Salute e immigrazione in Italia: il percorso del diritto all`assistenza

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ad uso personale – articolo in press – febbraio 2009
Salute e immigrazione in Italia:
il percorso del diritto all’assistenza sanitaria
di Salvatore Geraci
(Area sanitaria Caritas – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni)
”... le misure sanitarie per i migranti che siano
ben gestite, inclusa la salute pubblica,
promuovono il benessere di tutti e possono
facilitare l’integrazione e la partecipazione dei
migranti all’interno dei Paesi ospitanti
promuovendo l’inclusione e la comprensione,
contribuendo alla coesione, aumentando lo
sviluppo”.
Dichiarazione di Bratislava a conclusione dell’8a
Conferenza dei Ministri Europei della Salute,
2007
Oltre 25 anni fa abbiamo cominciato ad occuparci di immigrati ancora prima che di
immigrazione; abbiamo incontrato persone malate, bisogni sommersi e diritti negati.
Protagonisti sono stati molti medici, infermieri, operatori sociali prevalentemente nell’ambito
del volontariato e del privato sociale, che in varie parti d’Italia hanno avuto umanità, sensibilità
professionale e un forte senso di giustizia sociale per impegnarsi nel garantire tutela della
salute, senza esclusione. Dall’impegno personale si è passati ad una coscienza collettiva di una
nuova realtà; dall’emergenza all’esigenza di capire, studiare, sperimentarsi nell’incontro con
questi “nuovi cittadini”; da un diritto di fatto negato e/o nascosto alla volontà di affermare,
anche sul piano giuridico che la salute è un bene di tutti e per tutti.
Il 1995: l’emersione del diritto
Per anni il fenomeno immigratorio nel nostro paese è stato ignorato o sottovalutato in ambito
prospettico e spesso le politiche sanitarie sono state dettate da tentativi di risolvere situazioni
contingenti. Da una nostra ricerca risultava infatti che, prima del 1995, le norme che
identificavano le possibilità di garanzia del diritto alla salute degli stranieri erano contenute in
ben 27 provvedimenti legislativi: 3 Leggi, 2 Decreti del Presidente della Repubblica (DPR), 6
Decreti Legge (DL), 16 Decreti Ministeriali (DM). Ciò non considerando i provvedimenti
legislativi specifici come le Convenzioni con particolari Stati esteri e non prendendo in esame le
reiterazioni dei Decreti Legge non convertiti in Legge.
Una pletora di norme che di fatto per anni ha reso impossibile l’accesso alle strutture e la
fruibilità delle prestazioni per molti degli immigrati presenti in Italia. In quel periodo parlavamo
di diritto alla salute negato per legge ai “clandestini” e nascosto ai regolari.
Dalla fine degli anni ’80, in varie parti d’Italia, in modo spontaneo ed allora certamente non
coordinato, vari gruppi di matrice confessionale o laica (per citarne alcuni: la Caritas a Roma, il
Naga a Milano, la Croce Rossa a Genova, il Biavati a Bologna, i salesiani di Santa Chiara e
l’Università a Palermo, ...) si sono organizzati per garantire il diritto all’assistenza sanitaria agli
stranieri che ne erano esclusi. Ambulatori di primo livello che tra mille difficoltà, con
l’entusiasmo di chi sa di percorrere strade impervie ma anticipatorie, con la curiosità del
volontario, con la passione di chi crede ad un diritto alla salute senza esclusioni, hanno visto
protagonisti centinaia di medici ed operatori sanitari con competenze ed appartenenze diverse
ma con comune impegno.
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E quando all’inizio degli anni novanta, questi gruppi sono riusciti a collegarsi e scambiarsi
esperienze e progettualità anche politica, ne scaturisce un movimento dal basso, di alto profilo
nelle competenze specifiche che, con lo stile che aveva caratterizzato ogni singolo gruppo e
cioè quello della gratuità, dell’impegno e della libertà, riesce ad essere credibile nell’analisi del
fenomeno e nelle proposte. Con questa chiave di lettura va vista la nascita e lo sviluppo della
Società Italiana di Medicina delle Migrazioni (SIMM) che da allora in gran parte condizionerà le
scelte di politica sanitaria nazionale nello specifico settore (www.simmweb.it).
Non sorprende quindi che, all’inizio del 1995, una proposta di legge “dal basso” per il diritto
alla salute degli immigrati con riferimento agli irregolari, promossa da gran parte dei gruppi
impegnati nel settore, riceve prima l’interesse ed il sostegno dell’allora ministro della Sanità,
prof. Elio Guzzanti, e poi, come Disegno di Legge, è presentata nell’agosto di quello stesso
anno al Senato ed alla Camera sottoscritta da circa 60 senatori (primo firmatario il verde
Manconi) e oltre 140 deputati (primo firmatario il cristiano sociale Tanzarella) di tutte le forze
politiche.
Nello stesso periodo, nell’ambito del dibattito politico relativo all’approvazione della Legge
Finanziaria del 1995, su esplicita richiesta della Lega Nord (che qualche mese prima era stata
la responsabile della caduta del primo governo Berlusconi e successivamente ha appoggiato,
da esterna al Governo, quello presieduto dall’on. Dini) fu varata, non senza dibattito e
polemiche, una normativa sugli stranieri: un Decreto Legge, reiterato ben 5 volte (dal
novembre 1995 e ultima il 12 settembre 1996: le ultime due versioni con radicali modifiche dal
sopraggiunto Governo Prodi).
Già dal primo Decreto Legge del 18.9.1995, n. 489 dal titolo Disposizioni urgenti in materia di
politica dell'immigrazione e per la regolamentazione ingresso e soggiorno nel territorio
nazionale dei cittadini dei Paesi non appartenenti all'Unione Europea è stato recepito con
l'articolo 13 (poi art. 11), il diritto alla salute come diritto per tutti gli stranieri, anche se
irregolari o clandestini, non solo come accesso straordinario ma anche come cure ordinarie e
continuative.
