L’ITALIA TRA LE DUE GUERRE: IL FASCISMO  UNITÀ 6
1. LA CRISI DEL DOPOGUERRA
LA DIFFICILE TRATTATIVA DI VERSAILLES
Il 18 gennaio 1919 a Versailles si tenne la conferenza di pace tra le potenze vincitrici della prima guerra mondiale. La
posizione dell’Italia era molto delicata, secondo il Patto di Londra, l’Italia avrebbe dovuto ottenere la Dalmazia,
lasciando la città di Fiume agli Austro-ungarici. Il nuovo Stato Iugoslavo però rivendicò la regione dalmata abitata da
Slavi, in nome del principio di nazionalità. La delegazione italiana guidata dal presidente del consiglio Vittorio
Emanuele Orlando e dal ministro degli esteri Sidney Sonnino mantenne un atteggiamento incerto e ambiguo. Il
governo italiano pretese con forza il rispetto del Patto di Londra, ma contemporaneamente, proprio in base al
principio di nazionalità, cercò di ottenere anche l’annessione di Fiume, città abitata in prevalenza da italiani. Gli
alleati contrastarono queste prese di posizione, in modo particolare Wilson. Il 2 aprile l’Italia lasciò la riunione per
protestare, ma nonostante le grandi manifestazioni di piazza nel Paese e un’accesa campagna di stampa su quella
che si diceva essere una “vittoria mutilata”, il 29 maggio la delegazione italiana fu costretta a ritornare al tavolo del
negoziato per non rischiare di perdere anche quel poco che le spettava.
L’OCCUPAZIONE DELLA CITTÀ DI FIUME
A metà giugno Orlando si dimise e fu eletto presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, un economista di
orientamento liberale democratico. Esso si trovò ad affrontare il malcontento dell’opinione pubblica borghese che fu
rappresentato dalle manifestazioni (che diventavano sempre più frequenti) dei nazionalisti  in particolar modo da
Gabriele D’annunzio, il quale fu l’artefice dell’occupazione della città di Fiume nel settembre del 1919. Il governo
Nitti si limitò a deplorare a parole l’impresa e fece assai poco per sedare la ribellione. A causa di incertezze di Nitti,
nel 1920 tornò al governo Giolitti, il quale firmò il TRATTATO DI RAPALLO (12 novembre 1919) e con ciò si stabiliva
che: la Iugoslavia ottenne la Dalmazia, eccetto la città di Zara; all’Italia fu assegnata l’Istria, Fiume divenne uno stato
libero e indipendente, tutelato dalle Società delle Nazioni.
LA CRISI ECONOMICA
Le conseguenze sociali ed economiche della guerra per lo Stato italiano furono:
- 615.000 caduti e 450.000 invalidi, un bilancio tragico per una popolazione di 36 milioni di abitanti.
- Il debito pubblico passò dai circa 14 miliardi di lire del 1910 ai circa 95 miliardi nel 1920.
- Svalutazione della lira e inflazione galoppante.
Le prime vittime di questa situazione furono proprio quei ceti che fino ad allora avevano costituito la struttura
portante dello Stato italiano: la piccola e media borghesia e i piccoli proprietari terrieri.
La lira perse quasi il 40% del suo valore, mentre il costo della vita aumentò di tre volte. Questa situazione causò
risentimento e malcontento soprattutto in quei piccoli e medi borghesi che in guerra avevano ricoperto ruoli di
comando e speravano di ottenere in patria maggior prestigio sociale.
LE ATTESE DEI CONTADINI
Durante la guerra più volte era stata utilizzata la promessa della “terra ai contadini” per incitare le masse rurali a
resistere. Nel 1914 l’Italia era un paese ancora prevalentemente agricolo. I 9/10 dei proprietari possedevano
soltanto un ettaro di terreno, un’estensione troppo piccola anche per un’agricoltura di sussistenza. Molti piccoli
proprietari erano costretti ad affittare i fondi dai medi e grandi proprietari, oppure a lavorare come braccianti. Era
dunque diffusa una gran fame di terra da coltivare, soprattutto da parte di chi, tornato a casa, aveva trovato i propri
terreni ormai improduttivi.
L’ACUIRSI DELLE LOTTE SOCIALI
Grazie alle commesse di guerra l’apparato industriale italiano aveva incrementato la produzione. Era cambiata anche
la fisionomia del vecchio Stato liberale, divenuto il primo cliente delle grandi industrie siderurgiche e meccaniche e
allo stesso tempo un importante distributore di impieghi. Lo stato aveva promosso lo sviluppo della grande industria.
