Omeostasi

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Omeostasi: qualsiasi processo o meccanismo che consenta la regolazione, l’equilibrio, di un
parametro. In questo caso il parametro è la glicemia. Sapete che il livello di glucosio nel sangue si
modifica in funzione dell’attività fisica, delle condizioni fisiologiche, in base all’alimentazione e al
digiuno e alle varie fasi della giornata. A regolare la glicemia ci sono prevalentemente due ormoni:
l’insulina da un lato, che è l’ormone che consente l’ingresso di glucosio nelle cellule, l’attivazione
della glicogeno sintesi, quindi la formazione delle forme di deposito dei carboidrati e così riduce la
glicemia; al contrario effetto opposto è dato dal glucagone che invece attiva la neoglucogenesi e la
glicogenolisi e rende disponibile il glucosio per l’organismo. Sapete anche che l’organismo nel suo
insieme utilizza il glucosio come fonte energetica principale e questo indipendentemente dalla
disponibilità di ossigeno, perché può utilizzarlo anche in condizioni di anaerobiosi. Il glucosio è il
substrato energetico principale per tutti i tessuti per il funzionamento delle varie cellule, ma alcuni
tessuti lo utilizzano selettivamente, come il sistema nervoso centrale. Qualora il glucosio diminuisse
o qualora non fosse disponibile per scopi energetici o non fosse sufficiente alla regolazione delle
cellule, si possono utilizzare altre fonti di substrati, in particolare gli acidi grassi e gli aminoacidi
glicogenetici, anche se hanno bisogno di una correlazione diretta con l’ossigenazione e quindi come
vedremo possono produrre, in alcuni tipi di alterazioni, un’efficienza energetica non sempre
adeguata (es. accumulo di corpi chetonici è una delle conseguenze del diabete). Circa il 6% delle
persone, almeno in Italia, risulta essere affetta da un’alterazione del metabolismo glicidico, e questo
significa fondamentalmente due tipi di patologia: da un lato l’iperglicemia, e più precisamente il
diabete mellito, dall’altro le sindromi ipoglicemiche, che hanno un’incidenza inferiore rispetto al
diabete ma che bisogna considerare soprattutto nei bambini, nei quali sono piuttosto frequenti.
Sindromi iperglicemiche
Il diabete è una patologia caratterizzata fondamentalmente da due condizioni:
- il diabete di tipo 1, cosiddetto giovanile anche se non necessariamente è giovanile, è
caratterizzato da una mancata produzione di insulina per alterazioni delle cellule beta del
pancreas o per altri motivi. È un diabete insulino dipendente, nel senso che c’è necessità di
somministrare insulina al fine di correggere questa patologia.
- il diabete di tipo 2 è il cosiddetto diabete insulino-indipendente, che non significa che la
terapia non può essere quella sostitutiva con l’insulina, ma la fisiopatologia indica una
ridotta funzione dell’insulina più che una ridotta quantità, o per l’alterazione da parte dei
recettori, o per un eccesso di recettori, o per un difetto della trasmissione dei segnali.
Esistono poi delle altre forme genetiche, come quelle mitocondriali, che hanno dei caratteri del tutto
analoghi anche se sono diverse sia dal punto di vista diagnostico che prognostico. L’omeostasi
glicidica quindi è quella condizione che si mette in funzione nell’organismo per regolare i livelli di
glicemia.
Ma quali sono i normali livelli di glicemia? La normoglicemia varia da 70 mg a 100 mg/dl. In
alcune condizioni trovate anche 110 mg/dl come limite superiore del range. La diagnosi di diabete
mellito si effettua:
 o mediante un’unica determinazione di glicemia a digiuno (dopo almeno 8h di digiuno) > o
= 200 mg/dl
 o quando ci sono in due differenti momenti di misurazioni di glicemia sempre a digiuno
valori > 125 mg/dl.
Vedremo poi che la diagnosi di diabete può essere fatta anche con altre modalità, ma
fondamentalmente si basa sempre ed esclusivamente sui livelli di glicemia. Abbiamo poi tutta una
serie di altri parametri e test che servono per altri tipi di approcci.
Vi è un range di valori tra 100 e 125 mg/dl che rappresenta una condizione non di normalità, ma
nemmeno di malattia diabetica. E questa è la forma che prende il nome di ridotta tolleranza agli
idrati di carbonio, una condizione importante da determinare, sia per il numero elevato di persone
afferente a questo tipo di gruppo, sia per la prevenzione e per la riduzione dei tempi di evoluzione
di questa forma in diabete mellito franco. Parliamo anche dei sintomi, c’è la famosa triade: poliuria,
polidipsia, polifagia, che sono tipiche del diabete anche nelle fasi iniziali e che sono una
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conseguenza dell’altra. La mancata regolazione della glicemia, cioè, porta ad una maggiore
filtrazione renale del glucosio, com’è normale essendo il glucosio una molecola piccola. Se la soglia
renale di riassorbimento del glucosio di 180 mg/dl viene superata abbiamo allora perdita di glucosio
con le urine. Questo significa aumento della ritensione idrica, poichè il glucosio è idroscopico, ha
una certa capacità di osmolarità e quindi richiama acqua.
