fil. tardoantica - tommaso ciccarone

annuncio pubblicitario
Un'introduzione alla “tardoantichità”
L'evoluzione del pensiero antico posteriore alla fase storica delle cosiddette “filosofie ellenistiche”
(stoicismo, epicureismo, scetticismo, eclettismo) viene solitamente ricondotta sotto la categoria
della “filosofia tardoanticha”. La filosofia tardoantica indica generalmente tutto l'insieme delle
produzioni, scritte e non scritte, che interessarono i secoli dal II-III al VI d.C., le quali possono
essere considerate “filosofiche” mercé le connessioni e i legami con il pensiero propriamente antico
(e quindi con le sue due principali espressioni, la filosofia di Platone e di Aristotele).
Anche a partire da una definizione generale, emerge subito che la categoria della “filosofia
tardoantica” non si riferisce a produzioni originali, ma raccoglie espressioni di pensiero che
mostrano, almeno di primo acchito, un legame molto forte con la tradizione occidentale, e che si
presentano non come un contributo tout-court, piuttosto come un rimaneggiamento di tale
tradizione.
Non stupisce quindi che la forma prediletta tra tutti coloro che possono dirsi i “filosofi
tardoantichi” sia quella del commentario. Esteticamente, la filosofia tardoantica non è che una
progressiva opera di commento alle filosofie di Platone e di Aristotele. Questa affermazione, in
realtà, non è del tutto esatta.
Già con lo stoicismo era prevalsa un tipo di sensibilità distinta da quella ravvisabile in
Aristotele, in Platone e in chiunque prima di loro. Le filosofie ellenistiche, pur divergenti in molti
del loro presupposti e delle loro conclusioni, sono tutte accomunate da uno spiccato interesse per le
questioni “pratiche” del pensiero. In altre parole, con le filosofie ellenistiche l'aspetto teoretico della
filosofia, l'aspetto riconducibile a quella che veniva definita come vita contemplativa (biòs
theoretikòs), è ormai passato in secondo piano (se non del tutto soppiantato) rispetto alle questioni
inerenti alla vita dell'uomo in seno alla comunità di cui è parte, ovvero alla sua vita activa (biòs
praktikòs). Questo mutamento di prospettiva è riconducibile soprattutto al crollo di una delle più
importanti istituzioni politiche a cui l'attività del pensiero è intimamente legata: la polis. Il IV secolo
a.C. È il secolo in cui le due più grandi poleis greche, Atene e Sparta, vengono progressivamente
ridimensionate dall'emergere dei cosiddetti “stati federali” (come quello beota, capeggiato dalla
città di Tebe) e, soprattutto, dall'esplosione quasi improvvisa della potenza macedone – prima con
Filippo II, poi con suo figlio Alessandro, detto Magno. È il secolo in cui pure sorgono per la prima
volta le filosofie ellenistiche, rispondendo a quesiti la cui problematicità non era mai emersa fino ad
allora in maniera così prepotente, poiché mai prima di allora la cultura greca aveva dovuto
affrontare un crollo della polis. Le speculazioni di Platone sul Bene e sulla conoscenza, quelle di
Aristotele sul Primo Motore, nel corso del IV secolo a.C., perdono la loro forza. Il sentimento che
anima l'attività filosofica è mutato ormai definitivamente.
Non si tratta qui di un semplice mutamento di interessi. È la prospettiva da cui i problemi
vengono affrontati ad essere cambiata, e pertanto anche gli stessi problemi che in passato
interessavano la speculazione filosofica ora si presentano sotto una veste e con pretese differenti.
Ogni discorso sulla conoscenza, sulla fisica, sulla logica rimane vincolato strettamente al limite
della quotidianità, al fornire risposte certe che possano indicare una condotta di vita giustificabile
teoricamente e per lo più applicabile. Ciò che viene meno è la filosofia intesa come indagine
razionale. Ogni attività speculativa non è più degna di essere se non come strumento per fornire
risposte a uomini che tentano di stabilire un rapporto con se stessi in questa vita. Grande interesse
acquistano quindi, in un primo momento, le questioni etiche tanto che, in Epicuro, ad esempio, la
fisica sussiste come teoria solo in quanto fondamento del carattere umano e, successivamente,
quando l'attività politica sarà ormai resa inaccessibile alla filosofia, quelle psicologiche. Il pensiero
troverà ancora uno spazio per la sua sopravvivenza attraverso un'interrogazione diversa, che non
ponga più al centro l'Episteme, l'Essere o il Bene, ma ciò che all'uomo in quanto individuo è più
proprio: l'Anima, nel suo rapporto con se stessa, con il corpo, con il mondo e con la divinità.