L'articolo 13 è stato, soprattutto perchè contenuto nell'ambito di una normativa certamente
non 'favorevole' agli immigrati, fortemente innovativo: si riscopre un diritto, un diritto da
sempre negato ad alcuni immigrati presenti nel nostro paese non in posizione regolare, un
diritto inalienabile che da anni molti operatori del settore con insistenza chiedevano.
L'articolo 13, come abbiamo visto, non è stato un articolo casuale, nasce da una capillare
azione di studio e di sensibilizzazione, da incontri e confronti tra associazioni, con il ministro,
con i suoi collaboratori, con tutte le forze politiche.
Questo articolo ha avuto anche il merito di sdoganare un problema, di liberare risorse, se non
altro sul piano organizzativo, per affrontare il diritto all'accesso alle cure. Da quel momento
Aziende Usl ed Ospedaliere, Enti Locali hanno dovuto/voluto pianificare interventi, deliberare
iniziative, promuovere politiche adeguate.
I limiti interpretativi rappresentati da quell’articolo del Decreto Legge in oggetto, diventano
spunto per azioni specifiche di chiarimento, di dibattito tecnico, di miglioramento delle
procedure: un patrimonio prezioso per la definizione della successiva normativa.
Dal 1996 al 1998 si succedono telex e note di chiarimento ministeriali, quesiti regionali e anche
delibere locali ormai orientate in modo “inclusivo” di questa popolazione nel sistema di tutela
sanitario.
Alla fine del 1996, l'impossibilità della reiterazione del Decreto a seguito di una sentenza della
Corte Costituzionale, ha nuovamente cambiato ‘le carte in tavola’. L'articolo 13 divenuto ormai
articolo 11, forzatamente scompare dal panorama normativo italiano: fortunatamente il nuovo
ministro della Sanità, on. Rosy Bindi, si pone su questo tema in continuità con il suo
predecessore e cerca di salvare i diritti acquisiti ed anche le indicazioni emerse per una politica
sanitaria adeguata. Viene promulgata quindi una Ordinanza Ministeriale, la prima datata 15
novembre 1996, successivamente ripresentata con qualche leggera modifica per ben 5 volte
fino alla promulgazione della Legge Turco Napolitano.
Il 1998: il consolidamento del diritto
Dopo un intenso lavoro preparatorio, anche con il prezioso contributo dell’associazionismo, il
14 febbraio 1997 il Governo presieduto dall’on. Prodi, ha presentato un atteso Disegno di
Legge dal titolo “Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero” con il
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dichiarato obiettivo di “superare la logica dell'emergenza e dei provvedimenti tampone, per
confermare l'impegno europeista dell'Italia e il rispetto di accordi e convenzioni, per garantire
un limpido percorso di cittadinanza agli immigrati regolari, per contrastare l'immigrazione
clandestina e lo sfruttamento criminale dei flussi migratori, per regolare il flusso degli ingressi”
(dal Comunicato del 14 febbraio 1997 dell'Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio dei
Ministri).
L'intento è stato quello di varare una Legge quadro capace di reggere alla prevedibile
evoluzione del fenomeno immigratorio negli anni a venire; per questo è stato redatto una
proposta di Legge con un numero relativamente limitato di articoli da integrare con un
dettagliato regolamento attuativo.
Il 19 febbraio 1998 il Senato ha definitivamente approvato questa legge che viene promulgata
il 6 marzo 1998 con il n. 40: ”Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello
straniero”. Il 25 luglio 1998 viene emanato il Decreto Legislativo (DLGS) n. 286 dal titolo
“Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla
condizione dello straniero”, che incorpora tutte le disposizioni della Legge 40, integrandola con
alcuni dispositivi ancora in vigore da leggi precedenti. Da ora in poi faremo riferimento al Testo
Unico (TU).
L'articolo n. 34 del TU dal titolo "Assistenza per gli stranieri iscritti al Servizio Sanitario
Nazionale" contiene le norme per gli immigrati 'regolarmente soggiornanti' sul nostro territorio
cioè con una titolarità giuridica di presenza testimoniata da un regolare permesso o carta di
soggiorno; l'articolo 35 dal titolo “Assistenza sanitaria per gli stranieri non iscritti al Servizio
Sanitario Nazionale” affronta il tema di tutela sanitaria “a salvaguardia della salute individuale
e collettiva” anche nei confronti di coloro “non in regola con le norme relative all'ingresso ed al
soggiorno”, i cosiddetti irregolari e/o clandestini. L'articolo 36, dal titolo “Ingresso e soggiorno
per cure mediche”, definisce le condizioni necessarie perchè un cittadino straniero possa venire
in Italia per sottoporsi a cure mediche e chirurgiche.
Disposizioni sanitarie e dettagli operativi sono contemplati anche negli articoli 42, 43 e 44 del
citato Regolamento d'attuazione e ulteriori chiarimenti al riguardo sono stati inoltre forniti dal
Ministero della Sanità con Circolare 24 marzo 2000, n. 5: Indicazioni applicative del decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”.
Obiettivo dichiarato della nuova impostazione politico-normativa è quello di includere a pieno
titolo gli immigrati in condizione di regolarità giuridica nel sistema di diritti e doveri per quanto
attiene all'assistenza sanitaria a parità di condizioni ed a pari opportunità con il cittadino
italiano: sono stati così rimossi dei requisiti che nel passato erano ostativi (la residenza, il
limite temporale, le aliquote diversificate per l'iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale - SSN,
...) ed introdotti principi di equità (obbligatorietà estesa all'iscrizione al di là del
perfezionamento formale delle pratiche, esenzione per situazioni di maggior disagio richiedenti asilo, detenuti, ...). Il diritto all'assistenza è stato esteso anche a coloro presenti in
Italia in condizione di irregolarità giuridica e clandestinità garantendo loro oltre alle cure
urgenti anche quelle essenziali, continuative ed i programmi di medicina preventiva. Per non
ostacolare l’accesso alle cure, è stato vietato, da parte delle strutture sanitarie, la segnalazione
all’autorità di polizia la presenza di immigrati clandestini che richiedono aiuto medico.