Quindi dalla poliuria si passa alla polidipsia, perché è normale che se il soggetto perde più liquidi ha
bisogno di una maggiore reintegrazione degli stessi. Da qui deriva anche la polifagia, perché se il
soggetto perde glucosio, cioé perde sostanze energeticamente attive, è chiaro che ha bisogno di un
maggior numero di calorie per ripristinare quelle perse con le urine, quindi tende a mangiare di più.
Se questa è la triade fondamentale, accanto a questa si associano in genere anche altri sintomi, quali
astenia, facile affaticabilità e questo dipende dal fatto che il glucosio non viene utilizzato
adeguatamente a scopi energetici, cioè anche in presenza di iperglicemia le cellule non utilizzano a
pieno il glucosio a scopi energetici, quindi ecco che c’è una cattiva utilizzazione energetica di
questo substrato che abbiamo detto rappresenta comunque il substrato energetico più comodo, più
rapido, più pratico. Se questi sono i sintomi, che sono importanti anche per la diagnosi, dobbiamo
dire che la diagnosi di diabete può essere fatta anche in assenza di sintomatologia tipica: è il
cosiddetto diabete preclinico di cui parleremo per quanto riguarda i test di stimolo.
Dal punto di vista della diagnostica di laboratorio abbiamo una serie di test, che possono essere
distinti fondamentalmente in due tipi principali:
 test statici
 test dinamici
Poi abbiamo tutta un’altra serie di test, che vengono però utilizzati solo in condizioni particolari, per
stabilire dei casi dubbi ed eventualmente la patogenesi quindi la causa che ha determinato un tipo di
diabete: gli anticorpi contro le cellule insulari o la microalbuminuria che invece serve a scopi
preventivi per valutare le conseguenze del diabete, nello specifico per quanto riguarda la nefropatia
diabetica.
Test statici: sono quei test che fotografano la situazione in quel momento, cioè nel momento in cui
viene fatto il prelievo, quindi vanno a valutare alcuni parametri nelle condizioni in cui viene
effettuato il prelievo (a digiuno, a riposo, dopo pranzo, prima di pranzo e così via). Il più utilizzato
normalmente è quello di un prelievo a digiuno, dopo almeno 8 ore di digiuno.
I test dinamici invece sono quei test che vengono effettuati mediante stimolo, il che significa che
non fotografiamo la situazione così com’è al momento del prelievo, ma diamo uno stimolo
(farmacologico - assunzione del glucosio - oppure ormonale, oppure di attività fisica oppure dopo
pranzo) che mette in moto i meccanismi di regolazione della glicemia e si valuta come questi
meccanismi funzionano nel tempo e quindi le modalità con cui riportano i valori glicemici –
modificati dallo stimolo – alla situazione di partenza. Quindi servono sia a valutare
patogeneticamente sia a valutare il grado di compromissione di questi meccanismi.
Vediamo dal punto di vista dei test statici: chiaramente l’elemento principale è la glicemia. La
glicemia è il vero test che permette non solo la diagnosi, ma anche il monitoraggio del grado di
alterazione della regolazione glicemica. È un test che viene effettuato mediante una metodica
enzimatica, cioè con un enzima che utilizza il glucosio come substrato. Il prodotto della reazione di
questo enzima con il substrato glucosio verrà determinato per quantizzare il glucosio (e quindi il
substrato presente nel campione). L’enzima normalmente utilizzato è la glucosio ossidasi, cioè un
enzima capace di ossidare il glucosio ad acido gluconico, con formazione di perossido di idrogeno
(quindi acqua ossigenata), la cui attività ossidante può essere utilizzata con reazioni di natura
accoppiata oppure con la titolazione di una sostanza indicatrice che cambia colore a seconda del
grado di ossidazione: maggiore è la quantità di acqua ossigenata, più intenso sarà il colore e il
viraggio del colore di questa sostanza indicatrice. Valutando il colore mediate la spettrofluorometria
si valuta automaticamente la quantità di prodotto, che sarà ovviamente dipendente dalla quantità di
substrato, e quindi dal valore della glicemia. Quindi questo metodo enzimatico risulta essere tanto
più specifico per il glucosio, quanto pù specifica è l’attività enzimatica dell’enzima utilizzato. La
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glucosio ossidasi è un enzima che utilizza prevalentemente il glucosio per ossidarlo, ma si può
utilizzare ad esempio anche l’esochinasi, che fosforila gli esosi anche se con una grandissima
affinità per il glucosio, quindi anche questo enzima è piuttosto specifico ma potrebbe fosforilare
anche altri tipi di esosi, quindi altri zuccheri a sei atomi di carbonio. Questo per farvi capire la
specificità di un test rispetto ad una determinazione. La glicemia rappresenta il test più economico,
più semplice, più rapido ed anche più diffuso per il monitoraggio oltre che per la diagnostica delle
iper- e ipo-glicemie.
