Primo capitolo del libro

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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
Maritain: perché leggerlo?
1. Maritain: un maestro, anzi un testimone
Il modo migliore per accostarsi alla filosofia sarebbe d’incontrare un filosofo in carne e ossa e d’entrare nella cerchia dei suoi amici più cari. In Occidente – come per altro, analogamente, avveniva con i guru religiosi in
Oriente – i primi pensatori di rilievo (Pitagora, Socrate, Platone, Aristotele
etc.) hanno conosciuto così la filosofia, e così l’hanno praticata: mediante
la convivenza, più o meno stabile, con maestri precisi, reali, determinati, che
concepivano e realizzavano la ricerca del senso delle cose come confronto
reciproco spregiudicato, continuo, appassionato. La filosofia è nata e si è
arditamente propagata perché, prima di diventare proprietà privata dei professori, è stata un’esperienza esistenziale confidata da un testimone all’altro; perché insomma, si potrebbe dire prendendo in prestito una felice espressione di Merleau-Ponty, esercitata originariamente da gente che aveva per
mestiere la propria passione.
Purtroppo, però, la maggior parte di noi non ha tanta fortuna. L’iniziazione filosofica avviene mediante lezioni, libri, corsi universitari, seminari
di studio, conferenze, in cui – nella migliore delle ipotesi – si apprendono notizie e nozioni, più o meno interconnesse; ma non certo anche un metodo, e
direi meglio una mentalità e un atteggiamento filosofici. Si colgono così,
quando si colgono davvero, i risultati di un processo filosofico, di un cammino di ricerca, ma i segreti di questo processo, le sue motivazioni, le sue
difficoltà, le sue verifiche, in una parola Jaspers direbbe la sua sostanza spirituale, rimangono ignoti. È, in un certo senso, come studiare composti chimici senza mai osservare, direttamente e gradualmente, il processo di trasfor-
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Maritain: perché leggerlo?
mazione degli elementi semplici iniziali, o come studiare le condizioni economico-sociali d’una regione di cui s’ignora perfettamente la storia. Prevedibile, dunque, che simile studio della filosofia debba annoiare o, tutt’al più,
incuriosire, senza trasformare intellettualmente ed eticamente chi vi si dedica.
Che fare per ovviare agli inconvenienti di questa metodologia libresca e
tendenzialmente nominalistica che rischia d’impoverire, anzi di snaturare
del tutto, il significato dell’attività filosofica, riducendola se mai ad apprendimento d’idee archeologicamente interessanti oppure solo funzionali
alla prassi politica? Qualche volta mi è stato possibile organizzare l’incontro di miei alunni con personalità del mondo filosofico ospiti in città per
convegni, anche se il clima – spesso pateticamente divistico – dei convegni
non è quello in cui tali personalità riescono a dare l’immagine migliore, più
seria e più sofferta di sé. Qualche rara volta è stato possibile fare di più: difficilmente potrò dimenticare le ore che uno dei maggiori pensatori tomisti
del nostro tempo trascorse nell’aula magna di un liceo con un centinaio di
studenti che, dall’inizio dell’anno scolastico, avevano studiato un suo saggio filosofico. Lui, molto anziano e del tutto canuto, ma pronto e vivacissimo nel rispondere alle domande dei ragazzi che lo attorniavano, e questi ultimi attenti e raccolti come poche altre volte; alla fine, alcuni di loro me lo
confessarono, pochi concetti erano stati davvero afferrati, ma la figura e lo
stile di quell’uomo che aveva intriso la propria vita di spirito filosofico avevano lasciato il segno.
Questo volume su Maritain ha la pretesa – forse ambiziosa, ma solo questa – di costituire un’altra ipotesi di soluzione al problema del raccordo fra i
cultori della filosofia, specialmente più giovani, e i maestri – o, sarebbe
meglio dire, i testimoni – della filosofia del nostro tempo. Maritain è ormai
scomparso da anni, essendosi spento novantunenne, nel 1973, a Tolosa, dove
si era ritirato a vivere in meditazione e in povertà presso una fraternità religiosa di recente fondazione; egli non può più, perciò, incontrare le nuove
generazioni e dialogare, con l’humor e la perspicacia che lo contraddistinguevano, con esse. Ma la voce di Maritain, come quella di tutti i pensatori
autentici, non si è per questo spenta del tutto. Essa riecheggia nella memoria di quanti hanno avuto la possibilità di conoscerlo, di ascoltarlo, di conversare con lui e, in misura certo minore e deludente, nelle pagine da lui scritte
in quasi un secolo d’impegno assiduo e poliedrico.
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
Maritain ha scritto molto, moltissimo: e, come è inevitabile in casi del
genere, non tutto ciò che ha lasciato si può considerare ugualmente valido
dal punto di vista dei contenuti né ugualmente efficace dal punto di vista
dell’espressione. Ciò che, a titolo di modesta ipotesi, viene tentato in questo
volume è di ridare voce a Maritain attraverso alcune delle sue pagine più
intense ed eloquenti; di consentirgli, per così dire, di autopresentare la propria avventura esistenziale e teoretica collocandola nel contesto storico della filosofia moderna e post-moderna.
In questa avventura non son mancate cadute di tensione, fughe in avanti,
sterzate brusche: senza voler svolgere un discorso completo sulla letteratura
critica dedicata a Maritain, saranno rilevati anche alcuni di questi limiti della riflessione maritainiana. Tuttavia mi pare che abbiano ragione quanti si
rifiutano di riconoscere una frattura fra il “primo” Maritain (quello, per intenderci, guardato con sospetto di eccessivo progressismo prima del concilio ecumenico Vaticano II degli anni 1963-65) e il “secondo”; con accenti,
interessi, angolazioni differenti, mi pare che si riveli una medesima, forte
personalità filosofica caratterizzata da tre o quattro note precipue nel panorama
culturale del Novecento. Sì, Maritain è restato, nel bene e nel male, sostanzialmente fedele a se stesso: è solo perché la società e la sua chiesa sono
andate rapidamente avanti ch’egli ha potuto dar l’impressione di fare dei
passi all’indietro.