Chi aveva rischiato la vita nelle trincee, fu in prima linea anche nel subire le pesanti conseguenze economiche della
guerra: in Italia come altrove, la necessità della riconversione della produzione determinò una crescente
disoccupazione. In un simile contesto divennero sempre più aspre le lotte sociali, tra il 1918 e il 1920 aumentarono
gli iscritti alla CGL e alla CIL. Per la prima volta si poteva parlare in Italia della presenza di masse operaio, in buona
parte specializzate, consapevoli del proprio ruolo sociale e agguerrite nel portare avanti le rivendicazioni sociali.
LE CONQUISTE SOCIALI DI OPERAI E CONTADINI
La situazione sociale ed economica italiana divenne esplosiva, in particolar modo moltiplicarono gli scioperi. Fu
significativa l’azione della Federterra che portò all’occupazione dei terreni non coltivati. Con questo movimento si
affacciò anche il “BOLSCEVISMO BIANCO”, rappresentato da gruppi di militanti cattolici che proponevano soluzioni
non molto diverse da quelle dei socialisti; ad esempio Miglioli occupò delle terre incolte in Val Padana, instaurando il
CONSIGLIO DI CASCINA, strumento giudicato idoneo per la gestione diretta delle terre da parte dei coltivatori. Le
lotte ottennero qualche risultato:
- Aumenti salariali per i braccianti.
- Parziale redistribuzione delle terre incolte occupate.
- Giornata lavorativa di otto ore.
- Gli aumenti salariali degli operai cominciarono a seguire l’andamento dei prezzi.
IL PARTITO POPOLARE ITALIANO
Il 18 gennaio 1919 don Luigi Sturzo fondò il Partito Popolare Italiano (PPI) che segnò il coinvolgimento diretto dei
cattolici nella vita politica dell’Italia. Tale partito riuscì in poco tempo a proporsi come partito di massa ed esso si
rivolgeva soprattutto ai piccoli proprietari terrieri e alla piccola borghesia. Sturzo si distaccò sia dai socialisti sia dai
liberali. La piena riuscita del suo progetto fu la chiara distinzione tra appartenenza ecclesiale e adesione elettorale (il
cosiddetto aconfessionale). Il consenso, cioè, non fu chiesto sulla base delle personali convinzioni di fede ma a
partire dalla condivisione di un progetto politico proposto a tutti, senza distinzioni di sorta.
Laico, non confessionale, costituzionale e non classista: questi furono i pilastri su cui don Sturzo fece crescere il PPI,
secondo lo spirito della dottrina sociale della Chiesa.
I FASCI DI COMBATTIMENTO
Il 23 marzo 1919 nacquero i FASCI DI COMBATTIMENTO fondati da Benito Mussolini a Milano. Inizialmente si trattò
di un piccolo gruppo politico dall’ideologia confusa che non attirò l’attenzione pubblico e si collocò politicamente a
sinistra, battendosi per radicali riforme sociali. Il manifesto politico dei fasci fu chiamato PROGRAMMA DI SAN
SEPOLCRO, dal nome della piazza milanese dov’era la sede. In campo sociali i fascisti proposero il minimo salariale, la
giornata lavorativa di otto ore e la gestione dell’impresa estesa anche ai rappresentanti dei lavoratori, inoltre si
battevano sul capitale e per l’estensione del voto alle donne. In breve tempo, Mussolini si sbarazzò di questo
programma e il movimento si caratterizzò soprattutto per l’aggressività verbale dei suoi membri e la violenza della
loro condotta. Il 15 aprile 1919 i Fasci attaccarono e incendiarono la sede del giornale socialista, l’”Avanti!”.
2. IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA
LE ELEZIONI DEL 1919
Nel novembre 1919 si tennero delle elezioni e per la prima volta venne utilizzato il sistema proporzionale voluto dai
socialisti e dai popolari, e ora il confronto si spostava tra le diverse liste di partito. Ebbero la meglio i due grandi
partiti di massa:
- Il Partito socialista si affermò come primo partito.
- Secondo per consensi fu il Partito popolare.
- I vecchi gruppi liberal-democratici subirono un drastico ridimensionamento.
Questi risultati elettorali non riuscirono a dare stabilità al Paese, anzi ne acuirono le difficoltà.