La glicosuria è lo stesso identico test che viene utilizzato per valutare la presenza di glucosio delle
urine. È effettuato con la stessa metodologia, cioè con un metodo enzimatico. Normalmente
glucosio nelle urine non dovrebbe esserci se non in piccolissima quantità (massimo 30-40 mg nelle
urine delle 24h); se c’è una quantità di glucosio nelle urine superiore a questi 30-40 mg vuol dire
che i livelli di glucosio sono alti, vuol dire che il rene non ha riassorbito tutto il glucosio e quindi
vuol dire che c’è sostanzialmente una condizione diabetica. La glicosuria in realtà adesso non viene
utilizzata a scopo diagnostico, ma soprattutto per seguire i pazienti (voi sapete che oggi i pazienti
con diabete utilizzano dei test a casa, quelle striscette su cui si applica il sangue capillare dei
polpastrelli e attraverso una reazione sempre enzimatica, sempre con l’indicatore, l’entità del colore
sarà dipendente dalla quantità di glucosio, e quindi solo per quelle persone che non sono in grado di
utilizzare questo tipo di test – anche se piuttosto semplice - si ricorre eventualmente alla glicosuria.
Questo almeno nella stragrande maggioranza dei casi, poi esistono delle variazioni anche in base
alle realtà locali e al livello culturale).
L’altro test statico che viene utilizzato è la chetonuria. Voi sapete che una delle maggiori
complicanze del diabete è il coma chetoacidosico, cioè una condizione in cui l’ inadeguata
utilizzazione del glucosio a scopo energetico, viene compensata da una beta-ossidazione degli acidi
grassi e dall’utilizzazione di altri substrati a scopi energetici. La beta-ossidazione degli acidi grassi
è quella che permette la formazione di unità bicarboniose derivate dagli acidi grassi, e quindi
formazione di acetil-coenzima A, il quale passa nel ciclo di Krebs e poi dal ciclo di Krebs è
abbinato alla fosforilazione ossidativa a livello mitocondriale, con formazione di grande quantità di
ATP. È chiaro che però l’utilizzazione di questi acetil-coenzima A dipende fondamentalmente:
1) dalla disponibilità di ossigeno a livelllo mitocondriale, perché senza fosforilazione
ossidativa gran parte dell’energia non viene ad essere prodotta
2) dalla disponibilità degli intermedi del ciclo di Krebs, perché vi ricordate il ciclo di Krebs
inizia con l’ossalato che si unisce all’acetile e dà luogo al chetoglutarato ecc. Se non c’è
disponibilità di ossalato automaticamente viene a bloccarsi questo tipo di ciclo e quindi vi è
un accumulo di acetil-coenzima A. Gli accumuli di questi bloccano a loro volta una
completa beta-ossidazione degli acidi grassi, ecco perché si formano i cosiddetti corpi
chetonici, che sono essenzialmente l’aceto acetato e il beta idrossibutirrato.
Queste due sostanze da un lato hanno un elemento positivo, cioè possono essere utilizzate a scopi
energetici alternativi al glucosio anche da parte del cervello, dall’altra però sono molecole acide e
quindi determinano una variazione del pH, e come vedremo in seguito per quanto riguarda
l’equilibrio acido-base questa è una condizione estremamente importante da regolare, altrimenti ne
va la funzione di molti organi e di molti tessuti. Quindi valutazione della chetonemia come indice
del grado o dell’entità del metabolismo energetico del soggetto e quindi tipo di compenso.
Accanto a questo poi abbiamo l’emoglobina glicosilata, che è un altro test statico dipendente dal
fatto che tutte le proteine possono reagire con i carboidrati e attraverso la formazione di una Base di
Schiff (-amino gruppo della lisina insieme al gruppo alcoolico del carboidrato) formare dei
composti. Ma dal punto di vista pratico, perché usiamo l’emoglobina glicosilata? Perché questo tipo
di reazione (cioè la glicosilazione delle proteine) avviene in assenza di enzimi specifici, sarà quindi
una reazione chimica normale che dipende dalla quantità di reagenti, ed i reagenti in questo caso
sono l’emoglobina ed il glucosio. L’emoglobina è la principale proteina del sangue, in quanto
rappresenta 13-17 g/dl, quindi è la proteina più presente, più concentrata nel sangue ed è
sostanzialmente stabile nel soggetto (a meno di perdite emorragiche). Quindi uno dei due reagenti
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in realtà è sempre fisso, e quindi non dipende dall’emoglobina il suo grado di glicosilazione, ma
dipende invece dalla variazione della glicemia, che aumenta e diminuisce in base a vari stati
fisiologici, e che può essere però più o meno aumentata - da un punto di vista della concentrazione e per un tempo più o meno ampio. Per cui, il grado di glicosilazione dell’emoglobina dipende
fondamentalmente dal grado di stabilità e quindi dai livelli glicemici medi del soggetto. Ed è
normale che se un soggetto non diabetico ha una percentuale di emoglobina glicosilata intorno al
4% (può arrivare in condizioni particolari anche al 6%), chi ha una quota di emoglobina glicosilata
superiore a 6,5 (in genere dal 7% in poi) ha una condizione che indica una modifica o un sostanziale
aumento dei livelli glicemici. In particolare poiché l’emoglobina ha una vita di circa 120 giorni
come quella dei globuli rossi, la sua emivita sarà di 60 giorni, quindi otto-nove settimane. Il valore
della glicemia degli ultimi 60 giorni è quello che determina l’aumento o la diminuzione della
quantità di emoglobina glicosilata. Quindi ricapitolando, l’emoglobina glicosilata dà indicazioni
sulla regolazione dei livelli glicemici degli ultimi 60 giorni, il che non significa che è un’indagine
retrospettiva, ma permette la valutazione soprattutto dell’effetto terapeutico. Inoltre rappresenta
anche l’obiettivo della terapia nel soggetto diabetico, in quanto il livello del 7% di emoglobina
glicosilata non dovrebbe essere superato, ma dovrebbe essere l’obiettivo di una terapia efficace ed
efficiente, perché al di sopra del 7% c’è un maggiore scompenso ma c’è soprattutto una maggiore
compromissione dei vasi del cervello e del rene.
