6 Canzone * di Paolo Giovannetti Anni settanta. Il poeta, l’autentico È assai probabile che con gli anni settanta del Novecento la canzone italiana abbia assunto la fisionomia che oggi, nel secondo decennio del XXI secolo, continua a essere dominante, o comunque si è maggiormente radicata nella sensibilità del pubblico. In estrema sintesi, e più esattamente: in Italia la natura duplice di quella che con La Via (2006) definiamo «musica per poesia» – la natura, cioè, di quel tipo di composizione in cui le parole completano una linea musicale preesistente, e che si rivolge a un pubblico di massa attraverso peculiari processi di (ri)produzione, prima elettronici poi digitali – trova la sua configurazione “forte” nel periodo 1969-77. Non più solo genere di consumo leggero e in qualche modo irresponsabile, la canzone è ora passata a contropelo su entrambi i suoi versanti. Le forme che la caratterizzano sono riviste e rinnovate – se del caso, severamente giudicate (gli anni settanta, non dimentichiamolo, sono quelli in cui molti dei nuovi cantautori vengono sottoposti a contestazioni anche violente da parte dei pubblici giovanili più politicizzati). E mentre la musica tiene conto della rivoluzione rock e folk-rock dilagante nell’immaginario global, le parole, i testi, devono far presa in modo impegnato sulla realtà contemporanea, o per lo meno devono essere in grado di dire in modo non scontato gli eterni sentimenti della lirica cantata. Non per caso, comincia proprio adesso la marcia di avvicinamento della canzone alla poesia, vale a dire quella crescente valorizzazione estetica di testi un tempo ritenuti meramente servili e ora invece sempre più spesso ammirati nelle loro caratteristiche autonome. * I testi citati sono quasi sempre tratti dalle vulgate consuete (copertine di dischi, booklet di CD, risorse Internet), notoriamente inaffidabili. Si è perciò provveduto a riscontri con le incisioni più diffuse, rinunciando peraltro a introdurre miglioramenti nella punteggiatura (eccezion fatta per i punti fermi). 261 MODERNITÀ ITALIANA Fatta la tara alle mode e alle etichette (rock e folk-rock nel 2010 sono parole sostanzialmente vuote; e in letteratura chi scrive «impegno» oggi lo fa con virgolette di rossore), questa duplice responsabilizzazione della canzone è tuttora in vigore. Ma che cosa avviene di così importante negli anni settanta, in particolare nella loro prima metà, e in che senso questa trasformazione (e poi stabilizzazione) delle forme si differenzia dall’insieme dei fatti che aveva contraddistinto la canzone, italiana e non, dalla seconda metà degli anni cinquanta in poi? È infatti un luogo comune molto consolidato (cfr. almeno Borgna, 1985, Jachia, 1998) quello che colloca il grande cambiamento un decennio abbondante più indietro, quando avevano mosso i primi passi i moderni «rocker» e «cantautori» (poniamo: Celentano e Gaber da un lato, Paoli e Tenco dall’altro), dopo che nel 1958 Nel blu, dipinto di blu di Domenico Modugno aveva vinto il festival di Sanremo mostrando che un tipo leggermente diverso di canzone era possibile. Appunto: perché gli anni settanta, e non prima? Per dare una risposta, bisogna prendere in considerazione per lo meno tre fattori: 1. il generalizzarsi di procedimenti compositivi diversi da quelli, ereditati, basati sulla struttura “melodrammatica” strofa-ritornello (intorno alla forma della canzone, cfr. soprattutto Fabbri, 1996, pp. 53-79; ma cfr. anche Cruciani, 2005 e Bandini, 1976); 2. la diffusione di massa di un nuovo medium quale il disco a 33 giri e la parallela nascita del cosiddetto concept album (De Luigi, 1982); 3. la già ricordata tensione all’impegno, soprattutto politico ma anche genericamente letterario, la ricerca vale a dire di testi qualitativamente validi (Carrera, 1980, Coveri, 1996, Antonelli, 2010). 1. Che alla fine degli anni sessanta un processo di rinnovamento fosse ormai maturo, lo argomenta un documento di facile reperibilità. Oggi, avvalendosi di una risorsa come YouTube è possibile rivivere la performance di Enzo Jannacci nel corso di Canzonissima 1968 (il programma TV del sabato sera che, come tutti forse sanno, si rivolgeva soprattutto alle famiglie), quando interpretò una canzone intitolata Gli zingari. Niente di particolare, a uno sguardo-ascolto d’assieme, anche perché Jannacci assecondava fin troppo bene i movimenti di una telecamera che lo costringeva a spostarsi circolarmente; solo che quella canzone è in buona parte recitata, la melodia si limita a sostenere poche parole, e nel parlato fa capolino un italiano basso, dell’uso medio, con evidenti connotazioni regionali lombarde (vedi il costrutto «star lì a...»; tra l’altro, Jannacci storpia il “letterario” e leggermente incongruo ristettero: pronunciando restettero: «e [gli zingari] restettero muti perché subito intesero che lì non c’era niente, niente da dover capire, niente da stare a parlare, 262 6. CANZONE niente da stare a parlare»). Sullo sfondo delle canzoni strofa-ritornello, la teatralizzazione di Jannacci ha qualcosa di scandaloso, certo: ma è anche chiaro che a quest’altezza e in quel contesto di consumo popolare ci si poteva lecitamente attendere di ottenere un minimo di successo persino con una simile piccola provocazione. Dieci anni di nuove esperienze non erano trascorsi invano. E, per fare un secondo esempio concreto, nel corso del festival di Sanremo del 1971 è probabile che il vero vincitore morale sia stato Lucio Dalla, con 4 marzo 1943, una canzone che – oltre a esemplificare un tema ritenuto trasgressivo: la “santità” di una ragazza-madre, la purezza del suo amore unicamente fisico per uno sconosciuto – si fonda su una struttura non lontana da quella della ballata (AA), dove l’eventuale uncino (hook) melodico è costituito da un pugno di note intonate non dal cantante ma da un violino, che “agisce” sul palco insieme a Dalla. E così via. Non c’è dubbio che anche la canzone più commerciale comincia, fra anni sessanta e settanta, a risentire dell’onda lunga dell’innovazione e a fissarla in forme tutto sommato condivise, al di là magari di singoli exploit festivalieri. La stabilizzazione in un modulo destinato a durare per molti anni e anzi ad arrivare fino ai giorni nostri si affida soprattutto alla coppia Mogol-Battisti. Intanto, è stato con efficacia argomentato (da Salvatore, 1997) che la struttura dominante nella maggior parte delle canzoni da loro firmate risponde alla dialettica chorus-bridge (appunto, non strofa-ritornello). In questo modo, si verifica un fenomeno blandamente parodico: episodi testuali ed episodi melodici non hanno una relazione reciproca del tutto trasparente, e si alternano secondo un processo poco scontato, poco prevedibile. Insieme, quasi in parallelo, la voce di Battisti evoca l’immagine di un uomo (persino di un maschio) tanto in crisi quanto aggressivo, tanto impaurito di fronte a un diverso tipo di donna, quanto misogino e desideroso di rivincite. Conosciuta pressoché a memoria da più generazioni di italiani, la – a modo suo – perfetta Canzone del sole (1971) è un buon esempio di tutto ciò. Basti fare due considerazioni: a) uno dei punti più cantabili (e memorabili) della canzone culmina su un’ardita apocope sillabica, che addirittura sfigura il corpo fonico di una parola: «O mare nero, mare nero, mare ne». Tanto più che «mare nero» ha un significato metaforico non subito evidente (anche dopo più ascolti), essendo di fatto un’allegoria dello sconforto in cui piomba chiunque scopra l’“abiezione” della donna (un tempo) amata. E comunque la sua pregnanza è con ogni evidenza indebolita da una vera e propria, asemantica, glossolalia; b) lo statuto enunciativo di alcune parti della canzone, vale a dire l’identità esatta della voce che parla, è assai difficile da individuare. Si pensi in particolare (riascoltando l’esecuzione più diffusa) a come Battisti intona «Ferma ti 263 MODERNITÀ ITALIANA prego la mano». Senza scendere nei dettagli, è chiaro che la voce sforzata verso il falsetto ha qui la funzione sia di femminilizzare il protagonista maschile (se a parlare è lui, che si sente aggredito da chi è «donna ormai»), sia di costringere il locutore maschile (nel caso in cui fosse lei a pronunciare quelle parole: che quindi sarebbero “citate”) ad assumere il punto di vista di una giovane che ha subito un’aggressione sessuale. In entrambi i casi, comunque, l’autore implicito della canzone evoca ed esorcizza allo stesso tempo, in modo inquietante (e blandamente lubrico, certo), un’insopprimibile, quasi insostenibile paura della donna, culminante nel desiderio di degradarla. 