L’OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE
Dopo gli scioperi e le proteste, nel 1920 si passò ad occupare le fabbriche. Il sindacato dei metalmeccanici (FIOM)
aveva chiesto agli industriali l rinnovo del contratto per ottenere aumenti salariali, ma gli industriali respinsero ogni
richiesta, allora i sindacati proclamarono uno sciopero bianco, gli operai cioè entravano in fabbrica ma non
lavoravano; gli industriali allora dichiararono la chiusura degli stabilimenti. In agosto scattò l’occupazione delle
fabbriche, dove gli operai presero il controllo degli stabilimenti, organizzarono servizi armati di vigilanza e in alcuni
casi tentarono di proseguire la produzione. Il movimento fu incapace di estendersi ed era privo di idee precise sulla
strategia da attuare per rovesciare lo Stato. Tra i gruppi rivoluzionari più attivi e preparati si distinse quello torinese
raccolto intorno alla rivista l’”Ordine Nuovo”, tra i cui fondatori vi fu anche Antonio Gramsci.
La rivista aveva più volte indicato agli operai lo strumento rivoluzionario dei consigli di fabbrica per acquistare
maggiore potere nel controllo delle aziende e nella società.
LA MEDIAZIONE DI GIOLITTI
Nel giugno 1920 a capo del governo vi era Giolitti, il quale era convinto che l’occupazione non avrebbe avuto alcuno
sbocco rivoluzionario e assunse un atteggiamento neutrale, rifiutandosi di utilizzare le forze armate. Realizzò invece
un’intelligente opera di mediazione e di riconciliazione tra CGL e industriali; gli operai ottennero aumenti salariali e
la promessa, mai realizzata, di un possibile controllo sulla gestione delle aziende, in cambio sgomberarono le
fabbriche (settembre 1920).
Nonostante la conclusione pacifica, sia gli operai che gli industriali e la borghesia, erano spaventati con il timore di
un nuovo sommovimento e ciò favorì la richiesta di una soluzione reazionaria, antisocialista e autoritaria della crisi
italiana.
NASCE IL PARTITO COMUNISTA
Il socialismo italiano era diviso al proprio interno.
I MASSIMALISTI, guidati da Giacinto Menotti Serrati, i quali avevano come modello da seguire la rivoluzione russa
del 1917.
I RIFORMISTI che contavano su Filippo Turati e Claudio Treves, in minoranza all’interno del partito. Essi rifiutarono il
metodo rivoluzionario ma non riuscirono a far prevalere la propria linea di partecipazione al governo del Paese per
sostenere le riforme sociali.
Al congresso di Livorno del gennaio 1921 le contraddizioni esplosero. E lo stesso Lenin esercitò delle pressioni
affinché fossero applicati i Ventuno punti, in modo particolare di estromettere i riformisti, ma i massimalisti non
vollero arrivare fino a questo punto. In questo contesto la corrente guidata da Gramsci e Bordiga si staccò dal Partito
socialista e fondò il PARTITO COMUNISTA D’ITALIA  ispirato al modello sovietico ed era formato da “rivoluzionari
professionali”.
3. LA MARCIA SU ROMA
LA FORZA DELL’ASSOCIAZIONISMO RURALE
Mentre le lotte sociali del biennio 1919-1920 avevano indebolito e delusa la maggior parte degli operai delle
fabbriche, nelle campagna i contadini erano riusciti a ottenere dei risultati, conquistando miglioramenti salariali
considerevoli, creando una forte struttura organizzativa capace di controllare il mercato del lavoro. Le associazioni
contrattavano direttamente con i proprietari il numero di giornate lavorative necessarie per ogni campo e poi
distribuivano il lavoro tra i loro iscritti. Questo sistema era caratterizzato tra i SALARIATI, da una parte, che miravano
alla socializzazione della terra e i MEZZADRI E I PICCOLI AFFITTUARI, dall’altra, che speravano di riuscire a diventare
proprietari terrieri.
L’ECCIDIO DI BOLOGNA E LA NASCITA DEL FASCISMO AGRARIO
Il 21 Novembre 1920 (giorno dell’insediamento del Consiglio comunale a Palazzo d’Accursio), a Bologna, quando i
sindacò si affacciò sulla piazza per salutare, partirono dalla folla dei colpi di pistola, la gente terrorizzata cominciò a
fuggire e i socialisti incaricati della sicurezza spararono sulla folla provocando una decina di morti innocenti.
I fatti di palazzo d’Accursio segnarono la nascita del FASCISMO AGRARIO, Mussolini (che fino ad ora aveva avuto un
ruolo influente) abbandonò il programma di San Sepolcro e costituì formazioni paramilitari, SQUADRE D’AZIONE, per
intimidire e colpire il movimento socialista, in particolare le organizzazioni contadine. Lo squadrismo ottenne
immediatamente l’appoggio finanziario della borghesia terriera desiderosa di una rivalsa, ma raccolse militanti
soprattutto:
- Tra gli ex combattenti che faticavano a reinserirsi nella vita civile.
