qualunque
analisi l’importanza che ha per Freud quel “punto di vista”, e dunque il corpo.
Sebbene poi Freud non rimanga sempre perfettamente fedele ai principi
enunciati, dichiarando, per esempio, nel Compendio di psicoanalisi (1940):
“Chiamiamo pulsioni le forze che supponiamo star dietro le tensioni dovute ai
bisogni. Esse rappresentano le richieste corporee avanzate alla vita
12
Id., Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904, a cura di J.M. Masson,
Boringhieri, Torino 1986, pp. 100-105.
13
Id.,Tre saggi sulla teoria sessuale (1905),in Opere cit., IV, 1970, p. 479.
14
Id., Pulsioni e loro destini (1915), in Opere cit., VIII cit., p.17.
218
FAUSTO CURI
psichica”15. Ma già in Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie di lezioni),
del 1932, aveva osservato:
Una pulsione si differenzia [...] da uno stimolo per il fatto che trae origine da
fonti di stimolazione interne al corpo, agisce come una forza costante e la
persona non le si può sottrarre con la fuga, come può fare di fronte allo
stimolo esterno. Nella pulsione si possono distinguere: fonte, oggetto e meta.
La fonte è uno stato di eccitamento nel corpo, la meta l’eliminazione di tale
eccitamento; lungo il percorso dalla fonte alla meta la pulsione diviene
psichicamente attiva. Noi ce la rappresentiamo come un certo ammontare di
energia, che preme verso una determinata direzione. Da questo premere le
deriva il nome di “pulsione”16.
Giova, nel caso, ripetersi: quanto più ci si addentra nello studio della
dottrina di Freud, tanto meglio ci si rende conto che la psicoanalisi è una
scienza psicologica radicata nel corpo, nei suoi bisogni, nei suoi desideri,
nelle sue malattie. L’angoscia è una condizione psichica, ma, si è visto, la
nevrosi d’angoscia (come, del resto, le altre “nevrosi attuali”, nevrastenia e
ipocondria) ha radici organiche.
2. Parlando di Nietzsche si è accennato più sopra alla possibilità di una
filosofia del corpo. Giova aggiungere, ora, che, in età moderna, tale possibilità
è invero una necessità, dopo che nella filosofia hanno dominato per secoli
prima il concetto della strumentalità del corpo, poi la dottrina dell’esteriorità
del corpo, che, pur in modi diversi, hanno sempre umiliato il corpo vedendolo
subordinato all’anima. Così, se Nietzsche è un elogiatore del corpo, vi sono
stati successivamente filosofi che, senza giungere alla sua celebrazione, hanno
però individuato e illustrato la specificità irriducibile del corpo, restituendogli
dignità e illuminandone il valore. Fondamentali per l’intera filosofia
novecentesca, e in particolare per pensatori quali Sartre e Merleau-Ponty,
sono rimaste le nozioni di “corporeità” e di “corpo proprio” introdotte da
Edmund Husserl nel Libro primo delle Idee per una fenomenologia pura
(1913):
Per venire in chiaro, io cerco la fonte ultima alla quale attinge nutrimento la
tesi generale del mondo che io pongo nell’atteggiamento naturale, quella fonte
la quale quindi rende possibile che io trovi coscienzialmente di fronte a me un
mondo essente di cose, che in questo mondo io mi attribuisca un corpo
proprio e che io mi possa articolare appunto dentro il mondo. Qualunque sia il
modo di coscienza in cui io ho la dimensione mondana, quando in questo
modo l’essere di questo essere è intenzionato come reale, può essere posta la
15
16
Id., Compendio di psicoanalisi (1940), in Opere cit., XI, 1979, p. 575.
Id., Introduzione alla psicoanalisi (1932) ivi, p. 205.
219
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
domanda intorno alla giustezza di questa opinione intenzionale, e ogni
dimostrazione riconduce, in ultima istanza, all’esperienza; e poiché lo strato
fondamentale, portante, di ogni realtà, è la corporeità, si arriva sempre
all’esperienza sensoriale. A questo proposito va considerata la percezione
sensibile, che tra gli atti esperienti ha in un certo giustificato senso la sua
funzione di una esperienza primitiva [Urerfahrung], e da cui gli altri atti
d’esperienza traggono la maggior parte della loro forza fondatrice. Ogni
coscienza percettiva ha la proprietà di essere coscienza della presenza in carne
ed ossa di un oggetto individuale, che sul piano puramente logico è un
individuo o una derivazione logico-categoriale dell’individuo17.
Quali che siano gli sviluppi della dottrina husserliana, riconoscere
l’importanza dell’”esperienza sensoriale”, e soprattutto della “corporeità” e
del “corpo proprio”, in anni in cui dominano spiritualismo e idealismo è senza
alcun dubbio una prova notevole di chiaroveggenza filosofica.
Memorabile rimane comunque anche la pagina delle Meditazioni cartesiane
(1931) in cui Husserl sviluppa il concetto di “appartentività”, ossia di ciò che
“appartiene alla mia proprietà”, che è mio proprio e soltanto mio, raggiunto
non immediatamente ma attraverso una serie di atti di “riduzione
fenomenologica”:
Tra i corpi di questa natura colti in modo appartentivo io trovo poi il mio
corpo nella sua peculiarità unica, cioè l’unico a non essere mero corpo fisico
[Körper] ma proprio corpo organico [Leib], oggetto unico entro il mio strato
astrattivo del mondo; al mio corpo ascrivo il campo dell’esperienza sensibile,
sebbene in modi diversi di appartenenza (campo delle sensazioni tattili, campo
delle sensazioni termiche ecc.). Questo corpo è la sola e unica cosa in cui
direttamente governo e impero, dominando singolarmente in ciascuno dei sui
organi. Io percepisco, posso sempre percepire, con le mani sensazioni tattili e
cinestesiche, con gli occhi sensazioni visive ecc.; i fenomeni cinestesici degli
organi scorrono nell’io faccio e sottostanno al mio io posso. In seguito,
ponendo in gioco le cinestesi, posso urtare, spingere, e cioè agire direttamente
e quindi indirettamente con il mio corpo. Nella mia attività percettiva
percepisco (o posso percepire) tutta la natura e in essa la mia corporeità
propria che in quest’atto è perciò riferita a se stessa. [...] La messa in luce del
mio corpo appartentivamente ridotto significa già un tratto della messa in luce
della essenza appartentiva propria del fenomeno oggettivo “io come
quest’uomo qui”18.
17
E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica, I (1913), Torino, Einaudi 1965, p.84.
18
Husserl, Meditazioni cartesiane (1931), Milano, Bompiani 1989, V, pp.
119-120.
220
FAUSTO CURI
Si noti: la “messa in luce della essenza appartentiva” dell’ego avviene in
quanto vi sia stata, e solo se vi sia stata, la ”messa in luce” del “proprio corpo
organico” (Leib). Dunque il corpo conta non soltanto come corpo, cioè come
organo della percezione e dell’azione, ma anche come parte essenziale del
processo che porta alla “messa in luce della essenza appartentiva” dell’ego.
Di un’opera ampia e complessa come L’essere e il nulla (1943) di Jean-Paul
Sartre a noi interessano logicamente i due capitoli che egli ha dedicato al
corpo. E, in tali capitoli, non può che essere il tema del “desiderio sessuale”
ad attirare la nostra attenzione. Scrive dunque Sartre nel capitolo dedicato a Le
relazioni concrete con altri:
Il mio tentativo originale di impadronirmi della soggettività libera dell’Altro
attraverso la sua obbiettività-per-me è il desiderio sessuale. [...] Il desiderio e
il suo inverso, l’orrore sessuale, sono delle strutture fondamentali dell’essereper-altri. [...] L’uomo, si dice, è un essere sessuale perché possiede un sesso. E
se fosse il contrario? Se il sesso non fosse che lo strumento e come
l’immagine d’una sessualità fondamentale? Se l’uomo non possedesse un
sesso che perché è originalmente e fondamentalmente un essere sessuale, in
quanto essere che esiste nel mondo legato ad altri uomini? [...] Il problema
fondamentale della sessualità può dunque essere formulato così: la sessualità è
un accidente contingente legato alla nostra natura fisiologica o è una struttura
necessaria dell’essere-per-sé-per-altri? [...] Essere sessuato in effetti significa
[...] esistere sessualmente per un Altrui che esiste sessualmente per me. [...] La
prima apprensione della sessualità d’Altrui, in quanto essa è vissuta e
sofferta, non saprebbe essere che il desiderio; è desiderando l’Altro [...] o
cogliendo il suo desiderio di me che io scopro il suo essere sessuato; e il
desiderio mi disvela al tempo stesso il mio essere-sessuato e il suo esseresessuato, il mio corpo come sesso e il suo corpo19.
E’ evidente che, una volta che la filosofia è giunta ad interessarsi del corpo,
essa non poteva non giungere ad interessarsi del corpo come sessualità e come
sesso. Il merito di Sartre è di aver rivolto l’attenzione non soltanto alla
sessualità dell’essere-per-sé ma alla sessualità dell’essere-per-sé-per-altri, cioè
aver compreso che “questo enorme affare che è la vita sessuale” intanto è
“enorme” in quanto non è “un accidente contingente legato alla nostra natura
fisiologica” ma è una “struttura necessaria” del nostro essere-per-sé-per-altri,
ossia del nostro vivere nel mondo legati ad altri esseri umani. Intanto il mio
corpo è un corpo come sesso in quanto è fatto per un altro corpo come sesso
che a sua volta è fatto per il mio corpo. Si tratta di ben altro che di una
solidarietà sessuale. Si tratta del “desiderio”, che è la forza che dispone due
19
J. P. Sartre, L’être et le néant, Paris, Gallimard 1943, pp. 432, 433, 434.
221
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
esseri umani a essere fatti sessualmente l’uno per l’altro, ed è al tempo stesso
la forza che mi consente di essere consapevole che possiedo un corpo come
sesso, cioè come desiderio, perché vi è un altro corpo come sesso che mi
desidera ed è da me desiderato. Sessualità è bivocità, pluralità, socialità.
Sessualità vuol dire che nel mondo non sono solo. Potrò in realtà vivere nella
più spaventosa solitudine. Ma questo sì, per quanto terribile, è soltanto un
accidente. La “struttura necessaria” che è il mio corpo come sesso mi dispone
a ben altro destino. Non possono esservi dubbi, Freud ha potentemente aiutato
Sartre a scoprire l’importanza del desiderio. Anche perché Freud aveva in
certo qual modo anticipato Sartre quando, in Al di là del principio di piacere
(1920), che è un testo metapsicologico o per meglio dire pre-filosofico, aveva
introdotto Eros e, suscitando non poche perplessità, lo aveva assimilato alla
libido: “... La libido delle nostre pulsioni sessuali coinciderebbe con l’Eros dei
poeti e dei filosofi che tiene unito tutto ciò che è vivente”20. Ma è con Sartre
che il desiderio in quanto desiderio sessuale diventa oggetto della riflessione
filosofica e si rivela quindi davvero come potenza erotica, come forza che
congiunge e unisce.
Concludiamo la nostra breve rassegna filosofica aprendo la Fenomenologia
della percezione (1945) di Maurice Merleau-Ponty, che riserva al corpo ben
sei capitoli. Dei quali quello che ovviamente più ci interessa è il quinto, che
porta Il titolo sartriano di Il corpo come essere sessuato. Scrive MerleauPonty:
La percezione erotica non è una cogitatio che intenziona un cogitatum;
attraverso un corpo essa si protende verso un altro corpo, si effettua nel
mondo e non in una coscienza. Uno spettacolo ha per me un significato
sessuale non quando mi rappresento, anche confusamente, il suo possibile
rapporto agli organi sessuali o agli stai di piacere, ma quando esiste per il mio
corpo, per questa potenza sempre pronta ad amalgamare gli stimoli dati in una
situazione erotica e ad adattarvi una condotta sessuale. C’è una
“comprensione” erotica che non appartiene all’ordine dell’intelletto, giacché
l’intelletto comprende appercependo un’esperienza sotto un’idea, mentre il
desiderio comprende ciecamente collegando un corpo a un corpo21.