2. La canzone del sole, lo abbiamo visto, adotta convenzioni di tipo narrativo. Mogol e Battisti spesso raccontano storie d’amore, certo tutt’altro che lineari (anche se prevedibili: l’analessi avendo come oggetto, non di rado, un recente tradimento, che lei, cioè l’interlocutrice dell’io cantante, in un futuro immediato dovrà perdonare), ma in qualche modo perfettamente chiuse su sé stesse. Nel concept album, questa logica «unipuntuale» viene messa in discussione, e la canzone comincia a uscire fuori di sé. Nell’intento di costruire un percorso unitario, sono accostate alcune (una decina o poco più) composizioni, per un totale di una quarantina di minuti. Il capostipite del “genere” è, com’è noto, Sergent Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles, uscito nel 1967. Le caratteristiche della nuova tradizione sono evidenti anche dal punto di visto paratestuale. Ogni 33 giri definibile come concept album denuncia fin dalla copertina la propria unitarietà d’ispirazione – le proprie ambizioni artistiche –, per la qualità della grafica e delle immagini e perché spesso vi sono riprodotti i testi, alla stregua di autentici prodotti letterari. E di fronte al concept album il critico di canzonette deve risolvere gli stessi problemi che lo studioso di poesia affronta quando cerca di restituire la complessità di una raccolta di componimenti in versi, del cosiddetto libro di poesia. Gli elementi di coesione e coerenza, i legami narrativi e isotopici che caratterizzano un insieme di testi poetici o di canzoni chiedono all’ascoltatore-lettore di compiere alcune scelte, di capire a quale tipo di “concezione” complessiva, a quale “progetto”, si attiene l’opera. Da questo punto di vista, i più antichi concept album italiani suggeriscono un quadro eterogeneo. Prendiamo la trilogia di cui è autore Fabrizio De André, La buona novella (1970), Non al denaro, non all’amore, né al cielo (1971), Storia di un impiegato (1973), dischi ispirati rispettivamente ai Vangeli, all’Antologia di Spoon River e al Sessantotto. Tutti e tre presentano una solidità evidentissima, e culminano in un’opera dalle intenzioni – sin dal titolo: Storia di – evidentemente narrative. Se però badiamo ad altre realizzazioni dei primi anni settanta, l’impressione può es264 6. CANZONE sere a volte assai diversa: da L’isola non trovata (1970) di Francesco Guccini ad Anidride solforosa (1975) di Lucio Dalla, dall’Orso bruno (1973) di Antonello Venditti a Rimmel (1975) di Francesco De Gregori. Non sempre queste raccolte presentano una tenuta davvero in grado di valorizzare sia le molte suggestioni paratestuali che le incorniciano sia la ricerca di un’omogeneità di sound realizzata in sala d’incisione grazie al lavoro di abili produttori e «arrangiatori». In certi casi (tipicamente in De Gregori) ci si trova di fronte a canzoni stilisticamente molto simili fra loro, ma non necessariamente legate da un filo tematico (tanto meno narrativo) altrettanto forte. Il concept album di molti cantautori finisce per essere o un fatto estrinseco o la conseguenza di un’autorialità accentuata, della personalità affascinante dell’esecutore. La centralità della singola canzone costituirebbe insomma un dato in qualche modo irrinunciabile. Interna a questa logica, ma certo quasi del tutto indipendente dalle dinamiche dell’industria discografica (che in questi anni sembra cercare di “costruire” il cantautore, di imporlo; cfr. per un caso particolare, Fabbri, 2009), è l’esperienza meno concettuale che teatrale di Giorgio Gaber. A partire dal 1969, dopo avere abbandonato la carriera televisiva, il cantante realizza spettacoli (firmati insieme con l’amico artista Sandro Luporini) in cui brevi recitativi integrano un “discorso” musicale eticopolitico-narrativo. Canzoni, anche molto tradizionali, si alternano cioè a monologhi teatrali in un gioco dinamico, chiaroscurato, la cui unità è garantita dalla presenza scenica dell’esecutore. Lo si è chiamato «teatro canzone», e le sue caratteristiche segneranno l’attività di Gaber sino alla fine della sua carriera. La sua intelligenza musicale ed esperienza gli permettono di comprendere che la moderna canzone può recuperare certi aspetti originari e quasi costitutivi del genere: in particolare la sua essenza performativa, la possibilità di rappresentare un corpo-voce che dia vita a una sintesi espressiva di ampio respiro. Qualcosa del genere era avvenuto nella tradizione del café chantant e persino nell’avanspettacolo: in questi ambiti, Gennaro Pasquariello, Ettore Petrolini, Rodolfo De Angelis (fra inizio del secolo e anni quaranta – molte informazioni sul tema si leggono in De Angelis, 1940) erano riusciti a imporre le proprie identità di «canzonettisti»-attori, capaci di legare fra loro anche con la recitazione composizioni musicali autonome, inizialmente indipendenti. Su un piano assai diverso, lo stesso avveniva e continua ancor oggi ad avvenire al teatro Ariston di Sanremo, dove – come peraltro tutti sanno – le canzoni passano in secondo piano rispetto a una cornice inizialmente solo teatrale e radiofonica, poi divenuta televisiva, e ora trans(o cross-)mediale. Non solo, e soprattutto. Negli stessi anni settanta, in perfetta coincidenza e sintonia con la rivoluzione del concept album, si sviluppa in 265 MODERNITÀ ITALIANA Italia il genere musicale – grosso modo definibile come rock, anche sulla scorta di Frith (1978) e Fabbri (1996) – che maggiormente, si direbbe persino intrinsecamente, valorizza la funzione teatrale della canzone, la sua capacità di culminare in una performance in cui corpo e voce dettano legge, determinando gli a priori della comunicazione (decisivo su tutti questi temi è Fiori, 2003, al quale il presente discorso deve molto). Tra l’altro, i legami fra canzonetta “rinnovata” e rock italiano sono evidentissimi ed espliciti. Il primo importante prodotto del rock made in Italy uscito su 33 giri, vale a dire Storia di un minuto (il tropo, quasi l’ossimoro del titolo, tra narrazione e antinarrazione, è piuttosto significativo) della Premiata Forneria Marconi, anno 1972, comincia con la canzone Impressioni di settembre, che si avvale delle parole “idilliche” ed “esistenziali” – quintessenzialmente liriche, in definitiva – del navigatissimo Mogol: Quante gocce di rugiada intorno a me cerco il sole, ma non c’è. Dorme ancora la campagna, forse no, è sveglia, mi guarda, non so. Già l’odore della terra, odor di grano sale adagio verso me, e la vita nel mio petto batte piano, respiro la nebbia, penso a te. [...] No, cosa sono adesso non lo so, sono solo, solo il suono del mio passo. E intanto il sole tra la nebbia filtra già il giorno come sempre sarà. E tuttavia sembra inevitabile, almeno all’inizio dell’avventura rock, che le strade debbano biforcarsi: e che il rock italiano sia destinato a seguire un percorso differente da quello della mera canzone, essendo il più recente genere capace anche di valorizzare la realtà “collettiva” e per certi versi “industriale” di una nuova maniera di comporre. Lontani dall’idea del cantante-menestrello-trovatore che in modo autentico intona la propria storia, i gruppi rock restituiscono un’immagine tecnologica e soprattutto non personalistica della musica (cfr. Fabbri, 2005, in particolare pp. 161-9; 2009). A fianco della Premiata Forneria Marconi, i New Trolls (che peraltro erano stati precursori non fortunatissimi di tutte queste tendenze, con il precoce concept album Senza orario, senza bandiera, battezzato già nel 1968 da De André), il Banco del Mutuo Soccorso, Le Orme, gli Osanna, sfornano nei primi anni settanta opere importanti che cercano di italianizzare il sound progressive del contemporaneo 266 6. CANZONE rock soprattutto inglese (King Crimson, Genesis, Gentle Giant ecc.). Del resto, a dimostrare appunto il possibile radicalizzarsi del fenomeno, a fianco dei più innocui rocker “istituzionali” (ben accetti dalla stampa e dall’industria discografica) si collocano gli alternativi, o “indipendenti”, come si direbbe oggi, Stormy Six e Area (fra i molti, peraltro), che seguono percorsi più liberi, più politicizzati e persino intermediali (gli Area, grazie al