- Tra i giovani che volevano impegnarsi contro i nuovi presunti “nemici della patria”.
- Nelle file della piccola borghesia che cercava spazi per affermare l’orgoglio della propria diversità nei confronti
delle masse socialiste.
In pochi mesi le spedizioni punitive delle squadre fasciste aumentarono vertiginosamente e nel successo dello
squadrismo ebbe un ruolo fondamentale la neutralità di una parte della classe dirigente, insieme all’atteggiamento
spesso indifferente delle forze dell’ordine.
I FASCISTI IN PARLAMENTO
Il 15 maggio 1921 Giolitti indisse nuove elezioni e accettò la composizione di LISTE COMUNI (blocchi nazionali)
formate da liberali, gruppi di centro e fascisti, quest’ultimi continuarono a ricorrere alla violenza soprattutto durante
la campagna elettorale. Con queste elezioni il partito comunista subì una lieve flessione; i popolari aumentarono i
consensi. I blocchi nazionali ottennero 275 seggi , 35 dei quali andarono ai fascisti. La speranza dei liberali di
riconquistare un saldo controllo del Parlamento fu delusa, Giolitti ne prese atto, si dimise e salì al governo Ivanoe
Bonomi. A questo punto al congresso dei Fasci del novembre 1921 Mussolini decise di trasformare il movimento nel
Partito Nazionale Fascista (PNL) e cercando di proporsi sempre più come leader politico credibile e affidabile.
Questa nuova strategia fu necessaria per controllare l’ala rappresentata da capi locali, detti ras, come Italo Balbo,
Roberto Farinacci e Dino Grandi. Mussolini riuscì a limitarne la libertà d’azione, ma si rese anche conto di non poter
fare a meno della capacità di proselitismo dei militanti più intransigenti.
LA MARCIA SU ROMA
Luigi Facta sostituì Bonomi quale governo durò solo 6 mesi, ma anche questo di Facta è un governo molto debole.
Nel frattempo Mussolini rimodellò il partito fascista, modificandone il programma:
- Abbandonò le posizioni repubblicane e si dichiarò favorevole alla monarchia.
- Accantonò la critica del capitalismo e sostenne l’opportunità di una politica economica liberista.
- Abbandonò l’anticlericalismo e attaccò il partito popolare di don Sturzo.
Queste nuove posizioni resero più presentabile e credibili il PNF come forza di governo. Il 24 ottobre 1922, Mussolini
riunì a Napoli migliaia di camice nere in vista della MARCIA SU ROMA per assumere il potere con al forza. Facta
chiese al re Vittorio Emanuele III di firmare la proclamazione dello stato d’assedio che avrebbe bloccato la marcia su
Roma, ma lui si rifiutò e il 28 ottobre e colonne fasciste entrarono nella capitale e il 30 ottobre del 1922, Mussolini
ricevette ufficialmente dal sovrano l’incarico di formare il nuovo governo.
4. DALLA FASE LEGALITARIA ALLA DITTATURA
MUSSOLINI AL GOVERNO
Tra il 1922 e il 1924 si svolse la fase legalitaria del fascismo, dove inizialmente Mussolini guidò un governo di
coalizione costituito da fascisti, liberali e popolari. Il 16 novembre 1922 Mussolini si presentò al Parlamento con un
discorso arrogante che gli valse comunque 306 voti favorevoli e 116 contrari. Per realizzare ciò che aveva promesso,
dovette abbandonare la politica economica di Giolitti che colpiva i profitti di guerra e sciolse le amministrazioni
comunali in mano a socialisti e popolari, inoltre pose limiti alla libertà sindacale e adottò una serie di misure
economiche per rivalutare la lira. Ma tutte le opposizioni chiedevano a Mussolini la fine della violenza come arma di
lotta politica. A tale prospettiva si oppose con forza l’ala radicale del partito guidata da Roberto Farinacci. Mussolini
decise allora di creare la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, legalizzando le camice nere.
MUSSOLINI “MODERATO”
Negli anni 1922-24 Mussolini alternò un atteggiamento moderato, riuscendo così a legittimarsi sul piano
internazionale come leader conservatore. Tra i provvedimenti assunti in questo periodo vi sono:
- La RIFORMA DELLA SCUOLA varata dal governo il 27 aprile 1923, sotto la responsabilità del ministro della
Pubblica Istruzione Giovanni Gentile.