2. Maritain: la passione per l’essere
La prima delle note che caratterizzano la fisionomia intellettuale di Maritain si potrebbe considerare la sua prospettiva realistica: egli ha coltivato,
consapevolmente e ininterrottamente, una forte passione per l’essere. Per lui,
essere filosofo significa, innanzi tutto e fondamentalmente, essere uno scrutatore di ciò che è. In una pagina molto arguta – e molto provocatoria – scritta da ultra-ottantenne, Maritain arriva a proporre una riforma del vocabolario corrente e, più precisamente, una ricatalogazione degli autori presenti
nella storia della filosofia in due classi distinte: quella dei filosofi (i realisti
di ogni genere) e quella degli ideosofi (gli idealisti di ogni genere). Chi sarebbero questi ultimi?
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Maritain: perché leggerlo?
Mi riferisco a Cartesio, al padre dell’idealismo moderno, e a tutta la serie dei
suoi eredi che, operando ognuno mutamenti al suo sistema, seguirono una curva
evolutiva di una logica interna irresistibile. Tutti questi uomini cominciano
col solo pensiero e lì si fermano, sia che neghino la realtà delle cose e del mondo (Cartesio vi credeva ancora, ma in ragione di un colpo di bacchetta magica del Dio del cogito), sia che in un modo o nell’altro la riassorbano nel pensiero. Che vuol dire questo? Essi ricusano fin dall’inizio proprio ciò su cui fa
presa il pensiero e senza del quale esso non è che sogno – la realtà da conoscere e da capire, che esiste, vista, toccata, afferrata dai sensi, con la quale ha
a che fare direttamente un intelletto che è quello d’un uomo e non di un angelo, la realtà, sulla quale e a partire dalla quale un filosofo è nato per interrogarsi: e senza questo egli è nulla. Essi ricusano il fondamento assolutamente primo del sapere filosofico e della ricerca filosofica. Assomigliano a
un logico che rifiuti la ragione, a un matematico che rifiuti l’unità e la dualità, a un biologo che rifiuti la vita. Fin dall’istante in cui si misero in cammino essi volsero le spalle al sapere filosofico e alla ricerca filosofica. Quindi
non sono filosofi.1
Dopo aver precisato che “ciò non significa affatto che un filosofo dovrebbe metterli da parte e considerarli giocolieri”, dal momento che “il loro
contributo alla storia del pensiero fu immenso” e che, in particolare, “obbligarono i filosofi a prendere più esplicitamente coscienza dell’attenzione che
devono portare alla teoria della conoscenza e all’esame critico delle sue vie”,2
Maritain perviene alla conclusione – non proprio corrente – cui alludevo
poco sopra:
Di tutti i pensatori – e grandi pensatori – la cui discendenza s’inizia da Cartesio non metto in discussione né l’eccezionale intelligenza, né l’importanza, né il valore, né, talvolta, il genio. Contesto loro solo una cosa, ma con
tutte le mie forze e con la certezza di avere ragione: ed è, tranne naturalmente per ciò che riguarda Bergson (e forse Blondel), il loro diritto al nome
di filosofi. Per quanto si riferisce a loro, è un nome da spazzar via subito,
non sono filosofi; sono ideosofi; ecco il solo appellativo adatto, col quale
conviene chiamarli. Di per sé non ha valore peggiorativo, designa semplicemente un’altra via di ricerca e di pensiero di quella filosofica. Prego fermamente il lettore di non considerare quanto ho detto come una battuta da
vecchio pazzo. Sono vecchio, ma non sono pazzo e non ho mai parlato più
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1
J. Maritain, Il contadino della Garonna (1966), trad. it. di B. Tibiletti, Morcelliana, Brescia,
1977, pp. 152-153.
2
Ivi, p. 153.
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
seriamente. È sempre importante l’esattezza della terminologia: nel caso
presente ha un’importanza essenziale.3
Non si potrebbe esprimere più efficacemente di come ha fatto Maritain
stesso la sua passione per l’essere quale oggetto “formale”, nel senso di epistemologicamente specificatore, dell’indagine filosofica. Sarebbe interessante documentare come questa nostalgia del reale, dopo le delusioni del soggettivismo in tante versioni, attraversi larga parte della cultura – non solo
filosofica – del Novecento; ma ciò ci porterebbe lontano. Può forse sostituire molti altri rimandi il riferimento a un brano del notissimo romanzo
Siddharta in cui, almeno a mio parere, Hermann Hesse evidenzia l’istanza
realistica nei confronti della prospettiva, per molti aspetti suggestiva e istruttiva, orientale (induista e buddhista):
Si guardò attorno come se vedesse per la prima volta il mondo. Bello era il
mondo, variopinto, raro e misterioso era il mondo! Qui era azzurro, là giallo,
più oltre verde, il cielo pareva fluire lentamente come i fiumi, immobili stavano il bosco e la montagna, tutto bello, tutto enigmatico e magico, e in mezzo v’era lui, Siddharta, il risvegliato, sulla strada che conduce a se stesso.
Tutto ciò, tutto questo giallo e azzurro, fiume e bosco, penetrava per la prima volta attraverso la vista in Siddharta, non era più l’incantesimo di Maja,
non era più il velo di Maja, non era più insensata e accidentale molteplicità
del mondo delle apparenze, spregevole agli occhi del Brahmino, che, tutto dedito ai suoi profondi pensieri, scarta la molteplicità e solo dell’unità va in
cerca. L’azzurro era azzurro, il fiume era fiume [...] Io che volevo leggere il
libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere a favore di un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua
fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto,
mi sono risvegliato nella realtà e oggi nasco per la prima volta.4
Dicevo sopra che rintracciare le testimonianze di nostalgia del reale extra-mentale nel panorama filosofico-culturale del XX secolo ci porterebbe
troppo lontano; tuttavia, per rispettare il punto di vista maritainiano, mi pare necessario, almeno, aggiungere che, a suo avviso,
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3
4
Ivi, p. 154-155.