Queste riflessioni sembrano non discostarsi molto da quelle di Sartre. Se
però si procede nella lettura del libro di Merleau-Ponty, ci si avvede che, pur
percorrendo una strada vicina a quella intrapresa dall’autore dell’Essere e il
nulla, egli è più rigorosamente legato alla fenomenologia e al suo linguaggio
di quanto non sia Sartre. E che, in ogni caso, l’oggetto principale del suo
20
Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Opere cit., IX, p. 236
M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), Milano, Il
Saggiatore 1965, p. 223.
222
21
FAUSTO CURI
interesse, e cioè la percezione, lo porta a conferire alla propria indagine una
indiscutibile specificità. Conviene semmai notare che, anch’egli con l’ausilio
di Freud, non soltanto conferma la “messa in luce” dell’importanza filosofica
fondamentale del corpo e del sesso, ma arricchisce di nuove e originali
argomentazioni una ricerca che, a un certo momento, non poteva, per certi
aspetti, non essere ‘comune’ e che già solo per questo mostra la dignità e la
rilevanza culturale assunte da temi fino a non molto tempo prima o negletti o
giudicati secondari.
Osserva ancora Merleau-Ponty:
Riscopriamo la vita sessuale come un’intenzionalità originale e al tempo
stesso la radice vitale della percezione, della motilità e della rappresentazione
facendo riposare tutti questi “processi” su un “arco intenzionale” che nel
malato si allenta, mentre nell’individuo normale dà all’esperienza il suo grado
di vitalità e di fecondità. La sessualità non è quindi un ciclo autonomo. Essa è
internamente legata a tutto l’essere conoscente e agente [...] Anche per Freud
[...] la libido non è un istinto, cioè un’attività naturalmente orientata verso fini
determinati, ma è la capacità generale, propria del soggetto psicofisico, di
aderire ad ambienti diversi, di fissarsi attraverso differenti esperienze, di
acquisire strutture di condotta. Essa fa sì che un uomo abbia una storia. Se la
storia sessuale di un uomo fornisce la chiave della sua vita, è perché nella
sessualità dell’uomo si proietta il suo modo di essere nei confronti del mondo,
cioè nei confronti del tempo e degli altri uomini22.
Non lasciamoci ingannare da certo linguaggio husserliano (“intenzionalità”,
“arco intenzionale”, “esperienza”) né dal ricorso a Freud, che peraltro ci
permette di comprendere meglio che il “malato” di cui si parla è uno
psicopatico. L’analisi di Merleau-Ponty ha una propria originalità filosofica,
segnatamente dove giunge a far incontrare la sessualità con la storia.
Completando così una riflessione plurale sul corpo e sul sesso che conferisce
piena dignità culturale a questioni sulle quali le ricerche dei filosofi avevano
per molto tempo rifiutato di soffermarsi, preferendo mete più agevoli e molto
meno interessanti e utili. “Torna la vecchia merda metafisica”, avevano già
commentato preoccupati e sarcastici Marx e Engels nell’Ideologia tedesca.
Modernità non è solo mettere a nudo l’ideologia come falsa coscienza,
indagare il modo di produzione e il feticismo della merce, scoprire
l’alienazione che colpisce il lavoro e l’intera vita dell’uomo; è anche portare
in luce il valore della materialità e della fisicità, aderire con il proprio pensiero
ad oggetti che non solo non sono estranei all’esistenza umana, ma ne
costituiscono la parte misconosciuta eppure essenziale.
22
Ivi, pp.224, 225.
223
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
IV
1. Giunti a questo punto della nostra indagine, dovrebbe risultare evidente
che l’opera di Moravia, per la frequenza con cui vi compaiono il corpo e il
sesso e per l’importanza non solo narrativa che essi vi possiedono, ha un
rilievo culturale e critico prima che letterario. Culturale non nel senso che ha
comunemente la parola, giacché chiunque produce letteratura produce per ciò
stesso cultura; ma nel senso che quell’opera propone interpretazioni del
mondo, dell’essere umano e della sua esistenza nuove e originali, almeno per
quanto riguarda l’Italia e l’età moderna. Nuove e originali anche perché le
rappresentazioni a cui si affidano non si limitano a riprodurre la realtà ma ne
esercitano una critica tanto implicita o interna ai fatti raffigurati quanto
energica e vigorosa, astenendosi peraltro l’autore da qualunque intrusione
moralistica.
Occorre infatti guardarsi dal credere che il corpo e il sesso, così presenti e
rilevanti, siano solo il prodotto di una vocazione personale (qualcuno forse
direbbe “ossessiva), quando invece costituiscono gli elementi portanti di una
visione del mondo che, pur con aspetti fortemente caratteristici per ciò che
riguarda la realizzazione letteraria, partecipa di una generale ‘filosofia’.
Quanto al corpo, e segnatamente al corpo femminile, conviene osservare,
per prima cosa, che Moravia si allontana dalla consueta visione letteraria, che
per intenderci rapidamente potremmo forse chiamare ‘romantica’, giacché lo
distacca in modo netto dalla bellezza. Nei romanzi e nei racconti di Moravia il
corpo femminile, contemplato di solito nella sua nudità, può essere
desiderabile ma non è mai bello. Lo scrittore, al contrario, ne mette spesso in
luce i difetti, gli aspetti disarmonici, abnormi, a volte quasi ripugnanti. Questo
gli consente di concentrare l’attenzione sul corpo in quanto tale, piuttosto che
sulla bellezza che tradizionalmente quel corpo esibisce e che tradizionalmente
attira l’interesse del lettore, sviandolo da ciò che per Moravia è veramente
significativo.
Ecco la Carla degli Indifferenti, una delle prime donne, se non la prima, a
comparire nell’opera moraviana:
...Gambe dai polpacci storti, ventre piatto, una piccola valle di ombra fra i
grossi seni, braccia e spalle fragili, e quella testa rotonda così pesante sul collo
sottile.
Non conta nulla che Leo, contemplandola, esclami “che bella bambina”. Il
commento è appunto di Leo, cioè di un personaggio, non del narratore. Così,
in un altro luogo del libro, appartiene al personaggio Leo, non al narratore,
questa ammirata descrizione che passa dal discorso diretto al discorso
indiretto libero
224
FAUSTO CURI
“Ah, che bella bambina” pensava intanto Leo; quella nudità l’accecava, non
sapeva da dove incominciare, se dalle spalle delicate, magre e bianche o dal
giovane petto di una tenerezza, di un candore di latte di cui i suoi occhi avidi e
sorpresi non sapevano saziarsi.
Quanto a Lisa, l’amante di Michele, non appare certo avvenente:
Andò all’attaccapanni; non aveva addosso che una trasparente camiciuola
che faceva ancor più corte le sporgenze del corpo, le gambe erano tutte
scoperte fino alla piega profonda che staccava la rotondità delle natiche dalle
cosce bianche e senza peli, i seni muscolosi, appena più bassi che a vent’anni,
ne uscivano per metà con due rigonfi lisci e venati...
La donna possiede una sua un po’ goffa sensualità, ma bastano poche parole
a Moravia per abolire ogni possibilità di grazia e di venustà: “ancor più corte
le sporgenze del corpo”, “i seni muscolosi”, “due rigonfi lisci e venati”. E si
noti: comunicarci che le coscie sono “senza peli” evoca proprio i peli anziché
una liscia bianchezza. Non basta: Moravia, con un’abilità linguistica che non
si può non riconoscergli, provvede a stendere una leggera patina di sudiciume
su un corpo già privo di leggiadria:
... Le venne in mente che erano passati tre giorni da quando si era lavata per
l’ultima volta tutto il corpo e che sarebbe stato necessario prendere un bagno;
esitò; era veramente indispensabile? Si guardò i piedi: le unghie erano
bianche, parevano puliti...
Del resto il sudiciume del corpo di Lisa è solo un piccolo segno della
visione tutta negativa che della realtà ha il Moravia giovane. Assai di più
contano la “nausea”, il “disgusto” e infine il vomito e la “saliva acida” di cui è
preda Carla dopo che Leo l’ha ubriacata:
... La vide rizzar la testa, impaurita, pallidissima, con delle voci gutturali e
dei gesti del mento che parlavano per la bocca chiusa; [...] invasata, Carla
sorse sul letto appuntando gli sguardi sul trespolo, là, nell’angolo; Leo capì,
prese il catino, lo tese appena in tempo: dalla bocca aperta, nel vaso
arrugginito, la fanciulla emise un getto denso, multicolore e fumante, sostò,
con un singulto delle viscere sconvolte ricominciò; [...] “Tutto è finito”
pensava; e in verità, lo intuiva, qualche cosa doveva pur esser finito, senza
piacere né dignità, in quel catino; cosa precisamente, non avrebbe saputo
dire...
Ciò che Carla e Michele provano è ben altro che ‘indifferenza’. E’ “nausea”,
“disgusto”. E il vomito di Carla manifesta non solo quella “nausea” e quel
225
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
“disgusto”, ma anche il senso morale e fisico di una generale disfatta, patita
“senza piacere né dignità”, e senza possibilità di riscatto. Ciò che “è finito”
schifosamente “in quel catino” è la loro esistenza, anzi è l’intera realtà.
Restiamo negli Indifferenti e, per concludere con quest’opera, guardiamo un
ritratto di Mariagrazia, la madre di Carla:
La madre si avvicinò; non aveva cambiato il vestito ma si era pettinata e
abbondantemente incipriata e dipinta; si avanzò, là, dalla porta, con quel suo
passo malsicuro; e nell’ombra la faccia immobile dai tratti indecisi e dai colori
vivaci pareva una maschera stupida e patetica.
La stessa Mariagrazia in un altro luogo del libro è definita “matura e
disfatta”.
2. Il romanzo breve La disubbidienza ci offre due personaggi femminili
particolarmente interessanti per la nostra indagine, la governante e
l’infermiera, accomunate dall’essere entrambe donne mature in contrasto con
la giovane età di Luca, il protagonista quindicenne del racconto, e dal
suscitare entrambe nel ragazzo, in vicende e con esiti diversi, i primi
turbamenti sessuali. La governante è così descritta:
Era una donna sui trentacinque anni, di mediocre statura, resa forse anche
più mediocre dalla disparità fra le spalle strette e la grossa testa dai capelli
gonfi. Non era bella, coi suoi occhi torbidi e inespressivi, a fior di pelle,
sempre pesti e battuti; le sue guance troppo bianche e un po’ sfatte; la sua
bocca tumida e cascante, ombreggiata di scura peluria; ma questa scarsa
avvenenza, quest’aria di cattiva salute erano in certo modo compensate dalla
straordinaria vivacità e allegria del carattere.
Superfluo osservare che le “spalle strette” e la “grossa testa” del corpo
femminile sono, in Moravia, una sorta di locus communis o di leit-motiv di cui
il narratore si giova non per collegare il personaggio di un’opera a quello di
un’altra opera, ma per creare un ‘tipo’ di donna, o meglio un corpo femminile
paradigmatico, di cui è importante mettere subito in luce le imperfezioni, le
”disparità”, le disarmonie fisiche, con lo scopo, si è visto, di annullare
preventivamente nel lettore ogni banale attesa di leggiadria e concentrare la
sua attenzione sul corpo in quanto tale, che, per essere un corpo comune di
una donna comune, ben difficilmente potrebbe non patire quelle “disparità”.
Anche Carla degli Indifferenti ha una”grossa testa” e “spalle [...] magre” e su
quella testa “grossa”, “rotonda”, “pesante” Moravia non cessa di insistere. Si
badi, però: le disarmonie fisiche del corpo femminile hanno quasi sempre, in
Moravia, qualcosa di sensuale, di erotico, sembrano fatte per accrescere il
desiderio maschile piuttosto che per smorzarlo o per suscitare disgusto.