- La LEGGE ACERBO approvata dal Parlamento il 14 novembre 1923, che riformava il sistema elettorale in senso
fortemente maggioritario, assegnando alla lista che conquistava la maggioranza relativa (con almeno il 25% dei
voti) due terzi dei seggi alla camera.
Nelle elezioni del 1924 la posizione governativa fu rappresentata da un listone controllato dai fascisti, cui aderirono
anche la maggioranza dei liberali (Salandra e Orlando) e alcuni cattolici conservatori.
Le forze d’opposizione si presentarono profondamente divise, condannandosi alla sconfitta. Il 6 aprile 1924 la
vittoria del listone fu clamorosa, ottenne infatti il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi.
DELITTO MATTEOTTI
Il 30 maggio 1924 il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito Comunista unitario, pronunciò un
coraggioso discorso alla Camera denunciando i brogli e le violenze compiute dalle squadre fasciste in molti seggi
elettorali. Il 10 giugno Matteotti venne rapito a Roma da un gruppo di squadristi e ucciso in auto a pugnalate, il suo
cadavere fu ritrovato in un auto due mesi dopo. Con questo avvenimento vi fu un crollo della popolarità di Mussolini
e del suo partito, ma le opposizioni non riuscirono ad approfittarne. L’opposizione scelse di non partecipare ai lavori
parlamentari e di riunirsi separatamente: gli oppositori si dichiararono disponibili a rientrare in Parlamento solo
dopo il ripristino della legalità e l’abolizione della Milizia, si formò così la cosiddetta SECESSIONE DELL’AVENTINO.
SI AFFERMA LA DITTATURA
Il 3 gennaio 1925 in un discorso alla camera, il duce assunse la responsabilità “politica, morale e storica” di quanto
era avvenuto, gettando le basi per l’instaurazione della dittatura.
L’assassinio di Giacomo Matteotti segnò la morte della democrazia liberale e l’affermazione della DITTATURA
FASCISTA.
5. L’ITALIA FASCISTA
LE LEGGI “FASCISTISSIME”
A partire dal 1925 il fascismo fece approvare una serie di leggi, dette “fascistissime” che segnarono la formazione
della dittatura del fascismo. Fu il giurista Alfredo Rocco ad ispirare il nuovo quadro legislativo:
- L’unico partito politico riconosciuto fu il Partito Nazionale Fascista.
- La figura del presidente del consiglio fu sostituita da quella del “capo del governo”, responsabile solo di fronte al
re e non al Parlamento; fu anche rafforzata l’autorità del capo del governo nei confronti degli altri ministri.
- Si riconobbe al capo del governo il potere legislativo.
- Fu eliminata la carica di sindaco e sostituita con quella di podestà, nominato dal governo.
- Fu eliminata la libertà di stampa e di associazione. Nel 1926 furono sciolti tutti i partiti di opposizione e chiusi i
giornali antifascisti.
- Vennero dati ampi poteri alla polizia segreta (Opera di Vigilanza per la Repressione Antifascista  OVRA)
incaricata di individuare ed arrestare gli oppositori, mentre per giudicarli fu istituito il Tribunale speciale per la
difesa dello stato (comminò decine di condanne a morte e oltre 28.000 anni di carcere).
IL PARTITO UNICO
Mussolini si occupò anche della NORMALIZZAZIONE del partito, dove la violenza squadrista non era più né
opportuna né necessaria. Il partito fascista pose al vertice della sua struttura il Gran Consiglio del fascismo, affidato
alla presidenza di Mussolini, unico organo del partito in cui si discuteva collegialmente di linea politica e questo
assunse anche il compito di designare il capo del governo. Nel 1928 la trasformazione dello stato liberale in STATO
TOTALITARIO fu completata con una nuova legge elettorale, dove il compito di presentare la lista unica fu affidato al
Gran Consiglio. Se la lista avesse ottenuto almeno la metà più uno dei voti sarebbe stata approvata, così i cittadini
non potevano più scegliere i rappresentanti ma poteva solo approvare o meno la lista proposta dal partito: le
elezioni si trasformarono in “plebiscit-farsa” a favore del governo.
PROPAGANDA E CONSENSO
Divenne obbligatorio possedere la tessera del partito per ottenere un posto nell’amministrazione pubblica per
conquistare promozioni e privilegi, furono poi create delle organizzazioni con lo scopo di coinvolgere tutti gli italiani.