Proteine glicate: abbiamo detto che tutte le proteine vanno incontro ad un processo di
glicosilazione, quindi la determinazione teorica di qualsiasi tipo di proteina glicosilata potrebbe
rendere questo scopo. È chiaro che si usa l’emoglobina perché è la più importante dal punto di vista
quantitativo, ma si utilizza eventualmente anche l’albumina, che è la più importante dal punto di
vista delle proteine sieriche e che, pur essendo un terzo o meno dell’emoglobina, rappresenta
comunque la proteina più abbondante nel siero - va da 3,2 a 5,5 g/dl - e rappresenta la forma di
proteina glicosilata alternativa a quella dell’emoglobina. La differenza è che ha un’emivita di circa
15 giorni, e quindi permette una valutazione a più breve termine dei livelli glicemici che vengono
ad essere monitorati. Anche questo scopo è di effetto terapeutico, eventualmente medico legale.
Se questi sono i test statici, a cui chiaramente dobbiamo abbinare tutti gli altri test statici cioè
quantità di insulina, quantità di glucagone ed eventualmente quantità di peptide C, che come voi
sapete è un corrispettivo dell’insulina, con la differenza che con esso si valuta la produzione
dell’insulina nel soggetto e quindi la capacità funzionale pancreatica a produrre insulina, e non
risente della caratteristica degli ormoni di funzionare a piccole concentrazioni su cellule bersaglio
ed essere distrutto rapidamente. Quindi l’insulinemia varia più nel tempo in base alle condizioni
fisiologiche del soggetto, mentre il peptide C non essendo metabolizzato ed essendo eliminato
attraverso le urine ci dà l’idea della quantità di insulina che viene prodotta nell’arco di una giornata
o di un certo periodo e quindi è il più fedele indice di funzionalità pancreatica, anche tenendo conto
del fatto che il peptide C può essere dosato anche sulle urine perché viene escreto come tale e
tenendo conto anche del fatto che per quanto riguarda l’insulina ci sono alcuni fattori che possono
comprometterla, ad esempio la presenza di anticorpi anti-insulina e l’insulina esogena che viene
utilizzata dal paziente diabetico.
A questi possiamo abbinare gli altri test statici che riguardano gli ormoni contro insulari, degli
ormoni tendenzialmete iperglicemizzanti, come le catecolamine, l’ormone della crescita, gli ormoni
tiroidei, i glucocorticoidi, che sono tutti elementi che possono incidere sul parametro che viene
dosato e che possono indurre o meno alterazioni dell’omeostasi glicemica e che devono essere
tenuti in conto come parametri statici per valutare il gradi di compenso che viene effettuato nel
soggetto.
Tra i test dinamici, invece, ce ne sono vari tipi: si possono stimolare mediante l’assunzione di
glucosio per via orale, può essere modificato in base alla somministrazione di alcuni ormoni o in
base alla somministrazione di alcuni farmaci o di alcuni aminoacidi, soprattutto leucina e arginina
che vanno a stimolare direttamente la gluconeogenesi, l’insulina e il glucagone a livello
pancreatico.
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Il test più utilizzato è la curva da carico glicemica: si effettua in tutti quei soggetti che hanno una
maggiore incidenza di questo tipo di patologie. Normalmente dovrebbero essere sottoposti tutti i
soggetti oltre i 45 anni, tutti i soggetti con familiarità diabetica, tutte le donne incinte (soprattutto tra
la 23esima e la 28esima settimana per la diagnosi di diabete gestazionale) e tutti gli altri soggetti
che hanno fattori di rischio cardiovascolari, compresi gli iperlipidemici e quelli con aterogenesi più
o meno diffusa. Come si effettua la curva da carico e quali indicazioni dà? Il test da carico viene
effettuato mediante un prelievo a digiuno (digiuno da almeno 8 ore. 8 ore è la condizione base per
la maggior parte dei test a digiuno, tranne un caso in cui è obbligatorio far passare 12 ore - cioè per
la valutazione dell’assetto lipidico - poiché i trigliceridi possono essere digeriti nell’arco di 12-14
ore. Quindi a parte i test per l’assetto lipidico, tutti gli altri test a digiuno normalmente fanno
riferimento a 8 ore di digiuno), si determina la glicemia a livello basale, cioè prima dello stimolo,
poi si somministrano 75 g di glucosio in un soggetto adulto, 1,75 g pro chilo nei bambini, 100g di
glucosio per le donne in gestazione. Una volta somministrato il glucosio si fanno dei prelievi ogni
30 minuti per almeno due ore. La prova può essere ulteriormente prolungata con prelievi ogni ora
dopo le due ore iniziali. Possiamo sostanzialmente ottenere dopo la curva da carico tre tipi di
risultati e quindi tre gruppi di appartenenza: soggetti normali, soggetti con ridotta tolleranza agli
idrati di carbonio, soggetti con diabete mellito preclinico. Preclinico perché in realtà in un soggetto
diabetico non si farà mai una curva da carico glicemica, escludiamo tutti i soggetti che abbiano una
glicemia basale al primo prelievo > 120-130 mg/dl, per rischio iperglicemia, coma iperglicemico e
così via. Ma ci sono soggetti diabetici che hanno una glicemia a digiuno di 100-105 mg/dl e quindi
vi potete trovare ad utilizzare per questo tipo di test anche un soggetto diabetico con la possibile
elevazione della glicemia (ecco perché comunque bisogna stare almeno al di sotto dei 120 mg/dl per
fare il test). Altri soggetti esclusi da questo test sono i soggetti gastro-resecati, perché ci può essere
la cosiddetta sindrome di dumping, cioè rapido svuotamento dello stomaco (almeno della parte che
resta) con richiamo di acqua, nausea e vomito, con o senza diarrea, con o senza shock ipovolemico
per richiamo di acqua a livello intestinale. Questo significa che un soggetto gastro resecato che
assorbe 75 g di glucosio potrebbe avere queste complicazioni e quindi rischiare la propria vita, e
quindi anche questa è una controindicazione assoluta all’utilizzo della curva da carico glicemica.