Questa funzione, se così si può dire, esercitano i “polpacci storti”, i “grossi
226
FAUSTO CURI
seni” e quell’impagabile “testa rotonda così pesante sul collo sottile” di Carla,
i “seni muscolosi”, “due rigonfi lisci e venati”, la “grossa coscia” di Lisa. Se
torniamo alla governante, apprendiamo che vi è in lei una sorta di “puerilità”,
che, tanto per cambiare,
contrastava assai con una certa sensualità mal repressa e già più di donna
matura che di ragazza, visibile nella stanchezza degli occhi, nella bellezza un
po’ impura delle mani e nella mollezza dei fianchi.
Superfluo notare che non vi potrebbe essere “bellezza” in quelle “mani” se
essa non fosse “un po’ impura”. Ma non perdiamo questa scena assai
significativa:
Luca provava simpatia per la governante [...] Un pomeriggio, osservandola
mentre caracollava attraverso il salotto con il bambino sul dorso, Luca no poté
fare a meno di osservare la rotondità provocante dei fianchi alzati in aria
nell’animalesco atteggiamento; e in un gesto che ella fece girandosi verso di
lui, gli occhi, attraverso lo spacco della blusa, gli si posarono quasi suo
malgrado sul petto che in quella posizione appariva nudo per tutto il contorno
delle mammelle molto bianche e molli. Queste mammelle pendevano, proprio
come quelle di una bestia, ballando ad ogni scossa; [...] Luca la guardava e per
la prima volta non poteva fare a meno di trovare sconveniente che il bambino,
cavalcandola, le battesse con le mani sulle natiche, come sulla groppa,
appunto, di un cavallo.
Non occorre osservare che l’imbestiamento della donna è l’atto supremo con
il quale Moravia raggiunge un duplice esito: distaccare definitivamente
l’immagine del corpo femminile dall’idea della bellezza e
contemporaneamente rendere quel corpo più carnalmente sensuale.
A suo modo non meno singolare e perturbante è il corpo dell’infermiera, alla
quale spetta il compito di sedurre Luca:
... Ella si accostò al letto e, ritta e maestosa, fissandolo negli occhi con gli
occhi scintillanti, levò le due mani, sin tolse il soprabito dalle spalle e lo
depose sopra una seggiola. In questo gesto si chinò da parte rivelando il
carattere massiccio e sformato del corpo: i fianchi non tondi ma quadrati, con
larghe placche di carne impressa nel velo della camicia; il dorso vasto e
spesso; le braccia mature. Ella rimase ferma un momento, come per
permettere a Luca di ammirarla a suo agio; poi con un gesto possente di
insofferenza, levò le braccia, sfilando per il capo la camicia. Sempre più su,
sipario esitante e sbilenco, saliva il velo, a strattoni, scoprendo il suo
spettacolo: le gambe grosse ma dritte simili a torri di carne bruna e accesa, il
grembo, sola parte schiva e ombrosa tra tante esposte ridondanze; il ventre,
227
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
traboccante vascello di viscere vogliose; infine il petto stretto tra le due larghe
ascelle nel gesto delle braccia alzate come un terreno scuro e collinoso tra due
bianche strade deserte.
Chi ha detto che la scrittura è la parte che meno conta nell’opera di Moravia,
o è la meno felice, o, addirittura, che egli non sa scrivere? Nei lacerti che
abbiamo citato fino a questo momento non c’è parola che non corrisponda
perfettamente alla funzione che deve svolgere, senza questa scrittura
funzionale, plastica, che aderisce agli oggetti come la pelle alle carne e
tuttavia non è priva di metafore e comparazioni, la rappresentazione non
avrebbe il vigore che possiede. Si potrà affermare che proprio nella scelta e
nella gestione delle figure retoriche egli rivela, a volte, la sua ingenuità e la
sua debolezza linguistica; e che in certi romanzi e racconti l’invenzione è
fiacca e il racconto faticoso. Ma se, poniamo, La ciociara è un’opera
scadente, la colpa non è certo della scrittura. O meglio, è dell’infelice
mescidazione di due linguaggi eterogenei, l’uno colto, l’altro ‘popolare’. La
scrittura, in altri casi, intrattiene con la propria materia un rapporto
felicemente necessario. Quello che può sorprendere, semmai, è il carattere non
premeditato, immediatamente inventivo, quasi (osiamo tranquillamente
l’ipotesi) la parola sorgesse dalle profondità della vita inconscia, che, in certe
occasioni, ha il linguaggio narrativo di Moravia. Peraltro, se l’ipotesi ha una
sua fondatezza, ogni sorpresa dovrebbe venire meno: è stato Freud a mostrare
lo stretto, radicale rapporto che stringe la sessualità all’inconscio.
Riconosciamo, piuttosto, che il Moravia più persuasivo è quello che sa far
funzionare perfettamente insieme vita inconscia e lucida logica costruttiva,
ragion corporale e immaginazione.
3. Ritorneremo su ciò che accade fra Luca e la sua infermiera, giacché si
tratta di uno degli episodi capitali dell’intera opera moraviana. Non
dimentichiamo, intanto che un’infermiera è anche nel racconto Inverno di
malato e che anche questo personaggio, che pur appare brevemente, si presta
a confermare le ipotesi su cui stiamo lavorando:
La donna, una bruna piuttosto piccola, di forme sode e non brutta, ma dotata
di una particolarità insolita, e cioè di una peluria vellutata e scura che le
copriva gli avambracci, le guance, il labbro superiore e persino il collo, e
faceva pensare a un corpo furiosamente villoso...
Un Leit-motiv non sarebbe un Leit-motiv se non si ripresentasse: ora si tratta
di “polpacci storti”, ora di una “grossa testa”, ora di “seni muscolosi”, ora
della “bellezza un po’ impura delle mani”, ora di “fianchi non tondi ma
quadrati”, ora di un imbestiamento. Nel caso della seconda infermiera,
l’attenzione è colpita da “un corpo furiosamente villoso”. Che, altra conferma,
proprio per essere tale accende la libidine di un personaggio maschile,
228
FAUSTO CURI
Brambilla, “al quale quella particolarità della peluria ispirava una grande
attrazione”.
Si dirà forse che, soffermandosi sul corpo di donne mature, Moravia non
può non metterne in evidenza il declino, lo sfascio. Ma la scelta non coatta di
donne mature è già di per sé indicativa di un bisogno di mancanza di
avvenenza, di fisicità attraente ma non leggiadra e in qualche modo
‘abnorme’. Prima di lasciare le pagine di Inverno di malato, guardiamo
comunque l’immagine della giovinetta Polly:
La Polly non mostrava più dei quattordici anni che aveva. Era bionda, coi
capelli saggiamente tagliati all’altezza delle guance, aveva occhi cilestri, un
volto pieno di salute, roseo e bianco, e, pur nella sua banalità, sarebbe stata
graziosa, se non fosse stata una leggera pinguedine derivata evidentemente
dalla lunga infermità, che le dava un aspetto pigro, addormentato e come
sornione. Nulla insomma di precoce era in lei, anche in un senso tutto
inconsapevole e fisico; semmai [...] la malattia pareva averla intorpidita e
quasi respinta in una ritardata infantilità.
Alla buon’ora. Dopo che per più di un secolo, in letteratura, l’adolescenza e
la giovinezza, maschile ma soprattutto femminile, sono state (non senza
qualche eccezione, per fortuna) il segno naturale della grazia, della bellezza,
dell’eleganza, del fascino, ecco finalmente una fanciulla pingue e banale. E’
un segno minimo, se si vuole, ma è un segno diverso, che indica un
mutamento culturale importante.
4. Esemplare per le “disparità” che presenta il suo corpo è Viola, la madre di
Desideria protagonista della Vita interiore (1978):
... Era diversa se vista di fronte o di dietro. Se la guardavi di faccia vedevi
una donna matura, dal corpo sciupato, smontato, disfatto. Il collo appariva
come macerato, con due o tre collane di rughe torno torno; dal petto i seni le
pendevano giù simili a due sacchetti bruni sgonfi e vizzi; il ventre, forse a
causa di una gravidanza interrotta, era tutto un reticolato di pieghe sottili. Ma
se le dicevi di voltarsi, allora vedevi la schiena di una donna giovane, sotto i
trent’anni. Le spalle, il dorso, le natiche, le cosce apparivano misteriosamente
e tuttavia eloquentemente graziose, sensuali provocanti.
Le “disparità” nel corpo delle donne di Moravia non sono mai tali da
escludere una capacità d’attrazione o di fascinazione. Viola ha questo di
particolare che solo la parte posteriore del suo corpo è piacente, ma quella
parte attira più del corpo della giovane e bella Desideria, quella parte è fatta
per l’amore, o meglio per l’esercizio del sesso ed è la finalità biologica ed
erotica di quel mezzo corpo che l’ha mantenuto giovane e desiderabile.
229
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
Perfino la conturbante diciassettenne della Noia, Cecilia, non è immune da
“disparità”:
Aveva infatti un seno magnifico, pieno solido e bruno, che però discordava
e pareva, per così dire, quasi staccato dal busto il quale era, invece, quello
gracile e magro di una adolescente. La vita era anch’essa quella di una
fanciulla, incredibilmente snella e flessuosa; ma nei fianchi compatti e forti,
riappariva il carattere adulto che si notava nel seno. [...] Ora, dalla cintola in
giù, il corpo di Cecilia pareva avere la consistenza appunto delle cose che
sono fatte di una materia molto densa e molto pesante. Come era forte, per
esempio, l’attaccatura delle gambe all’inguine in confronto con quella delle
braccia alle ascelle; quanto diversa dalla magrezza delicata del busto,
l’insellatura vigorosa delle reni, la ridondanza muscolosa dei lombi, la
compattezza massiccia delle cosce.
Nella descrizione del corpo femminile Moravia trova le sue migliori risorse
linguistiche; e pur se non lo dice esplicitamente, anche perché, in apparenza,
non è lui a parlare, sembra pensare che sia la disposizione all’eros a modellare
il corpo della donna, indipendentemente dall’età e da ogni altra condizione o
stato che su quel corpo potrebbe incidere. Ma ecco la conclusione del passo
che rappresenta il corpo di Cecilia:
Adolescente dalla vita in sù, donna dalla vita in giù, Cecilia suggeriva un
po’ l’idea di quei mostri decorativi che bsono dipinti negli affreschi antichi:
specie di sfingi o arpie, dal busto impubere innestato, con effetto grottesco, in
un ventre e due gambe possenti.
“Mostri”? “effetto grottesco”? Lasciando stare gli altri personaggi femminili
creati da Moravia, non solo Cecilia non ha nulla di veramente mostruoso e
suscita tutt’altro che un “effetto grottesco”, ma incanta e seduce numerosi
uomini. Probabilmente Moravia si proponeva di abbassare un poco la tensione
provocata dalla descrizione del corpo nudo della ragazza, deviando il discorso
in chiave, appunto, “grottesca”. Per la verità, poi, lo scrittore parla di “mostri
decorativi”, e l’aggettivo attenua e specifica non poco il sostantivo. Tutte le
donne, forse, sono per Moravia “mostri decorativi”, nel senso che le
“disparità” che non mancano mai al loro corpo le rendono monstra, che vuol
dire sia “fenomeni contro natura” (“arpie”) sia “meraviglie”, “prodigi”, per di
più, non scordiamolo, “decorativi”.
Proviamo a tirare alcune conclusioni. Moravia non ama il corpo della donna,
anche se per lui la donna è soprattutto o soltanto il corpo di lei. Si potrebbe
addirittura dire che non ama la donna, anche se ne è sempre fortemente
attratto e mette sempre in evidenza la funzione fondamentale che essa
esercita non solo dal punto di vista erotico. E’ la donna che, in certe opere
230
FAUSTO CURI
moraviane, ‘genera’ l’uomo, non è mai l’uomo che ‘genera’ la donna.