A tal proposito è interessante ricordare la riflessione di una delle personalità più in vista a
Roma nel I sec. a.C. : Lucio Anneo Seneca. Nativo di Cordova, in Spagna, Seneca arrivò a Roma
giovanissimo, e ricevette una formazione culturale letterario-filosofica improntata allo stoicismo.
Autore di scritti di vario genere, dalle epistole, alle consolazioni, dai trattati politici alle tragedie, un
posto rilevante nella speculazione di Seneca va sicuramente assegnato alle passioni e al rapporto
dell'anima con se stessa. I titoli di alcune delle sue opere più ricordate ci informano di quale
pressione dovessero esercitare negli interessi di quest'uomo le problematiche relative alle passioni
estreme dell'anima, come l'ira (Ad Novatum de ira libri III), il dolore (Ad Marciam de consolatione,
Ad Polybium de consolatione, Ad Helviam de consolatione) o la felicità (De vita beata), al rapporto
dell'anima con il tempo, con la morte (Ad Polibium de brevitate vitae) e con la divinità (De
Providentia). Inoltre, il fatto che tutte le opere di Seneca si indirizzino ad un destinatario è indice
della mancanza di una comunità a cui rivolgersi spontaneamente, della necessità di avvicinare un
ascoltatore singolo con cui possa concretamente iniziarsi una comunicazione. La pratica della
filosofia si è dunque ormai ritagliata uno spazio sempre più solitario, un luogo intimo in cui
esercitarsi senza che la sua integrità venga minacciata. Una filosofia di questo tipo non poteva che
concentrarsi sull'anima. L'anima è riscoperta da Seneca come la sede non solo delle passioni, ma
dell'uomo e del suo significato. Seneca rintraccia al centro dell'anima una divinità, un deus
absconditus a cui l'anima stessa deve ricondursi incessantemente per conoscere veramente se stessa.
Conoscere se stessi è come mettersi alla ricerca di divinità, ed è proprio per questo che l'attività di
pensiero per molti aspetti può somigliare alla preghiera svolta in solitudine. L'aspetto filosofico del
pensiero si è avvicinato al carattere religioso della preghiera. Il saggio stoico, secondo Seneca, non
ha bisogno di guardare fuori di sé (anche perché, fuori di sé, non può e non sa più guardare). Il
saggio stoico deve solo guardare in se stesso per vivere serenamente e per essere felice, questo
poiché se il mondo esterno è reso inaccessibile, allora sarà quello interno a sopperire a tutti i
bisogni. “La divinità” afferma Seneca: “ti sta vicino, è con te, è dentro di te”. Pertanto l'interiorità
spirituale diviene il nuovo santuario della divinità ed è anzi percepita come l'unico vero santuario in
cui il gnòti seautòn è inciso come il motto che esorta l'uomo ad un ritorno a se stesso come un
ritorno alla divinità. Questa sarà una delle tematiche maggiormente riprese e sviluppate nella
tardoantichità.
Dopo la parentesi ellenistica, la filosofia continuerà ad essere praticata nei circoli stoici,
epicurei, peripatetici o accademici, senza però produrre innovativi risultati intellettuali, ma
comunque preparando il terreno ai successivi sviluppi di pensiero che daranno i loro frutti a partire
soprattutto dal III sec. d.C. . L'avvento dell'impero romano sarà foriero di due grandi eventi
culturali, uno storico-politico, l'altro filosofico: la riduzione della Grecia a provincia imperiale; la
subordinazione della filosofia ad attività oziosa, ovvero relegata nel contesto del cosiddetto otium
cum dignitate come amava definirlo Cicerone. In questo nuovo contesto, la pratica della filosofia
non produrrà, per lungo tempo, esiti di spessore teorico paragonabili a quelli ellenistici, tantomeno a
quelli del pensiero antico. Essa si ridurrà ad una rilettura dei testi della tradizione. La filosofia dei
secoli imperiali si trasforma in una attività di erudizione, che più che con l'indagine teoretica, ha a
che fare con il commento e l'interpretazione di testi e dottrine da parte di figure provenienti dagli
ambienti più disparati. Si pensi a Cicerone, a Marco Tullio Varrone, per quanto riguarda il filone
eclettico, a Musonio, a Epittetto e a Seneca, per quanto concerne lo stoicismo, a Lucrezio, nella
riproposizione in chiave poetica della dottrina fisico-etica di Epicuro, ad Andronico di Rodi, per
l'edizione, sotto Silla, degli scritti esoterici/acroamatici di Aristotele.