Tutto ciò ha reso operativo quanto espresso all’art. 32 della Costituzione Italiana: “La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della
collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti“. Da ciò si può evincere come la stessa
Costituzione con il termine ‘individuo’ includa nell’ambito della tutela non solo il cittadino
italiano, ma chiunque si trovi all’interno dei confini della Repubblica, operando così secondo
una logica di tutela e prevenzione collettiva.
C’è anche da riferire che se da una parte la Legge riconosce un sostanziale miglioramento alla
condizione giuridica dello straniero (ciò è evidente nell’ambito sanitario) con una riduzione del
margine di disuguaglianza rispetto alla condizione di cittadino, dall'altra alcuni strumenti
repressivi in particolare contro l'irregolarità amministrativa hanno introdotto, a nostro avviso,
alcune limitazioni pericolose ai diritti individuali. L'aver lasciato per strada la possibilità di
garantire il diritto di voto agli immigrati (era previsto nel disegno di legge presentato ma
successivamente stralciato per opportunità politica), non aver definito, almeno nel dispositivo
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legislativo, una ampia possibilità di regolarizzazione e di ingresso regolare, hanno reso questa
legge in parte incompleta ma egualmente interessante.
Infatti al di là di alcuni punti critici che hanno suscitato ampio dibattito politico e sociale, ci
piace sottolineare l'articolo 2 dove allo straniero, a prescindere dalla sua condizione giuridica,
"sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana" (comma 1), mentre a quanti
soggiornano regolarmente sono riconosciuti gli stessi diritti civili attribuiti al cittadino italiano
(comma 2). In coerenza con questi enunciati viene sviluppata tutta la parte relativa alle
politiche di integrazione (lavoro, istruzione, minore età, alloggio e salute) e alle misure contro
ogni discriminazione.
A sostenere e rafforzare quanto delineato dal quadro legislativo appena esposto, pochi mesi
dopo l’emanazione del TU è arrivato il Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1998-2000 dal
titolo significativo "Un patto di solidarietà per la salute". Tale documento, per la rilevanza che
ha rivestito in termini di programmazione su base nazionale, ha assunto, per quanto di nostro
interesse, un significato storico: per la prima volta infatti la salute degli stranieri immigrati è
stata riconosciuta tra le priorità del SSN e dell’intera collettività che esso tutela.
Il Piano presentava infatti una sezione dedicata agli immigrati quali destinatari di interventi
specifici. Nella prima parte del documento, dedicata agli obiettivi di salute, la popolazione
migrante è stata espressamente compresa tra i 'soggetti deboli' di cui l’Obiettivo IV si propone
di 'rafforzare la tutela'.
In sintesi, il PSN ha identificato come obiettivi prioritari, da raggiungere entro il triennio:
l'accesso all'assistenza sanitaria, secondo le normative vigenti, che deve essere
garantito agli immigrati in tutto il territorio nazionale;
la copertura vaccinale garantita alla popolazione italiana, che deve essere estesa
alla popolazione immigrata.
A questo scopo, nel triennio 1998-2000, dovevano «essere sviluppate le seguenti attività
rivolte allo sviluppo di politiche intersettoriali di salvaguardia della salute degli immigrati:
•
formazione degli operatori sanitari finalizzata ad approcci interculturali nella
tutela della salute;
•
organizzazione dell'offerta di assistenza volta a favorire la tempestività del
ricorso ai servizi e la compatibilità con l'identità culturale degli immigrati».
Tra i documenti e provvedimenti previsti dal PSN quali adempimenti prioritari, vi era inoltre un
Progetto Obiettivo dal titolo «Salute degli immigrati», la cui stesura è stata affidata ad una
Commissione istituita presso il Servizio studi e documentazione dell’allora Ministero della
Sanità, che ha licenziato un documento che però a causa del cambiamento di governo è stato
accantonato nonostante fosse un documento tecnico e non modificasse diritti ed impostazioni
di politica sanitaria. La stessa Commissione ha promosso alcune attività, tra cui, in primis, la
costituzione di un Coordinamento di referenti regionali sul tema, ed altre iniziative di
sensibilizzazione e divulgazione (ad esempio la presentazione di ‘decaloghi’ - documenti
schematici di indirizzo operativo - rivolti ad operatori sanitari e ad utenti immigrati, tradotti in
varie lingue e reperibili, al tempo, sul portale del ministero della Salute).
Anche il PSN per il triennio 2003-2005 ha previsto, all’interno della parte seconda, nel capitolo
dedicato alla «salute e il sociale» una sezione specifica sull’assistenza agli stranieri, dove si
riporta che “…osservando il flusso di utilizzo di alcuni servizi sanitari da parte degli stranieri, si
evidenzia una sostanziale mancanza di elasticità dell’offerta di servizi, a fronte dei nuovi
problemi di salute di questi nuovi gruppi di clienti”.
Infine a sostegno delle spese sostenute per erogare tali prestazioni, il Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) ha stanziato, a partire dal 1996, la
somma di 60 miliardi di vecchie lire annue (attuali 30.990.000,00 euro) da dividere tra le
regioni per l’assistenza sanitaria agli stranieri temporaneamente presenti sul territorio
nazionale.