Volendolo o senza volerlo, Moravia rovescia il racconto biblico, che vuole la
donna generata da una costola dell’uomo. E, quando avviene, la ‘generazione’
dell’uomo da parte della donna investe sia il piano fisico-sessuale sia il piano
simbolico.
5. Ritorniamo a Luca e alla sua infermiera:
Quando le sembrò che Luca l’avesse guardata abbastanza, ella aprì le
coperte e vi si introdusse con maestà, stendendosi al suo fianco. Egli avvertì
allora non già un abbraccio ma uno sprofondamento di tutta la persona in una
carne immensa. E come la donna gli andava senza fretta con la mano lungo il
corpo alla ricerca del suo sesso e, trovatolo, l’afferrava alla radice quasi
avesse voluto strapparlo e lo faceva penetrare nel proprio, egli ebbe il senso
preciso che lei lo prendesse per mano e l’introducesse, riverente, in una
misteriosa caverna dedicata a un rito. Egli pensò che questa era la vita prima
invocata e poco importava se si presentava a lui sotto spoglie autunnali. Pieno
di gratitudine, si accorse che baciava il viso magro e bruno, dagli occhi
socchiusi, immobile come un’effige. Ma era il viso dell’infermiera o quello di
una deità salita dalla terra per darsi a lui? Certamente tra le sue mani e quelle
membra distese sotto le sue passava il tremito di una venerazione. Intanto
continuava il sollievo e riscattava con la sua freschezza e leggerezza l’ardore e
il peso dell’abbraccio.
Una pagina altissima, una delle più alte fra quelle che ha prodotto la
narrativa italiana del Novecento. Di un’originalità suprema, giacché è il corpo
della donna, o meglio è il suo sesso a procurare la rinascita dell’uomo. Il
“sollievo”, la “gratitudine”, la nuova “vita” dell’uomo non provengono dalla
mente, dalla parola di qualche creatura giovane e leggiadramente affascinante
ma da una “misteriosa caverna” collocata in un corpo femminile sfiorito, che
probabilmente ha ormai perduto la capacità della procreazione carnale ma non
ha affatto perduto la forza di generare un’esistenza nuova dell’uomo che si è
affidato a lei. Non vi è alcuna forzatura nell’attribuire al giovane il dubbio di
trovarsi fra le braccia di “una deità”. Tutto è naturale, tutto accade come deve
accadere, non vi è alcuna divinizzazione della donna, giacché quella “deità”
non viene dal cielo ma è “salita dalla terra”. Non vi è contraddizione nelle
parole del narratore, la creatura che giace accanto a Luca è una “deità” ctonia,
viene dalle profondità della terra, come una nuova Persefone , e, come
Persefone, reca fecondità. Certo, è facile rendersi conto che l’infermiera è una
figura materna, così come Luca è una figura filiale (“Pieno di gratitudine, si
accorse che baciava il viso magro e bruno...”’), l’importante è non dimenticare
mai che questo personaggio materno non ha nulla di spirituale, che esso è
carne e sesso e che è con la sua carne e il suo sesso che ridà, restituisce “vita”
al ragazzo. Almeno in certa misura, lo stesso Moravia rende agevole
231
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
l’interpretazione del passo con la pagina che apre l’ultimo capitolo del
romanzo:
L’infermiera partì il giorno dopo, come aveva annunciato, non lasciando a
Luca né rimpianto né disgusto, bensì quel grato sentimento di iniziazione
definitiva non soltanto all’amore fisico ma anche a quello più generale verso
le cose di cui aveva avuto il primo barlume destandosi dal delirio. Gli pareva
di aver trovato finalmente un modo nuovo e tutto suo di guardare alla realtà,
fatto di simpatia e di paziente attesa. Questo modo, lo avvertiva, comportava
un ritmo di pensiero più calmo, più disteso, più sereno di quello di un tempo e
insieme uno sguardo non più diretto e aggressivo, ma studiosamente e
ineffabilmente esitante e cauto. Ormai, pensò, avrebbe visto le cose dapprima
coi nuovi occhi che gli si erano aperti dentro quella notte e poi quelli che alla
sua nascita erano stati abbagliati dalla prima luce del giorno. Seconda e più
vera madre, l’infermiera l’aveva fatto nascere una seconda volta, dopo che era
morto nel suo desiderio di morte. Ma capiva che questa seconda nascita non
avrebbe mai potuto aver luogo se prima egli non avesse desiderato così
sinceramente e assolutamente di morire.
La pagina è notevole, ma ha una predominante funzione didascalica. Forse
sarebbe stato preferibile fermare la narrazione al brano che abbiamo
precedentemente trascritto in cui la “seconda nascita” non è interpretata ma
avviene. Comunque sia, Moravia ci mette per così dire in bocca la parola più
adatta a intendere ciò che è accaduto a Luca: “iniziazione”. Ha cura però di
precisare che l’iniziazione non è soltanto all’amore fisico ma a un’accoglienza
complessiva e cordiale al mondo. C’è un passo nelle Ideen di Husserl che non
corrisponde perfettamente allo stato d’animo di Luca, al suo guardare le cose
con ”nuovi occhi ”, ma descrive una condizione simile. La “neutralizzazione
del mondo”, cioè la sua “messa in parentesi”, o, meglio ancora, la “messa
fuori gioco del mondo obiettivo” dovuta alla “sospensione fenomenologica
del giudizio”, spiega Husserl, corrisponde alla “conquista di una nuova
regione dell’essere finora non rilevata nella sua caratteristica”23.
...Si dischiude per la prima volta [...] la sfera assoluta dell’essere, la sfera
della soggettività assoluta o “trascendentale”; [...] Risulterà tuttavia come la
regione della soggettività assoluta o trascendentale “porti in sé”, in un modo
del tutto peculiare, [...] l’universo reale...24
Certo, Luca non attua alcuna “sospensione fenomenologica del giudizio”,
ma la rivelazione dell’eros gli dischiude davvero “una nuova regione
23
24
Husserl, Idee cit., pp.65, 68, 70.
Ivi, p.71.
232
FAUSTO CURI
dell’essere finora non rilevata nella sua caratteristica”. A pensarci bene, il suo
essere, o meglio il suo sentirsi, in un primo momento, “morto” non è
condizione molto diversa dall’esperienza di chi si rivolge al mondo
assumendo “l’atteggiamento naturale” e lo percepisce quindi in un’”oscura
indeterminatezza”.25
6. Si dirà che, in Moravia, esistono eccezioni alla sfilata di donne dal corpo
sfatto o privo di grazia. Ma sono eccezioni apparenti. Si tratta, nella maggior
parte dei casi, di donne viste e rappresentate attraverso gli occhi di un
personaggio, non attraverso gli occhi del narratore. Il cui punto di vista, fisico,
intellettuale, estetico, quindi, non è in gioco. Qualche problema pone uno dei
capolavori di Moravia, Agostino. Ma, cercando di scioglierne i nodi, è forse
possibile trovare una soluzione di ordine generale. Non c’è dubbio che fra gli
intenti del narratore vi sia quello di mostrare lo stretto legame che congiunge
l’adolescente Agostino alla madre, l’attrazione, e quindi la gelosia, più ancora
che l’amore, che il ragazzo prova per la donna. Da ciò discende che il
personaggio della madre, piuttosto che autonomamente, è rappresentato
attraverso lo sguardo di Agostino e il viluppo di sentimenti che ella fa nascere
in lui. Lasciamo ora stare quanto la lettura di Freud può aver contato
nell’organizzazione del romanzo. Indipendentemente da altre considerazioni,
è certo che uno dei meriti di Moravia sta nell’aver impostato il rapporto tra
figlio e madre su una base prevalentemente sessuale, ma, al tempo stesso,
nell’aver trattato l’argomento con una discrezione e una delicatezza che in lui
non sempre sussistono. Detto questo, occorre chiedersi se nel raffigurare la
madre lo sguardo del narratore ceda sempre a quello di Agostino. L’inizio del
romanzo sembra non lasciare dubbi: “La madre di Agostino era una grande e
bella donna ancora nel fiore degli anni”: è il narratore che parla, si dirà. La
frase “ancora nel fiore degli anni” non può essere dell’adolescente. Ciò che
segue immediatamente mostra però che, nel racconto, la “grande e bella
donna” è percepita come tale dal figlio:
e Agostino provava un sentimento di fierezza ogni volta che si imbarcava
con lei per una di quelle gite mattutine. Gli pareva che tutti i bagnanti della
spiaggia li osservassero ammirando sua madre e invidiando lui; [...] L’acqua
liscia e pallida si squarciava sotto i loro tuffi. Agostino vedeva il corpo della
madre inabissarsi circonfuso da un verde ribollimento e subito le si slanciava
dietro, con desiderio di seguirla ovunque, anche in fondo al mare. Si gettava
nella scia materna e gli pareva che anche l’acqua così fredda e unita serbasse
la traccia del passaggio di quel corpo amato.
Si potrebbe continuare a lungo e utilmente con le citazioni. Ma, anche
limitandoci a questi esigui lacerti iniziali, abbiamo già appreso due cose
25
Ivi, p. 58.
233
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
importanti: che Agostino della madre ama soprattutto il “corpo” e che il suo
gettarsi “nella scia materna” è, fino a un certo segno, figura del suo eros
adolescenziale. C’è, nel romanzo, quasi un paradosso. Perché se il figlio vive,
fino a un certo segno, “nella scia materna”, la madre vive tutta nello sguardo,
nel desiderio, nella gelosia, nel “fastidio”, nel “malessere”, nella
“ripugnanza”, nell’”acre e impura curiosità” del figlio. Fino a un certo segno,
abbiamo detto. Nessuno dei due personaggi possiede infatti una piena
autonomia. Ma Agostino, a un certo punto della storia, grazie allo sviluppo
della sua vita psichica che Moravia disegna mirabilmente, tale autonomia
conquista; la madre rimane invece immobile, senza vera vita, nella sua
concupita bellezza.
7. Fino a questo momento abbiamo sempre parlato di “narratore” e mai di
“autore implicito” per la seguente ragione. I benemeriti studiosi che hanno
proposto in sede narratologica la distinzione fra “narratore” e “autore
implicito”, definendo quest’ultimo anche una sorta di “alter ego” dell’autore,
e precisando, con Seymour Chatman, che l’”autore implicito” “Non è il
narratore, ma piuttosto il principio che ha inventato il narratore insieme a tutto
il resto della narrazione”26, si sono sempre dimenticati di compiere
un’ulteriore distinzione, fra gli scrittori nei quali l’”autore implicito” è lontano
dall’autore, come, poniamo, Svevo o Joyce, e gli scrittori nei quali invece
l’”autore implicito appare vicino all’autore. Si potrebbe insomma dire che
l’”alter ego” in alcuni è più alter che ego, in altri invece è più ego che alter; la
visione del mondo di alcuni “autori impliciti” non coincide con quella dei
rispettivi autori, la visione del mondo di altri “autori impliciti”
sostanzialmente coincide o è prossima a coincidere con quella dei rispettivi
autori. Moravia, se non ci inganniamo, appartiene a questo secondo gruppo ed
è per questo motivo, ma anche per semplificare il discorso, che abbiamo
preferito scegliere la denominazione di “narratore”. Lieti, tuttavia, che
l’occasione ci consenta di precisare che anche Moravia costruisce di volta in
volta, in modi diversi, a seconda delle diverse esigenze che impone la
narrazione, un suo “autore implicito”, che, pur non differendo molto, almeno
per quello che riguarda il tema della donna e le questioni sessuali, dall’autore,
non coincide con lui. Questo può spiegare la circostanza che la madre di
Agostino, e non soltanto lei per la verità, sia dotata della bellezza che manca a
molte altre donne di Moravia.
