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Storia dell’immigrazione: l’integrazione come chiave di lettura
(a cura del Centro Studi e Ricerche IDOS)
Anche in questo periodo di crisi è sotto gli occhi di tutti che il radicamento della
popolazione straniera in Italia sta diventando sempre più marcato. L’unica chiave che
consente di governare con esiti soddisfacenti questa nuova configurazione della società
italiana è l’integrazione, un concetto spesso controverso ma che non lo sarebbe se venisse
inteso come interazione.
I migranti sono portatori di differenze che esplicano un effetto bivalente, sia di
attrazione che di rifiuto; di stimolo conoscitivo e di apertura a nuovi orizzonti, ma anche di
timore e di insicurezza. Ciò è avvenuto nel passato in Europa, quando a emigrare eravamo noi
italiani insieme agli spagnoli, ai portoghesi e ai greci, tutti occidentali, andando incontro a
grandi sofferenze, in buona misura superate nella cornice del processo di integrazione europea
e delle relative garanzie di tutela.
Attualmente, invece, i flussi migratori si determinano da aree molto disomogenee per
storia, cultura, tradizioni sociali, religione, sistemi normativi. Il processo d’incontro tra
popolazione autoctona e i nuovi venuti è diventato molto più problematico. La presenza
straniera è riconosciuta come funzionale ai bisogni del mercato occupazionale, ma non
sempre accettata dal punto di vista dell’inclusione sociale: l’esito positivo dipende dal
dibattito politico, dalla normativa approvata, dall’operato degli amministratori, ma anche da
fattori prettamente culturali come l’impegno della scuola e degli altri circuiti educativi o
l’operato dei mezzi di comunicazione di massa che influiscono sulle convinzioni personali.
Diversi sondaggi hanno riscontrato che circa la metà della popolazione è perplessa di
fronte all’immigrazione: lo sono i cittadini in generale e in particolare le categorie più deboli
per livello di istruzione e per reddito, i proprietari di casa, certi datori di lavoro, chi non ha
una percezione chiara dei valori fondanti della tradizione occidentale e così via. Tutti questi
fattori possono portare a comportamenti discriminatori nei confronti degli immigrati.
Gli immigrati, del resto, non devono essere sollecitati a rinunciare alla propria
cultura, ma solo portati ad una sincera ed effettiva accettazione delle nostre regole
costituzionali e del nostro specifico di popolo. L’obiettivo più significativo consiste, come
auspicato dalla Commissione Europea, nell’equiparazione la più ampia possibile ai cittadini
nazionali, attraverso l’attribuzione di quell’insieme di diritti sociali che non si fermano alla
parità di trattamento in materia di sicurezza sociale ma prefigurano anche la concessione del
voto amministrativo, obiettivo sul quale abbiamo recentemente discusso proprio insieme
all’ANCI, constatando una convergenza di vedute.
Si richiede una certa capacità di “mediazione politica. Bisogna assolutamente vincere
il senso di paura e il catastrofismo: sarebbe molto peggio se mancassero gli immigrati, anzi
sarebbe una vera tragedia, perché essi sono funzionali al benessere e allo sviluppo dell’Italia,
come del resto è avvenuto in altri paesi. Non è neppure corretto sottacere che l’immigrazione
comporta anche dei problemi, tanto più in questa fase in cui le risorse finanziarie pubbliche
sono carenti. Non mancano i fattori di disagio. È complesso il processo di adattamento,
trattandosi di spostamenti rilevanti di popolazione da tanti paesi del mondo, e i problemi non
mancano: abitazione, scuola, servizi sanitari, trasporti, legalità, differenze religiose con
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carenze nel reciproco adattamento e talvolta anche atti di razzismo, come attesta
continuamente la cronaca. Nello stesso tempo si vedono segni incoraggianti: gente che si è
inserita, vuol vivere in pace e come tale viene apprezzata; nuovi imprenditori, quadri e
dirigenti nei sindacati, responsabili di associazioni, mediatori culturali, partner in matrimoni
misti, gente desiderosa di partecipare e perciò bisognosa di pari opportunità.
Solo una società aperta consentirà di inserire i nuovi cittadini, far condividere loro i
nostri obiettivi, averli come compagni nella costruzione di una società ormai irreversibilmente
formata da diversi. Questo comporta cambiamenti, non solo nei nuovi arrivati, ma anche nella
mentalità degli italiani, chiamati a essere capaci di adottare decisioni più lungimiranti su
diversi temi, affinché gli immigrati possano diventare effettivamente nuovi cittadini e non
estranei.
Si può dire che oggi tutti i paesi, anche quelli di antica immigrazione, sono diventati
apprendisti, perché non ha più senso rifarsi meccanicamente al passato. I termini del problema
sono chiari, le soluzioni lo sono di meno.
Da una parte, l’immigrato non può disfarsi completamente della sua cultura di
origine ed è una finzione considerarlo completamente uniformato a un cittadino del posto;
dall’altra, il paese di accoglienza, anche sulla base di esperienze rivelatesi controproducenti,
non può riconoscere ai diversi gruppi nazionali un’autonomia così ampia nel promuovere la
propria cultura da pregiudicare l’unitarietà del contesto societario.
Ci troviamo, quindi, in una nuova fase di costruzione della strategia di integrazione
ed è fuori posto pensare che un singolo paese ne abbia una definizione ed una realizzazione
compiuta, mentre tutti sono chiamati a concorrere per la costruzione di un nuovo modello,
riflettendo su quanto di concreto si riesce a realizzare.