Il ruolo determinante degli enti locali
Questa impostazione deve però necessariamente accompagnarsi con una “disponibilità” da parte
delle amministrazioni locali, che nel tempo sono divenute le reali “protagoniste” delle politiche
sociali e sanitarie per gli stranieri, nell’implementarle e renderle operative; ma è proprio in
questo ambito che si evidenzia una preoccupante discontinuità applicativa in base agli umori
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politici nazionali e locali. E non sfugga la peculiarità del momento storico in cui si assiste, da
una parte, ad una serie di iniziative orientate ad un tentativo di armonizzazione delle politiche
a livello europeo (in cui, tra l’altro, cominciano ad essere evidenti gli effetti sul settore sanitario
del recente allargamento a 27 Stati) e dall’altra, in ambito nazionale, l’avvio di un processo di
decentramento regionale che ha visto nella sanità una delle aree di maggior interesse ma
anche di potenziale criticità. Per effetto dell’art. 117 della Legge Costituzionale n. 3 del 2001
(di modifiche al titolo V della II parte della Costituzione), infatti, la tematica “salute e
immigrazione” appare ambiguamente sospesa tra la legislazione “esclusiva” (l’immigrazione è
infatti tra le materie in cui lo Stato mantiene la piena potestà legislativa ai sensi dell’art. 1,
comma 3, della Legge 59/97) e la legislazione “concorrente” (la tutela della salute è inserita
tra le materie in cui la potestà legislativa spetta alle Regioni).
Ciò rende ancora più pressante la chiara definizione di un sistema di garanzie relative ai
contenuti di tutela della salute – i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” recentemente sottoposti a
nuova revisione - e alle modalità di erogazione dei servizi e delle prestazioni – i requisiti per
l’accreditamento istituzionale - che riguarda anche gli immigrati presenti sul territorio
nazionale.
L’articolazione tra i diversi livelli istituzionali che animano il sistema salute propone dei
passaggi critici che possono mettere in crisi l’effettiva applicazione degli orientamenti sanitari,
eludendo a volte lo stesso mandato istituzionale (come d’altronde può accadere verso gli stessi
cittadini italiani).
Quindi pur essendo la politica sull’immigrazione dettata a livello nazionale, i percorsi di
inserimento, di integrazione e di promozione anche in ambito sanitario, sono implementati e
realizzati localmente. Il progressivo decentramento amministrativo e politico, sta producendo
estrema eterogeneità sul territorio nazionale per una più o meno specifica attenzione a livello
locale. Ciò può determinare disuguaglianze sia in ambito di accesso ai servizi, sia in ambito di
profilo di salute della popolazione immigrata su base territoriale. Per questo, già da 1995 e più
strutturalmente dal 1998, l’Area sanitaria della Caritas romana ha istituito un “Osservatorio
sulle politiche locali per l’assistenza sanitaria agli stranieri” che ha prodotto periodici rapporti,
specifiche ricerche e che attualmente collabora in un monitoraggio coordinato dell’Istituto
Superiore della Sanità.
Ciò che in questi anni emerge è che le Regioni che hanno scelto di promuovere o comunque
sostenere iniziative di attivazione di organismi che vedessero il coinvolgimento delle diverse
realtà istituzionali e non istituzionali presenti sul territorio, hanno maturato una visione
d’insieme e potuto dar vita ad una serie di interventi fondati su priorità condivise e
implementati a partire dal basso con una partecipazione allargata (in questo senso interessanti
le iniziative, fino ad un recente passato, della Regione Friuli Venezia Giulia, o del Lazio).
In altre Regioni permane una notevole frammentarietà o addirittura mancanza tanto della
capacità di lettura sistemica del fenomeno, quanto delle azioni specifiche eventualmente
intraprese a livello locale.
A rendere più incerto e vischioso il ruolo degli enti locali nella definizione ed implementazioni di
specifiche politiche
è
certamente il dibattito ideologico-politico
sull’immigrazione
particolarmente acceso nel nostro paese. L’autonomia locale infatti permette in parte di
attutire politiche “aggressive” a livello nazionale: è quello che è accaduto ad esempio in
Toscana, in Piemonte o in Emilia Romagna che avevano governi di centro sinistra nel periodo
del secondo e terzo governo Berlusconi (2001-2006) ma anche nel Lazio, presieduto dal
governatore Storace (centro destra) nello stesso periodo, ma caratterizzatosi da scelte
particolarmente adeguate dal punto di vista sanitario per gli stranieri. Al contrario può anche
accadere che amministrazioni locali vanifichino percorsi ed esperienza consolidati per allinearsi
ad input della politica nazionale come recentemente è accaduto in Friuli Venezia Giulia dove,
cambiando giunta regionale (dal centro sinistra al centro destra), si è abrogata una legge
sull’immigrazione di ampio respiro e tecnicamente di ottimo profilo.
2006-2007: buona volontà ma troppa incertezza
Alla fine del 2006 alcuni segnali importanti hanno caratterizzato la riflessione sulla salute degli
immigrati in Italia ed indicato possibili sviluppi circa le politiche sanitarie per questa
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popolazione. Ad ottobre il nuovo ministro della Salute Livia Turco, intervenendo a Catania al
Convegno della Società Italiana di Igiene, incentra il suo discorso sull’immigrazione ed
enfatizza la necessità di una integrazione a doppio senso: “... Non è efficace l’integrazione a
senso unico: non è solo la persona immigrata che si deve <integrare> col sistema salute; è
anche il sistema salute che si deve integrare con i nuovi italiani!...” anche perchè “...il nostro
Sistema Sanitario è perfettamente in grado di curare i nuovi italiani senza costruire ghetti di
isolamento ... . ... Gli ultimi venti anni hanno visto, con governi diversi, una crescita
dell’offerta e dell’accesso ai servizi della popolazione immigrata: oggi un immigrato, sia pure
illegale, può ricevere un set di servizi essenziali dal servizio pubblico che, integrato all’ampia
rete dei servizi sanitari erogati dal volontariato, rispondono ad alcune delle esigenze primarie
di salute di questa popolazione. Allora che manca? 1) Manca un approccio culturale
all’immigrato che lo consideri una risorsa, non un guaio per il Paese. 2) Manca umanizzazione
nel rapporto servizi-immigrati. 3) E’ insufficiente la mediazione culturale tra servizi sanitari
pubblici e popolazioni immigrate. 4) E’ insufficiente la comunicazione: in moltissimi casi
l’immigrato nemmeno conosce i suoi diritti alla salute. 5) Sul territorio italiano mancano
meccanismi di omogenea contribuzione alla spesa sociale: gli immigrati regolarizzati pagano i
contributi sanitari, ma non è raro che non ne usufruiscano…. 6) Manca la prevenzione: buona
parte della consistente attività di prevenzione che il nostro Sistema Salute offre, non raggiunge
le donne e gli uomini immigrati, vuoi per ostacoli di mediazione etnica con lingue e culture,
vuoi per sfiducia dei nostri operatori verso il successo di azioni preventive verso gli immigrati
...”