L’Opera Nazionale Dopolavoro si occupava del tempo libero dei lavoratori proponendo gite, gare sportive e altre
forme di animazione, mentre il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) stimolava e allo stesso tempo
controllava le attività sportive. Le organizzazioni più importanti furono i Fasci giovanili, i Gruppi Universitari Fascisti
(GUF) e soprattutto l’Opera Nazionale Balilla (ONB). A quest’ultima apparteneva i ragazzi fra gli 8 e i 14 anni ( i
maschi venivano chiamati balilla e le ragazze figlie della lupa) e quelli fra i 14 e i 18 anni (i maschi avanguardisti e le
femmine giovani italiane). I ragazzi venivano educati alla dottrina fascista e al culto di Mussolini con esercitazioni,
marce e parate militari.
I MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA AL SERVIZIO DEL REGIME
Il controllo dell’informazione fu attuato in maniera capillare. La stampa fu sottoposta a censura, i direttori di giornale
non graditi al governo furono sostituiti. Nel 1927 venne fondato un ente radiofonico, l’EIAR (antenato della RAI), la
radio si rivelò uno strumento molto efficace per la diffusione di informazioni; anche il cine ma fu ampliato tanto che
nel 1926 ogni gestore di sala cinematografica fu obbligato a proiettar i cinegiornali dell’Istituto LUCE, casa di
produzione alle dirette dipendenze di Mussolini. Nel 1937 fu infine istituito il Ministero della Cultura Popolare
(MINCULPOP) con l’obiettivo di controllare e orientare tutti gli aspetti della vita culturale italiana.
I PATTI LATERANENSI
Il progetto di rifondare la società in senso fascista si scontrò però con la presenza della Chiesa cattolica, con la quale
vi furono delle trattative che cominciarono nel 1926 e si conclusero l’11 febbraio 1929 con la firma dei PATTI
LATERANENSI (firmarono Mussolini e il cardinale Gasparri). Il documento si componeva di tre parti:
- Un TRATTATO INTERNAZIONALE col quale la chiesa riconosceva ufficialmente lo Stato italiano e la sua capitale,
ottenendo la sovranità sullo Stato della Città del Vaticano.
- Una CONVENZIONE FINANZIARIA che impegnava l’Italia a versare un’indennità al Vaticano per la perdita dello
Stato pontificio.
- Un CONCORDATO che doveva regolare i rapporti tra Stato e Chiesa: esso stabilì, inoltre, che quella cattolica era
la religione di state e ne regolamentò l’insegnamento nelle scuole; furono riconosciuti gli effetti civili del
matrimonio religioso; alla Chiesa venne garantita la libertà nell’amministrazione dei beni ecclesiastici e nella
scelta di vescovi (che dovevano ottenere il gradimento dal governo e dovevano giurare fedeltà allo Stato);
vennero riconosciute le organizzazioni dipendete dall’Azione Cattolica, a patto che agissero al di fuori di qualsiasi
partito politico.
Pio XI espresse soddisfazione per l’accordo raggiunto, al contrario don Luigi Sturzo commentò con amarezza la
conciliazione tra Stato e Chiesa.
LA POLITICA ECONOMICA: DAL LIBERISMO ALL’INTERVENTO STATALE
La prima fase (1922-1925) della politica economista fascista fu di stampo liberista, sotto la guida di Alberto De
Stefani: furono concessi sgravi fiscali alle imprese e stimolata l’iniziativa privata con incentivi; fu ridotta la spesa
pubblica. I buoni risultati raggiunti non furono sufficienti a fermare l’inflazione e a stabilizzare la moneta, così nel
1926 Mussolini decise di cambiare linea politica e nominò ministro delle Finanze Giuseppe Volpi e impostò la nuova
politica economica sulla stabilizzazione della lira, adottando misure protezionistiche.
L’AUTARCHIA
Uno dei primi provvedimenti economici fu l’aumento del dazio sui cereali, accompagnato da una enfatica e
insistente campagna propagandistica, la cosiddetta BATTAGLIA DEL GRANO. Nel 1928 venne iniziato il progetto di
bonifica integrale delle maggiori zone paludose italiane e furono significativi gli interventi realizzati nell’Agro Pontino
dove venne costruita la città di Littoria (oggi latina). Fu questo il primo passo della politica all’autarchia.
La parola AUTARCHIA è di origine greca e significa “autosufficienza”: l’Italia avrebbe dovuto essere in grado di
produrre autonomamente ciò di cui aveva bisogno, evitando la dipendenza dalle importazioni estere. In realtà,
queste misure economiche, ebbero costi sociali molto alti:
- La rivalutazione della lira avvantaggiò le grandi imprese e favorì la concentrazione aziendale, ma colpì i ceti
medio-bassi che subirono una diminuzione della loro capacità d’acquisto.