H. Hesse, Siddharta (1921), trad. it. di M. Mila, Adelphi, Milano 1975, p. 61.
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Maritain: perché leggerlo?
oggi ci troviamo di fronte solo a due dottrine, naturalmente l’una opposta
all’altra – sì (mille scuse), sono dottrine, radicate abbastanza fortemente –
che siano propriamente dottrine filosofiche. Poiché certamente si possono
concepire in teoria parecchie specie differenti di realismo filosofico, ma di
fatto ora ce ne sono solo due: il realismo marxista e il realismo cristiano. Cioè,
da una parte c’è la filosofia marxista, dall’altra la filosofia cristiana quando non
manchi alle esigenze congiunte di questi due vocaboli e non si comprometta
in nessun modo con l’idealismo e con l’ideosofia.5
L’affinità di atteggiamento mentale nei confronti di ciò che è, indipendentemente dal soggetto che lo pensa, non consente – evidentemente – alcuna
ingenua identificazione di marxismo e realismo biblicamente ispirato: abbiamo letto, or ora, che si tratta di “due dottrine, naturalmente l’una opposta
all’altra”. Ma in che senso il loro “punto di incontro è un punto d’irriducibile disaccordo?”6 La risposta alla domanda costituirà un ulteriore approfondimento della nozione maritainiana di “essere”. Egli, infatti, rileva nella
concezione ontologica engels-marxiana un vizio radicale: quello di identificare
subito realtà extra mentale e materia, rendendo lo spirituale una sovrastruttura o un “riflesso” della materia in movimento dialettico e in perpetua mutazione evolutiva ed esclude la più piccola possibilità di ammettere e anche
di concepire l’autonomia dello spirituale e la libertà che gli è propria (esso è
indubbiamente in interazione con l’infrastruttura, ma come da essa derivato
e da essa in ogni istante determinato).7
In altri termini, l’errore del marxismo sarebbe quello di ridurre l’essere a
nient’altro che materia, dimenticando che, se la materia è sempre reale, il
reale non è sempre materiale. Noi dobbiamo iniziare la nostra riflessione
intellettuale a partire dal reale empiricamente constatabile (almeno potenzialmente constatabile) perché siamo animali sensitivi; ma non possiamo
fermarci a esso perché, direbbe Xavier Zubiri, siamo “animali di realtà” e,
negli esseri determinati in questo o in quell’altro modo, siamo capaci di leggere l’essere in quanto tale: siamo, cioè, capaci di riconoscere in essi non una
semplice presenza di fatto, ma un atto, un’energia esistenziale, una forza
grazie a cui riescono a mantenersi al di sopra dell’abisso del nulla.
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5
J. Maritain, Il contadino della Garonna, op. cit., p. 156.
Ivi, p. 157.
7
Ivi, p. 158.
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
Non è possibile – Maritain lo sa bene – esprimere in parole il significato
dell’essere, tanto originario e radicale da precedere e fondare il senso di
ogni parola umana; tuttavia, non potendo tacere del tutto su ciò che stima
prezioso, all’uomo è concesso di ‘cantare’, quasi liricamente, quanto non è
in grado di descrivere adeguatamente in termini concettuali. Così anche
Maritain, più d’una volta, tenta di mettere a fuoco il senso dell’essere, per
esempio là dove dichiara che percepire l’essere è percepire
come un’attività pura, una consistenza, ma superiore a qualsiasi ordine dell’immaginabile, una vivace tenacia, precaria (mi è facile schiacciare un moscerino) e nello stesso tempo indomabile (in me, fuori di me, sale come un clamore la vegetazione universale), attraverso la quale le cose mi si dispiegano
davanti superando un possibile disastro; sono qui presenti e non semplicemente presenti, ma possedendo se stesse e così proteggendo nella loro densità – nell’umile misura di tutto ciò che è caduco – una specie di gloria che
chiede di essere riconosciuta.8
3. Maritain: la passione per l’intelligenza
C’è dunque, in ogni briciolo d’essere, “una specie di gloria che chiede di essere riconosciuta”: ma è possibile se non mediante quella facoltà dell’uomo
che è l’intelligenza e che, anch’essa, possiede un valore, “una specie di gloria”, che “chiede di essere riconosciuta”, specialmente in un’epoca – come
la nostra – di più o meno aperto irrazionalismo? Da qui una seconda nota
caratteristica della fisionomia intellettuale di Maritain: la sua passione per
l’intelligenza.
Egli non è mai stato, almeno nel senso corrente del termine, un “intellettualista”. Nei primi anni Quaranta, elencando quelli che per lui erano “alcuni significativi errori riguardanti l’educazione (sette in tutto)”,9 egli designa il quinto di essi come “intellettualismo” e spiega che tale vizio pedagogico si è profilato, nella storia occidentale, almeno in due versioni principali:
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8
J. Maritain, Sette lezioni sull’essere ed primi princìpi della ragione speculativa (1934),
trad. it. di M. Inzerillo-L. Frattini, Massimo, Milano, 1980. Riprendo qui, però, la traduzione
da un testo leggermente modificato da Maritain stesso che si trova in J. Maritain, Il contadino della Garonna, op. cit., pp. 168-169.
9
J. Maritain, L’educazione al bivio (1943), trad. it. di A. Agazzi, La Scuola, Brescia, 1984, p. 14.
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Maritain: perché leggerlo?