Un’analisi attenta ed anche un programma chiaro che comincia a concretizzarsi quando, su “...
sollecitazioni degli operatori del settore pubblico, del volontariato e del privato sociale,
impegnati nel settore ed in particolare della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni che in
gran parte li rappresenta, per una adeguata azione di monitoraggio degli interventi, la tutela
omogenea dei diritti sanitari ed una armonizzazione delle procedure su tutto il territorio
nazionale...”, a novembre 2006 viene istituita presso il dicastero della Turco la Commissione
Salute e Immigrazione.
Obiettivi dichiarati sono:

la promozione di interventi di prevenzione rivolti alla popolazione straniera;

la promozione dell’accessibilità e della fruibilità dei servizi sanitari da parte degli
immigrati presenti sul territorio nazionale in una prospettiva di garanzia dei percorsi
assistenziali, con particolare attenzione alla componente femminile, ai bambini stranieri
ed ai lavoratori;

la valorizzazione delle competenze professionali degli stranieri in campo sanitario;

il contrasto del pregiudizio sanitario nei confronti degli stranieri e il sostegno alla
cooperazione internazionale.
“... I lavori della Commissione potranno essere finalizzati alla progettazione di un piano
integrato di intervento sul tema della salute degli immigrati, con azioni ed obiettivi complessi,
che possa trovare attuazione attraverso azioni promosse dal Ministero della salute in
collaborazione con le Regioni e gli enti locali o nell’ambito di progetti comunitari” (dal decreto
di istituzione della Commissione, 27 novembre 2006).
Inoltre a maggio 2007 è stato presentato al ministro Turco il rapporto sulle Linee guida per il
contrasto delle mutilazioni genitali femminili ed il ministero della salute ha investito risorse per
la definizione di un piano strategico di settore specifico per gli immigrati da dedicare a
interventi ed azioni locali.
Tutto ciò ha determinato negli addetti ai lavori grandi aspettative che ben presto vengono in
parte deluse: la Commissione più che uno strumento di lavoro acquista la fisionomia di
un’assemblea con oltre 40 partecipanti e, per motivi economici (la partecipazione alla
Commissione è a titolo gratuito ma l’amministrazione deve sostenere i viaggi dei commissari
fuori sede) si riunisce solo 3 volte in un anno e mezzo; le raccomandazioni comunque prodotte
ed i documenti stilati non si traducono in atti formali; la preoccupazione espressa in particolare
per l’impatto sui servizi e sulle salute delle persone dall’ingresso nell’Unione Europea dei
Rumeni e Bulgari se non accompagnati da indicazioni “inclusive” in ambito sanitario e le
proposte indicate vengono di fatto ignorate; la discussione e la valutazione sulla scelta di
prevedere nella legge finanziaria del 2007 (L. 296/06) il finanziamento di 25 milioni di euro in
tre anni per la “realizzazione di un Istituto nazionale per la promozione della salute delle
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popolazioni migranti ed il contrasto delle malattie della povertà, con compiti di prevenzione,
cura, formazione e ricerca sanitaria”, istituito successivamente con Decreto del ministro della
Salute 3 agosto 2007, che pur ha sollevato grandi perplessità tra gli addetti ai lavori, non è
stata mai messa all’ordine del giorno.
Ed ancora nel Disegno di Legge Delega sull’immigrazione (Amato – Ferrero) presentato
nell’aprile 2007, ci sono pochi accenni alla sanità anche se è espresso un significativo quanto
generico intento di “razionalizzazione delle competenze in materia di assistenza sanitaria dei
cittadini stranieri, in un’ottica di piena inclusione nel Sistema Sanitario Nazionale”.
Ma indubbiamente, accanto a non essere riusciti a ridefinire le norme con una nuova legge
sull’immigrazione, bloccata più dall’incertezza della stessa maggioranza che dal dibattito
politico che comunque si prospettava acceso, la debolezza dell’esecutivo in ambito sanitario si
è mostrata su ciò che abbiamo definito “il caso dei neocomunitari”.
Il primo gennaio 2007 la Bulgaria e la Romania sono entrate nell’Unione Europea: evento
importante e largamente previsto come da tempo era previsto l’impatto che tale
provvedimento avrebbe provocato in ambito di assistenza sanitaria se non adeguatamente
preparato e gestito. Infatti improvvisamente migliaia di cittadini rumeni presenti
irregolarmente in Italia, dal 1 gennaio 2007 hanno perso il diritto ad essere assistiti come STP
(Stranieri Temporaneamente Presenti: definizione che comprende gli immigrati senza
permesso di soggiorno) non acquisendo spesso altro titolo per l’assistenza. Come tutti i
comunitari, essi possono circolare liberamente nell’Unione Europea (e non possono essere
espulsi – anche i provvedimenti di espulsione attivi sono stati archiviati), possono lavorare
anche senza entrare nei decreti flussi (è stato di immediata attuazione la possibilità di lavoro
agricolo e turistico alberghiero, domestico e di assistenza alla persona, edilizio,
metalmeccanico, dirigenziale e altamente qualificato; per le altre qualifiche tra un anno),
possono quindi avere una carta di soggiorno ed iscrizione al SSN. Ai sensi del DLGS 30/2007,
entrato in vigore l’11 aprile 2007 la carta di soggiorno, prima necessaria per soggiornare per
periodi superiori a tre mesi, viene sostituita dall’iscrizione anagrafica. A livello sanitario i
cittadini neocomunitari (come tutti i comunitari), nel caso di soggiorno di breve durata, hanno
diritto di accedere alle prestazioni in natura che si rendono necessarie dal punto di vista
medico richieste dal proprio stato di salute per consentire di continuare il soggiorno in
condizioni sicure sotto il profilo medico, dietro esibizione della tessera europea di assicurazione
malattia (TEAM). In realtà in molti casi i cittadini provenienti da Romania e Bulgaria,
soprattutto se in condizioni di fragilità sociale, non sono in possesso di tale documento e,
spesso, non risultano iscritti al SSN del Paese di provenienza. Di fatto molti cittadini
neocomunitari si sono trovati nella situazione di non poter proseguire trattamenti terapeutici in
corso o si sono visti negare l’assistenza sanitaria anche in situazioni delicate come la
gravidanza. E’ opportuno chiarire che la maggior parte di queste persone non si trovano nel
nostro paese per soggiorni di breve durata e non possono quindi accedere alle prestazioni
sanitarie con la TEAM.