loro geniale produttore Gianni Sassi, sono contigui alla musica d’avanguardia novecentesca, al mondo delle performance artistiche, dell’arte concettuale). In definitiva, tutto parrebbe mettere in discussione la forma-canzone, che infatti nel rock almeno in parte scompare (e non tutto il rock è peraltro cantato, com’è noto) e viene rielaborata in forme originalissime. Fra i molti esempi possibili, si può prendere una composizione (oggi, anno 2011, quasi inascoltabile presso le giovani generazioni) come L’orchestra dei fischietti (1977) degli Stormy Six. Diviso, dal punto di vista testuale, in tre parti nettamente distinte, il pezzo è introdotto da una sorta di riff sospeso nel vuoto, contornato da lunghi silenzi. I contenuti grezzamente intesi sono inizialmente politici: la prima parte («l’orchestra dei fischietti» che «dà la sveglia alla città») si riferisce infatti a un corteo operaio, mentre la seconda («la semplicità del bisogno») dice di un “desiderio” tutto sommato universale, e la terza («Niente resta uguale a se stesso / la contraddizione muove tutto») con il suo esplicito hegelismo dovrebbe marcare la sintesi degli opposti. Come si vede, il gioco è molto intellettualistico e voluto (anche se indubbiamente suggestivo); e infatti nei concerti degli Stormy Six un pezzo a tal punto concettuale abbisognava di un’esplicita spiegazione prima di essere eseguito. 3. Il punto è che, come si vede, la canzone anni settanta, per lo meno fino al tornante del 1977-78, è investita di una molteplicità di compiti e doveri, che finiscono per metterla in crisi. Decisivo senza dubbio è il reagente politico: l’impegno chiesto a gran voce soprattutto dal pubblico giovanile, ma nient’affatto disdegnato anche dalle agenzie istituzionali e dai produttori (gli spettacoli “politici” di Gaber si svolgono spesso in spazi finanziati dalle pubbliche amministrazioni; negli anni settanta, Nanni Ricordi, rampollo della notissima famiglia di editori musicali, non solo continua a promuovere una canzone alternativa, ma fonda un’etichetta politicizzata come l’“Ultima Spiaggia”), probabilmente sottopone il medium, il genere, a tensioni che non è in grado di sostenere. La formula in effetti molto letteraria della rinnovata canzone, la sua ricerca di un messaggio, di una testualità innanzi tutto poetiche, anzi addirittura liriche, non hanno moltissimo a che fare con quanto si chiede dall’esterno ai nuovi cantanti. Al di là delle loro personali convinzioni, 267 MODERNITÀ ITALIANA le canzoni che scrivono ambiscono in modo sin troppo sfacciato a una dimensione di “qualità” e “arte”, astrattamente disinteressate, rivolta però a un pubblico di massa. Quello stesso pubblico che da allora – e con gli anni il fenomeno non ha fatto che crescere – ha riconosciuto l’artisticità, la poeticità di Fabrizio De André, Francesco Guccini, Francesco De Gregori ecc. Anni ottanta. La maschera, l’ibrido In effetti, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, il quadro registra una serie di trasformazioni, destinate poi a esplodere nel decennio successivo (per un inquadramento generale, cfr. Accademia degli Scrausi, 1996). Nell’ambito della canzone d’autore strettamente intesa, il fenomeno più “lungimirante” è forse offerto dalla produzione di Rino Gaetano: che sceglie una strada di semplificazione persino eccessiva delle forme – le sue composizioni più note sono vere e proprie litanie o salmodie di immagini, cui corrisponde una costruzione musicale poco gerarchizzata –, ma che grazie a una notevole personalità esecutiva sa drammatizzare il crescendo surreale inscritto nella sua opera. Tipicamente, si veda l’attacco di uno dei suoi successi più noti, Berta filava (1976): E Berta filava e filava la lana, la lana e l’amianto del vestito del santo che andava sul rogo e mentre bruciava urlava e piangeva e la gente diceva: “Anvedi che santo vestito d’amianto”. E Berta filava e filava con Mario e filava con Gino e nasceva il bambino che non era di Mario che non era di Gino. E Berta filava, filava a dritto e filava di lato e filava filava e filava la lana. Gaetano muore trentenne nel 1981, e il suo “mito” da allora è andato consolidandosi: fino a restituire l’immagine di una canzone ironica, citazionista (poi ampiamente ripresa e “coverizzata”), capace di liberarsi degli incubi dell’engagement pensoso, e semmai in grado di raccontare la fisicità, il libero piacere. Uno strano mix insomma di intellettualismo e primitivismo. 268 6. CANZONE Su questo secondo versante, il passaggio tra i due decenni deve registrare l’esplosione, a partire dal 1979, di Gianna Nannini (finalmente una donna-autrice e per giunta rocker!) che con America elogia esplicitamente il piacere femminile – più esattamente l’orgasmo –, peraltro argomentando il tema con un’energia corporea ed espressiva tanto debordante da rendere convincente tutta l’operazione. Anche perché il fenomeno Nannini integra il ritorno al successo, proprio alla fine degli anni settanta, di Patty Pravo, in particolare con quel Pensiero stupendo (1978) che rende esplicita la pulsione omoerotica di una donna, all’insegna di ciò che in retorica è detta aposiopesi: la sospensione del discorso cioè che non dice e allude, in questo caso determinando una sorta di tensione metalinguistica e persino fàtica, quasi che chi canta dovesse tenere sotto controllo la liceità e l’efficacia stessa del messaggio («Le mani questa volta sei tu e lei / E lei a poco a poco di più, di più / Vicini per questioni di cuore / Se così si può dire – dirò»). Appunto. Con gli anni ottanta la canzone italiana non ha più remore a mettere in luce la sua natura commerciale, facile, oggetto di un culto intenso ma effimero. Gaber, sopravvissuto all’“impegno”, per registrare lo scandaloso Io se fossi Dio (un’invettiva apocalittica che osa dir male anche della memoria di Aldo Moro) nel 1980 deve rivolgersi a una minuscola casa discografica. Un vecchio maestro degli anni settanta, Edoardo Bennato, lo dichiara nello stesso anno: Sono solo canzonette. E un onesto mestierante come Toto Cutugno può diventare emblema di un «canto all’italiana», che molti credevano morto, con l’hit internazionale L’italiano (1983). Ma, soprattutto, nel 1985, un poco più che ventenne Eros Ramazzotti, con Una storia importante, inaugura la carriera trionfale di un cantante italiano per un pubblico global, contribuendo così a innescare una nuova tradizione oggi fiorentissima (e dovremo appunto ritornarci). Ma il “disimpegno” può anche andare più in là, e mettere in crisi due capisaldi della recentissima storia: le sonorità del rock più coraggioso da un lato e il concept album dall’altro. Quanto al primo punto, è indubbio che le forme del rock progressive vengono precocemente abbandonate (il caso della ruspante Nannini è esemplare), e che suoni più commerciali irrompono. In particolare dilagano gli stili della nuova musica da ballo, della dance elettronica. Negli anni settanta aveva per un attimo scandalizzato la conversione a un consumo facile di un cantante ritenuto sperimentale come Alan Sorrenti (Figli delle stelle, 1977; Tu sei l’unica donna per me, 1979); ma nel decennio successivo un certo sound diverrà quasi la sigla di un ben definito immaginario. Il riferimento a tutt’oggi più noto è al tormentone Vamos a la playa del duo Righeira (1983): musicisti con un passato di ricerca alla manie269 MODERNITÀ ITALIANA ra dei tedeschi Kraftwerk, azzeccano il proverbiale ritmo-motivetto che però nasconde un testo apocalittico da postesplosione nucleare («Vamos a la playa, / la bomba estalló, / las radiaciones tuestan / y matizan de azul»); non diversamente da quello che fa nella stessa estate il Gruppo Italiano con una composizione altrettanto cinica e altrettanto cantabile come Tropicana, che scandalizza un po’ il poeta e autore di canzoni Roberto Roversi (cfr. Borgna, 1985, pp. 219-21), anche perché – vi si dice – davanti alla catastrofe nucleare ci si sente come al cinema. E si tratta – appunto – di exploit effimeri, estivi, di canzoni singole estranee alle costruzioni complesse del concept album (di modo che l’approccio alla canzone italiana dell’utile Salvadori, 2006, che si occupa solo dei singoli pezzi sino a farne un’enciclopedia, appare tutto sommato plausibile). Insomma, mentre imperversa la discussione intorno al postmoderno (l’avvio del dibattito italiano, guarda caso, è proprio