In linea generale, gli immigrati non contestano l’adattamento al paese che li accoglie,
se si escludono frange che provengono da contesti in cui ordine religioso e ordine societario
tendono a identificarsi. È questo un punto molto delicato perché, qualora nei nuovi venuti
mancasse la disponibilità a integrarsi nel nuovo paese, si determinerebbe la ripulsa da parte
della società ospitante, e l’immigrazione, anziché occasione di incontro, si tradurrebbe
inevitabilmente in uno scontro.
Accogliere l’altro, però, non comporta una rinuncia alle proprie radici, che anzi
devono essere ravvivate per poter costituire la base di un dialogo più profondo. La paura di
perdita della propria identità non dipende dall’immigrazione bensì dal fatto di averla
interiorizzata in maniera superficiale: tra l’altro, il contatto con il diverso può anche
stimolare fruttuose operazioni di recupero.
È concreto in Italia il rischio di creare una distanza tra la cittadinanza economica, in
buona parte raggiunta in molte parti d’Italia, e la cittadinanza sociale, ancora caratterizzata
da una forte marginalità. L’immigrazione è una realtà in cui ci sono il dare e l’avere,
opportunità e concessioni, benefici di natura demografica e occupazionale e investimenti da
fare sul piano culturale.
Perciò deve essere superato il mero inserimento utilitaristico degli immigrati e
improntare la convivenza a una filosofia dello scambio, che ci consenta di essere vicini
anche se diversi e, proprio per questo motivo, di favorire la mediazione tra chi ‘ospita’ e chi
viene ‘ospitato’ per il raggiungimento di obiettivi comuni di sviluppo.
Servono forme di convivenza che, all’interno di un contesto certo di diritti e di
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doveri, garantiscano gli autoctoni e non penalizzino i nuovi venuti, recependone le diversità
costituzionalmente compatibili.
Un progetto politico valido deve cercare di collocare le differenze, di cui gli
immigrati sono portatori, all’interno di un quadro unitario di valori fondamentali, che
salvaguardi la sostanza della nostra tradizione culturale e religiosa e riesca ad accettare le
altre culture e le altre religioni, chiedendo loro la disponibilità a inserirsi, senza
contrapposizioni, in un quadro pluralista.
Se parità di trattamento è sinonimo di uguaglianza, non può sfuggire come per
arrivare al superamento della distanza tra noi e gli altri, sia necessario il superamento di
tradizioni storiche, sociali, culturali, religiose, giuridiche, non tanto per rinnegare questi
portati di cui si sostanzia la società di accoglienza, quanto per comporli con nuove e
differenti realtà che non si era abituati a considerare su un piano di parità.
L’obiettivo più significativo consiste, come auspicato dalla Commissione Europea,
nell’equiparazione più ampia possibile ai cittadini nazionali, attraverso l’attribuzione di
quell’insieme di diritti sociali che non si fermano alla parità di trattamento in materia di
sicurezza sociale (ad esempio in materia di garanzia del soggiorno, di cittadinanza, di
ricongiungimento familiare e in prospettiva anche di accesso al collocamento presso le
strutture pubbliche) ma prefigurano anche la concessione del voto amministrativo.
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ITALIA. Prospetto riassuntivo dell'immigrazione, valori assoluti e percentuali (2011)
2011
59.570.581 (P)
Popolazione residente totale
di cui stranieri
Incidenza % stranieri sul totale
% donne sul totale residenti stranieri
Nati stranieri nell’anno
% minori sul totale residenti stranieri
Iscritti a scuola (1)
Acquisizioni cittadinanza
3.865.385 (P)
6,5 (P)
49,5 (E)
78.500 (S)
23,9 (E)
Stima presenza regolare complessiva (Dossier Statistico Immigrazione)
Distribuzione territoriale dei residenti (%)
755.939
56.001
5.011.000 (s)
Nord Ovest
35,8 (P)
Nord Est
Centro
Sud
Isole
Italia
27,6 (P)
23,8 (P)
9,0 (P)
3,8 (P)
100,0
Ripartizione delle presenze per continente di origine (%)
Stima presenza regolare
complessiva (s)
50,8
Europa
Africa
Asia
America
Oceania
Italia
Prime cinque collettività
22,1
18,8
8,3
0,0
100,0
Stima (s) e soggiornanti (E)
997.000 (s)
Romania
Albania
491.495 (E)
506.369 (E)
277.570 (E)
Marocco
Cina
Ucraina
223.782 (E)
Occupati nati all’estero per settore (2)
Agricoltura e pesca
8,5
29,6
13,0
3,6
57,0
9,4
11,5
14,9
4,9
100,0
3.647.903
Industria
di cui costruzioni
di cui metallurgia
Servizi
di cui alberghi e ristoranti
di cui servizi alle imprese
di cui servizi alle famiglie
Attività non determinate
Totale
P : dato provvisorio Censimento 2011 – S: stima Istat – s: stima Dossier Statistico Immigrazione Caritas e Migrantes –
E: soggiornanti non comunitari (titolari di permesso di soggiorno, inclusi i minori iscritti sul permesso dei genitori).
FONTE: Dossier Statistico Immigrazione. Elaborazioni su dati Istat, Ministero Pubblica Istruzione (1), Inail (2)
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