Dall’altra parte chi lavora e soggiorna stabilmente in Italia non sempre è in grado di esibire un
regolare contratto di lavoro e ottenere quindi l’iscrizione anagrafica e il rilascio della tessera
sanitaria. Va aggiunto, inoltre, che coloro i quali sono titolari di regolare contratto di lavoro non
sono comunque riusciti, in diversi casi, a effettuare l’iscrizione anagrafica dato che moltissimi
uffici comunali hanno sospeso per lunghi periodi tali pratiche sostenendo di non possedere
disposizioni chiare e una formazione adeguata per rispondere alle richieste. Con notevole
ritardo, a febbraio 2007 una Circolare del ministero dell’Interno, ripresa dal ministero della
Salute, proroga la possibilità di rinnovo per tutto il 2007 del tesserino STP a favore di coloro
che ne erano già in possesso nel 2006 e non hanno altro titolo all’assistenza sanitaria; a
seguito anche di una Interrogazione Parlamentare, ad agosto 2007 il ministero della Salute
pubblica una circostanziata Circolare di precisazione e chiarimento sui percorsi e procedure per
la copertura sanitaria dei comunitari ma che ancora una volta lascia dei dubbi in quanto non
prevede percorsi strutturali di tutela per tutti i cittadini presenti, con particolar modo quelli in
condizione di fragilità sociale (rom, donne in gravidanza, minori anche se non accompagnati).
Di fatto in questo periodo molti operatori sanitari del pubblico e del privato sociale non sono
stati in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni di una parte della popolazione rumena e
bulgara presente in Italia da diverso tempo, o arrivata di recente, in particolare di quella più
povera e sfruttata, creando dei vuoti assistenziali non coerenti con il nostro mandato
costituzionale. A seguito di ripetute segnalazioni e denuncie da parte dell’associazionismo e
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degli operatori sanitari, grazie anche alla pressione esercitata dalle regioni Marche, Piemonte e
Toscana, il 19 febbraio 2008 il ministero della Salute pubblica una breve nota che,
nell’ambiguità dell’impostazione, tuttavia invita ad “essere attivate, nei confronti di queste
persone, anche per motivi di sanità pubblica nazionale, le campagne di vaccinazione, gli
interventi di profilassi internazionale e la profilassi, diagnosi e cura delle malattie infettive, ai
sensi della vigente normativa nazionale”. Attualmente solo 9 Regioni e la Provincia autonoma
di Bolzano hanno emanato atti formali per garantire percorsi assistenziali per questa
popolazione in condizione di fragilità sociale e stiamo così assistendo ad una enorme
differenziazione e discrezionalità.
La stagione inaugurata alla fine degli anni novanta caratterizzata da una politica sanitaria
coraggiosa e innovativa (l’Italia è stata prima in Europa a prevedere percorsi inclusivi per
l’intera popolazione immigrata presente a qualunque titolo), si è impattata con le incertezze
citate e poco peso hanno avuto azioni specifiche comunque positive messe in cantiere
dall’esecutivo: la definizione di un piano strategico sulla salute degli immigrati “cancellato”
dalla caduta del Governo; il finanziamento di alcuni progetti specifici sulle politiche locali, sui
flussi informativi e sull’accessibilità dei servizi e sulla fruibilità delle prestazioni che hanno visto
alla fine del 2008 un reale avvio; un’ampia indagine commissionata all’Istat sulla condizione e
integrazione sociale immigrati che, se tutto andrà in porto, si avvierà fra qualche mese, con
l’obiettivo di fornire un set di indicatori di salute (e non solo) confrontabili tra italiani e
stranieri. Con il fondato dubbio che il cambiamento dell’impostazione governativa forse potrà
vanificare anche queste importanti azioni.
2008: si avvia una nuova stagione di diritti negati?
Poco prima dell’estate 2008, man mano che in Italia si accendeva il dibattito sulla sicurezza,
all’attenzione della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni sono giunti diversi quesiti sulle
nuove norme sulla sicurezza (in particolare sull’effetto in sanità del “reato” di clandestinità) e
segnalazioni circa la difficoltà di accesso all’assistenza sanitaria da parte degli stranieri
irregolari e “clandestini”. Infatti il clima di “criminalizzazione” degli immigrati con riferimento a
quelli presenti in Italia non in regola con le norme del soggiorno, ha immediatamente prodotto
una significativa riduzione degli accessi negli ambulatori dedicati e nelle strutture sanitarie in
genere, con un gradiente Nord-Sud (un ambulatorio di Brescia ha segnalato oltre il 50% in
meno rispetto all’utenza aspettata), creando, di fatto, danni per la salute degli immigrati
stessi. Infatti, tutto ciò è accaduto non perchè siano diminuiti tali stranieri ma per il clima di
sospetto e paura creatosi con ripercussioni gravissime anche sulla collettività: pensiamo alle
“badanti” che non si rivolgono al medico o immigrati che vanno a lavorare in condizioni
precarie di salute, o che vivono in condizioni di promiscuità con altri immigrati in regola o con
italiani in condizione di fragilità sociale... . Gli appelli diffusi di rassicurazione non sono serviti a
nulla anzi, durante l’estate, ci sono stati alcuni casi di denuncia impropria da parte del
personale sanitario nei confronti di stranieri illegali che hanno richiesto prestazioni sanitarie (a
Treviso ed in Puglia), contravvenendo arbitrariamente le disposizioni legislative attuali.