La filosofia in quanto indagine razionale ha ormai del tutto perso il suo valore. Essa non si
può più giustificare come pura ricerca svincolata da rivelazioni. Essa necessita di una rivelazione
originaria in virtù della quale possa esercitarsi giustificatamente. Il sapere sempre incerto e sempre
esposto al dubbio che la filosofia aveva sin dalla sua “nascita” (seppure parlare di un momento di
vera e propria nascita della filosofia, storicamente determinabile nella figura di qualcuno, non solo è
improprio, ma anche fuorviante1) offerto come uno dei suoi doni più preziosi, ora non è più
1 A tal proposito cfr. G. Colli, La nascita della filosofia, 1975, Milano, Adelphi, 2013. L'autore tratteggia delle linee
guida che inquadrano il processo di “nascita della filosofia” come qualcosa le cui radici non vadano rintracciate
semplicemente nella cultura strettamente “filosofica”, ma che fa capo a spinte eterogenee e spesso distanti tra loro.
Molto originale è in Colli la lettura della filosofia come un “virgulto presto intristito” (ivi, p. 116), sorto a partire
dalla matrice della sophìa, la sapienza arcaica generalmente ascrivibile ai “presocratici”. La philosophìa si inquadra
compreso. C'è bisogno di una sicurezza soprannaturale, o tanto antica da potersi collocare nella luce
della divinità. L'attività filosofica diventa progressivamente una ricerca di testi che testimonino di
qualche rivelazione a cui si sia ispirata una certa forma di pensiero. Si trasforma in un ritorno ai
pensatori antichi con l'intento di raccogliere insieme gli elementi religiosi già sottintesi nella storia
del pensiero greco e rileggere tale storia come un momento cruciale di una tradizione più ampia, ma
comunque come un semplice momento.
Plotino, un tentativo di lezione
Plotino è sicuramente una tra le personalità che riuscirono a interpretare meglio le spinte culturali
del periodo tardoantico. Questo per diversi motivi, uno su tutti è il fatto che di Plotino la tradizione
ci ha consegnato l'intero corpus degli scritti, in cui è possibile ravvisare la forte rilettura della
tradizione di pensiero greca, lo spirito critico nei confronti delle dottrine di Platone, Aristotele, del
pitagorismo, di Eraclito e di altri pensatori, come Anassagora e Parmenide. Ma ciò che differenzia
Plotino da tutti gli altri filosofi-eruditi della sua epoca è la peculiarità del suo pensiero. Plotino è e
può essere ritenuto il principale pensatore della tardoantichità, poiché la sua non è una semplice
interpretazione di testi tramandati nei secoli sotto la luce di una scuola o di una regola, ma qualcosa
di più. Quella di Plotino è una effettiva produzione di pensiero che parte dalla tradizione, essendo
ad essa radicata nelle categorie e nel linguaggio impiegati, per arrivare a nuove formulazioni, dotate
di una loro propria autenticità. Plotino arriva a definire una propria peculiare posizione di pensiero
che, seppure indefinita per certi aspetti, è unica e sarà fonte di ispirazione per i dibattiti successivi
alla sua comparsa sulla scena del panorama culturale occidentale nei secoli avvenire.
Ma chi era Plotino? Le notizie biografiche su Plotino provengono quasi interamente dalla
“Vita di Plotino”, testo redatto da uno dei suoi allievi più famosi, un certo Porfirio, il quale, alla
morte del maestro, non solo si dedicò alla stesura di una sua biografia, ma assunse l'onere e l'onore
di riordinare in una struttura schematica, ma non sistematica, gli scritti che egli aveva lasciato dietro
di sé. È così che nacquero le Enneadi, ovvero gli “scritti sull'Uno” ( En è la traslitterazione dell' έν,
che in greco antico stava a indicare l'unità, l'Uno), che ancora oggi vengono lette secondo l'ordine
impartitogli da Porfirio. Dalla “Vita di Plotino” emerge una figura mite, cordiale, affabile e
straordinariamente intensa. Agli occhi del suo allievo, Plotino doveva apparire come una sorta di
incarnazione divina, tanto forte doveva essere il suo spirito. Nacque nel 205 d.C. E visse per 65
anni, trascorrendo gli ultimi giorni di vita in una località campana, nei pressi dell'antica Minturno
Castricio, assistito dal medico suo allievo e amico Eustochio. Plotino fu allievo di Ammonio Sacca,
il quale non lasciò nessuno scritto, insieme a Origene ed Erennio. Alla morte del maestro, i tre
strinsero il patto di non diffondere gli insegnamenti di Ammonio, ma nessuno di loro lo rispettò.
Plotino si stabilì a Roma, e lì divenne il fondatore di un “circolo intellettuale” intorno al quale
gravitavano personalità importanti della scena politica romana di quegli anni, nonché donne e
numerosi fanciulli, di cui Plotino si prendeva cura personalmente.