il 1979), molta canzone italiana diviene postmoderna, e in modo peraltro spesso consapevole. Il principale artefice di questa svolta è un musicista-cantante che da molti anni pratica la composizione elettronica e sperimentale, Franco Battiato. In particolare con l’album La voce del padrone (1981), Battiato s’inventa uno stile destinato a durare molto a lungo: 1. un testo che assembla citazioni tratte da un immaginario eclettico ma in fondo condiviso, in cui senza soluzione di continuità – e secondo un montaggio vagamente surreale – si alternano riferimenti colti e riferimenti pop; 2. una costruzione musicale dance, arricchita da arrangiamenti classicheggianti (straordinari i cori maschili alla maniera di Carl Orff) ed elettronici, vicini ai modi della minimal music; 3. un’intenzionalità, implicita in tutta l’operazione, che è di natura “gnostica”, intesa cioè a cifrare un po’ misteriosamente significati profondi (Battiato dichiara da molti anni la propria appartenenza al sufismo). Basterebbe riascoltare, e provare a leggere, il centone di citazioni e aforismi contenuto in una canzone come Bandiera bianca (dallo stesso album), quasi lo stupidario di un certo intellettualismo italiano, fra Bob Dylan e il Risorgimento, Adorno e la pubblicità, passando attraverso boutades ostentatamente demenziali («A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie»). È in gioco, evidentemente, il double coding, che tanto appassiona in questo periodo i teorici del postmoderno, e in Italia i lettori del Nome della rosa. Battiato lo si può tranquillamente ballare come molti altri prodotti commerciali, eppure la trama di citazioni che sostanziano le sue scelte compositive dà piena soddisfazione a chi abbia della musica e dei testi una visione leggermente più complessa, e insomma abbia fatto le giuste letture e i giusti ascolti. 270 6. CANZONE Si potrebbe persino dichiarare che un effetto-Battiato diffusosi a raggiera contraddistingua l’inizio degli anni ottanta, esattamente come un effetto-Mogol-Battisti aveva attraversato la canzone di dieci anni prima. Già nel 1979 Giorgio Gaber aveva realizzato il suo nuovo spettacolo, Polli d’allevamento, con arrangiamenti di Battiato; che poi nel 1981 aiuterà Alice a vincere il festival di Sanremo (dopo un decennio di crisi dell’istituzione festivaliera) con un pezzo, Per Elisa, composto insieme con il violinista Giusto Pio; sempre Battiato contribuirà al lancio della talentuosa Giuni Russo, offrendo inoltre i suoi servigi musicali alla “vecchia” Milva desiderosa di tornare alla ribalta. Questo intelligentissimo bricoleur, dotato di un fiuto musicale quasi infallibile, crea un mix di antico e di nuovissimo, di sapienziale e di bassamente commerciale, che solo una maschera impassibile, come è quella da lui indossata, gli consente di gestire con sicurezza. Elevata da altri, la stessa impalcatura artistica crollerebbe subito, rivelando l’insopportabile opzione kitsch che le è connaturata. È da credere che questa della maschera, che tale capacità di mettere in scena non più il malinconico poeta autentico, bensì un esecutore che «dice di dire», sia una delle scoperte più interessanti di questo periodo. La canzone di Paolo Conte deve essere letta in questa chiave. Autore sin dagli anni sessanta di canzoni di successo e pianista jazz mancato, all’inizio del decennio Conte ha superato i quaranta e la sua carriera solistica è solo agli inizi. Tuttavia, e anzi proprio per questo, il suo stile è tanto ben definito che per decenni sarà capace di garantire una perfetta continuità e coerenza di sviluppo. Anche quando dice «io», Conte comunica all’ascoltatore la netta separazione dell’io enunciato dall’io enunciatore, l’impossibilità di confondere biografia e arte. Certo, inizialmente, erano decisivi temi e contenuti volutamente démodé: certi ricordi degli anni quaranta; una provincialissima provincia italiana tra Asti, Alessandria e Genova; certe vecchie balere, rese ancora più arcaiche dall’incombere di un jazz italicamente artigianale; insieme, un immaginario salgariano, fatto di nomi esotici che nemmeno per un attimo cercano di nascondere le proprie origini cartacee o di celluloide. Divenuti in seguito più astratti e impalpabili, i contenuti della sua canzone non hanno per questo modificato il patto che il cantante instaura con il suo ascoltatore. Il fatto è che, con gli anni, il grandissimo performer che Conte è fa sempre meglio capire agli ascoltatori-spettatori che la sua opera, in fondo, sceneggia la propria relazione con noi, con il pubblico. Il qui e ora in cui opera il contenuto, il tema, è un ancoraggio per il nostro investimento affettivo; e infatti Conte è maestro della deissi spaziale e temporale, collocando sé stesso sempre in un setting per lo meno virtuale (cfr. su questo punto Zublena, 2007). 271 MODERNITÀ ITALIANA Un esempio fra i moltissimi possibili, Via con me, dall’album Paris Milonga (1981): Via, via, vieni via di qui, niente più ti lega a questi luoghi neanche questi fiori azzurri... via, via, neanche questo tempo grigio pieno di musiche e di uomini che ti son piaciuti [...] Via, via, vieni via con me entra in questo amore buio, non perderti per niente al mondo... via, via, non perderti per niente al mondo. Paradossalmente, una canzone di Conte deve essere vista prima che ascoltata; deve essere situata in uno spazio-tempo vago sì ma rassicurante, indefinibile sì ma plausibile, generico (persino banale) sì ma convincente. Sembrerà curioso, ma forse non lo è troppo: il terzo nome che benissimo rappresenta gli anni ottanta, si colloca agli antipodi dei primi due. Alla maschera del compositore alchimista o del teatrante-musicista performing si contrappone la nuda vita reale, l’esperienza maledetta reale, la voce di giovane uomo reale – caratteristiche di Vasco Rossi. Nessuno schermo o filtro fra lui e il pubblico; anzi perfetto riconoscimento e identificazione empatica: Siamo solo noi, uno dei primi suoi grandi successi nel 1982, è esplicita fin dal titolo, quando allude a una dimensione individuale che diventa quasi automaticamente collettiva. Certo, per lo meno alle origini del suo successo, Vasco lancia anche espliciti segnali di finzione e di falsetto: il suo Bollicine del 1983 in cui recita parole ironiche a elogio della Coca-Cola e a mimesi di slogan pubblicitari allora in voga («Coca-Cola... / e sei protagonista / Coca-Cola... / per l’uomo che non deve chiedere mai!!!»), un po’ è una critica al cosiddetto consumismo, un po’ è un vero elogio del tipo umano, della moltitudine globalizzata che della Coca-Cola non può più fare a meno. A sfruttare il residuo margine di autenticità rimasto a disposizione di chi fa canzone ci pensano alcuni nuovi gruppi rock che si affermano in questo decennio. Per capire in che strana contraddizione agiscono, è forse utile leggere due passi tratti da altrettante canzoni dei CCCP, la band anni ottanta che probabilmente ha maggiormente inciso sullo sviluppo della canzone rock nel successivo quarto di secolo: Spara Jurij spara spara Jurij spara spara Jurij spara Jurij spara 272 6. CANZONE Spera Jurij spera spera Jurij spera spera Jurij spera Jurij spera. Felicitazioni felicitazioni felicitazioni. Un freddo più pungente accordi secchi e tesi segnalano il tuo ingresso nella mia memoria. Consumami distruggimi è un po’ che non mi annoio. Aspetto un’emozione sempre più indefinibile. Teatri vuoti e inutili potrebbero affollarsi se tu ti proponessi di recitare te. Emilia Paranoica. Brucia Tiro e Sidone, il roipnol fa un casino se mescolato all’alcool. Bombardieri su Beirut. Da un lato dunque (Spara Jurij, 1984) un riff verbale, pura emissione amelodica di un gesto conativo, omologo al primitivismo tipico del punk; dall’altro (Emilia paranoica, 1985) addirittura una forma di introspezione, che certo è quella caratteristica dello “sballo” cara a una retorica beat e postbeat, ma che qui si arricchisce di una forza epica e mitopoietica e di una meta-riflessione («Teatri [...] se tu ti proponessi di recitare te»), che in effetti giustifica la congiunzione sopra la storia di Tiro, Sidone e Beirut. La nuova parola rock, a differenza di quella ancora condizionata dalle canzonette del decennio precedente (persino gli Area usavano certi troncamenti quando nel 1974 con Settembre nero cantavano: «Gente colorata quasi tutta uguale / la mia rabbia legge sopra i quotidiani. / Legge nella storia tutto il mio dolore / canta la mia gente che non vuol morir»), in questo modo forza gli estremi della glossolalia asintattica e della discorsività affabulante. E proprio il secondo aspetto, praticato dal leader dei CCCP (poi CSI), Giovanni Lindo Ferretti, sarà destinato a influenzare la testualità del rock anni novanta. Lo vedremo. Anche i CCCP, comunque, sanno di esprimersi in un contesto falso, così come falsa, quasi farsesca, è l’iconografia “stalinista” che esibiscono; però è altrettanto chiaro che la loro maschera è funzionale ad altri temi; e che questo altro è tutto meno che ironico e leggero. 