Ma dicevamo, tre popolazioni: in che modo e come distinguerle?
 Soggetti normali: il soggetto normale ovviamente assorbendo il glucosio aumenterà i livelli
di glicemia, ma aumenterà i livelli di glicemia in genere non oltre i 140 mg/ dl, massimo 160
mg/dl ed in genere in due ore riporterà i livelli glicemici nella norma, quindi al punto di
partenza, perché in due ore si ha il compenso.
 Soggetti con ridotta tolleranza: raggiungono valori superiori a 180 mg/dl, inferiori però a
200mg/dl. Alla seconda ora non sempre, anzi quasi mai, riescono a raggiungere il compenso
e quindi c’é sempre iperglicemia a due ore.
 Soggetti con diabete mellito: avranno una glicemia che supera i 200 mg/dl ed alla seconda
ora ci sarà sempre iperglicemia. Il ritorno della glicemia ai lavori normali può avvenire alla
terza, quarta, quinta ora a seconda dell’entità del compenso.
Quando il soggetto ingerisce il glucosio, esso viene assorbito a livello gastroenterico e per questo
aumentano i livelli ematici, ed ecco la curva che mostra l’aumento della glicemia dopo l’ingestione
del glucosio. Man mano che aumenta la glicemia ci sarà uno stimolo al pancreas a produrre
insulina, la quale comincia ad aumentare di concentrazione e a determinare l’internalizzazione del
glucosio nelle cellule, fino a non far aumentare più la glicemia, che anzi diminuisce. Alla seconda
ora in genere si ritorna al valore iniziale. Però voi sapete che l’insulina ha un doppio picco, cioè c’è
una quota di insulina preformata - già sintetizzata - che dev’essere solo liberata, più una quota che
viene normalmente prodotta durante la stimolazione successiva. Il soggetto normale ha questa quota
e quindi libererà subito una quantità adeguata di insulina. E così rientra in due ore il tipo di
regolazione. Il soggetto con ridotta tolleranza agli idrati di carbonio invece ha questa prima quota di
insulina preformata ridotta o addirittura assente, quindi non ha immediato compenso insulinemico,
ma ha una liberazione di insulina più tardiva anche se efficace: questo determina un aumento dei
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livelli di glicemia superiore a 140 mg/dl – tra 180 e 200 mg/dl – e in genere non riesce a ripristinare
la glicemia entro due ore. Nel soggetto diabetico ovviamente la quota di insulina preformata non c’è
affatto, ecco perché supera i 200 mg/dl, ecco perché in due ore non riesce a compensare,
indipendentemente dal tipo di diabete e quindi dal tipo di compenso che si viene a creare. Ora, se
queste sono le condizioni fondamentali, perché utilizzare la curva da carico glicemica nelle donne
in gestazione e perché utilizzare 100 g invece di 75 g? La donna in gestazione ha un’aumentata
disposizione ad avere il cosiddetto diabete gestazionale, che può durare soltanto durante la
gestazione appunto o prolungarsi, con gravi conseguenze sia per quanto riguarda il feto sia per
quanto riguarda la madre. 100 g perché è una quota che consente di dare uno stimolo adeguato al
pancreas a liberare insulina. Poiché i liquidi di un soggetto in gestazione dipendono anche dallo
stadio placentare, dal liquido amniotico, dal feto, le donne incinte hanno un volume di distribuzione
maggiore e quindi occorre aumentare il livello di glucosio per indurre lo stesso stimolo che danno
75 g in un soggetto normale. Chiaramente per quanto riguarda la glicemia e per quanto riguarda la
regolazione, tutto dipende fondamentalmente da una serie di parametri che possono essere
ulteriormente valutati con gli altri test che abbiamo visto, ma - qualora non si arrivasse o ci fosse
dubbio sulla diagnosi di diabete – possiamo utilizzare anche il test da carico, perché abbiamo visto
che il test da carico può far registrare e selezionare la popolazione con cosidetto diabete pre clinico,
cioè prima della completa manifestazione clinica della patologia.