[La prima] identifica i supremi vertici di perfezione promossi dall’educazione con la pura abilità dialettica o retorica: tale fu il caso della pedagogia classica, specialmente nell’età “borghese”, in cui l’educazione rimaneva un diritto esclusivo delle classi privilegiate […] una seconda forma d’intellettualismo, moderna questa, abbandona i valori universali e insiste sulle funzioni
pratiche e operative dell’intelligenza. Essa identifica i supremi vertici di perfezione promossi dall’educazione con la specializzazione scientifica e tecnica.10
Ovviamente Maritain ritiene inaccettabile sia un intellettualismo pseudoumanistico, sostanzialmente sofistico, che riduce la cultura a strumento
di dominio della classe egemone sui ceti analfabeti o sottoistruiti, sia un intellettualismo tecnologicamente orientato – i francofortesi direbbero di tipo
calcolante – che, al limite, comporta “una progressiva animalizzazione”
dell’uomo (non è l’animale “un perfetto specialista, essendo tutto il suo potere di conoscenza impegnato nell’esecuzione di un solo compito particolare?)”, nonché “un grave pericolo per le democrazie”, soprattutto perché
una completa divisione dello spirito umano e delle attività umane in compartimenti specializzati renderebbe impossibile ogni “governo del popolo, per
mezzo del popolo e per il popolo.11
Maritain, dunque, non si considerò mai un intellettualista “(mentre il sistema pedagogico delle scuole e delle università riesce, in generale, ad attrezzare abbastanza convenientemente l’intelligenza dell’uomo per conoscere, sembra fallire nel compito principale, quello di irrobustire la volontà.
E questo è un vero guaio)”;12 ma ciò non toglie ch’egli coltivò, nei confronti dell’intelligenza quale facoltà umana di decifrare il senso latente del reale, una venerazione costante e appassionata. In più riprese, e da più angolazioni, il pensatore francese ha rivendicato l’enorme dignità della conoscenza teoretica, non finalizzata cioè immediatamente né alla prassi né alla tecnica, per l’essere umano: anzi, negli ultimi anni, ha persino coniato un neologismo, “logofobia”, per indicare
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10
Ivi, p. 34.
Ivi, p. 35.
12
Ivi, p. 38.
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
la degradazione che si produce nella natura dell’animale razionale quando
comincia a perdere fiducia non solo nel sapere filosofico, ma nella prefilosofia spontanea che è per l’uomo come un dono di natura incluso nell’equipaggiamento di prima necessità che si chiama senso comune, e velato quanto manifestato dal linguaggio comune.13
Quando questa logofobia, questa ostile diffidenza nei confronti della ragione umana e dei suoi concetti dilaga, l’uomo si trova disarmato di fronte
agli enigmi della vita e della storia,
diventa simile a un animale che avesse perduto il proprio istinto, a un’ape
che non avesse più l’istinto di fare il miele, a pinguini o ad albatri che non
avessero più l’istinto di costruire il nido.14
Privato della fiducia nella mediazione razionale, egli deve tuttavia – in
qualche modo – sopravvivere: perciò è disposto ad abbracciare ogni genere
di mito – di “favole”. Sia esso il mito religioso, quale alimento del sentimento, o il mito politico, quale espediente dei demagoghi, o lo stesso mito
scientifico (della scienza, cioè, enfatizzata contro l’opinione molto più misurata degli stessi scienziati seri): in ogni caso, “il potente Disgusto della Ragione”15 significa, spesso inconsapevolmente, rinuncia alla ricerca comune
della verità, al confronto dialettico e dialogico, alla contemplazione disinteressata di ciò che è intelligibile e affascinante, alla fondazione critica della
prassi politica.
Questa difesa dell’intelligenza, della mediazione razionale, comporta evidentemente molti rischi: quelli, per intenderci, che alcuni studiosi italiani
degli ultimi anni hanno attribuito a ogni espressione del “pensiero forte”.16
Che Maritain sia stato sempre esente da tali rischi, e che non sia mai caduto
in atteggiamenti d’eccessiva sicurezza teoretica anche in questioni a mio
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13
Ivi, p. 28.
J. Maritain, Il contadino della Garonna, op. cit., p. 30.
15
Ivi, p. 38.
16
L’espressione ritorna frequentemente in G. Vattimo-P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano, 1983. Molti argomenti contro una “razionalità classica” che pretendeva, forse per reagire all’insicurezza della vita quotidiana e alle contraddizioni della storia, di
spiegare tutto, di “fondare” tutto, di prevedere tutto, erano già presenti in A. Gargani (a cura
di), Crisi della ragione. Nuovi modelli del rapporto tra sapere e attività umane, Einaudi,
Torino, 1979.
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Maritain: perché leggerlo?
avviso molto più problematiche di quanto egli non lasciasse supporre, sarebbe imprudente affermarlo: la fiducia, per così dire, naturale nei confronti della razionalità umana era in lui rafforzata dall’ispirazione cattolica (e tomista
in particolare), dall’ispirazione cioè a una tradizione religiosa che, almeno
programmaticamente se non effettivamente, ha sempre difeso il valore naturale della facoltà intellettuale in ordine agli orientamenti fondamentali dell’esistenza (Dio, anima, princìpi morali, libertà soggettiva etc.). Tuttavia,
quali possano essere i tratti discutibili (e discussi) della riflessione, non certo “debole”, maritainiana, resta il dato, a mio parere indiscutibile, ch’essa
non è mai stata, intenzionalmente e metodologicamente, una riflessione
dogmatica nel senso corrente e deteriore del termine:
Non appena un uomo possiede una verità ne approfitta per disprezzare le altre verità; avete ben ragione di rilevarlo, mio caro Gide, ma siete ben sicuro
di essere guarito da questa ferita meglio di noi? Oppure mi replicherete che
i cattolici, per il fatto che possiedono una verità molto più grande che non
gli altri uomini, sono anche i più portati a disprezzare le verità che non sono
la loro grande verità? E con questo? Certo è così di noi cattivi cristiani, mediocri cristiani. Ma, in ultima istanza, è appunto la verità che interessa e non
le nostre persone. E se noi fossimo dei buoni cristiani (ce ne sono, sono i
santi), sapremmo che non siamo noi a possedere la grande verità, ma è la
verità a possederci: non essa ci appartiene, ma noi le apparteniamo. Essa
ama, conserva, vendica, illumina e vivifica ogni verità. Un cattolico dovrebbe
provare una gioia singolare, una voluttà angelica a dare ai suoi buoni nemici, ai suoi amici-nemici, piena e sovrabbondante misura di giustizia, a riconoscere in essi tutto il bene e tutto il vero, tutti i segni di luce con cui il suo
Dio, il quale fa scendere la pioggia sui buoni e sui cattivi, manifesta in tutti
la sua generosità e il suo sovrano dominio.17
4. Maritain: la passione per l’uomo
Grazie soprattutto, credo, a Emmanuel Mounier, l’espressione “personalista
e comunitario” è diventata una torta alla crema per il pensiero cattolico e la
retorica cattolica francese. Io stesso non sono in questo esente da responsabilità. In un’epoca in cui importava di opporre agli slogan totalitari un altro
slogan, ma vero, avevo gentilmente sollecitato le mie cellule grigie e finalmente
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
17
J. Maritain, Frontiere della poesia e altri saggi (1935), trad. it. di G. Stella, Morcelliana,
Brescia, 1981, pp. 99-100.