Nel disordine politico, culturale e religioso di quell'epoca, la scuola di Plotino doveva
rappresentare una delle poche isole felici dove ancora poteva impartirsi un'educazione equilibrata e
un insegnamento filosofico animato da un puro sentimento di fedeltà e rispetto nei confronti dei
testi della tradizione e del loro significato. Nelle Enneadi Plotino appare sempre molto sensibile alle
intenzioni che via via Platone ai suoi occhi sembra assumere e il suio sembra lo spirito di un grnade
pensatore il quale vuole iscriversi in una tradizione di pensiero e sa che per riuscirvi dovrà
innanzitutto conoscere questa tradizione e conviverci dentro nella maniera più sincera possibile. È
solo attraverso questa estrema devozione alla causa della conoscenza, che si traduce sempre in una
forma di contemplazione intellettuale, che Plotino riesce a rinnovare il pensiero filosofico
occidentale, in uno dei periodi di maggiore sbandamento culturale dell'antichità, consegnandoci uno
quindi come una attività di “decadenza”, un “amore” (philein) per la sapienza (sophìa), che non è in se stesso
sophìa, poiché essa è andata irrimediabilmente perduta. Sulla categoria storiografica di “presocratici”, sulla sua
origine, sul suo significato storico e sui criteri della sua validità ed estensione cfr. A.Brancacci, Studi di storiografia
filosofica antica, 2008, Firenze, Leo S. Olschki Editore, p.1-18.
dei testi più preziosi del pensiero greco antico.
Plotino organizza vivacemente la sua rilettura di Platone e della tradizione tramite
l'elaborazione di una struttura ontologica tripartita, la quale prende le mosse, principalmente, da una
reinterpretazione del Parmenide di Platone.
A partire dal dialogo in cui Platone sonda i limiti della dialettica della sua ontologia delle
idee, Plotino arriva a rintracciare le tre ipostasi che sorreggono la sua ontologia: l'Uno, l'Intelletto e
l'Anima. È egli stesso a definirle ipostasi (hypostasis), ovvero “ciò che sta sotto”: ogni grado o
livello ontologico, infatti, è sormontato da un grado o livello superiore e precedente, rispetto al
quale il primo, per l'appunto, “sta sotto”. L'Anima è dunque preceduta dall'Intelletto, che è a sua
volta preceduto dall'Uno. L'Uno è quindi ciò che sta alla sommità dell'architettura ontologica
plotiniana e da cui tutto procede. Senza l'Uno, nulla sarebbe, ma l'Uno è di per sé,
indipendentemente da altro, e non è, in quanto se fosse sarebbe allora molteplice, e non più uno. Si
capisce subito dunque, che il discorso sull'Uno di Plotino è un discorso intriso di contraddizioni
logiche. Questo perché il ipostatico dell'Uno è al di là dell'essere, e quindi al di là del principio di
contraddizione (una cosa non può essere e non essere: allo stesso tempo, nel medesimo spazio2).
Noi non possiamo parlare dell'Uno se non nei termini del linguaggio, che è immerso nel tempo. Ma
in realtà in noi l'Uno non è che una percezione e una necessità esistenziale, senza la quale non
potremmo mai essere né esistere. Quindi il problema è: come parlare dell'Uno, che è al di là
dell'Essere, e quindi del linguaggio, senza incappare in contraddizione e, ancor peggio, in errori?
La via tentata da Plotino è quella dell'immagine e della metafora, veicoli per parlare di
qualcosa di cui può dirsi tutto e niente, dal momento in cui si situa in una posizione di pura alterità
rispetto a noi. Proviamo a chiarirci meglio le idee intorno all'Uno plotiniano lasciando che sia lo
stesso Plotino a parlarcene:
“L'Uno è tutte le cose e non è nessuna di esse: infatti il principio di tutto non è il Tutto; Egli è il
tutto, in quanto in tutto ritorna a Lui; e cioè nell'Uno non si trova ancora, ma vi si troverà. Ma come
in Tutto può derivare dal semplice Uno, dal momento che in questo non si può manifestare nessuna
varietà e molteplicità? Ora, proprio perché è in Lui, tutto può derivare da Lui; affinché l'Essere e
questa che chiameremo genitura è prima. Egli infatti è perfetto perché nulla cerca e nulla possiede e
di nulla ha bisogno; e perciò, diciamo così, trabocca e la sua sovrabbondanza genera un'altra cosa”3
Come si può notare da queste poche righe, l'Uno di Plotino presenta varie caratteristiche: è e
non è tutte le cose; è il principio del Tutto, ma non è il Tutto; non è Essere, ma il genitore
dell'Essere; non cerca nulla, non possiede nulla e di nulla ha bisogno, poiché se cercasse,
possedesse o avesse bisogno, sarebbe implicato in un movimento, ed ogni movimento presuppone
un'alterità che farebbe dell'Uno una molteplicità. E l'Uno non sarebbe più Uno. Come è possibile
che dunque qualcosa d'altro derivi da un principio ipostatico segnato dal marchio della separatezza
2 Sul “principio di contraddizione” e il suo intrinseco legame con la nozione di Essere, per come essa è stata formulata
e assimilata nella filosofia occidentale, cfr. G. Calogero, Storia della logica antica. Volume primo. L'età arcaica, a
cura di Bruno Centrone, 1967, Pisa, EDIZIONI ETS, 2012, pp. 85-120. Calogero insiste sul ruolo fondamentale
svolto da un pensatore arcaico come Parmenide nella formulazione dell'opposizione logico-ontologica tra Essere e
Non-Essere nella cultura occidentale. Parmenide, secondo la lettura di Calogero, sarebbe un punto cardine
nell'origine della logica antica, che poi influenzerà pure le logiche successive, e che verrà per la prima volta
formalizzata da Aristotele. In realtà, dalla prospettiva di Calogero, è improprio parlare pure di “logiche successive”.