273 MODERNITÀ ITALIANA Parola-gesto, parola-grido insieme a parola sinuosa, non priva di ricadute sapienziali. In gruppi come i Litfiba le due tensioni possono confondersi, e comunque il testo di certe loro canzoni storiche “comunica” solo se affidato alla corporeità vocale di Piero Pelù («Cerco / in una mano chiusa / la causa della morte di / uomini neri! / GUERRA / Aria vuota nelle strade / si muovono le ombre di / uomini neri! / GUERRA» – Guerra, 1982). Quasi all’opposto, le composizioni molto efficaci anche sul piano delle parole (Siberia, del 1984, è ancora oggi attuale, magari per versi come «I nostri occhi impauriti / nelle stanze gelate / al chiarore del petrolio bruciato / e oltre il muro il silenzio / oltre il muro solo ghiaccio e silenzio»), scritte da Federico Fiumani dei Diaframma, hanno una certa autonomia dal loro autore, e infatti furono inizialmente interpretate da una voce diversa dalla sua. Del resto, proprio su questo versante della qualità, gli anni ottanta, traguardati dall’inizio del secondo decennio duemillesco sono soprattutto quelli del De André cantante anche in genovese, che con un album come Creuza de mä (1984: opera nient’affatto cantautorale, e anzi frutto di un’officina rock, se non addirittura di un’intenzione world music, in cui un ruolo decisivo è svolto dalle sonorità progettate da Mauro Pagani), propone una straordinaria sintesi “artistica”. E forse De André in questo suo percorso esagera un po’, proprio per un tentativo fin troppo esibito di giungere a una sorta di musica totale, tanto autorevole e prestigiosa quanto suscettibile di un’ammirazione un po’ fredda, esterna, passiva (cfr. Fabbri, 2005, pp. 148-69; 2009). Anni novanta. La voce, le lingue Fortunatamente, la seconda metà degli anni ottanta e l’inizio del decennio successivo hanno avuto la forza di modificare un quadro sin troppo propenso a impreziosire l’oggetto-canzone, a farne un feticcio serioso, a incrementarne in modo preterintenzionale l’aura kitsch. Tra i principali e benemeriti fautori di tale – diciamo – abbassamento rabelaisiano, un ruolo fondamentale è stato svolto da Elio e le Storie Tese. Basti dire che il loro primo successo per lo meno di nicchia è, intorno al 1988, John Holmes, elogio delle iperboliche virtù dimensionali («trentatré centimetri di dimensione artistica») di un noto pornoattore allora da poco scomparso; tale monologo del “superdotato estinto”, che una decina d’anni prima si sarebbe detto demenziale, ora però è sostenuto da una band tutt’altro che primitiva e rozza musicalmente, anzi capace di plasmare suoni molto smaliziati. Elio e compagni sono inizialmente soprattutto un fenomeno da concerto, per la loro bravura anche tecnica. Nel 1989 esce il 274 6. CANZONE loro primo album, con titolo in lingua tamil, Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu, il cui contenuto dice di flatulenze ed eiaculazioni da realizzare in compagnia di Elio (!). Tre anni dopo il secondo (dal titolo non meno ostico: Italyan, Rum Casusu Çikti, che in turco significa «Si è scoperto che l’italiano era una spia greca») contiene la geniale Pipppero©, in cui si realizza in modo goliardico ed esilarante qualcosa in fondo di molto serio, vale a dire l’assemblaggio delle meravigliose voci di un notissimo coro femminile bulgaro, di una parodia dei balli “a comando” e di riferimenti a noti (e sempre “bulgari”) complotti internazionali: Evviva l’Italia, evviva la Bulgaria che ci ha fatto dono del PIPPPERO. Ruotiamo le dita e uniamo le falangi, questo è il ballo del PIPPPERO. Amici servizi segreti bulgari, non sparate più al papa ma dedicatevi al PIPPPERO. Popolo bulgaro – iù –. Popolo italiano. Servizi segreti bulgari e italiani, via. Sentite come pompa il PIPPPERO. Ma ben più radicale è un’altra novità degli anni novanta, ben più eversivo è un fenomeno che nello scenario globale è stato addirittura in grado di trasformare alla radice la percezione del rapporto parole/musica, l’idea e la pratica della canzone. Mi riferisco prevedibilmente a quanto oggi viene di solito chiamato rap, e costituisce il corrispettivo musicale di una serie di pratiche (danza, pittura e scrittura murale, comportamenti, abbigliamento ecc.) riconducibili alla galassia hip-hop. Sin dagli inizi degli anni ottanta, disc-jockey neri statunitensi avevano cominciato a ritmare su basi di musica da ballo testi di contenuto per lo più autobiografico (ma precocemente virato al sociale), non di rado molto violento o osceno. La prassi maggiormente in voga prevede che siano manipolati meccanicamente pezzi musicali registrati su vinile, e che la voce del cantante (MC, master of ceremonies, maestro di cerimonie) non intoni una vera linea melodica, ma si limiti a un recitativo ossessivamente ritmico (spesso giambico), con frequentissime rime, in certi casi ribadite sino al virtuosismo. Quanto ai contenuti, ben presto il rap acquisisce connotazioni di protesta assai esplicite, pur non perdendo mai una caratterizzazione tematica che noi definiremmo “machista” o “bullista”, priva di ogni forma di mediazione o attenuazione, e anzi mostrandosi sempre pronto a esasperare le proprie provocazioni. L’insieme delle pratiche musicali hip-hop ancora oggi conserva qualcosa di estremo, di inquietante e scandaloso. Il meraviglioso narratore 275 MODERNITÀ ITALIANA americano David Foster Wallace, fra l’altro interpretando il punto di vista dell’ascoltatore white, l’ha icasticamente definito «l’unico tipo di avanguardia di cui ormai Noi abbiamo ancora paura», proprio per la sua «posizione di estraneità all’interno della cultura bianca tradizionale», per la «sua schietta strafottenza verso qualunque forza tenda a omogeneizzare o centralizzare l’universo musicale» (Wallace, Costello, 1990, pp. 55-6). In Italia (De Paoli, 1998; Pacoda, 2000; Scholz, 2002, 2004; Borroni, 2004) è appunto con gli anni novanta che il fenomeno comincia ad attecchire, con particolare forza al Sud, anche per la precocissima tendenza a “rappare” in dialetto. Sin troppo facile, ma certo molto suggestivo, è cogliere nel fenomeno un vero e proprio ritorno all’oralità. La cultura altra dei neri americani (i cui legami con l’oralità “primaria” non si sono mai interrotti, e semmai nel Novecento si erano sublimati in forme artistiche mutanti, come, tipicamente, il jazz – cfr. Caporaletti, 2005) attraverso la mediazione dell’elettronica e poi del digitale eccita la ripresa del medium vocale e della lingua “materna” che meglio lo incarna. Giovani e meno giovani protagonisti del movimento (che presenta complesse diramazioni: sul versante del suono reggae si ha per esempio il cosiddetto raggamuffin) sono concordi nel dichiarare la loro riscoperta, non tradizionalistica comunque, di un retaggio popolare la cui consapevolezza è cresciuta in loro grazie ai modelli nordamericani. L’enunciazione mistilingue dei salentini Sud Sound System in un pezzo come Soul Train (1996) dichiara in effetti un radicale e benefico eclettismo (in mezzo al quale rime o assonanze imperfette quasi sconosciute alla tradizione colta, come le “ipermetre” atone classe: Schaffausen e fugge: origine, incuriosiscono l’orecchio): Pallidu politicu nun ci ha statu maiu in seconda classe sullu trenu che va da Lecce a Schaffausen chinu de gente sì ma gente ca sta fugge lontano dalla loro terra d’origine amara e resa pesante come il piombo mandata allo sbaraglio lasciata affondare tradita depredata sbranata e violentata e me chiedi se cussì se pò campa’ ieu lu sacciu peccé lu portu lu paccu de cartune. Almeno agli inizi, il neonato genere si contraddistingue, in Italia, per la sua natura collettiva, frutto di aggregazioni, dette posse (parola dell’American English di origine trasparentemente latina, che dapprima sta a