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
lanciata in uno dei miei libri d’allora quella espressione, e penso che Mounier l’avesse presa da me. Essa è esatta, ma a vedere l’uso che se ne fa ora
non ne sono molto fiero. Infatti dopo aver pagato un lip service al “personalista”, è chiaro che tutte le simpatie vanno al “comunitario”.18
Denominare, dunque, personalistica la terza nota precipua del contributo maritainiano alla filosofia del Novecento implicherebbe il rischio di uno schematismo sloganistico; tuttavia, al di là delle facili etichette, si può a mio parere asserire serenamente che la vita e l’opera di Maritain sono segnate profondamente e tenacemente da un’immensa passione per l’uomo.
Non è un caso che il libro più citato – e perciò anche meno letto – del filosofo abbia per titolo Umanesimo integrale.19 Se tutti i pensatori, ma sarebbe
meglio dire tutti gli uomini, hanno una propria antropologia, non sempre tale concezione dell’uomo è umanistica; non sempre, cioè, riconosce nell’essere umano una dignità specifica, un valore irriducibile al resto del cosmo.
L’antropologia maritainiana si autointerpreta, invece, come rilettura attualizzante dell’umanesimo di quel “Medioevo cristiano” che, “a mano a mano
che si liberava dalle influenze platoniche”, ha
sempre meglio capito che un uomo non è un’idea, è una persona che sussiste nell’universo e davanti a Dio. L’uomo è nel cuore dell’esistenza; è qui
che tutti gli strali del bene e del male vengono a colpirlo; e che l’azione, l’incomprensibile azione del primo Essere e degli altri esseri, lo raggiunge e lo
sostiene, o magari lo ferisce: mentre egli stesso continua nel tempo il suo sforzo tenace di creatura tratta dal nulla e fatta per la felicità. [...] Solo un pensiero
centrato sull’esistenza può dunque avvicinare, bene o male, i recessi del
cuore umano, la grandezza originale dell’uomo e i suoi abissi, e accordarsi alle segrete aspirazioni di questa strana immagine di Dio.20
In quanto focalizza “la grandezza originale dell’uomo”, questa prospettiva antropologica è umanistica: ma in che senso è “integrale?” Più d’una
volta capita d’intendere questo aggettivo come sinonimo di “integralistico”,
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
18
J. Maritain, Il contadino della Garonna, op. cit., p. 83.
J. Maritain, Umanesimo integrale (1936), trad. it. di P. Viotto, Borla, Torino, 1968. La
prima edizione del libro è stata in lingua spagnola, nel 1935.
20
J. Maritain, “L’umanesimo di san Tommaso d’Aquino”, in J. Maritain, Da Bergson a
Tommaso d’Aquino. Saggi di metafisica e di morale (1947), trad. it. di R. Bartolozzi, Vita e
Pensiero, Milano, 1980, p. 235. Il saggio risale al 1941.
19
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17
Maritain: perché leggerlo?
cioè nel senso esattamente contrario all’intento maritainiano. Se egli rimprovera qualcosa alla versione medioevale dell’umanesimo cristiano è proprio di non aver garantito la relativa autonomia del temporale rispetto allo
spirituale, la laicità della sfera mondana rispetto alle istituzioni ecclesiastiche. A suo avviso, il merito maggiore di san Tommaso d’Aquino (che, però, purtroppo, “non ha esercitato alcuna influenza sulle strutture temporali
della sua epoca)”,21 è stato d’aver – “senza successo nel suo tempo, dico rispetto al movimento della storia e della civiltà”22 – tentato di sintetizzare
quelle dimensioni della realtà umana che i suoi predecessori tendevano a
confondere e i suoi successori a separare:
Siano la natura e la grazia, la fede e la ragione, le virtù soprannaturali e le
virtù naturali, la sapienza e la scienza, le energie speculative e le energie
pratiche, il mondo della metafisica e quello dell’etica, il mondo della conoscenza e quello dell’arte, san Tommaso si adopera per riconoscere a ciascuna costellazione del nostro cielo umano il proprio dominio e i propri diritti;
ma egli non li separa: li distingue per unirli e per far convergere tutte le nostre facoltà in una sinergia che salva e stimola il nostro essere.23
Brani come questo, in cui Maritain riassume in pochi tratti non solo il
pensiero antropologico di Tommaso ma anche il proprio, meriterebbero
analisi e commenti interminabili. A un primo approccio, comunque, non si
può tacere per lo meno una considerazione: che questa visione dell’uomo,
per quanto apparentemente utopistica in senso volgare, pretende d’essere
realistica. Maritain, sulla scia del Dottore medioevale di cui si dichiara discepolo, non intende, quando delinea l’integralità o la pluridimensionalità
dell’uomo, descrivere fenomenologicamente la situazione attuale; ma neppure raccontare un sogno consolatorio. Per lui l’uomo è persona in senso
integrale, ma lo è per natura, non ancora storicamente; in potenza, non ancora in atto; di diritto, non ancora di fatto. L’uomo è costitutivamente e tendenzialmente integrale, ma tale integralità è davanti a lui come un compito,
anzi il compito, della sua avventura nel mondo, non come un’eredità biologica predeterminata. I riduttivismi, che vedono nell’uomo niente altro che spi-
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21
Ivi, p. 254.