Un caso particolare, non però, ci sembra, particolarmente degno di
attenzione, è quello della donna prima brutta, poi bella, o prima avvenente,
poi sfiorita. Le citazioni dovrebbero riguardare la Desideria di La vita
interiore e la “cortigiana stanca” del racconto omonimo, certamente uno dei
migliori di Moravia. Ma, per quanto concerne Cortigiana stanca, il racconto
ha, come dire, una sua naturalezza uno svolgimento ‘fisiologico’; mentre La
26
S. Chatman, Storia e Discorso, Parma, Pratiche 1981, p.155.
234
FAUSTO CURI
vita interiore offre ben altri motivi di riflessione. Non che si tratti di uno dei
romanzi più riusciti di Moravia; al contrario, nonostante i vantati “sette anni
che è durata la stesura del libro”, o forse proprio a causa di essi, l’impressione
è di trovarsi di fronte al tentativo un po’ velleitario e piuttosto artificioso e
faticoso di aggiornare e modernizzare la propria ‘maniera’ sia per quanto
riguarda la tecnica e la struttura narrativa sia per quanto riguarda i contenuti.
E’ particolarmente interessante, a questo proposito, un’ intervista rilasciata a
Enrico Filippini27 nella quale Moravia, che sta concludendo la stesura della
Vita interiore, da’ prova di una notevole intelligenza autocritica:
F. Lei una volta mi ha detto che i primi libri di uno scrittore sono un dono
della vita, e che poi però si va avanti a colpi di cultura...
M. Sì, io pensavo agli scrittori americani, che hanno spesso infanzie e
adolescenze eccezionali. Allora le scrivono, e poi si ripetono, hanno una
specie di religione della vita, e la cultura non gli serve. In Europa serve a far
andare avanti questo bagaglio di esperienze vitali... Per me è stato così: il mio
mondo era già fatto con Gli indifferenti. Poi la cultura mi ha permesso di
andare avanti, fino a oggi. Insomma, gli scrittori hanno poco da dire. Io li
divido in due generi: quelli che si ripetono e quelli che chiamo “esornativi”.
Ecco, io sono tra i primi. [...] Non ho mai lavorato di sola cultura. Semmai,
come ha insinuato un po’ malignamente Contini, in gioventù prevaleva in me
il sentimento, e oggi prevale diciamo la mentalità, la concettualità, diciamo
che ce n’è un 40% di troppo. La ragione, insomma, e la ragione in queste cose
è un brutto affare... per me l’approccio dell’arte al reale è e deve rimanere
sensuoso...
Alcuni termini (“sentimento”, mentalità”) sono approssimativi, ma l’analisi
è acuta e aderente. In quello che gli studiosi sono soliti definire il “terzo
tempo”, o la “terza stagione”, della narrativa moraviana, e che si fa partire
dalla Noia (1960), lo scrittore lavora davvero più con la “ragione” e con la
“cultura” piuttosto che con il “sentimento” che aveva fatto nascere capolavori
quali Gli indifferenti, Agostino, La disubbidienza. E si può essere d’accordo
con Moravia quando riconosce che di quella che egli definisce “concettualità
[...] ce n’è un 40% di troppo”. All’incirca in quegli anni egli ha aggiornato la
propria cultura, le proprie tematiche, il proprio linguaggio. Per tacere d’altro,
ha letto Wittgenstein, Sartre, Robbe-Grillet, non ignora la nuova avanguardia
italiana, con la quale in certe occasioni dialoga, è attento a tutto ciò che di
significativo accade nei più diversi campi. Una siffatta curiosità intellettuale
non può che essere apprezzata. Se non fosse che, in sede narrativa, essa
suggerisce poi, o meglio impone, scelte attentamente programmate e
precostituite, a cui lo scrittore addiviene senza una vera vocazione, o, se si
27
“La Repubblica”, 16 novembre 1977.
235
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
preferisce, senza necessità, prevalentemente per calcolo, con l’intento
dominante di mostrare che la sua opera è sempre all’altezza dell’attualità, si
tratti della bomba nucleare o del terrorismo o dell’alienazione. Centrale
rimane sempre, per fortuna, il sesso, che ora però viene trattato, come dire,
analiticamente, senza l’antica discrezione. Il linguaggio corrisponde a questa
nuova condizione intellettuale, è privo di qualunque accensione lirica, povero
di figure retoriche, asciutto anche quando è diffuso. Il linguaggio di un referto,
preciso, meticoloso. Il vero uomo che guarda è lo stesso Moravia, interessato
a tutto e distaccato da tutto, attento anche alle cose in apparenza meno
significanti, scrupoloso e minuzioso annotatore del reale. Che acquista una
saldezza tangibile, fisica, materiale, anche quando si tratta di stati d’animo o
di pensieri. E’ a questo linguaggio che corrisponde perfettamente la
definizione di Luigi Baldacci, quando ha parlato di un “meraviglioso stile di
plastica”28.
Tutto ciò non significa che il ‘terzo’ Moravia sia poco interessante,
significa che in questo scrittore vi è stato un mutamento profondo sia della
cultura sia delle tecniche e che, pur continuando a distinguere i risultati,
sarebbe incongruo cercare di sovrapporre il ‘terzo’ al ‘primo’ e trarne come
conseguenza esclusivamente giudizi di valore. Conviene, semmai, notare il
paradosso per il quale Moravia, che, in un primo momento, ha aperto la strada
a Sartre, in un secondo momento segue, o sembra seguire, per certi aspetti, la
strada percorsa da Sartre. Conviene anche tener conto di un’osservazione di
Gianfranco Contini, il quale, definito Moravia “un illuminista”, ricorda che
“la narrativa di molti settecentisti fu prevalentemente «di testa»”.
8. Ritornando alla Vita interiore, occorre riconoscere che l’opera merita
attenzione per almeno due motivi. In primo luogo, essa contiene un catalogo
completo (e narrativamente forse non sempre giustificabile) dei vari atti
sessuali, dalla masturbazione al coito orale alla sodomia. Nonostante la fama
immeritatamente acquisita di narratore “pornografico”, Moravia è sempre
stato, se così si può dire, prudente e discreto nella selezione e nella
descrizione degli atti erotici, e questa nostra indagine tenta di mostrare come
l’eros abbia in lui motivazioni che vanno ben oltre l’azione sessuale
banalmente intesa. L’attività erotica, insomma, nel Moravia più persuasivo, è
sempre culturalmente e narrativamente giustificata, radicata in una visione del
mondo nuova e originale. In La vita interiore ogni prudenza e discrezione
vengono meno, ma soprattutto vengono meno le ragioni profonde di
un’indagine dell’eros, lasciando il luogo a esibizioni non del tutto motivate e
quasi dozzinali. Tranne che per un punto, invero capitale (e siamo così al
secondo motivo).
Abbiamo visto come, in Moravia, vi sia una particolare ‘generazione’
dell’uomo da parte della donna, e come tale ‘generazione’ sia rappresentata
28
L. Baldacci, Novecento passato remoto, Rizzoli, Milano, 2000, p.14.
236
FAUSTO CURI
tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista simbolico. Ciò che a
volte accade è che l’uomo desidera ‘ritornare’ nel corpo della donna, anche se
essa non è la madre, ‘bussa’ al corpo della donna, alla sua matrice. L’atto non
è soltanto erotico, o non è affatto erotico, simboleggia la funzione materna,
procreativa, generativa della donna, o meglio del corpo della donna, della
donna come corpo. Ma simboleggia anche il contrario, il desiderio di una fuga
dalla vita, un bisogno di regressione, di ritorno al nulla prenatale. Quello che
non è meno interessante è che, anche in questo caso, protagonista è il corpo
della donna, la donna come corpo, senza la quale, come non è possibile la
nascita, e la rinascita, così è impossibile la regressione al nulla. Il destino
dell’uomo è, in qualsiasi occasione, nelle mani della donna, o meglio è nel suo
grembo, che può generare la vita così come, sia pure simbolicamente, può
spegnerla.
Desideria: Ho capito che lui gemeva come chi si trova esposto al freddo, alla
paura, allo sconforto e alla solitudine e bussa a una porta e non gli viene
aperto. Lui voleva penetrare dentro di me, non già alla maniera dell’amante,
ma come penetrerebbe o meglio rientrerebbe, se questo fosse possibile, un
infante appena nato che si rifiutasse di vivere e volesse tornare di nuovo
dentro il ventre materno e regredirvi a ritroso, per tutta la serie delle
trasformazioni attraverso le quali è passato prima di nascere, fino a ridivenire
embrione, germe, nulla. [...] Improvvisamente il mio sesso si sarebbe aperto
abbastanza per permettergli di introdursi nel mio ventre e lui vi avrebbe fatto a
ritroso, per trasformazioni successive, verso il buio e il nulla, lo stesso
cammino che aveva seguito per venire alla luce.
Forse il passo non ha l’intensità espressiva di quello relativo alla ‘rinascita’
di Luca nel corpo dell’infermiera, ma è certo uno dei più efficaci e
memorabili di Moravia. Memorabile, in particolare, l’insistenza sul “nulla”,
specie in quanto è propria di uno scrittore che, pur senza mai aprirsi alla
serenità e alla gioia, si sofferma tanto spesso e con così vigile attenzione sulla
vitalità corporale degli esseri umani. Né il tema del “nulla” può apparirci
estraneo a Moravia o stravagante. Non si dimentichi, infatti, che, nella
Disubbidienza, pur in una chiave non altrettanto cupa e drammatica, anzi, in
una condizione di “sollievo”, e nella luce, appunto, della ‘rinascita’, accade
qualcosa di simile a ciò che accade nella Vita interiore. Luca
Ricordò che al momento dell’amplesso, egli aveva provato ad un tratto il
desiderio forte di entrare tutto intero nel ventre della donna e rannicchiarsi in
quelle tenebre calde e ricche con tutto il corpo, come vi si era rannicchiato
prima di nascere. Ma ora capiva che quelle viscere altro non erano che le
viscere stesse della vita [...] Sì, concluse, la vita doveva proprio essere questo;
non il cielo, la terra, il mare, gli uomini e le loro sistemazioni, bensì una
237
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
caverna buia e stillante di carne materna e amorosa, in cui egli entrava
fiducioso, sicuro che vi sarebbe stato protetto come era stato protetto da sua
madre finché ella l’aveva portato in seno. La vita era essere sprofondati in
questa carne e sentirne l’oscurità, il risucchio e lo spasimo come cose
benefiche e vitali. Improvvisamente, comprese il significato del sollievo che
l’aveva rinfrescato mentre l’infermiera lo schiacciava nel suo abbraccio.
Ma non si dimentichi, soprattutto, che, alla ‘rinascita’, Luca giunge dopo
aver desiderato e sfiorato la morte:
Pur nel torpore della malattia, il suo desiderio di morte gli appariva semmai
quale gli era apparso ogni volta che ci aveva pensato con chiarezza e
determinazione: come un sacrificio necessario, conclusione inevitabile di una
serie di altri sacrifici minori. Questo sacrificio gli riusciva amaro, ma non era
l’amarezza che ispira una sorte ingiusta, bensì quella di chi si sente debole e
solo di fronte a un compito schiacciante e sa che potrà assolverlo soltanto a
caro prezzo: un’amarezza ineffabile, mescolata da non sapeva che gioia, quasi
che con la morte egli sapesse di raggiungere un fine che aveva perseguito tutta
la vita. Che fosse questo fine, non avrebbe saputo dirlo; ma sapeva di certo
che era un fatto d’amore; se non altro perché lo spingeva a odiare così
fortemente.
Chi parla, è vero, è un ragazzo quindicenne, per di più immerso “nel torpore
della malattia”: ma a nessun lettore, se già non lo conoscesse, sarebbe facile
immaginare un personaggio moraviano così candidamente dedito a un’etica
del “sacrificio” spinta fino alla “morte”. Tanto più che in Luca nasce
per la prima volta l’idea della morte come di un’operazione magica che gli
avrebbe permesso di creare un mondo meno assurdo, più amabile e più
intimo, in cui ogni cosa fosse giustificata dall’amore. Egli comprese che
doveva, non tanto a se stesso quanto alla realtà fuori di sé, di morire per darle
un ordine e renderla viva.