indicare il gruppo di volontari guidati da uno sceriffo i quali si organizza276 6. CANZONE no per dare la caccia a un malvivente), dove i singoli agiscono sempre con pseudonimi e non hanno alcuno spicco divistico. Frankie HI-NRG MC, siciliano di origine e vissuto a Caserta, è comunque uno dei primi importanti talenti “individuali”. E il suo pionieristico successo, Fight da faida (1992, che tra l’altro riprende l’iperpoliticizzato Fight the Power degli americani Public Enemy, presente anche nel film di Spike Lee Fa’ la cosa giusta, del 1989), suggerisce i possibili risvolti civili del fenomeno rap, secondo una sorta di tradizione “impegnata” perfettamente italiana. E, tuttavia, in particolare lo studioso del ritmo ha modo di cogliere la natura ancipite del testo: la sua ricchezza di rime, la sua scansione in membri versali percepibilissimi, il suo profilo insomma metrico, tuttavia convive con qualcosa di eliminabilmente prosastico, si nutre di una humus che è discorsiva e anzi espositivo-argomentativa. Si dice che il rap sia la CNN dei poveri; e ciò sta in effetti a suggerire che i suoi contenuti, pur formalizzati con tecniche in senso lato “poetiche”, negano ogni appartenenza di natura seppur vagamente lirica. L’MC, a ben vedere, pur con tutto il suo individualismo muscolare e conflittuale, non esprime tanto sé stesso quanto una comunità. Il suo esserne almeno idealmente leader lo costringe a rendere ancora più affilata e rappresentativa la parola. Il testo prosastico – appunto di Fight da faida – è qui stato diviso nei segmenti metrici ritenuti pertinenti. Padre contro figlio, | fratello su fratello, | partoriti in un avello | come carne da macello, | uomini con anime | sottili come lamine, | taglienti come il crimine, | rabbiosi oltre ogni limite, | eroi senza una terra | che combattono una guerra | tra la mafia e la camorra, | Sodoma e Gomorra, | Napoli e Palermo | succursali dell’inferno, | divorate dall’interno | in eterno, | da un tessuto tumorale | di natura criminale | mentre il mondo sta a guardare | muto senza intervenire. | Basta alla guerra fra famiglie | fomentata dalle voglie | di una moglie colle doglie | che oggi dà la vita ai figli | e domani gliela toglie, | rami spogli dalle foglie | che lei taglia come paglia | e nessuno se la piglia: | è la vigilia di una rivoluzione | alla voce del Padrino, | ma don Vito Corleone | oggi è molto più vicino: | sta seduto in Parlamento. | È il momento di sferrare | un’offensiva terminale, | decisiva, radicale, distruttiva, | oggi uniti più di prima alle cosche, | fosche attitudini losche, | mantenute dalle tasse, | alimentate dalle tasche: | basta una busta | nella tasca giusta | in quest’Italia così laida... In effetti, la situazione della canzone negli anni novanta è ricchissima di motivi evolutivi, anche perché il mondo hip-hop era stato preceduto, in alcune sue innovazioni, dallo sviluppo del reggae dialettale (già alla fine degli anni ottanta i Pitura Freska, che cantano in veneziano, avevano raggiunto un ampio successo); ma in seguito le contaminazioni si 277 MODERNITÀ ITALIANA moltiplicano in modo quasi incontrollabile, all’insegna di una continua ibridazione dal basso. Fautori sin dal 1992 di uno strampalatissimo incontro fra dialetto torinese e sonorità africane e sudamericane, i Mau Mau diverranno assertori di una “poetica” della patchanka (la definizione in realtà si deve a Manu Chao, un artista di cui, non a caso, è quasi impossibile definire l’identità nazionale e che canta in un numero impressionante di lingue diverse...): finita l’epoca delle musiche d’arte contrapposte a quelle commerciali, oggi il musicista si sente legittimato a pescare disordinatamente dalle tradizioni che più gli aggradano onde giungere alla propria personalissima sintesi. In questo Marasma General (titolo di un doppio album appunto dei Mau Mau, del 2001, che documenta aspetti dell’attività dal vivo del decennio precedente) da un lato i generi si moltiplicano a dismisura diramandosi in continue sottospecificazioni, dall’altro la prassi della patchanka li relativizza e rende impraticabili. Un simile atteggiamento, si noterà, quasi rovescia il postmoderno anni ottanta: ora, non si tratta di degradare materiali nobili (di inserire il Risorgimento o Adorno in un contesto dance – alla maniera di Battiato), ma davvero di giocare orizzontalmente con quanto il cantante ha a disposizione, e ritiene appartenere alla sua cultura. In questo senso, dobbiamo segnalare per lo meno due tendenze ormai chiare intorno alla metà degli anni novanta e arrivate felicemente sino alla fine degli “anni Zero”. 1. Una nuova generazione di cantautori che, eredi soprattutto di Paolo Conte e Rino Gaetano (di una tradizione, voglio dire, anch’essa non lirica) e in parte di certi modi compositivi del Battiato “canzonettiere”, lavorano su pattern musicali massimamente eclettici, al limite del commerciale, ma sanno anche mantenere una spiccata indipendenza “artistica”. 2. La terza ondata del rock italiano che per la prima volta nella storia del genere sembra in grado di definire un rapporto non squilibrato fra parole e musica, e anzi (anche grazie alla lezione di un vecchio maestro come Giovanni Lindo Ferretti) propone le forme di una nuova testualità. Nel 1997 il trentenne Max Gazzè incide un singolo, Cara Valentina, il cui testo suona più o meno così: Cara Valentina il tempo non fa il suo dovere e a volte peggiora le cose. Credimi pensavo davvero di avere superato il momento difficile ed ancora adesso non mi è chiaro lo sbaglio che ho fatto se il vero sbaglio è stato il mio perché dai miei trent’anni ti aspettavi un uomo col senso del dovere perché chi s’innamora non deve dirlo a nessuno 278 6. CANZONE oppure è un’impudente enfatica demenza nel farti le carezze girata dall’altra parte. Ho la strana sensazione di un amore acceso esploso troppo presto fra le mani e cara Valentina che fatica innaturale perdonare a me stesso di essere io di essere fatto così male. Cara Valentina il tempo non fa il suo dovere e a volte peggiora le cose... E tu sarai il pretesto per approfondire un piccolo problema personale di filosofia su come trarre giovamento dal non piacere agli altri come in fondo ci si aspetta che sia. Per esempio non è vero che poi mi dilungo spesso su un solo argomento... Naturalmente, la storia della canzone italiana è tessuta di testi in forma di lettera (la generazione anni settanta avrà nell’orecchio L’anno che verrà di Lucio Dalla, del 1978; e già nel 1912 Cara piccina di Lama-Bovio aveva realizzato “epistolarmente” uno dei primi modelli di lirismo canzonettistico nazionale); ma qui c’è qualcosa d’altro. E non è solo per il finale, forse noto, in cui l’enunciatore chiede di non essere accusato di apparire troppo ripetitivo, ma lo fa ripetendo ossessivamente la stessa frase, cioè gli ultimi due versi... A me sembra invece che qui per la prima volta, almeno nella canzone italiana, sia in primo piano il fluente e leggermente sconclusionato italiano dell’e-mail, dello scrivere e scriversi per posta elettronica; una dimensione proverbialmente orizzontale e scarsamente strutturata, che tuttavia in questo caso – nella geniale sintesi di Gazzè – viene costretta a chiudersi su sé stessa per l’iniziativa latamente metrica della musica. È un modulo, questo, che troverà fortuna nel decennio successivo (ci ritorneremo). Ogni conato lirico, ogni serietà, con tutta evidenza, implodono. Il gioco di Gazzè è volutamente surreale; basti pensare alla malizia anche ritmica con cui scrive nel Timido ubriaco (2000) versi che quasi sembrano rifarsi a forme metriche, a base bisillabica, presenti nella poesia francese (per esempio in Hugo): Sposa domani ti regalerò una rosa Gelosa d’un compagno non voluto temuto Stesa caldissima per quell’estate accesa 279 MODERNITÀ ITALIANA Fanatica per duri seni al vento io tento Tanto quell’orso che ti alita accanto Sudato che farebbe schifo a un piede non vede Dorme tapino non le tocca le tue forme Eppure è ardimentosa la sua mano villano. E se Daniele Silvestri ha estremizzato certi virtuosismi testuali utilizzando anche suggestioni rap (ma puntando su temi leggermente più scontati), è Vinicio Capossela che negli anni novanta va nella direzione d’una canzone d’autore per certi aspetti “alta” ma anche fortemente contaminata. Anzi, la teatralizzazione, che Capossela ha imparato dal suo