Ibidem.
23
Ivi, p. 242.
22
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
rito o materia, contemplazione o azione, razionalità o istinti, sono prospettive
monche: nonostante tutto, nell’ottica maritainiana, peccano proprio contro
quel realismo in nome del quale portano avanti le loro rivendicazioni.
In un’epoca come la nostra, in cui sembra impossibile trovare una via
media fra lo Scilla dell’assolutizzazione dell’uomo (Maritain parla in proposito di “antropoteismo)” e il Cariddi della sua dissoluzione (basti riferirsi
alla filosofia della “morte dell’uomo” e, più in generale, alle disavventure
della soggettività nella cultura contemporanea), può risultare davvero realistica una concezione antropologica che proclama la grandezza dell’uomo
senza misconoscerne, pascalianamente, la miseria? Ma, appunto, essere realisti significa anche resistere alle catalogazioni semplicistiche e filosofare a
partire dal dato, incontrovertibile, di una certa duplicità, ambivalenza dell’essere umano anche a costo – come suggeriva qualche decennio fa Olivier
Clement – di non trascendere un’antropologia “apofatica”, capace di dire
ciò che l’uomo non è piuttosto che ciò che l’uomo è.24 D’altronde, questa
enigmatica ambiguità ontologica e assiologica dell’uomo non è forse ciò
che più spontaneamente l’intelligenza – anche della gente più umile – coglie quando guarda – guarda davvero – ciò che siamo? Scrive Maritain in
una delle sue pagine più suggestive e penetranti:
Rappresentiamoci l’essere umano, non in modo astratto e generico, ma nella
maniera più concreta possibile e più personale. Ripensiamo a quel vecchio,
per esempio, che abbiamo conosciuto tanti anni fa in campagna, vecchio
contadino dal viso tutto rughe, dagli occhi chiari che hanno contemplato tante
distese di messi e tanti orizzonti; ripensiamo alla sua lunga abitudine alla pa-
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
24
“La sua (della persona) connivenza con il Dio vivente consiste nell’essere, come lui, segreta, enigmatica, inafferrabile, L’abisso chiama l’abisso. È possibile avvicinare il mistero
del (Dio) vivente solo attraverso una teologia ‘negativa’ che nega ogni limite concettuale
circa Dio. Allo stesso modo, è possibile avvicinare la persona creata solo attraverso una antropologia ‘negativa’. Qui le ascesi dell’Oriente e le analisi scientifiche dell’Occidente sono
preziose: esse non ci rivelano ciò che è la persona umana, ma ci permettono di comprendere
ciò che essa non è. Per presentire il mistero della persona è necessario superare tutto il suo
contesto naturale, tutto il contorno cosmico, collettivo, individuale, tutto ciò che può essere
afferrato. Si afferma sempre la natura, ma non si afferra mai la persona. Si afferrano solo
degli oggetti, anche quando sono oggetti di conoscenza. La persona non è un oggetto di conoscenza più di quanto non lo sia Dio. Come Dio, essa è l’incomparabile, l’inesauribile, il
‘senza fondo’. È possibile comporre una serie di individui, farli entrare in un insieme, ma la
persona è sempre unica, essa lacera l’insieme, essa è lacerazione nell’universo” (O. Clement, Riflessioni sull’uomo (1972), trad. it. di A. Crespi, Jaca Book, Milano, 1975, p. 34).
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19
Maritain: perché leggerlo?
zienza e alla sofferenza, alla povertà, al duro lavoro. O pensiamo invece a quel
ragazzo: o a quella fanciulla dei nostri parenti, o figli di nostri amici, di cui
conosciamo benissimo la vita d’ogni giorno, il cui caro sguardo, la voce
dolce o velata basta a rallegrarci. Ricordiamo, nell’intimo del nostro cuore, un
solo gesto della mano, o gli occhi ridenti, dell’essere che amiamo. Quali ricchezze della terra, quali perfezioni scientifiche, quali capolavori d’arte potrebbero ripagare i tesori di vita, di sentimento, di libertà e di ricordo di cui
quel gesto o quel sorriso sono la fuggitiva espressione? Allora, intuitivamente, in un lampo intellettuale più imperioso del ragionamento, comprendiamo
che nulla al mondo è più prezioso di un essere umano. So quante difficili domande si affacciano immediatamente alla mente, e su tali difficoltà mi riprometto di ritornare; per il momento voglio ritenere soltanto questa intuizione semplice e decisiva, grazie alla quale il valore incomparabile della
persona umana ci si rivela. Del resto san Tommaso d’Aquino ci avverte che
la persona umana è quel che c’è di più nobile e di più perfetto in tutta la natura. E tuttavia nulla, a questo mondo, è più esposto, più offerto a ogni rischio,
più sperperato dell’essere umano. Nulla è dissipato con minor attenzione e
maggior prodigalità, quasi che l’uomo fosse simile a un pugno di spiccioli
nelle mani dell’incurante natura. Ed è certamente un delitto quello di sciupare vite umane in modo più crudele e disdegnoso che se si trattasse di vite
di bestie da soma, e abbandonarle alla volontà di potenza senza pietà degli
Stati totalitari o a quella di conquistatori insaziabili. I trasferimenti forzati di
popolazioni, gli orrori dei campi di concentramento, gli assassini in massa,
le guerre di asservimento di cui noi siamo stati testimoni, sono i segni di un criminoso disprezzo dell’umanità portato a un grado che nessuno aveva mai veduto. E certamente è una vergogna anche il vedere nel mondo intero le avvilenti
condizioni di vita imposte a tanti esseri umani in tuguri di miseria e di fame.25
Se tener fermo “il valore incomparabile della persona umana” pur nella
constatazione empirica che “nulla è dissipato con minor attenzione e maggior
prodigalità”; anzi, più esattamente, se riconoscere in quel “pugno di spiccioli
nelle mani dell’incurante natura”, nella loro struttura profonda e latente, “quel
che c’è di più nobile e di più perfetto in tutta la natura” significa essere “utopisti”, anche Maritain ammetterebbe di esserlo: non nel senso che non
può esistere alcun “luogo” in cui, finalmente, l’uomo diventi ciò che è, ma
nel senso che ancora non siamo stati capaci di costruire né dentro né fuori
di noi tale spazio di integrale emancipazione, e che la nostra passione per
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
25
J. Maritain, “L’immortalità del soggetto”, in J. Maritain, Da Bergson a Tommaso d’Aquino.
Saggi di metafisica e di morale, op. cit., pp. 127-128.