Si dovrebbe parlare piuttosto di una sola logica, dotata di sue diverse fasi di maturazione e trasformazione, in cui gli
elementi arcaici, seppur obliati, sono presenti e vivi, capaci ancora di porre domande al presente. Dalla posizione di
Calogero è il linguaggio, nella cultura greco-arcaica, il piano su cui si rintraccia la “realtà” e la “verità”. Non esiste,
secondo Calogero, una scissione tra questi piani. Un greco, pensa ciò che dice, dice ciò che pensa come vero. E la
sua realtà corrisponde con la sua capacità di raccontarla, di tradurla in parola, giacché questa traduzione è
immediata. Da qui, il principio di contraddizione nascerebbe dal piano linguistico greco, che è pure piano di realtà e
verità, in cui compaiono le espressioni “che è” (einai) e “che non è” (me einai) le quali, agli occhi di Parmenide,
appaiono inconciliabili.
3 Plotino, Enneadi, V2,1 (21)
assoluta, della pura e semplice trascendenza e dell'immobilità? Plotino escogita la metafora del
traboccare. L'Uno è come dotato di un'attività che è in se stessa una stasi, ma che lo rende altresì
sovrabbondante. Questa sovrabbondanza spontanea dell'Uno è ciò che trabocca e genera qualcosa
di altro rispetto all'Uno. In questo modo Plotino riesce a salvare l'immobilità dell'Uno, esentandolo
da qualsiasi tipo di movimento che lo coinvolga fuori di sé e che lo renda, in questo modo,
“colpevole” di molteplicità. Eppure, se anche questo linguaggio metaforico ha il pregio di
svincolarsi dalle contraddizioni inammissibili in logica, esso rimane pur sempre un linguaggio, un
discorso che abita nel tempo, e che finisce irrimediabilmente per parlare dell'Uno qualificandolo in
qualche modo e rendendolo così, anche involontariamente, molteplice. È dal momento stesso che io
ammetto che l'Uno è, che ne faccio un oggetto, rendendolo in tal modo un molteplice, poiché
costantemente marchiato dall'opposizione con una alterità. Affermando che l'Uno è, io non faccio
che porre delle condizioni, o, meglio, la condizione per eccellenza: che l'Uno sia. Quindi,
rigorosamente parlando, non dovremmo riferirci all'Uno se non in silenzio, senza nemmeno
pensarlo, poiché “Egli” non può essere nemmeno pensato. Il pensiero che pensa è infatti esso stesso
molteplicità: esso non si dà se non tramite l'irruzione delle molteplicità di un pensabile, di un
pensato e di un pensare.
Eccoci giunti al livello dell'Essere, dove per la prima volta irrompe la molteplicità. Tale
molteplicità non si dà, su questo piano, se non nella forma congiunta all'unità, e quindi il piano
ontologico dell'Essere è definito da Plotino anche come Uno-molti (Èn-pòlla). Comparsa la
molteplicità, seppure nella sua intrinseca inseparabilità con l'unità, senza la quale non si potrebbe
pensare nessun molteplice, irrompe sulla scena filosofica plotiniana il Pensiero, o Intelletto, che al
livello ontologico dell'Essere si identifica con il Pensare, o Intelligere, e con il Pensato/Pensabile, o
Intelligibile. È come se nell'Intelletto la conoscenza nelle sue diverse forme (di “facoltà di
conoscenza”, di “atto del conoscere” e di “oggetto della conoscenza”) si desse in una unità distintaindistinta, una-molteplice. È questo, per Plotino, il livello ontologico della pura forma, dell'èidos,
dove la conoscenza non avviene se non come una sorta di “intuizione”. Ma come ha origine l'Essere
dall'Uno? Plotino parla di un movimento di torsione dell'Essere, nel suo stato incoativo (ovvero di
“ibrido” che trabocca come sovrabbondanza e che non è più Uno, ma non ancora Essere) che si
rivolge all'Uno e lo guarda. Ma in questo guardare non può già più vedere l'Uno – se l'Uno fosse
visibile sarebbe oggetto di una visione, dunque limitato e molteplice –, ma vede se stesso e,
riconoscendosi, si fa Essere. Guardando in se stesso si fa Intelligenza/Intelletto.