“Un sacrificio necessario”,“un mondo [...] in cui ogni cosa fosse giustificata
dall’amore”: siamo sicuri che chi così si esprime è un adolescente in delirio e
che alla sua voce non si sovrapponga o con essa non si fonda invece la voce
dell’autore del saggio intitolato L’uomo come fine?
Comunque sia, non solo, dunque, la morte non è estranea a Moravia, ma
essa è spesso presente al suo pensiero non tanto in quanto morte, cessazione
totale della vita, letale stato definitivo, ma in quanto simbolicamente
corrisponde o precede una condizione diversa, che può essere soltanto
un’uscita liberatoria dalla vita nel “nulla”, ma può essere anche una “nuova
nascita”. In entrambi i casi, si capisce, la trascendenza è esclusa, tutto avviene
nel corpo della donna e grazie al corpo della donna. Conviene osservare anche
238
FAUSTO CURI
che nessuno scrittore come Moravia è mai stato tanto profondamente
affascinato, o, meglio, tanto organicamente legato, quasi da un cordone
ombelicale, al tema del ritorno nel grembo femminile, che, in lui, non è
soltanto un tema letterario ma si configura come una vera e propria esigenza
biologico-psicologica, da delegare, ma con rispetto e simpatia, alle indagini di
un esperto psicoanalista.
9. Che la donna come corpo, oltre ad essere datrice di vita, sia anche in
grado di provocare l’annullamento dell’uomo è un tema che Moravia tratta in
due modi diversi nella Vita interiore. Per un verso è Erostrato che ‘bussa’ alla
vagina di Desideria nel vano tentativo di penetrarvi con tutto il corpo e
ritornare allo stadio prenatale; per un altro verso è la stessa Desideria che,
accanendosi con la bocca sul sesso di Giorgio, tenta di ‘castrarlo’, di esaurirne
le energie, insomma di annullarlo:
...Ho capito che per me l’amore orale non era un surrogato dell’amore
normale, ma qualche cos’altro [...] Una maniera spiccia e rapida di servirmi
della bocca per liberarmi di Giorgio, spegnendo il suo desiderio, castrandolo.
[...] Ho aspettato, immobile e con la bocca colma di seme, che i sussulti
dell’orgasmo si fossero esauriti, poi ho sentito distintamente che il membro
non era più così gonfio né così lungo ma stava afflosciandosi e accorciandosi
e allora, con mia sorpresa, mi sono accorta di provare per la prima volta una
specie di oscuro compiacimento. [...] Ho guardato di sotto in su a Giorgio,
l’ho visto disfatto, abbandonato indietro sul sedile, pallido, esausto, molle e
sgonfiato, come il suo pene, con la bocca semiaperta e gli occhi socchiusi; e
dalla gioia improvvisa che ho provato vedendolo così distrutto, ho capito
finalmente che, per me almeno, il vero piacere dell’amore consisteva nello
spiarne l’effetto castratorio nella persona del mio amante.
Il risultato veramente ammirevole che Moravia consegue in queste pagine
della Vita interiore sta principalmente in ciò, che una rappresentazione tutta
simbolica è raggiunta attraverso un insistito indugio descrittivo sul sesso
maschile e sul sesso femminile, ossia sugli aspetti più carnali dell’eros. Da un
lato la bocca della donna diventa una cosa stessa con la sua vagina, con la
differenza però che mentre la vagina può dare sia la vita sia la morte, la bocca
inculca soltanto la morte; dall’altro lato lo sperma maschile è deprivato di
ogni capacità generativa e ridotto a “una grossa bolla di seme caldo e
vischioso” che alla bocca della donna è solo possibile sputare. Non esiste
piacere sessuale per la donna, tranne quello sadico di annullare con il proprio
corpo l’uomo, o di vederlo schiavo inerte di quel corpo. Quanto al piacere
dell’uomo, esso sussiste solo come breve voluttà fisica e solo a patto di
accettare l’umiliazione e lo svilimento della propria virilità. Il possesso,
sessuale e psichico, è trasferito dal maschio alla donna. Ed è possesso
assoluto, incondizionato, è dominazione.
239
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
10. Il tema della regressione è trattato da Freud in diverse sue opere. L’opera
che probabilmente ha colpito e influenzato il Moravia di certe pagine della
Vita interiore è però Al di là del principio di piacere, dove la regressione ha
un significato non psicologico ma filogenetico, riguarda, cioè, se così si può
dire, la preistoria fisiologica o meglio organica dell’umanità. Il libro manca di
solide basi scientifiche, giacché Freud vi procede per induzione, per ipotesi
sperimentalmente non verificabili, ma ha indubbiamente un suo fascino. Si
chiede Freud:
... Che tipo di connessione esiste fra la pulsionalità e la coazione a ripetere?
A questo punto ci si impone l’ipotesi di esserci messi sulle tracce di una
proprietà universale delle pulsioni, e forse della vita organica in generale [...]
Una pulsione sarebbe dunque una spinta, insita nell’organismo vivente, a
ripristinare uno stato precedente al quale quest’essere vivente ha dovuto
rinunciare sotto l’influsso di forze perturbatrici provenienti dall’esterno [...]
Supposto dunque che tutte le pulsioni organiche siano conservatrici, siano
state acquisite storicamente e tendano alla regressione, alla restaurazione di
uno stato di cose precedente, i fenomeni dello sviluppo organico dovranno
essere ascritti all’influenza perturbatrice e deviante di fattori esterni. [...] In un
certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata
dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota. [...] La
tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una
sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima
pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato29.
D’altro canto non è difficile individuare nel comportamento di Desideria nei
confronti di Giorgio un tratto manifestamente sadico. Discorrendo di
“organizzazioni della vita sessuale” che egli chiama “pregenitali”, Freud, in
Tre saggi sulla teoria sessuale, segnala una prima fase, “che è quella orale o,
se vogliamo, cannibalesca”:
L’attività sessuale in questa fase non è ancora separata dall’assunzione di
cibo, gli elementi antagonistici in seno a tale attività non sono ancora
differenziati. L’oggetto di un’attività è anche quello dell’altra, la meta
sessuale consiste nell’incorporazione dell’oggetto...30
Non meno interessante ciò che egli aggiunge in Al di là del principi di
piacere:
29
Freud, Al di là del principio di piacere cit., in Opere IX cit., pp. 222, 224.
Id., Tre saggi sulla teoria sessuale cit., in Opere IV cit., p. 506.
240
30
FAUSTO CURI
Abbiamo sempre riconosciuto la presenza di una componente sadica nella
pulsione sessuale; come sappiamo, essa può rendersi autonoma e, sotto forma
di perversione, dominare tutti gli impulsi sessuali di un individuo. Essa
compare anche, come pulsione parziale dominante, in una di quelle che ho
chiamato “organizzazioni pregenitali”. [...] Il sadismo entra al servizio della
funzione sessuale nel modo seguente: nella fase orale di organizzazione della
libido l’impossessamento erotico coincide ancora con l’annientamento
dell’oggetto...31
V
1.A volte è bene trattare certe ovvietà come se non fossero ovvietà. Si
guadagna in chiarezza. Potrà non persuadere le femministe più rigorose, ma
che la donna esista spesso solo come corpo, e non esista come intelligenza e
come cultura, nell’universo moraviano non dice nulla contro la donna. Una
volta accertato che la vera ricchezza della donna è nel suo corpo, anche se,
secondo il canone dell’etica borghese, l’uso che ella ne fa o è costretta a farne
non è sempre benefico o commendevole, dotarla anche di intelligenza e di
cultura potrebbe equivalere a stravolgere il senso di quella ricchezza. Che è
ricchezza di natura e che non di rado consente alla donna-come-corpo di
bastare a se stessa. Esemplare, in questo senso, è, come vedremo, la Cecilia
della Noia, la quale, grazie al proprio corpo, e al sesso, diversamente dal
protagonista maschile Dino, alla “noia” si sottrae. Ciò è tanto vero che anche
personaggi intellettuali come la Carla degli Indifferenti e la Desideria della
Vita interiore sono donne il cui corpo ha un’importanza determinante nella
loro esistenza. D’altro canto, posto che la principale funzione della narrativa
moraviana è funzione critica e satirica, ne deriva che qualunque intellettuale,
uomo o donna (con l’unica eccezione di Michele della Ciociara) non può che
essere un personaggio solo parzialmente positivo.
E’ vero, Agostino è psichicamente e intellettualmente più complesso e più
ricco di sua madre, Luca lo è più dell’infermiera e della governante, Mino di
Adriana, Michele di Cesira e di Rosetta, Dino di Cecilia. Ma della schiera di
personaggi maschili abominevoli o mediocri, a partire da Leo degli
Indifferenti, passando per l’Astarita della Romana, per finire con Erostrato e
Giorgio della Vita interiore, non è facile tenere il conto. E’ anche vero che
Adriana della Romana e Cesira della Ciociara, per tacere ora d’altro, hanno
una relativa concretezze e una relativa coerenza psichiche, che sono però
guastate da quel linguaggio bastardo, fra di finta popolana e di raffinato
scrittore. Come la rilevanza del sesso in Moravia è indirettamente rivolta a
contrastare l’ipocrisia e il conformismo borghese, così la rilevanza del corpo
femminile tende a contrastare la spiritualizzazione banale della donna. Tutto si
31
Id., Al di là del principio di piacere cit.,in Opere IX cit., p. 239.
241
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
tiene. E comunque, se alcuni personaggi maschili, a partire dal Leo degli
Indifferenti, sono maschilisti, occorre riconoscere che non vi è traccia di
maschilismo d’autore nella narrativa moraviana. Tranne che non si scambi per
maschilismo l’attribuire a certi personaggi maschili una più cruda
tormentosità, o una minore rassegnazione, di quelle di cui sono in genere
portatrici le donne. Le quali – non si fa fatica a riconoscerlo -, esistendo
prevalentemente come corpo, avvertono di necessità meno profondamente (il
che non significa superficialmente) i disagi che con il corpo non sono
connessi.
Le anime belle si rassegnino. A un nichilista come Moravia non si può
chiedere ciò che il suo nichilismo non può concedere. Anzi, conviene
riconoscere che è per merito della donna che quel nichilismo a volte si attenua
o viene meno. L’antifemminismo femminista di Moravia sta tutto nel ridurre
la donna al suo corpo e al tempo stesso nell’esaltare quel corpo e la sua
funzione erotica e generativa come forse nessuno scrittore ha mai fatto. Per
questo si parlava prima di rilievo culturale e critico dell’opera moraviana. Già
col mettere in luce l’importanza fondamentale della donna come corpo
quell’opera esprime un’inedita visione del mondo e non soltanto una
particolare idea della donna. Il corpo della donna moraviana è principalmente
un corpo erotico ma non è soltanto un corpo erotico. O meglio: in alcuni casi
esemplari la rilevanza erotica del corpo della donna moraviana ‘maschera’ la
rilevanza della funzione capitale che quel corpo esercita, la quale, al di là dei
pur ovviamente fondamentali aspetti biologici e fisiologici, è funzione
generativa, maternale, maieutica. Meglio ancora: il corpo della donna è un
corpo erotico in un senso non lontano da quello in cui Freud parla di Eros: il
quale ha come fine di “complicare la vita, allo scopo naturalmente di
conservarla32” e come meta di “stabilire unità sempre più vaste e tenerle in
vita: unire insieme, dunque33”. Non per nulla Eros corrisponde a quelle che
sempre Freud chiama “pulsioni di vita” (Lebenstriebe).