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
l’uomo non può consentirci di riposare finché il nostro impegno in quella
direzione non avrà dato i primi frutti tangibili.
5. Maritain: la passione per Dio
Perché l’umanesimo storiograficamente più noto, quello rinascimentale che
ha illuminato di splendore il XV e il XVI secolo, non ha portato i doni promessi e si è, anzi, capovolto in antropologie sempre meno umanistiche, quando non addirittura anti-umanistiche? Sulla base delle indicazioni complessive ricavabili dall’opus maritainiano le risposte dovrebbero essere molteplici
e a molteplici livelli d’indagine; ma, qui, ne va evidenziata una su cui il nostro
pensatore ha molto insistito e con cui possiamo, in qualche modo e non senza
riserve, concludere la ricostruzione – sommaria! – dei tratti essenziali della
sua figura umana e teoretica.
L’umanesimo rinascimentale ebbe, come protagonisti principali, dei grandi credenti: da Marsilio Ficino a Pico della Mirandola, da Nicolò Cusano a
Erasmo da Rotterdam e a Tommaso Moro furono tutti geniali e coraggiosi promotori di una ‘rinascita’ del cristianesimo originario in collegamento vitale
con l’idea classica, greca e latina, di humanitas. Tuttavia, purtroppo, il loro
progetto pioneristico abortì e le chiese della Riforma come quella di Roma,
pur con motivazioni differenti, non seppero recepire i semi rinnovatori – o,
per lo meno, li recepirono in misura del tutto insufficiente. Così già nel Seicento, e più ancora dal Settecento, l’ispirazione cristiana e le istanze umanistiche s’avviarono per strade diverse, anzi divergenti:
L’uomo intraprese a conquistare la coscienza della propria dignità e a far poggiare tale dignità sulle sole forze della ragione, liberandosi a un tempo delle
vecchie strutture del mondo e di tutte le discipline e autorità che gli apparivano, in nome di Dio, come la chiave di volta di quelle strutture. Si isolò progressivamente da Dio: Dio, il Dio celeste del cristianesimo, o il Dio immanente e evolventesi del panteismo, non era che il supremo garante della nostra propria grandezza e della nostra potenza. Abbiamo atteso il progresso e
la felicità dallo sforzo dell’Uomo incentrato su se stesso e separato da Dio.
Abbiamo realizzato la nostra dignità, siamo diventati i padroni della natura.
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21
Maritain: perché leggerlo?
Ma eravamo soli. Quest’epoca è stata un’epoca di umanesimo antropocentrico, ed è sboccata nella devastazione dell’uomo.26
Questa di Maritain non è, ovviamente, solo una diagnosi storica: è pure la
premessa per un progetto terapeutico. Ci dice non solo perché l’umanesimo
di ieri è fallito, ma anche a quali condizioni può non fallire l’umanesimo di
domani. Da quella ricognizione sul passato, infatti, il cristiano Maritain ricava la convinzione “che, se si pone ogni speranza in Dio, e certamente a
questa sola condizione, non si riesce mai a disperare dell’uomo”.27 Più dettagliatamente, a suo avviso,
se la civiltà dev’essere salvata, la nuova epoca di civiltà sarà un’epoca di umanesimo teocentrico. Oggigiorno, la dignità umana è dovunque calpestata.
Peggio ancora, essa vien meno dal di dentro, poiché nella pura prospettiva della
scienza e della tecnica siamo ben disorientati per poter scoprire i fondamenti razionali della dignità della persona umana e per credere in essa. Il compito di una nuova epoca di civiltà [...] consisterà nel ritrovare e nel rifondare il
senso di questa dignità, nel riabilitare l’uomo: voglio dire riabilitarlo in Dio
e attraverso Dio, non separatamente da Dio. E ciò significa una completa rivoluzione spirituale. Allora, tutte le conquiste dell’epoca precedente saranno a un tempo salvate e purificate, riscattate dagli errori di quell’epoca e trasfigurate, portate a una nuova fioritura. Quell’epoca sarà un’epoca della dignificazione della creatura, nel suo vivente rapporto con il Creatore: in quanto
da lui vivificata, e in quanto avente in lui la giustificazione della sua stessa
esistenza, del suo lavoro sulla Terra, delle sue aspirazioni essenziali e del
suo anelito alla libertà. [...]. Il nuovo approccio a Dio sarà un nuovo incontro col vero Dio della tradizione giudaico-cristiana, col vero Dio dell’Evangelo, la cui grazia perfeziona la natura e non la distrugge, trascende la ragione ma per fortificarla, non per accecarla o annullarla, fa progredire la coscienza morale nel volgere del tempo e conduce la storia umana, ossia lo
sforzo incessante e incessantemente contrastato dell’umanità verso l’emancipazione, nella direzione del suo compimento sovratemporale.28
Qualcuno potrebbe ritenere questa interpretazione maritainiana del rapporto fra teologia e antropologia troppo apologetica. Tuttavia non mi sem-
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26
J. Maritain, “Un nuovo approccio a Dio (1947)”, in J. Maritain, Ragione e ragioni. Saggi
sparsi, trad. it. di L. Frattini, Vita e Pensiero, Milano, 1982, pp. 141-142.
27
J. Maritain, “L’umanesimo di san Tommaso d’Aquino”, cit., p. 255.
28
J. Maritain, “Un nuovo approccio a Dio”, cit., pp. 142-143.
22 !
Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
bra insignificante il fatto ch’essa si ritrova, sostanzialmente, in pensatori considerati fra i maggiori teorici dell’anti-umanesimo contemporaneo e non certo sospettabili d’eccessive simpatie per il punto di vista religioso. È il caso,
per esempio, di Michel Foucault che, dopo aver notato che “Nietzsche ritrovò
il punto in cui uomo e Dio si appartengono a vicenda, in cui la morte del secondo è sinonimo della scomparsa del primo e in cui la promessa del superuomo significa anzitutto l’imminenza della morte dell’uomo”,29 aggiunge che
la morte di Dio e l’ultimo uomo sono strettamente legati: non è appunto l’ultimo uomo che annuncia di aver ucciso Dio, ponendo in tal modo il proprio
linguaggio, il proprio pensiero, il proprio riso nello spazio del Dio già morto,
ma proponendosi anche come colui che ha ucciso Dio e la cui esistenza include la libertà e la decisione di tale delitto? Così, l’ultimo uomo è, a un tempo, più vecchio e più giovane della morte di Dio; avendo ucciso Dio, è lui
stesso che deve rispondere della propria finitudine.30
6. L’originalità inapparente di Maritain
I tratti essenziali che ci hanno consentito di delineare l’identikit filosofico di
Maritain sono internamente legati da un filo logico prezioso: proprio perché
alla continua ricerca dell’essere, egli – pur apprezzando la capacità dell’uomo di aprirsi e di comunicare nell’amore – non ha mai cessato per un momento di obbedire alle severe esigenze della ragione (nell’accezione più
ampia del termine). In questa formidabile potenzialità di leggere dentro il
reale, il pensatore francese ha riconosciuto la chiave di volta del suo umanesimo personalistico, la cui fondazione teologica, più precisamente teocentrica, è apparsa a lui non solo più rispettosa della verità oggettiva, ma, in
conseguenza, più rassicurante in ordine alle minacce continue cui l’uomo è
esposto per colpa dell’uomo stesso.
Seguendo questo filo interno si potrebbero passare in rassegna tutti i
contributi di Maritain, quasi perle diverse tenute insieme per formare un’unica, splendida collana: in campo gnoseologico, ontologico, morale, politico,
estetico, epistemologico, teologico. Ma non possiamo ignorare un’obiezio-
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29
M. Foucault, Le parole e le cose (1966), trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano, 1985,
p. 368.
30
Ivi, p. 412.
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Maritain: perché leggerlo?
ne di fondo nei confronti del suo stile intellettuale: un pensatore che pretenda
di esprimere giudizi su tutti gli aspetti dell’esperienza umana (dalle teorie
fisiche nucleari ai movimenti artistici di avanguardia, dalla filosofia della
storia ai dibattiti teologici postconciliari) può raggiungere, in ciascuno di
questi settori, quella competenza specialistica che sola consente di formulare delle concezioni nuove e originali? O non si condanna, piuttosto, a toccare
superficialmente tanti tasti senza dominarne effettivamente alcuno? Se poi
si vanno a contare i riferimenti, anche espliciti, che Maritain fa a maestri
del passato (soprattutto a Tommaso d’Aquino) e del presente (soprattutto a
Bergson), non può non sorgere il sospetto ch’egli si sia adagiato su un registro eclettico di riflessione e di produzione; ch’egli sia stato, insomma, più
un abile divulgatore che un originale ricercatore.
Tocchiamo qui, senza averlo previsto, forse il carattere più peculiare della
personalità umana e intellettuale di Maritain. Se non temessi di cedere al gusto un po’ pacchiano del gioco di parole direi che la sua maggiore originalità è consistita proprio nel non averne ricercato – intenzionalmente – alcuna.
Infatti egli, a differenza della quasi totalità dei così detti intellettuali, non ha
rincorso le angolazioni “personali”, gli atteggiamenti “inediti”, le trovate
“geniali”: gli bastava – ma, dal suo punto di vista era molto, anzi era tutto –
ricercare, in ogni problema che la vita intensamente vissuta gli poneva, la prospettiva più “oggettiva”, quella più corretta per vedere le cose come effettivamente sono. Ch’egli abbia sempre ricercato il punto di vista più conveniente per guardare la realtà non significa, evidentemente, che lo abbia sempre trovato. Così riguardo a certe sue analisi del pensiero di Hegel o dell’opera di Freud, per esempio, sarà facile ai competenti, che hanno dedicato
l’intera esistenza a leggere Hegel o Freud, trovare imperfezioni, lacune, unilateralismi; ma ciò che più importa, almeno a mio parere, è che Maritain sia
stato un uomo desideroso di esprimere un giudizio personale – e in questo
senso originale, anzi irripetibile – su Hegel o su Freud per capire qualcosa
del totalitarismo nazionalistico o dell’esplosione della psicoanalisi, senza attendere che questo o quel singolo erudito abbiano completato la lettura minuziosa dell’opera omnia di tali autori e di tutta la letteratura critica su di loro. D’altra parte non è forse vero, come più volte ripeteva Raymond Aron, che
non sempre gli eruditi sono anche intelligenti?
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Jacques Maritain: un maestro per l’oggi
In ogni caso – ribadisco quanto accennavo all’inizio – le pagine che seguono non hanno l’ambizione di aprire, o di riaprire, il dibattito su Maritain:
più modestamente (ma, per certi versi, forse più utilmente) intendono costituire il tentativo di “montare” (nell’accezione cinematografica del termine)
un’autopresentazione delle linee essenziali della sua proposta culturale, specialmente in riferimento al pensiero moderno e agli autori che hanno segnato il passaggio al pensiero “post-moderno”. Dopo, solo dopo, sarà possibile
discuterlo e, magari, contestarlo. Come avvertiva Dumery a proposito di Kant,
occorre guardarsi dalla presunzione di andare oltre certi ingegni troppo in
fretta: molti, infatti, si illudono di averli superati senza essere stati capaci,
prima, di raggiungerli.
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