Il clima è diventato particolarmente pesante quando nell’ambito della discussione in Senato del
cosiddetto “Pacchetto Sicurezza” (atto 733), in commissione congiunta Giustizia ed Affari
Costituzionali, è stato depositato da quattro senatori ed una senatrice della Lega Nord un
emendamento che mina radicalmente uno dei principi base della politica sanitaria nei confronti
dei cittadini stranieri nel nostro paese e cioè la garanzia di accessibilità ai servizi per la
componente irregolare e clandestina.
Erano previste due modifiche al comma 4 e comma 6, e l’abrogazione del comma 5 dell’articolo
35 del Decreto Legislativo 286 del 1998 (Testo Unico sull’immigrazione).
Successivamente l’emendamento viene prima ritirato in Commissione ma poi ripresentato in
aula diviso in due (modifica al comma 6 e abrogazione del comma 5).
Partiamo dal comma 5, la cui cancellazione è di estrema gravità: esso infatti attualmente
prevede che “l’accesso alle strutture sanitarie (sia ospedaliere, sia territoriali) da parte dello
straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di
segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con
il cittadino italiano”. Come abbiamo visto questa disposizione normativa è presente
nell’ordinamento italiano già dal 1995, attraverso l’art. 13, proposto da una vasta area della
società civile, del decreto legge n. 489/95, più volte reiterato, voluto ed approvato dal centro
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destra anche con i voti della Lega. La “logica” della norma non è solo quella di “aiutare/curare
l’immigrato irregolare” (per altro deontologicamente assolutamente corretta!) ma in particolare
di tutelare la collettività come prevede l’articolo 32 della Costituzione; il rischio di segnalazione
e/o denuncia contestuale alla prestazione sanitaria, creerebbe una barriera insormontabile per
l’accesso e spingerebbe ad una “clandestinità sanitaria” pericolosa per l’individuo ma anche per
la popolazione laddove possano esserci malattie trasmissibili. Ormai esiste una significativa
documentazione sul tema, compresa la posizione della Federazione degli ordini dei medici
italiani, di alcune Società scientifiche e dei Ministri della sanità europei ... che sottolineano
l’indispensabilità di questa impostazione per garantire concretamente la salute per tutti (è
assolutamente intuitivo come le malattie non facciano distinzione di etnia, status giuridico o
colore della pelle). L’effetto della cancellazione di questo comma vanificherebbe il lavoro fatto
negli ultimi 13 anni che ha prodotto importanti successi nell’ambito sanitario tra gli immigrati
testimoniato ad esempio dalla riduzione dei tassi di Aids, dalla stabilizzazione di quelli relativi
alla Tubercolosi, dalla riduzione degli esiti sfavorevoli negli indicatori materno infantili (basso
peso alla nascita, mortalità perinatale e neonatale ...). E tutto questo con evidente effetto sul
contenimento dei costi in quanto l’utilizzo tempestivo e appropriato dei servizi (quando non sia
impedito da problemi di accessibilità) si dimostra non solo più efficace, ma anche più
“efficiente” in termini di economia sanitaria.
La modifica al comma 4 introduce un rischio di discrezionalità che amplificherebbe la difficoltà
di accesso facendo della “barriera economica” e dell’eventuale segnalazione (in netta
contrapposizione al mandato costituzionale di “cure gratuite agli indigenti”), un possibile
strumento di esclusione, forse compromettendo la stessa erogazione delle prestazioni.
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In una puntuale nota la SIMM ha specificato come tale provvedimento sia inutile e dannoso
perchè:
spingerà all’incistamento sociale, rendendo invisibile una popolazione che sfuggirà ad ogni
forma di tutela sanitaria e di contatto sociale legittimo;
potrà produrre percorsi sanitari ed organizzazioni sanitarie parallele al di fuori dei sistemi
di controllo e di verifica della sanità pubblica (rischio di aborti clandestini, gravidanze non
tutelate, minori non assistiti, ...);
creerà condizioni di salute particolarmente gravi poiché gli stranieri non accederanno ai
servizi se non in situazioni di urgenza indifferibile;
avrà ripercussione sulla salute collettiva con il rischio di diffusione di eventuali focolai di
malattie trasmissibili a causa dei ritardi negli interventi e la probabile irreperibilità dei
destinatari di interventi di prevenzione;
produrrà un significativo aumento dei costi in quanto comunque le prestazioni di pronto
soccorso dovranno essere garantite e le condizioni di arrivo saranno significativamente più
gravi e necessiteranno di interventi più complessi e prolungati;
spingerà molti operatori ad una “obiezione di coscienza” per il primato di scelte etiche e
deontologiche.
Con la SIMM, riteniamo anche estremamente pericoloso il provvedimento poichè soprattutto in
un momento di trasformazione sociale e di sofferenza economica, questo atto va ad intaccare il
cosiddetto “capitale sociale” della società (contrasto tra italiani e stranieri, diritti negati e
nascosti, radicale differenza nella vision dell’approccio professionale) che una significativa
letteratura scientifica definisce condizione per una deriva nel conflitto sociale (le cui prime
avvisaglie stiamo già vivendo negli ultimi tempi).
La nota della SIMM si conclude con un appello affinchè piuttosto che logiche di partito
prevalga, alla luce delle evidenze tecnico scientifiche e di consolidate politiche sanitarie,
prevalga un approccio intelligente e concreto di sanità pubblica come è già avvenuto nel 1995.
L’appello è stato accolto da molti parlamentari, dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei
Medici Chirurghi ed Odontoiatri, da diverse Società Scientifiche e da una vasta area della
società civile.