2. Come mostra La vita interiore, la visione del mondo di Moravia non
sarebbe però una visione completa, critica e realistica se non comprendesse
anche altri aspetti della funzione del corpo femminile. Che, oltre che funzione
generativa, non è anche, in sé, funzione negativa, nichilistica, ma si lega
necessariamente a ciò che di negativo e nichilistico è nella concezione del
mondo moraviana. In altre parole: essendo, per Moravia, la donna, o meglio la
donna come corpo, un essere che sia biologicamente sia psicologicamente è al
centro della vita umana e ne dispone quasi sempre con quasi assoluta libertà o,
almeno, esercitando un ruolo determinante, che è determinante anche quando
è passivo, tutto ciò che accade di rilevante in quella vita, non esclusi gli atti
che sono precisamente il contrario della creazione e dell’Eros freudianamente
32
33
Ivi, p. 502.
Freud, Compendio di psicoanalisi cit., in Opere XI cit., p. 575.
242
FAUSTO CURI
inteso, non può non trovare nella donna una non negligibile protagonista. Vita
e morte degli essere umani passano per il corpo di lei, hanno in esso,
qualunque cosa accada, uno strumento ‘creatore’. Perché anche la morte, se
non è naturale ma viene inculcata, è il risultato di un’azione, è, insomma,
‘creazione’.
3. E’ ormai evidente che il sesso in Moravia ha una funzione praticosimbolica. E’, il suo, il sesso quale normalmente lo si intende e lo si esercita,
strumento di massimo piacere di cui l’uomo è alla continua ricerca e che nel
corpo della donna e negli atti di quel corpo trova il suo maggiore se non
l’esclusivo mezzo di attuazione. E già la diffusa, ubiqua presenza del sesso
come manifestazione corporale, come imprescindibile adempimento e
espressione del desiderio carnale distingue Moravia da quasi tutti gli altri
narratori, italiani e stranieri, nei quali il sesso o non compare o compare in
forme sublimate. Quando si parla di “realismo” moraviano converrebbe
concedere senza contrasto che esso non consiste soltanto nella descrizione
dell’esercizio del sesso, precisando però che partecipa, senza che lo scrittore
ne sia sempre consapevole, di una serie paradigmatica di posizioni
‘realistiche’, che ci piacerebbe poter riassumere non in un florilegio ma in una
sorta di breve epitome. A iniziare, si capisce, da Sade, che sosteneva che
compito del narratore è “farci vedere l’uomo non soltanto quale è o quale si
mostra, [...] ma quale esso può essere, quale devono renderlo le modificazioni
del vizio e tutte le scosse delle passioni”. Passando per il Leopardi di certe
pagine dello Zibaldone, sulle quali molti benemeriti studiosi preferiscono
sorvolare, come quella, per limitarsi a un solo esempio, in cui troviamo scritto
:
Sebbene l’uomo desidera sempre un piacere infinito, egli desidera però un
piacere materiale e sensibile, quantunque quella infinità, o indefinizione ci
faccia velo per credere che si tratti di qualche cosa spirituale34.
O quest’altra, nella quale, mentre condanna i “progressi della ragione e della
civiltà”, è costretto a riconoscere che
Quando ognuno è bene illuminato in vece dei diletti e dei beni vani come
sono la gloria l’amor della patria la libertà ec. ec. cerca i solidi cioè i piaceri
carnali osceni ec. in somma terrestri, cerca l’utile suo proprio...35
34
G. Leopardi, Zibaldone, p. 1025.
Ivi, pp. 21-22. L’affermazione è realistica e insieme utopica, giacché il
giovane Leopardi, pur sapendolo impossibile, aspira a un ritorno dei “beni
vani”. “Bene illuminato” è, ovviamente, sarcastico.
243
35
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
Senza trascurare il giovane Marx che, esprimendosi in termini ancora
hegeliani, nel 1843 fa notare a Ruge che
La riforma della coscienza consiste soltanto nel fatto che si fa conoscere al
mondo la sua coscienza, che lo si ridesta dai sogni su se stesso, che gli si
spiegano le sue proprie azioni36;
ma soprattutto il Marx ben più maturo di Per la critica della filosofia del
diritto di Hegel. Introduzione, il quale afferma:
La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione, è la
necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni 37.
Non dimenticando, però, né l’Artaud di Le théatre et la culture:
La cosa più urgente non mi sembrava tanto difendere una cultura la cui
esistenza non ha mai salvato un uomo dalla preoccupazione di vivere meglio e
di aver fame, quanto di estrarre da ciò che si chiama la cultura delle idee la cui
forza vivente è identica a quella della fame38;
né il Brecht degli scritti sul realismo, sul quale, sebbene le Vispe Terese e le
Carmelitane Scalze della letteratura italiana odierna si illudano di essersi
liberate di lui (ammesso che lo abbiano mai letto), conviene ancora molto
riflettere, a noi per primi, dal momento che egli afferma, fra l’altro, che “Per
un realista i bisogni fisici sono di importanza capitale”39:
Scrivere in maniera realistica non è una questione di forma. Tutti gli
elementi formali che ci impediscono di giungere al fondo della causalità
sociale debbono venire eliminati; tutti gli elementi formali che ci aiutano a
giungere al fondo della causalità sociale, debbono venire chiamati a raccolta.
[...] Il realismo non è una faccenda che riguardi soltanto la letteartura, è
un’importante faccenda politica, filosofica, pratica e deve essere trattato e
spiegato appunto come una faccenda importante che riguarda tutti gli
uomini40;
36
K. Marx, Opere complete, III, Roma, Editori Riuniti, 1976, p.157.
Id., Opere scelte, Roma, Editori Riuniti 1966, p. 58.
38
A. Artaud, Le théâtre et son double, Paris, Gallimard 1964, p. 9.
39
B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, Einaudi 1973, p. 236.
40
Ivi, pp. 172, 185.
244
37
FAUSTO CURI
né il Benjamin che, commentando Il volo di Lindberg dello stesso Brecht,
ammonisce: “Stretti alla stretta realtà, è la parola d’ordine”41.
Per finire con Sanguineti, che nelle sue poesie rappresenta assai
efficacemente “gli stati d’animo del corpo (in lotta / contro gli stati d’animo
dell’anima)”42.
Si dirà che non sono quelli elencati i ‘referenti’ di Moravia. Infatti. Quando
si escludano Sade e Marx, gli autori e i testi citati non sono i ‘referenti’ di
Moravia, costituiscono un insieme assai vario di visioni del mondo che hanno
in comune la specola e la prassi realistica e con le quali potrebbe tornare utile,
un giorno, mettere a confronto la visione moraviana. Accontentiamoci, per
ora, di poche osservazioni preliminari. Potrà sembrare strano o paradossale,
ma a distinguere il realismo di Moravia sta, in primo luogo, una fondamentale
componente simbolica o metaforica. Che non solo non infirma o deforma quel
realismo, ma lo complica e lo arricchisce. Abbiamo visto ciò che accade in
alcuni testi esemplari, quali La disubbidienza e La vita interiore. Esaminiamo
ora, prima di concludere un’analisi al tempo stesso troppo estesa e troppo
lacunosa, un romanzo come La noia, del 1960, con il quale si è soliti far
iniziare la “terza fase”, o il “terzo tempo”, della narrativa dell’autore degli
Indifferenti. Che cosa precisamente sia la “noia”, ci informa lo stesso Moravia
nel Prologo del libro:
La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza
o scarsità della realtà. [...] Il sentimento della noia nasce in me da quello
dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di
persuadermi della propria effettiva esistenza. [...] La noia [...] in fin dei conti,
è giunto il momento di dirlo, non è che incomunicabilità e incapacità di
uscirne. [...] Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la
consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale
miracolo.
La “noia”, dunque, non è l’”indifferenza”, ma è pur sempre una condizione
di inadeguatezza dell’essere umano all’esistenza, un’incapacità o
un’impossibilità di vita piena e autentica. Né si può dire che la “noia” sia la
“nausea” di Sartre, alla quale assomiglia soltanto perché entrambe hanno la
loro radice nell’assurdità dell’esistenza. La “noia”, anzi, è il contrario della
“nausea”: essa, come spiega Moravia, è infatti “una specie di insufficienza o
inadeguatezza o scarsità della realtà”; la “nausea”, al contrario, è provocata da
una sovrabbondanza di “esistenza”, o meglio di “esistenze”, che
aggrediscono, sommergono, soffocano il soggetto senza che egli riesca ad
41
W. Benjamin, Dal Commentario brechtiano, in Avanguardia e rivoluzione,
Torino, Einaudi 1973, p. 179.
42
E. Sanguineti, Reisebilder 23, in Segnalibro, Milano 1982, p.127.
245
ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
attribuire loro un senso e quindi a includerle in un ordine. Al centro della
Nausea di Sartre, che esce in Francia nel 1938, è un’incessante interrogazione
intorno all’”esistenza”. Dapprima il protagonista-narratore riesce a
comprenderla e a definirla solo sommariamente, o, meglio, negativamente:
Se mi avessero domandato che cos’era l’esistenza, avrei risposto in buona
fede che no era niente, semplicemente una forma vuota che veniva ad
aggiungersi alle cose dal di fuori, senza nulla cambiare alla loro natura. E poi,
ecco: d’un tratto, era lì, chiaro come il giorno: l’esistenza s’era
improvvisamente svelata. Aveva perduto il suo aspetto inoffensivo di
categoria astratta, era la materia stessa delle cose, quella radice era impastata
nell’esistenza. O piuttosto, la radice, le cancellate del giardino, la panchina, la
rada erbetta del prato, tutto era scomparso; la diversità delle cose e la loro
individualità non erano che apparenza, una vernice. Questa vernice s’era
dissolta, restavano delle masse mostruose e molli in disordine – nude, d’una
spaventosa e oscena nudità.
Poi però la sua intelligenza si fa più chiara, più netta, ma, con la scoperta
che l’esistenza non è necessaria, è soltanto contingente, nasce la “Nausea”:
... Comprendevo la Nausea, ora, la possedevo [...] L’essenziale è la
contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità.
Esistere è esser lì, semplicemente; gli esistenti appaiono, si lasciano
incontrare, ma non li si può mai dedurre. [...] Orbene, non c’è alcun essere
necessario che può spiegare l’esistenza: la contingenza non è una falsa
sembianza, un’apparenza che si può dissipare; è l’assoluto, e per conseguenza
la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E
quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a
fluttuare [...] ecco la Nausea...
Le citazioni potrebbero essere più numerose, ma non farebbero che
confermare che, al di là della distanza che separa la “noia” dalla “nausea”, il
rapporto Moravia-Sartre, o, se si preferisce, Sartre-Moravia, si fonda su
alcune innegabili affinità, ma soprattutto su alcune profonde differenze.
Romanzo ‘filosofico’ La Nausea, povero di eventi quanto è ricco di
introspezioni, di analisi, di succinte ma dense elaborazioni teoriche; romanzo,
La Noia, in cui la prevalente fattualità si integra e si alimenta continuamente
delle assillanti riflessioni e degli abbozzi di ipotesi del protagonista. Ma poi: si
può ammettere, o forse è giusto riconoscere, che Moravia, con Gli Indifferenti,
ha inaugurato quello che viene chiamato l’esistenzialismo in letteratura; si
dimentica però, di solito, di aggiungere, ed è dimenticanza non veniale, che il
pensiero di Sartre, filosofo e narratore, è nutrito di fenomenologia prima che
di esistenzialismo, mentre la narrativa moraviana, e non suoni come un
246
FAUSTO CURI
rimprovero, è del tutto estranea alla fenomenologia. Tutto chiaro, dunque?
Non precisamente: a parte l’esigenza di analisi approfondite, impossibili in
questa sede, sussistono alcuni dubbi, non agevoli da risolvere, anche se da
assumere, posto che abbiano qualche fondamento, non più che come piccoli
segnali. In una pagina della Nausea leggiamo:
E’ dunque questa, la Nausea: quest’accecante evidenza? Quanto mi ci sono
lambiccato il cervello! Quanto ne ho scritto! Ed ora lo so: io esisto – il mondo
esiste – ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto. Ma mi è indifferente. E’
strano che tutto mi sia ugualmente indifferente: è una cosa che mi spaventa.
[...] Faccio dunque paura, in questo momento? Doveva pur finire così.