Dobbiamo parlare ancora del diabete genetico, quello degli anticorpi anti-insula. Il test più
importante a riguardo è la microalbuminuria. Che cos’è? È il test che prevede la determinazione
della quantità di albumina nelle urine. Normalmente questa è inferiore a 30 mg nelle 24h. Tra 30 e
300 mg nelle 24h si parla di microalbuminuria ed è elemento tipico di iniziata o comunque precoce
compromissione renale. Oltre i 300 mg si parla invece di albuminuria. Perchè è importante? Perchè
nel soggetto con diabete di tipo 1 in genere già dopo un anno può intervenire una compromissione
renale, quindi avere una valutazione della microalbuminuria, rappresentata appunto come elemento
di prevenzione e di diagnosi precoce, significa limitare al massimo l’esposizione del rene ai danni di
questa alterazione metabolica. Invece nel diabete di tipo 2, poiché in genere insorge dopo cinque
anni la compromissione renale, ecco che abbiamo la necessità di effettuare questo test dopo
quattro/cinque anni dalla diagnosi e poi ogni sei mesi per valutare l’evoluzione della nefropatia
diabetica. Quindi microalbuminuria come indice precoce della compromissione renale nella
malattia diabetica, per modificare eventualmente la terapia, il regime dietetico, per dar luogo a tutti
quei processi atti a ridurre il coinvolgimento del rene.
Sindromi ipoglicemiche: dal punto di vista sintomatologico sono caratterizzate da ansia,
tremore, sudorazione, eventualmente tachicardia. Questo è dovuto prevalentemente ad
un’attivazione del sistema adrenergico. Dall’altro lato abbiamo anche sintomi che sono riferibili alla
cosiddetta neuroglicopenia, cioè al deficit di glucosio all sistema nervoso, e in questo caso abbiamo
cefalea, diplopia, ridotta concentrazione, obnubilamento del sensorio, cioè tutte condizioni che
indicano che il sistema nervoso ha una scarsa disponibilità energetica per scarsa quantità di
glucosio. Ora, se questi sono i sintomi della sindromi ipoglicemiche, quando e come si può fare una
diagnosi? La diagnosi si basa sulla cosiddetta triade di Whipple:
1) livelli di glicemia a digiuno: < 50 mg/ dl negli uomini, < 45 mg/dl nelle donne, < 30 mg/dl
nei bambini
2) sintomatologia (sia quella riferita all’attivazione adrenergica, che quella riferita alla
neuroglicopenia)
3) regressione sintomatologica dopo terapia con glucosio
Diagnosi piuttosto ben definita.
Da che cosa possono dipendere le sindromi ipoglicemiche? Sono moltissime le cause di
ipoglicemia, alcune molto frequenti nei bambini (neonatali), ma soprattutto dobbiamo distinguere
due tipi di ipoglicemie:
- a digiuno, o spontanee
- post prandiali
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Le ipoglicemie a digiuno – o spontanee - in genere compaiono a distanza di almeno cinque ore dal
pasto e quindi in queste condizioni i test statici sono quelli più utilizzati. Poichè l’ipoglicemia può
dipendere da un’eccessiva quantità di insulina prodotta, è chiaro che i test che vanno utilizzati sono
sì quelli della glicemia, ma anche e soprattutto quelli dell’insulina e del peptide C. Oppure abbiamo
alcune ipoglicemie - sempre spontanee sempre a diguno - senza aumento dell’insulina, dovute
soprattutto a malattie epatiche o a tumori soprattutto extra pancreatici che comrpromettono o
accentuano l’utilizzazione dell’insulina.
Le altre sindromi ipoglicemiche sono invece post-prandiali, cioè non sono spontanee, non
avvengono a digiuno, ma avvengono dopo pranzo come reazione al pasto, quindi come reazione dei
meccanismi di controllo glicemici che intervengono dopo un pasto. Anche in questo caso i test
principali sono quelli della glicemia. Le cause sono prevalentemente quelle di tipo alimentare,
quelle di alcuni deficit enzimatici (come il deficit al fruttosio) e quelle di tipo funzionale soprattutto
a livello pancreatico. Penso che sulle sindromi ipoglicemiche in senso generale questi sono i test
che possono essere utilizzati e prevalentemente in uso. Vediamo invece per quanto riguarda sempre
la malattia diabetica, quella che è la condizione di coma cheto-acidosico e quindi dobbiamo parlare
necessariamente dell’equilibrio acido-base.
Il pH va mantenuto stabile, entro un ambito anche di decimi di unità. Il pH rappresnta il logaritmo
della concentrazione degli idrogenioni. Questo pH perchè dev’essere regolato la massimo? Perché
qualsiasi variazione del pH significa automaticamente variazione della funzione di enzimi, della
funzione composizione e struttura delle proteine, della permeabilità di membrana. Variazione della
permeabilità di membrana significa automaticamente variazione in particolare della soglia e degli
elementi di regolazione dell’eccitazione e quindi del potenziale d’azione delle cellule reattive
(quindi in particolare le cellule sistema nervoso e muscolari, sia scheletriche sia soprattutto
cardiache), quindi i primi disturbi che si hanno per alterazioni del pH comporteranno il primo segno
a livello delle cellule stimolabili, e quindi al sistema nervoso - a livello della trasmissione
dell’impulso nerovoso, della comunicazione tra le cellule – e al sistema cardiaco, con alterazioni
della stimolabilià cardiaca, quindi della pompa circolatoria. Ecco perché alterazioni anche minime
del pH possono determinare gravi sintomatologie, tra cui i vari gradi del coma, associati al grado di
scompenso dell’equilibro acido-base. Abbiamo essenzialmente tre sistemi di regolazione del pH:
- Il primo è quello che interviene immediatamente e sono i cosiddetti sistemi tampone. Sono
di ordine chimico, danno luogo ad una regolazione del pH immediata.