Ad oggi (gennaio 2009), non sappiamo se prevarrà il buon senso o l’arroganza di un approccio
alla sanità pubblica ideologizzato e sterile che forse drenerà qualche consenso in più ma farà
del male all’intera comunità nazionale.
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Infatti un approccio pluridimensionale alla promozione della salute degli immigrati non può
ignorare l’elemento della “permeabilità” dei servizi, come questione determinante per garantire
percorsi di tutela sanitaria specifici nell’ambito di una più generale funzione di advocacy e di
contrasto alle diseguaglianze da parte del Servizio Sanitario Nazionale. Ciò, come si legge nelle
conclusioni della Conferenza Europea “Health and Migration in the UE: better Health for all in
an inclusive society” promossa dalla Presidenza del Consiglio d’Europa (Lisbona, 27 e 28
settembre 2007), è da attuarsi necessariamente all’interno di un’azione politica e sociale ad
ampio spettro che includa: accoglienza, inserimento, casa, lavoro, diritti costituzionali in
genere.
Epilogo
“Abitualmente si parla di funzione specchio
dell’immigrazione, cioè dell’occasione privilegiata
che essa costituisce per rendere palese ciò che è
latente nella costruzione e nel funzionamento di
un ordine sociale, per smascherare ciò che è
mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse
a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza”
o ignoranza sociale, per portare alla luce o
ingrandire (ecco la funzione specchio) ciò che
abitualmente è nascosto nell'inconscio sociale ed
è perciò votato a rimanere nell’ombra, allo stato
di segreto o non pensato sociale”.
Abdelmalek Sayad “La doppia assenza. Dalle
illusioni dell’emigrato alle sofferenze
dell’immigrato”, 2002
“Un singolo filo non fa una corda, un albero da solo non fa una foresta”, cita un antico
proverbio cinese. Policy networks sono invece i termini utilizzati oggi ad indicare una
collaborazione su un territorio per lo sviluppo di complesse forme di strutture decisionali,
costituite da attori istituzionalizzati e non istituzionalizzati, collegati tramite scambi,
informazioni, conoscenza, pressione, fiducia e altre risorse di policy.
Ma perché quest’accostamento tra saggezza orientale e sociologia politica postmoderna? Cosa
c’entra con la nostra storia, con il nostro quotidiano impegno per la tutela della salute degli
immigrati?
Quando iniziammo ad occuparci di immigrati non potevamo prevedere come questa “nuova
utenza” dei nostri servizi, potesse incidere in modo significativo in processi di cambiamento sia
a livello individuale/professionale, sia in termini di sanità pubblica nella nostra società.
Ma la consapevolezza di essere su un crinale della storia, della nostra storia, della storia di
tante donne e tanti uomini che con la loro professionalità di medici, infermieri, operatori sociali
e sanitari in questi anni impegnati in prima persona per garantire il diritto all’assistenza
sanitaria alla storia di tante donne, uomini e bambini immigrati nel nostro paese, ci fa pensare
al domani in modo positivo. Le politiche possono dettare cambiamenti, possono accogliere o
respingere, includere o escludere ma la storia, la nostra storia ha già prodotto un incontro.
Non pensiamo di esagerare dicendo che chiunque abbia avuto, almeno in ambito professionale,
degli incontri con un immigrato, o meglio con più cittadini immigrati, si sia fatto delle
domande, abbia avuto curiosità, si sia scontrato con l’evidenza di una burocrazia che tende a
escludere l’alterità, in alcuni casi si sia sentito impotente sul piano relazionale o clinico, a volte
indignato dalle reazioni ed atteggiamenti. Nulla di nuovo per chi ha scelto di lavorare in
relazioni d’aiuto. Ma di nuovo c’è che nella relazione con lo straniero, spesso regno condiviso di
pregiudizi più o meno consapevoli, abbiamo misurato e misuriamo con mano la nostra
impotenza: quella comunicativa linguistica, relazionale, politico-organizzativa, culturale
terapeutica. Di nuovo c’è la consapevolezza che per superare questa impotenza dobbiamo
attraversare il diaframma che ci separa gli uni dagli altri e condividere informazioni,
impressioni, scoperte, strategie.
Da quel gruppetto sparuto di medici ed operatori sanitari che circa 30 anni fa ha istituito
ambulatori di strada, tracciato percorsi, intuito cambiamenti; da una piccola società scientifica,
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la SIMM, che comunque con costanza e competenza ha prodotto proposte e sollecitato
risposte, oggi molti più operatori sociali e sanitari, italiani e stranieri, del settore pubblico e del
privato sociale, in tante parti d’Italia, riuniti o meno nei Gruppi Immigrazione e Salute (GrIS:
unità territoriali della SIMM), stanno lentamente tracciando un altro tassello di quel processo di
meticciamento della nostra società che inesorabilmente ci trasforma.
I GrIS sono luoghi partecipati, dove ogni persona o ogni gruppo ha il coraggio di fare un passo
all’indietro, per condividere un progetto comune, costruito in base alle proprie possibilità e
capacità. In una società sempre più individualista e quasi con l’obbligo dell’apparire, si profila
un ambito organizzativo ma non strutturalmente organizzato, dove il singolo è valorizzato dal
gruppo e l’apparire è un vuoto di senso di fronte alla concretezza delle risposte che si riesce a
mettere in atto; con tempi e modi sempre diversi, ma egualmente efficaci. Attori diversi
(pubblico, privato sociale, volontariato, associazionismo, istituzioni), in una rete di reti (SIMM e
GrIS), si confrontano, si scontrano anche, ma in un’ottica costruttiva della valorizzazione delle
diversità. E ci auguriamo che questa esperienza si diffonda sempre più nelle varie realtà
regionali.
Nella funzione di specchio che l’immigrazione ci costringe, ritroviamo le nostre debolezze ma
anche le motivazioni ad essere protagonisti di ciò che, a buon ragione, possiamo definire reali
percorsi di sanità pubblica e del diritto alla salute “senza nessuna esclusione”.
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