D’altronde m’è indifferente43.
Questa scoperta che tutto è “indifferente” è una coincidenza casuale, o è
l’esplicitazione non casuale di una condizione che Moravia aveva scoperto
molti anni prima? Se, d’altro canto, di Sartre apriamo Il muro, uscito in
Francia nel 1939, non abbiamo che da scorrere l’indice per accorgerci che uno
dei racconti che compongono il libro si intitola Erostrato , che non è il nome
del protagonista ma il soprannome che gli viene imposto in quanto egli
ricorda il personaggio greco che, per rendersi famoso, bruciò il tempio di
Efeso. Sarà una casuale coincidenza, ma Erostrato è non il nome ma il
soprannome che, nella Vita interiore, Desideria sceglie per uno dei suoi
amanti, senza che peraltro sussistano le motivazioni ‘culturali’ che hanno
portato Sartre alla sua scelta.
Ritorniamo alla Noia moraviana. Dalla “noia” sono affetti, ma in modo
diverso, i due protagonisti del romanzo, Dino e Cecilia. La diciassettenne
Cecilia – una delle figure femminili, ha ragione Sanguineti, fra le
indimenticabili create da Moravia – è colpita dalla noia senza però soffrirne,
accetta la noia come se si trattasse di una condizione normale, senza essere
consapevole del carattere anomalo, patologico dello stato in cui è gettata.
Dino, per contro, patisce tormentosamente la noia, che impedisce a lui uomo
di toccare, raggiungere la realtà, di comunicare davvero con gli altri esseri
umani, e a lui pittore di esercitare la propria arte. Neppure quando la noia si
trasforma in gelosia sempre più acerba dell’amante desiderata, Cecilia, egli
riesce a sfuggire alla noia.
Che ne è del sesso? In molte pagine Moravia ne propone la nozione che
comunemente se ne ha, o meglio l’immagine di due amanti insaziabili intenti
a rapporti erotici sempre più focosi. A ben guardare, però, ci si rende conto
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J.-P. Sarte, La Nausea,Torino, Einaudi 1990, p.166.
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ALBERTO MORAVIA E LA FILOSOFIA EUROPEA
che l’interesse del narratore va oltre quell’immagine e che, attraverso di essa,
egli ci propone due diverse, anzi opposte concezioni del sesso. Senza che ella
se ne renda conto, giacché a lei la noia non incute sofferenza, e dunque non
prova il bisogno di liberarsene, per Cecilia l’attività sessuale costituisce il solo
momento in cui diventa consapevole di sé e del mondo. Cecilia conosce
concretamente la realtà attraverso il sesso, e solo attraverso il sesso. Il sesso,
per Cecilia, è, certo, desiderio, piacere, voluttà, ma è soprattutto conoscenza.
Che poi ella confonda la conoscenza con il piacere, non conta, ciò che conta è
che, assaporando la voluttà, ella si libera dalla noia, cioè dall’estraneità al
mondo, diventa veramente partecipe della vita. Il corpo nudo di Cecilia è una
delle immagini più vitali fra quelle create da Moravia, ma la vera, suprema
vitalità di quel corpo è nel sesso sempre avido di lei, che, nel coito, rinnova la
voluttà, e quindi la conoscenza, il contatto rigenerante con le cose. L’avidità
di Cecilia, però, investe soltanto la sfera sessuale. Per quanto riguarda il resto
della realtà, Cecilia, prigioniera com’è della “noia”, è del tutto apatica,
indifferente, non è interessata neppure al danaro. Estranea ai fatti e alle cose in
mezzo a cui vive, e che accetta con tranquilla passività, Cecilia, se Dino non
la assillasse con le sue domande, se ne starebbe in un quasi perfetto silenzio,
limitandosi a proferire le parole necessarie, singolare monaca devota all’eros.
Il fascino del personaggio deriva in larga misura da questa mescolanza, e da
questo contrasto, di avidità sessuale e di indifferenza esistenziale, di dedizione
carnale e di astinenza linguistica. E sarebbe incongruo sostenere che Cecilia è
già nella Carla degli Indifferenti, anche se l’indifferenza è presente in
entrambe. Conviene piuttosto osservare che, creando il personaggio di Cecilia,
Moravia ha per così dire riassunto in lei altri suoi personaggi femminili,
conferendole però un tratto distintivo nuovo e fondamentale, che è appunto la
“noia” congiunta con la passione carnale. Si aggiunga che, poiché, per Dino,
Cecilia è “la realtà” (“Cecilia, ossia la realtà”, egli afferma), sia pure
attraverso la percezione del protagonista del romanzo è il reale nella sua
interezza ad essere contaminato dalla “noia”.
Leggiamo una delle pagine che più efficacemente rappresentano Cecilia:
Dopo l’orgasmo che le scuoteva più volte il corpo come una piccola crisi
epilettica ma non turbava l’immobilità apatica del volto, Cecilia giaceva
esausta sotto di me, un braccio ripiegato intorno la testa e l’altro abbandonato
sul divano, il volto reclinato verso la spalla e le gambe allargate, come erano
rimaste dopo l’amplesso. Per un attimo, quasi immediatamente dopo che io
ero uscito da lei, Cecilia mi sorrideva ed era forse questo il momento più bello
del nostro amore.Il sorriso, assai dolce, nel quale pareva rifluire e spegnersi la
dolcezza del desiderio appagato, non contraddiceva, però, l’infantile
ambiguità che ho già notato: pur sorridendomi, Cecilia non mi guardava o
meglio non pareva neppure vedermi; così che pareva sorridere non tanto a me
quanto a se stessa; come se fosse stata piuttosto grata a se stessa per aver
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FAUSTO CURI
provato il piacere, che a me per averglielo fatto provare. Questo sorriso, per
quanto impersonale e solitario, era, tuttavia, l’ultima fase dell’amplesso ossia
della comunicazione e quasi fusione dei nostri due corpi. Subito dopo
eravamo in due sul divano, l’uno separato dall’altro, e bisognava parlare.
A questo punto mi accorgevo, però, che all’appetito erotico, il quale, anche
se non pareva riguardarmi direttamente, si serviva tuttavia di me per
appagarsi, subentrava in lei l’indifferenza. Ma quando dico indifferenza non
voglio già designare un atteggiamento di freddezza o di distacco. No,
l’indifferenza di Cecilia verso di me, subito dopo l’amore, era semplicemente
una mancanza completa di rapporti molto simile a quella che mi faceva tanto
soffrire e che io chiamavo noia; soltanto che Cecilia, al contrario di me, non
soltanto non ne soffriva affatto, ma anche non pareva neppure esserne
consapevole. Era insomma come se lei fosse nata con quel distacco dalle cose
che a me pareva l’intollerabile modificazione di una condizione originaria ben
diversa; come se ciò che a me sembrava una specie di malattia, in lei fosse un
fatto sano e normale.
Perfetto il ritratto di Cecilia, come perfetti sono, in altri luoghi del libro,
certi ritratti del corpo di lei, così come perfetta è la rappresentazione del
passaggio della fanciulla dallo stato di beatitudine sessuale alla “noia” e
all’”indifferenza” consuete. Da notare però anche che, discorrendo di Cecilia,
Moravia trova modo di dirci qualcosa di essenziale su Dino, usando – vale la
pena segnalarlo – un linguaggio che è più quello di un antropologo, o di un
filosofo, che quello di un narratore: “l’intollerabile modificazione di una
condizione originaria”. Il sintagma “condizione originaria” è proprio, di
solito, di chi guarda l’essere umano da un punto di vista ontologico. Se,
dunque, Moravia l’adopera consapevolmente (ma è lecito nutrire dei dubbi),
sembra che egli intenda riferirsi a una sorta di ‘caduta’ filogenetica, a una
catastrofe che non ha più nulla a che vedere con la storia, e in particolare con
la modernità, e riguarda piuttosto la metafisica. Per questo la “noia” di Dino
sarebbe irredimibile, come lo è, per certi cattolici, come Baudelaire, il peccato
originale, e apparirebbe quindi incongruo vedere in essa soltanto “una specie
di malattia”. Del resto il luogo su cui ci siamo soffermati non è l’unico in cui
Moravia fa uso di un linguaggio ‘filosofico’; la frase seguente non consente
dubbi: “Io ero solo con me stesso, ossia con l’angoscia che in quel momento
era il mio unico modo di esistenza”. “Angoscia” e “esistenza” sono parole
scelte certo non casualmente, anche se forse per impulso della memoria
involontaria.
Quanto alla funzione che il sesso esercita nell’esistenza di Dino, essa è
opposta alla funzione esercitata dal sesso nell’esistenza di Cecilia. Dino è
ossessionata dall’impossibilità di possedere veramente Cecilia. Si illude che il
coito possa consentirgli una padronanza piena della fanciulla, permettendogli
quindi di liberarsi dalla “noia”, e si accanisce dunque in copule sempre più
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frequenti e sempre più violente. Ma, al di là della voluttà che congiungersi con
Cecilia gli concede, ogni volta si distacca dal corpo di lei con l’impressione
frustrante di non averla posseduta, che ella continui a sfuggirgli, imprendibile,
misteriosa, tanto più seducente quanto più sembra che quel corpo conturbante
sia chiuso in una impenetrabile “autonomia”, e che di conseguenza a
continuare a sfuggirgli siano la realtà, la vita.
Singolare diventa l’esistenza psichica di Dino quando, alla “noia”, si
aggiunge la gelosia, due condizioni che dovrebbero elidersi e che invece
coesistono o si alternano senza mai venir meno:
Provavo un dolore acuto che non mi dava requie e al tempo stesso un furore
impotente per il fatto di provare questo dolore.Capivo infatti che, fino a
quando avessi sofferto, non avrei potuto separarmi da Cecilia come tuttora
desideravo. E capivo pure che con Cecilia non potevo che annoiarmi o
soffrire: finora mi ero annoiato e avevo desiderato, di conseguenza, di
lasciarla; adesso soffrivo e sentivo che non avrei potuto lasciarla finché non
mi fossi di nuovo annoiato.
Così lo stesso Dino fa il bilancio della propria vita:
... Io sentivo che il mio amore per lei, originato dall’incapacità di possederla,
dopo avere oscillato violentemente tra la noia e il dolore, adesso andava
assumendo pian piano l’aspetto di una specie di vizio a quattro fasi
successive: tentativo di possesso diverso da quello sessuale, fallimento del
tentativo, rabbiosa e inane ricaduta nel rapporto sessuale, fallimento anche di
quest’ultimo, e quindi daccapo. Ma la cosa di cui non ero capace era di
rassegnarmi all’inafferrabilità di Cecilia...
Tirando le somme a nostra volta osserveremo che praticare il coito porta
Cecilia a liberarsi dalla “noia” e pertanto, sia pure per breve tempo, a
conoscere e a possedere la realtà; l’esercizio del sesso, pur non negandogli il
piacere, ribadisce invece in Dino la convinzione che l’attività sessuale, ben
più che un fatto inappagante e deludente, sia il simbolo di una condizione
umana connotata da una radicale inadeguatezza e da un’irredimibile
impotenza. Nelle pagine dello Zibaldone Leopardi annota che il desiderio del
piacere negli esseri umani è infinito, mentre viene consentito ad essi un
appagamento sempre limitato e finito. Questa discrasia, metafisica per
Leopardi, è ribadita da Moravia, che sembra limitarla alla sfera sessuale, ma
di fatto, pur storicizzandola, la assume in una chiave simbolica e la estende
quindi, leopardianamente, all’intera realtà. A dispetto di certe annotazioni
sospettabili di irrigidimento metafisico, La noia diventa così il romanzo che,
attraverso una duplice, inedita rappresentazione del sesso, storicizza
l’inadeguatezza dell’essere umano alla vita quale è venuta configurandosi
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FAUSTO CURI
nell’età moderna, inadeguatezza che l’attività sessuale può per un verso
riscattare, per un altro verso ribadire.
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