- Il secondo è il sistema respiratorio, che interviene se il primo non è riuscito a compensare
nell’arco di alcune ore. L’apparato respiratorio determina un aumento o una diminuzione
della quantità di anidride carbonica che viene espirata e poiché l’anidride carbonica non è
altro che acido in quanto CO2 in acqua dà luogo alla formazione di acido carbonico (CO2 +
H2O  H2CO3) che si dissocia in H+ e HCO3-, quindi rappresenta l’acido che viene essere
allontanato o meno in funzione degli atti respiratori.
- Il terzo livello è quello renale. Il rene è l’organo che interviene in genere in 24-48h da un
lato attraverso l’eliminazione degli H+, dall’altro attraverso il riassorbimento dei bicarbonati.
E quindi l’uno e l’altro danno luogo ad una regolazione del pH.
Se vediamo innanzitutto il sistema tampone, vediamo che il sistema tampone principale è dato dalle
proteine, perché sono sostanza anfotere capaci di accettare o cedere H+. Questo fa sì che le proteine
fungano proprio da sistemi tampone perché in realtà il sistema tampone cos’è? È la miscela di un
acido forte e di una base debole opppure di una base forte e di un acido debole, capaci appunto di
ammortizzare - quindi ridurre - le variazioni di pH attraverso la capacità dei singoli componenti di
accettare o cedere H+ a seconda del bisogno, quindi un aumento o una diminuzione del pH possono
essere in realtà ridotti o annullati attraverso la capacità di accettare o ricevere H+. Questi sono i
normali sistemi tampone. Le proteine funzionano con questo tipo di sistema perché hanno la
capacità intrinseca di accettare e cedere H+ attraverso soprattutto i gruppi carbossilici e amminici.
Esse sono il principale sistema tampone perché in realtà regolano il pH dal punto di vista pratico
con un’efficienza dell’80%, di cui l’elemento principale anche in questo caso è l’emoglobina,
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perché rappresenta la proteina più concentrata nel sangue e attraverso la sua acidificazione scambia
il potassio con gli H+ e quindi ha una capacità di tamponare questa variazione della concentrazione
di idrogenioni . È chiaro che quando poi l’emoglobina accetta H+ essa per l’effetto Bohr cambia la
sua affinità per l’ossigeno e questo fa sì che l’emoglobina possa cedere più facilmente ossigeno ai
tessuti, che avendo un metabolismo acido producono grande quantità di acidi. Me se le proteine dal
punto di vista quantitativo sono le più importanti, dal punto di vista qualitativo abbiamo altri
sistemi: c’è quello fosfato - ad esempio - che sarebbe quello più efficiente, ma quello a cui ci
riferiamo è il tampone bicarbonato. Per quale motivo? Perché permette di avere dei parametri in
comune con la regolazione renale e con la regolazione respiratoria. Abbiamo detto che anidride
carbonica in acqua dà luogo alla formazione di acido carbonico e quindi di H+ e HCO3-. Vi ricordate
che c’è l’equazione di Henderson-Hasselbach? La comprensione di questa vi permette di stabilire
tutti i criteri per la diagnostica, per la terapia e per la valutazione di un quadro di alterato equilibrio
[base]
acido base. Dice che pH  pka  log
. Cioè il pH di una soluzione è uguale al pH in cui
[acido]
l’acido è dissociato al 50%. Il pka della nostra equazione è 6,1. Questo 6,1 non è altro che il valore
del pH in cui l’acido carbonico è dissociato al 50% come base e al 50% come acido, il che
rappresenta il punto di maggiore compenso o neutralizzazione, perché abbiamo il 50% di possibilità
di cedere e il 50% di utilizzare H+. Quindi è il punto in cui si può ottenere il massimo risultato di
effetto tamponante. Per il carbonato è 6,1 + log [base] / [acido]. L’acido sapete che è la CO2, perchè
abbiamo detto che la CO2 in acqua (essendo l’acqua neutra) dà luogo all’acido carbonico, che in
realtà non si trova come tale ma come H+ e HCO3-. Quindi in realtà la CO2 è l’acido, e l’HCO3-,

HCO3
cioè i bicarbonati, sono la base. Allora trovare il log
significa automaticamente trovare
CO2 
quel fattore che poi associato al 6,1 ci dà il pH della soluzione. Normalmente la concentrazione
della base, cioè dei bicarbonati, è di 24 mEq. La CO2 è uguale normalmente alla pressione parziale
dell’anidride carbonica, che come voi sapete é 40 mmHg. Poichè non possiamo dividere una
concentrazione con una pressione, dobbiamo portare anche la CO2 ad una concentrazione. La
concentrazione della CO2 secondo la legge dei gas sarà uguale alla pressione parziale moltiplicata x
il suo fattore di diluizione, che è uguale a 0,03.