“Ma l'Essere cosi generato [l'Essere nel suo stato incoativo] si volge a Lui [l'Uno] e tosto ne è
riempito e, una volta nato, guarda a se stesso, e questa è l'Intelligenza. Il suo orientarsi verso l'Uno
genera l'Essere, lo sguardo rivolto a se stesso genera l'Intelligenza”4
L'Essere è pertanto sia Essere che Intelligenza. Ed è pieno di sé. Ovvero l'Essere in quanto
Intelletto-Intelligibile-Intelligere non esce mai fuori di sé per Essere. L'Essere è Uno-Molteplice e
dunque è stabile e sempre in movimento. Plotino a questo punto sostiene che la potenza prima
dell'Uno continui a propagarsi attraverso i piani ontologici inferiori, facendo sì che pure dall'Essere,
sulla scorta di tale potenza, proceda un'altra forza, che è l'Anima:
“E così l'Essere, essendo simile a Lui [all'Uno], genera ciò che gli è affine, riversando fuori la sua
grande potenza; ma anche questa è un'immagine di Colui che, prima di lui, manifestò la sua potenza
[ovvero l'Uno]. Questa forza che procede dall'Essere è l'Anima, ma questa diviene, mentre
l'Intelligenza è immobile, poiché anche l'Intelligenza nacque mentre Colui che è prima di lei
persiste nella sua immortalità”
Scesi sul piano ontologico dell'Anima, la cui peculiarità è il divenire, Plotino assume il “punto di
vista” dell'Anima, la quale vede l'Essere-Intelletto da cui procede come qualcosa di immobile,
quando poco prima si è parlato di un Essere anch'esso dinamico. Dinamico, sì, ma rispetto all'Uno.
4 Plotino, Enneadi, V2(11)
E poiché il livello dell'Essere è quello dell'Unità-Molteplicità, è anche lecito che si parli dell'Essere
in maniera apparentemente contraddittoria.
L'Anima è sicuramente l'ipostasi più peculiare in Plotino, e anche ciò che pone i maggiori
problemi agi interpreti. Le difficoltà derivano soprattutto dal fatto che interpretare Plotino come
Plotino interpretò Platone, cercando di rintracciarci una struttura ontologicamente perfetta, significa
perdere il senso del messaggio di Plotino, che proprio nella sua ambiguità situa gran parte della sua
ricchezza. L'Anima è una forza duplice, essa è Una e Molteplice (èn kài pòlla), poiché da una parte
guarda all'Intelletto, dall'altra invece procede fino agli strati più bassi della gerarchia ontologica
plotiniana. Essa, afferma Plotino, risiede nell'Intelletto solo quando è pienamente se stessa, ovvero
quando guarda alla sua origine. Ma è allo stesso tempo “animata” da un “desiderio dell'inferiore”
che la muove verso il sensibile, verso gli animali, le piante, e perfino le ombre. Insomma, l'Anima
per Plotino è come spaccata al suo interno. Compito del filosofo, allora, sarà quello di ricondurre
l'Anima a se stessa, e questo processo, descritto come una sorta di cammino “introspettivo”
dell'Anima che riconosce se stessa e, conoscendo se stessa, conosce tutto il cosmo, si compie nel
momento in cui l'Anima “riposa” nell'Intelletto, cioè quando la parte sensibile si riconcilia con
quella Intelligibile. In questo stadio di riconciliazione, l'Anima non si distingue dall'Intelletto, ma
così, in un certo senso, sono un tutt'uno. Rimanere in questo stadio è però estremamente difficile, e
richiede un costante esercizio spirituale che si svolge tramite l'impiego delle diverse facoltà
dell'Anima, da quelle più legate alle passioni, passando per la facoltà del calcolo matematicoaritmetico, fino alla pura contemplazione. Spesso si è parlato della filosofia di Plotino nei termini di
una “mistica” dell'Anima. In realtà, più che di una vera e propria “mistica”, la quale si fonda su una
esperienza di carattere passionale-religioso, quella di Plotino è una accorata esortazione all'indagine
razionale, che coinvolge l'uomo nella sua totalità e nei suoi limiti, conducendolo via via al
raggiungimento di una situazione di sospesa estaticità, in cui si attua la contemplazione e, talvolta,
l'intuizione dell'Uno. L'esperienza dell'Unità rimane qualcosa di ineffabile. Eppure Plotino proverà
per tutta la vita a descriverla, lui che, secondo Porfirio, si mise in contatto con l'Uno per ben quattro
volte.