- La battaglia del grano raggiunse alcuni buoni risultati dal punto di vista produttivo, a scapito però
dell’allevamento e le colture specializzate rivolte all’esportazione.
- L’autarchia, in un paese povere di materie prime come l’Italia, causò un grave indebolimento del sistema
produttivo nazionale.
IL CORPORATIVISMO
Nell’ottobre del 1925 i sindacati fascisti e la Confindustria raggiunsero un’intesa che divenne poi legge nel 1926 e che
prevedeva validità giuridica ai soli accordi stipulati dai sindacati fascisti. In questo modo fu impedita l’azione
sindacale a socialisti, comunisti e cattolici ancora numerosi nelle fabbriche. Secondo Mussolini, i datori di lavoro e i
lavoratori dovevano collaborare nell’interesse della nazione. Questa posizione ideologica propagandata come
“nuova” e distinta sia dalle idee socialiste sia da quelle liberali fu chiamata CORPORATIVISMO. L’ordinamento
corporativo fu enunciato in modo ufficiale dalla carta del lavoro del 1927: tutti i settori di produzione avrebbero
dovuto organizzarsi in corporazioni composte da padroni e lavoratori appartenenti allo stesso settore economico. In
realtà questo ordinamento non funzionò mai e tutto si risolse unicamente a vantaggio degli imprenditori che
riuscirono a tenere basso il costo del lavoro e ad influenzare le decisioni politiche.
LO STATO IMPRENDITORIALE
L’intervento dello stato in campo economico divenne sempre più massiccio negli anni Trenta, anche per fronteggiare
gli effetti della crisi economica del 1929, nel 1931 fu istituito l’istituto Mobiliare Italiano (IMI), un istituto di credito
pubblico capace di sostituirsi alle banche. Nel 1933 fu creato l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che
divenne azionista e acquistò il controllo di alcune grandi aziende italiane. Nella sostanza, decine di imprese furono
salvate grazie ai finanziamenti pubblici. Inizialmente l’IRI doveva essere provvisoria ma nel 1937 divenne un ente
permanente e la sua presenza caratterizzò gran parte della politica italiana del dopoguerra; nacquero, inoltre, enti
assistenziali previdenziali, mutualistici e pensionistici (INPS; ENPAS; INAIL, ecc.)
L’IDEOLOGIA NAZIONALISTA
Il fascismo fu caratterizzato sin dalle origini da una forte componente nazionalista, dove lo stesso Mussolini si
presentava come l’uomo che sarebbe stato capace di far rivivere la gloria dell’antica Roma imperiale e di riscattare il
paese dalle penalizzazioni subite con i trattati di Versailles. Fino agli anni trenta i proclami nazionalisti rimasero vaghi
e il duce preferì mantenere le tradizionali amicizie con Francia e Inghilterra, ma nel 1934 le cose cambiarono, quando
Mussolini decise di conquistare Etiopia.
LA GUERRA D’ETIOPIA
Le truppe italiane invase l’Etiopia il 3 ottobre 1935, senza una dichiarazione di guerra e grazie all’abbondanza di
uomini e mezzi, Addis Abeba fu conquista il 5 maggio 1936. Il re etiope Hailé Selassié fu costretto alla fuga ma iniziò
una logorante guerriglia che i fascisti non riuscirono mai a sconfiggere completamente. Mussolini era convinto che la
conquista dell’Etiopia avrebbe avuto il tacito assenso di Francia e Gran Bretagna, ma la Società delle Nazioni
condannò l’Italia in quanto aggressore di un altro paese membro dell’associazione. Nel novembre 1935 la società
delle nazioni decretò anche delle sanzioni economiche, vietando la vendita all’Italia di beni di interesse militare, ma
non le materie prime (con la quale poté costruire le armi). Ciò fornì a Mussolini l’opportunità di assumere
atteggiamenti vittimistici, divenendo un ottimo argomento propagandistico che garantì al regime il consenso
dell’opinione pubblica nazionale: milioni di sposi donarono l’oro delle proprie fedi nuziali “alla patria”; i giornali
denigrarono i popoli “selvaggi” etiopi da civilizzare e ogni pur timida voce d’opposizione sembrò sparire.
Fu probabilmente questo il periodo in cui Mussolini e il fascismo godettero del maggior consenso.