maestro Paolo Conte, lo induce a lavorare spesso à la manière de, citando non solo dai suoi autori preferiti (Fante, Kerouac, Bukowski, Céline, Fellini), ma scrivendo – per esempio – una specie di parafrasi della Pioggia nel pineto, ambientandola a Milano (cfr. Pioggia di novembre, 1996), o riprendendo il Codice di Perelà di Palazzeschi (cfr. Marajà, 2000). Del resto, pur progettando i suoi album in modo concettuale, è vero che Capossela soprattutto verticalizza le canzoni, e le concepisce come entità comunicative autonome in cui una “storia” giunga a pieno compimento. L’intento, meritorio, è proprio quello di distruggere ogni residuo di poeticità, di spiegare a chiare lettere che chi canta non è Vinicio Capossela. Prendiamo Body guard, contenuta in Il ballo di San Vito (1996). Su un ritmo in levare, di fatto un reggae, ascoltiamo il rovesciamento di Vita spericolata di Vasco Rossi: un io non meno propenso alla trasgressione (fino all’iperbole e allo zeugma: «qui in un attimo sei fritto / coca pillole e vinazza / aspirati in quantità») chiede per sé non il piacere del rischio ma la certezza della difesa dai pericoli, vale a dire una serie sempre più numerosa di body guard, che tutelino la sua ipocondria: Sì, io la voglio la body guard che mi protegga dalla volgarità sì io chiedo una body guard perché adesso vivo nell’oscurità. Da questo punto di vista, i rocker italiani anni novanta denunciano, in prima battuta, una fisionomia quasi opposta, dal momento che in loro la rabbia, lo sfogo individuale sembrano imporsi sopra tutto il resto, al280 6. CANZONE l’insegna di una vitalità che violenta le parole dall’esterno, e in modo abbastanza grezzo. L’a priori musicale e strumentale è in effetti una loro – peraltro ovvia – caratteristica. Ma a guardare le cose più da vicino tale impressione va parecchio ridimensionata. Intanto, un elemento di interesse è costituito da una certa oltranza verbale, per esempio negli Afterhours («So che lei sa / strategie dell’apnea / che sono sue amiche, che sono ferite / novità il vero che muore / succhiandomi il cazzo svanisce / il risveglio dal sogno / forse uccide, mai tradisce»; Strategie, 1995); e poi colpisce che nei Massimo Volume il testo possa trasformarsi in una mera prosa narrativa, di impianto noir, che riduce al minimo ogni sviluppo melodico e dà luogo a un semplice recitativo. Basta leggere l’incipit di Ronald, Tomas e io (1993) – in cui tra l’altro colpiscono al terzo verso certi congiuntivi ipercorretti: Roffe ha un buco sulla testa una cicatrice dieci centimetri sopra l’occhio destro. Sembra che se cada e batta in quel punto muoia sul colpo. Così mi disse Tomas, e così è andata. Ma questo è successo tempo dopo. Io ormai non abitavo più lì, e nemmeno Tomas. Ma lo ricordo bene, Roffe. Altri gruppi come i Bluvertigo e i Marlene Kuntz mettono a partito la lezione di Giovanni Lindo Ferretti, vale a dire la costruzione di testi intonati sì, ma dallo sviluppo orizzontale, monotono, quasi da litania, entro il quale un ritmo dattilico tende a farsi dominante: Orso si sposta goffamente con passo irregolare nel flusso irregolare della gente che scontra; le mani dentro a un buco, tasche sfinite vociare di monete obsolete Orso ci vede nebulosamente, nebulosamente: già. Ne discende una diversa percezione del rapporto fra testo e musica: le parole riempiono una vera e propria mascherina metrica, frutto del ritmo musicale, che sempre più torce la lingua italiana e la strania costringendone il polisillabismo “nativo” a interruzioni e spezzature interne innaturali. In questo senso, rock e rap convergono. Cristiano Godano, la voce dei Marlene Kuntz, nella canzone appena citata (Sonica, 1994) scandisce «nebulòsa-ménte», rietimologizzandola come se fosse composta di due parole separate; e in una più recente incisione del gruppo (Uno, 2007) si odono esecuzioni di questo genere: «la tua presenzà / rassicurante e ipnoticà / mi affascinà / e gioca col mio sennò / e 281 MODERNITÀ ITALIANA né lascia [...]», che nella canzone anche di livello medio-basso d’oggi sono divenute assolutamente normali. “Anni Zero”. I ritmi, il testo infinito Il fatto è che negli ultimi vent’anni, anche al di là (o al di qua) delle sperimentazioni più coraggiose e indipendenti e della couche cantautorale, il modo stesso di concepire la canzone è andato incontro a una modernizzazione che ha imposto nuovi stili e nuove maniere (cfr. in generale Antonelli, 2005). Persino interpreti di cassetta come Luca Carboni, Samuele Bersani, Gianluca Grignani ma anche come il “vecchio” Eros Ramazzotti o come il giovane e oggi fortunatissimo Tiziano Ferro, e poi le voci femminili di Giorgia, Irene Grandi, Carmen Consoli, nonché, e certo soprattutto, di Laura Pausini, configurano l’esistenza di una canzone italiana mainstream di portata internazionale che presenta caratteristiche almeno in parte da scoprire. Certo, talune strutture di fondo – come l’annosa alternanza strofa-ritornello – sono grosso modo rispettate; ma è vero che anche nei più emotivi ed emozionati Pausini e Ferro sono presenti interessanti teatralizzazioni dinamiche. Ad esempio, in un hit davvero mondiale come Il regalo più grande di Tiziano Ferro (2008: il video che lo accompagna è stato girato a New York, in perfetto stile Muccino) può succedere che il ritornello, pur sottolineato in modo enfatico (anche attraverso una salita di tonalità conforme a una procedura del tutto canonica), in realtà non abbia affatto una struttura melodica molto articolata, gerarchizzata, anzi appaia piuttosto ripetitivo; e sia possibile che la conclusione non venga affidata all’acme del ritornello ma a una coda con testo sussurrato e poco intonato, che ha il ruolo di smorzare il sound e di aumentare la drammaticità dell’esecuzione. Ma, soprattutto, le parole sono una specie di gesticolazione testualmente ipercoesa (su questo fenomeno nella canzone sanremese cfr. Arcangeli, 1999), non senza qualche goffaggine. L’elocutore segnala la perfetta chiusura su sé stesso del proprio sentimento con una fitta trama di connettivi (uno dei quali approssimativo, come si noterà: «che / anche che» corrisponde a “anche se”): Vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché di notte chi la guarda possa pensare a te per ricordarti che il mio amore è importante che non importa ciò che dice la gente perché tu mi hai protetto con la tua gelosia che anche che molto stanco il tuo sorriso non andava via 282 6. CANZONE devo partire però se ho nel cuore la tua presenza è sempre arrivo e mai partenza. La canzone sentimentale, dunque, non presenta melodie intrinsecamente troppo patetiche , e punta piuttosto sulla presenza “scenica” e vocale dell’interprete, quasi sulla sua attorialità, sulla capacità di porgere innanzi tutto con la grana della voce, con il nesso inscindibile, “auratico” per certi versi, voce-corpo. E anche la sintassi, ripeto, si sta (melo)drammatizzando. Va ribadito con forza: una forma nuova di testualità sta prendendo corpo, e la capacità di affabulazione infinita di un certo tipo di nuova canzone è un dato inequivocabile. Se negli anni novanta era stato possibile un fenomeno come quello degli 883, capaci di concentrare storie ricchissime ed espressive in pochi azzeccati (e sghembi) versi, alla fine del decennio e poi nel 2000 una certa canzone di qualità è quella che riesce a intonare parole di questo genere: Ma come posso dare l’anima e riuscire a credere che tutto sia più o meno facile quando è impossibile volevo essere più forte di ogni tua perplessità ma io non posso accontentarmi se tutto quello che sai darmi è un amore di plastica. Certo, chi ha nell’orecchio la voce di Carmen Consoli sa benissimo che Amore di plastica (1996) è una canzone che funziona alla perfezione perché c’è quella impetuosa e particolarissima voce che “imburra” il testo (Parole di burro è il titolo di un suo pezzo del 2000) e lo fa scorrere senza alcuna difficoltà sino allo scioglimento, slalomando tra sdrucciole rese tronche o atone accentate (animà, facilé, ché) e soprattutto tra i continui enjambements. Di nuovo, infatti, a colpire è l’allure da scrittura dell’io poco raffinata – di nuovo l’e-mail, si potrebbe dire –, che tuttavia non è lasciata del tutto a sé stessa, a una vaga soggettività desiderante, perché chi parla, qui, non si limita a esprimere passioni e sentimenti, ma proprio si spiega, argomenta, ragiona. In