Il cammino di ricerca promosso da Plotino è quindi un cammino che vede come protagonista
non tanto l'Uno, quanto l'Anima. È l'Anima a farsi carico di se stessa, a incedere a passi lenti verso
il ricongiungimento alla sua “origine”. Ed è l'Anima a procedere sempre più in profondità e sempre
più in alto a mano a mano che si fa pienamente se stessa.
“Anche l'Anima nostra è infatti una cosa divina e di più alta natura, eguale per essenza all'Anima
universale: quando poi essa abbia in sé l'Intelligenza, è perfetta. Ma l'Intelligenza si distingue in
Intelligenza che ragiona e in Intelligenza che fornisce il ragionare. Quella che ragiona nell'anima
nostra non ha bisogno, per ragionare, di un organo corporeo, ma opera in assoluta purezza per poter
ragionare puramente […]. Poiché non bisogna cercare un luogo [tòpon, in greco] in cui collocarla,
ma dobbiamo collocarla fuori di qualsiasi spazio [all'èxo tòpou pantòs poietèov] […]. Anche
l'esortazione al «distaccarsi» [chorìzein] non va intesa nel senso spaziale [où topoi lègetai] –
[nell'anima] questa separazione avviene già per nauta [phùsei] – ma nel senso che essa non si
pieghi, nemmeno con l'immaginazione, ma si faccia estranea al corpo: sempre che si riesca a
elevare la rimanente parte dell'anima e portare verso l'alto ciò che di essa ha le radici quaggiù ed è
soltanto creatore e modellatore del corpo e gli dedica la sua attività.”
Altro aspetto interessante della posizione di Plotino in merito all'Anima, è l'indistinzione
spesso sottaciuta tra Anima umana/individuale e Anima del Cosmo/universale. Spesso in Plotino le
due nozioni si sovrappongono, anche se non si può afferrare con assoluta certezza che esse siano
addirittura interscambiabili. Sicuramente presentano elementi di curiosa affinità. Il passo citato si
riferisce alla facoltà che è l'Intelligenza che nell'Anima ragiona in assoluta purezza. Questa
Intelligenza che ragiona, dice Plotino, non ha luogo e anzi non va affatto collocata (cum-locata, nel
senso di “pensata insieme a/come un luogo”). Essa non può essere pensata in termini spaziali. Se
proprio è impossibile non farlo, essa va “collocata” «fuori» da qualsiasi spazio. L'Anima, e
l'Intelligenza che ragiona in lei in assoluta purezza, è quindi una entità extra-spaziale, dunque pure
extra-corporea. Seppure Plotino affermi che l'Anima metta «radici» nel corpo, essa si mantiene
sempre in un “altrove” o, meglio, non è in nessun luogo, poiché l'Anima è sempre fuori luogo. Così
l'esortazione al distacco non va intesa in senso corporeo, come una sorta di ascesi spirituale dalla
carne. Va piuttosto pensata come un'esortazione a fare dell'Anima una forza piena e stretta alla sua
origine, in un farsi progressivo e perpetuo, in cui nessuna divisione è sanata, ma resa quel che è e,
dunque, superata nel seno dell'Anima stessa.
Oltre Plotino. Accenni utili alla comprensione del clima filosofico tardoantico. Giamblico e
Proclo.
Il periodo tardoantico della filosofia è poi costellato da una serie di innumerevoli personaggi, spesso
anche coloriti, dediti tutti più o meno alla stesura di commentarii ad opere antiche di Platone o di
Aristotele, nonché a opere pseudo-filosofiche erroneamente attribuite a personaggi della tradizione
filosofica greca, come Pitagora, o Archita di Taranto (contemporaneo di Platone). Ci limiteremo ad
accennare a due tra i numerosi pensatori-commentatori di questo periodo: Giamblico e Proclo.
Giamblico è una figura peculiare della filosofia tardoantica. A metà strada tra teurgia e
metafisica dei numeri, Giamblico si preoccupò nella sua vita della dottrina pitagorica del numero,
componendo un'opera conservata in nove libri, ricordata col nome di “Sulla scuola pitagorica”.
L'intento generale di Giamblico è quello di riunire in una cornice omogenea il sapere filosofico e
teologico dell'antichità, ponendo come autorità indiscusse Pitagora e Platone, con un primato
eccezionale del primo. Giamblico vuole mostrare come filosofia e teologia antiche siano in perfetto
accordo con la sapienza egizia, caldea e assira, gettando un ponte tra le une e le altre. Ne risulta una
storia al rovescio, che tende a giustificare le concezioni che lo stesso Giamblico espone.