LA PROCLAMAZIONE DELL’IMPERO
Il 9 maggio 1936 Mussolini annunciò la fondazione dell’Impero dell’Africa Orientale Italiana (AOI) e offrì a Vittorio
Emanuele III la corona di imperatore d’Etiopia. Da un punto di vista economico l’Etiopia non rispose perché era un
paese povero e dal punto di vista politico l’operazione fu un successo. Nel 1936 le sanzioni furono ritirate e Gran
Bretagna e Francia riconobbero l’impero italiano d’Africa (gli inglesi non volevano combattere e accettarono ciò).
L’ALLEANZA CON LA GERMANIA
La conseguenza più grave della guerra d’Etiopia fu l’avvicinamento alla Germania, la quale aveva supportato la
conquista coloniale italiana garantendo rifornimenti di armi e di materie prime. Nell’ottobre del 1936 fu firmato un
patto di amicizia tra l’Italia e Germania (detto ASSE ROMA-BERLINO); non si trattava di un’alleanza militare vera e
propria, perché Mussolini voleva utilizzare questo accordo per fare pressione sulle altre potenze europee affinché gli
venissero riconosciuti i vantaggi in campo coloniale, ma subirà le iniziative del fuhrer.
In quest’epoca l’Italia giunse anche a condividere le aberranti discriminazioni contro gli Ebrei che già
caratterizzavano il nazismo, tanto che nel 1938 il regime fascista prolungò le leggi razziali contro gli Ebrei; questa
adesione indebolì il consenso degli italiani verso il fascismo e prepararono la crisi del regime che sarebbe state
determinata dalla seconda guerra mondiale.
6. L’ITALIA ANTIFASCISTA
IL MAGISTERO MORALE DI BENEDETTO CROCE
A partire dal 1926, l’opposizione al fascismo divenne un reato punito con il carcere o il confino; per fuggire a ciò
molti scelsero di emigrare (come fece Nitti che si rifugiò a Parigi). Gli antifascisti che rimasero in Italia perlopiù si
rassegnarono e rinunziarono a qualsiasi forma di opposizione e gli intellettuali si ritirarono negli studi. Il filosofo
Benedetto Croce fu tollerato dal regime fascista perché era stimato in tutta Europa; Croce, dopo un’iniziale
simpatica per il fascismo, nel 1925 dichiarò il proprio dissenso attraverso il Manifesto degli intellettuali antifascisti
in cui condannò ‘ideologia mussoliniana. La sua rivista continuò ad essere stampata poiché ebbe scarsa efficacia
politica.
GIUSTIZIA E LIBERTÀ
Giustizia e libertà fu un movimento antifascista fondato a Parigi nel 1929 da un gruppo di profughi italiani tra cui
Carlo Rosselli, Emilio Lussu ed Ernesto Rossi. Essi criticavano il fascismo in modo radicale considerandolo privo di
valori etici e condussero la lotta contro il regime con metodi rivoluzionari. Nel 1937 Rosselli insieme a suo fratello
vennero assassinati da sicari fascisti e il movimento si dissolse nel 1940, quando la Francia venne occupata dai
Tedeschi, ma molti dei suoi uomini si riunirono nella resistenza contro l’occupazione nazista in Italia fondando il
Partito d’Azione.
I COMUNISTI IN CLANDESTINITÀ
Il partito comunista fu la forza politica che meglio seppe organizzare un rete di opposizione clandestina in Italia, ma
ciò costò enormi sacrifici. La direzione del partito stabilì la sua sede a Parigi, sotto la guida di Palmiro Togliatti; in
Italia i militanti diffondevano giornali, opuscoli, volantini di propaganda antifascista. La dura repressione che i
comunisti subirono rese poco efficace la loro azione, anche perché fino agli anni Trenta l’opposizione rimase divisa,
solo successivamente iniziarono a realizzarsi accordi politici tra socialisti e comunisti in diversi Stati.
LA CONCENTRAZIONE ANTIFASCISTA
Altri gruppi antifascisti erano composti da repubblicani, socialisti e cattolici; anch’essi continuarono la propria attività
politica soprattutto in Francia dove si rifugiarono. A Parigi gli esuli italiani fondarono nel 1927 un’organizzazione
unitaria, la Concentrazione antifascista: essa si impegnò attivamente in un’opera di propaganda internazionale
contro il regime, anche se agire in Italia fu del tutto impossibile perché la concentrazione non disponeva di un
organizzazione clandestina in Italia.
L’antifascismo ebbe una scarsa influenza sull’opinione pubblica ma con questa rimaneva viva la voce di chi non si
rassegnò al regime, gettando le basi per quel movimento di resistenza armata al nazifascismo che sarebbe sorto in
Italia dopo l’8 settembre 1943.