parallelo, si può inoltre parlare di una letteraturizzazione della canzone degli ultimi dieci-quindici anni, anche in virtù di fenomeni di ibridazione “esterna” un tempo impensabili. Fin dal 1997, Garbo ave283 MODERNITÀ ITALIANA va pubblicato un album (Up the line) contenente pezzi che musicavano parole, tra gli altri, di Aldo Nove e Tiziano Scarpa. Gli stessi due autori insieme a Raul Montanari danno vita nel 2001 a un’operazione assai discussa come il progetto Nelle galassie oggi come oggi. Covers, un libro di poesia pubblicato presso la classica collana “bianca” di Einaudi, che tratteggia il paradosso di coverizzare, cioè reinterpretare, canzoni (originariamente in inglese, peraltro) con l’ausilio però solo della poesia del verso. Ovviamente si tratta di un confronto intermediale del tutto impossibile, ma efficace sul piano della provocazione, nel momento in cui costringe a riflettere sulle modalità enunciative radicalmente diverse della poesia e della canzone (su tutto ciò, cfr. Giovannetti, 2008). E poi ci sono i ResiDante (Il fronte interno, 2003) che hanno musicato poesie del poeta Gabriele Frasca, il quale tra l’altro ha spesso eseguito pubblicamente certi suoi testi cantandoli. E la registrazione del 2007 dei Marlene Kuntz, sopra ricordata, si accompagna ai cammei testuali commissionati a scrittori, diciamo, ufficiali (Carlo Lucarelli, Stefano Benni, Enrico Brizzi, tra gli altri). E così via. Non sempre fortunatissime né di qualità necessariamente eccelsa (colpisce per esempio l’esito deludente della collaborazione Gianna Nannini-Isabella Santacroce, con l’album Aria del 2002), simili ricerche confermano proprio il bisogno di implementare la testualità infinita della canzone, la sua vera e propria fame di parole. Molta di detta letterarietà si configura, nei testi più diffusi, come un flusso poco gerarchizzato. Lo confermano molti fattori. Poniamo: dalla persistente produttività del rap, che continua a sfornare giovanissimi nuovi talenti capaci di incastri metrici spesso originali e complessi, all’emergere di figure eclettiche come quella di Simone Cristicchi, che vince a Sanremo nel 2007 con una canzone di «impegno sociale» (così è stata definita la sua Ti regalerò una rosa) e che è dotato di una capacità affabulatoria tecnicamente notevole, non lontana dalle tecniche hip-hop. E ancora: da un uso nuovo (quasi descrittivo, se non proprio narrativo) delle canzoni all’interno di film di successo, come per esempio è capitato a Carmen Consoli nell’Ultimo bacio di Gabriele Muccino (2001) oppure con l’inserimento di pezzi dei Negramaro nel film La febbre (2005) di Alessandro D’Alatri, al successo per lo meno di critica del gruppo reggiano degli Offlaga Disco Pax, che non presenta canzoni ma pezzi recitati dal contenuto un po’ demenziale (ma il modello vero sembra essere il Woobinda di Aldo Nove), un po’ esplicitamente politico. Da un estremo all’altro, si dispiega un campo di invenzioni discorsive, estemporanee forse, ma non di rado convincenti. Certo, può capitare che in queste corse attraverso le parole si verifichino i curiosi fenomeni di deformazione più volte ricordati; e che per esempio nella brillantissima Lo scrutatore 284 6. CANZONE non votante di Samuele Bersani (una variazione, anno 2006, sulla struttura tropica dell’ossimoro) Lo scrutatore non votante [...] si è comperato un mangia-carte per sbarazzarsi della verità. Lo scrutatore non votante è sempre stato un uomo fragile poteva essere farfalla ed è rimasto una crisalide telefonate al cartomante che non contatta neanche l’aldiquà, il cantante sia costretto a pronunciare vèrita e (!) àldiqua per restar dentro alla gabbia metrica prescelta. Se trent’anni fa Pier Marco Bertinetto (1981) riteneva solo sporadici e occasionali i fenomeni di forzatura della prosodia italiana ereditata nella direzione dell’inglese, vale a dire nella direzione di una lingua a isocronia accentuale (laddove l’italiano sarebbe una lingua a isocronia sillabica), ciò oggi appare meno certo; e anzi sono molti i segnali di un intacco strutturale della lingua italiana di canzone da parte di una metrica accentuativa di origine appunto inglese. Che nuovi ritmi e una diversa qualità della prosodia dell’italiano stiano facendo capolino, è forse una buona notizia. Il lungo lavoro extraistituzionale – ai margini del sistema letterario e di quello musicale colto – svolto dalla canzone italiana rinnovata dà frutti inattesi, e la sua vitalità è indubbia. In questo senso, persino un evento massificato come il talent show intitolato X Factor può essere letto quale sintomo di un protagonismo dal basso, irruzione nell’ormai senile televisione di una sensibilità giovanile attenta al nesso corpo-voce così importante per il mondo della canzone. In fondo, il talento commerciale di Giusy Ferreri – classificatasi seconda nella prima serie della trasmissione (2008), ma di fatto una specie di sua “vincitrice morale” – passa attraverso una voce bella e originale; e la struttura scontata della composizione che più l’ha resa famosa, Non ti scordar mai di me, riesce a rileggere il topos più che mézzo del “non ti scordar di me” con parole prosastiche e disincantate, che non temono di confrontarsi con lo «stare insieme» (= “essere fidanzati”) e l’attenuazione ragionativa dell’«un po’» (per giunta ripetuto); appunto per restituire al tutto parvenze quotidiane. Le solite contraddizioni della canzone – verrebbe da dire. 285 MODERNITÀ ITALIANA Non ti scordar mai di me, di ogni mia abitudine, in fondo siamo stati insieme e non è un piccolo particolare. [...] Forse è anche stata un po’ colpa mia credere fosse per l’eternità. A volte tutto un po’ si consuma, senza preavviso se ne va. Sul versante diametralmente opposto proprio tale disinibita discorsività consente al giovane ferrarese Vasco Brondi, che si firma Le Luci della Centrale Elettrica (quasi si trattasse di un gruppo), di concepire testi di cupa violenza politica, eseguiti con una voce urlata e monotona, espressionistica, che racconta l’angoscia dei precari “anni Zero”. E il fatto notevole – certo – è che molti testi di questo autore nascono dalla trasposizione in versi di pagine originariamente prosastiche, “postate” in un sito web. Sempre più lontana dalla poesia, ma sempre più sociale, insomma, la nuova canzone italiana un po’ invera un po’ tradisce le sue radici anni settanta. Ecco nella sua interezza il testo di Nei garage a Milano nord (2008) che non indegnamente – forse – ambisce a essere sintesi del disagio (ma anche dell’energia) giovanile; e che negli ultimi versi campiona spettralmente Il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano: I semafori cominciavano a lampeggiare centimetri tra le nostre bocche con un contratto andato a male le istruzioni per abbracciarsi e per ballare negli scompartimenti delle metropolitane sarà l’effetto serra il nostro carcere speciale le fotocopie del cielo milanese. Che Milano era veleno, che Milano era veleno. Era un deserto al contrario un cielo notturno illuminato a giorno da stelle cianotiche da stelle col tuo nome le insegne luminose e i tifosi violenti arruoliamo brigatisti arruoliamo brigatisti arruoliamo brigatisti. Nei bar deserti sui navigli la curiosità ci divorava e staremo ad abbaiare a questo cielo da rottamare abiteremo in un centro sociale affacciato sulle discariche e sul mare ma lavoreremo ancora in nero. 286 6. CANZONE Milano era veleno, Milano era veleno. Era un deserto al contrario un cielo notturno illuminato a giorno da stelle militanti da stelle deficienti dalle p38 caricate a sale Milano da bere Milano da pere amori interinali e poliziotti di quartiere. Nei bar deserti i navigli per ammazzare il tempo ci siamo sconvolti, per ammazzare il tempo ci siamo sconvolti per ammazzare il tempo ci siamo sconvolti, per ammazzare il tempo ci siamo sconvolti. Nei garage a Milano nord nei garage a Milano nord nei garage a Milano nord nei garage a Milano nord. Chi odia i terroni Chi ha crisi interiori Chi scava nei cuori Chi legge la mano Chi regna sovrano Chi suda e chi lotta Chi mangia una volta Chi gli manca una casa Chi vive da solo Chi prende assai poco Chi gioca col fuoco Chi vive in Calabria Chi vive d’amore Chi prende i sessanta Chi arriva all’ottanta Chi muore a lavoro Chi muore a lavoro Chi muore a lavoro Chi muore a lavoro Chi muore a lavoro Chi muore a lavoro. 287