In generale si assiste con Giamblico a una rilettura in chiave pitagorizzante degli autori
classici, come Platone, e delle categorie di Aristotele, nonché una formulazione metafisica che
vorrebbe, almeno intenzionalmente, criticare e superare le innumerevoli contraddizioni presenti in
quella di Plotino.
Proclo è invece un autore utile per descrivere un fenomeno tipico di molte culture nel
momento in cui si avviano al loro collasso definitivo. Proclo è uno dei massimi esponenti della
Scuola di Atene, rifondata da Plutarco di Atene nel 400 d.C. e chiusa più di un secolo dopo, nel 529,
dall'imperatore Giustiniano, sulla scia del suo progetto di riunificazione dell'Impero romano sotto lo
scettro religioso del cristianesimo.
Proclo è autore di diverse opere in cui è possibile assistere ad una “cristallizzazione”
sistematica e, tendenzialmente, inclusiva, del sapere antico, sia filosofico che religioso. Proclo
esamina dettagliatamente i testi della tradizione pagana e cerca di riunirli in una pparato
filosoficamente imponente, così da “proteggere” il paganesimo dalle numerose minacce a cui era
esposto tra il V e il VI secolo d.C., con l'affermazione sempre più decisa e diffusa del cristianesimo
in area Mediterranea e con gli sconvolgimenti politici che il mondo greco-romano stava
attraversando. Senza scendere nel dettaglio, ci limiteremo a fornire alcune nozioni importanyi da
ricordare a proposito di Proclo, come l'introduzione da parte sua, in un impianto onto-teologico più
complesso di quello di Plotino, ma che ne ricalca appieno i tratti fondamentali, delle cosiddette
enadi, entità che procedono dall'Uno, rimanendo unitarie anch'esse, eppure separandosi le une dalle
altre. In questo modo Proclo intende da una parte insistere ancora di più sulla separatezza e
ineffabilità dell'Uno rispetto al resto della gerarchia ontologica, inserendo un ulteriore livello
intermedio tra Uno e Essere, dall'altra ideare un corrispettivo ontologico delle divinità del pantheon
greco. Le enadi consentono a Proclo di legare il sapere filosofico a quello religioso pagano,
mettendone in luce i parallelismi che ne testimoniano la coerenza (come se questa coerenza fosse
davvero il metro di giudizio di una cultura che ancora può dirsi forte).
Proclo può per noi essere molto istruttivo però, dal momento che è lui a preoccuparsi di
descrivere in termini precisi il processo dell'epistrophè, ovvero del “ritorno”, presente già in
Plotino. La smania di rendere tutto chiaro e ontologicamente collocabile fa di Proclo un attentissimo
analista della tradizione filosofica greca, e possiamo servircene, con le dovute accortezze, per
comprendere meglio aspetti poco chiari di pensatori diversi, tra cui lo stesso Plotino.
Lungi dall'essere un processo temporalmente qualificabile, l'epistrophè è unitaria e circolare.
A una prima fase di “permanenza” dell'Uno in se stesso, ne segue una di “processione” (proòdos) e
infine un'ultima di “ritorno” (epistrophè) vero e proprio. L'epistrophè è necessaria. Essa prevede
due fasi. Quella della permanenza del principio/causa e quella della processione fuori dal
principio/causa. Se l'effetto rimanesse nella causa, afferma Proclo, non ci sarebbe alcun tipo di
distinzione tra causa ed effetto. Mentre noi riusciamo a distinguere un effetto dalla sua causa.
L'epistrophè deve pertanto essere necessaria per giustificare questa distinzione. Ciò che procede,
dopo il suo permanere, è identico e allo stesso tempo diverso da ciò da cui procede. Come un padre
e un figlio presentano più o meno le stesse caratteristiche, pur essendo due persone distinte, così ciò
che procede si distingue e si identifica in ciò da cui procede. Il punto da cui pare la processione è
chiamato da Proclo “fiore” o “colmo”, in cui si verifica l'anekfoìtetos, ovvero “l'identità e
diversificazione”.
A questo punto, una volta che il principio si è diversificato, si verifica necessariamente, per
“somiglianza” la riconversione di ciò che è proceduto in ciò da cui procede, in un movimento
ciclico ininterrotto. Il ritorno al principio è pertanto una necessità dettata dalla somiglianza e in
virtù della stessa compiuto.
L'epistrophè descrive il rapporto che in Plotino era espresso in maniera poco chiara, in
forma poetico-metaforica, tra i vari principi ipostatici. Proclo, nella sua Elementatio theologica,
nell'intento di sistematizzare il sapere pagano, si preoccupa di chiarire in termini limpidi quel che in
Plotino rimaneva espresso solo metaforicamente, esponendo così il fianco alle critiche formali più
disparate.
Scarica