0,03 x 40 = 1,2
24 / 1,2 = 20
Log20 = 1,3
Quindi il pH in base all’equazione di Henderson-Hasselbach è: 6,1 + 1,3 = 7,4.
Tutto questo dipende dal numero del rapporto tra [base] / [acido], cioè bicarbonati / C02. Se è 24 /
1,2 abbiamo 20; il logaritmo di 20 è 1,3 e quindi abbiamo il pH di 7,4.
Qualsiasi modifica o della concentrazione della base o della concentrazione dell’acido e quindi del
rapporto base/acido determinerà una condizione di alcalosi o di acidosi.


Poniamo che il soggetto abbia una polmonite, un enfisema polmonare. Non è in grado di respirare e
quindi di eliminare adeguatamente la quantità di CO2. Questo significa che l’organismo accumulerà
la CO2, facciamo che ha una pCO2 di 60 mmHg. Questo significa che avrà una concentrazione
dell’acido – quindi il denominatore dell’equazione – pari a 0.03 x 60 = 1,8. Se manteniamo la
concentrazione di bicarbonati uguale a 24 avremo: 24/1,8 = 13. Il log di 13 è = 1,1 quindi avremo
che il pH di questa soluzione sarà uguale a 6,1 + 1,1 = 7,2  condizione di acidosi respiratoria.
Cosa dobbiamo fare per ripristinare il valore del pH? Due sono i meccanismi:
 o riusciamo ad eliminare la CO2 e quindi abbassare la pCO2 da 60 a 40 mmHg
 o c’è bisogno che il rene riassorba i bicarbonati.
In questo modo, o aumentando il numeratore o diminuendo il denominatore o facendo entrambe le
cose in modo parziale, potremmo riavere il pH di 7,4.
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Se abbiamo sempre come punto di riferimento l’equazione di Henderson-Hasselbach, consideriamo
il tampone bicarbonato non perché sia quantitativamente rilevante (in realtà rappresenta circa il
10% della funzione tampone), non perché sia particolarmente attivo (il massimo potere tamponante
il bicarbonato lo ha ad un pH di 6,1 che è molto distante dal pH di 7,4 dell’organismo, a differenza
ad esempio del tampone fosfato che ha il massimo potere tamponante a 6,9), ma perché l’esame che
noi andiamo ad effettuare in caso di alterazioni dell’equilibro acido-base è quello dell’emogas
analisi. Che cos’è l’emogas analisi? È un prelievo di sangue arterioso che viene fatto in genere
all’arteria radiale o all’arteria femorale. Si prende una piccola quantità di sangue in una siringa
bagnata con eparina per rendere il sangue incoagulabile. Il sangue non deve entrare a contatto con
l’aria, perché questo modificherebbe i valori della CO2. Per non fare entrare il sangue a contatto con
l’aria basta piegare l’ago. Si va poi ad esaminare il sangue con un apparecchio che valuta il pH, la
pCO2, i bicarbonati.
Si ha un quadro di acidosi compensata quando i sistemi tampone sono riusciti a riportare il pH ad un
livello di 7,4, anche se la pCO2 rimane alta. Anche i bicarbonati in questa situazione li troveremo
alti. Un'altra cosa importante da valutare è se l’eventuale acidosi o alcalosi sia acuta o meno. Questo
è possibile valutarlo considerando se è intervenuto o meno il livello di compenso renale. Se infatti è
intervenuto il compenso renale infatti (che è più tardivo) vuol dire che il quadro è cronico. Le
acidosi principali sono respiratorie, ma esistono anche quadri di acidosi metabolica, una l’abbiamo
detta prima: diabete mellito  aumento di corpi chetonici, cioè di molecole acide  abbassamento
del pH. In questo caso non sarà aumentata la pCO2, ma poiché il sistema tampone dell’organismo è
lo stesso dell’equazione di Henderson-Hasselback, soltanto che a livello delle basi si prendono tutte
le basi del corpo e a livello degli acidi (lattico, chetoacidi, urico, etanolo ecc.) sono tutti elementi
che provocano un aumento degli acidi fissi, non volatili. L’apparato respiratorio può intervenire
riducendo al minimo la pCO2, se con questo non si riesce a compensare allora interviene anche il
livello renale, che aumenta il riassorbimento dei bicarbonati. Il livello di acidosi metabolica sarà
caratterizzato in genere da una riduzione della CO2, da un pH basso e da un aumento dei bicarbonati
quando è cronica. Le acidosi metaboliche possono comportare obnubilamento del sensorio e coma
di vari gradi.
Importante è valutare in un soggetto anche la quantità di emoglobina e la quantità di ossigeno
(pO2). L’emoglobina perché abbiamo detto che è la principale proteina, e quindi è chiaro che un
soggetto anemico ha una minore capacità tamponante. Anche la quantità di ossigeno va valutata,
perché modifica la funzionalità respiratoria oltre che quella dell’emoglobina e della CO2, oltre ad
ammortizzare le eventuali variazioni della CO2 con o senza acidi fissi.
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