Quando le mappe si increspano, o della geografia dell - Ec

Quando le mappe si increspano, o della geografia dell’enunciazione1
Stefania Bonfiglioli
“Si viaggia per scoprire il mondo o per cambiarlo?”. Tale domanda, poiché posta fra virgolette, ne genera immediatamente un’altra: chi ha formulato questa domanda? È chiaro, si
tratta di una questione da geografi, ma che sarebbe pure perfetta per un conte philosophique.
Nulla di tutto ciò, poiché si tratta di una campagna pubblicitaria per le borse di lusso Louis
Vuitton. Uno tra gli annunci a stampa di tale campagna è realmente esoso: non bastava
l’interrogativo appena visto, ma tale questione fa da commento ad un visual impegnativo,
cioè la fotografia di Mikhail Gorbaciov, seduto sul sedile posteriore di un’auto accanto ad
una borsa della marca suddetta (fig.1). Nel lunotto e nel finestrino posteriore dell’auto è visibile un muro coperto di graffiti che, se anche non fosse riconoscibile, la pubblicità stessa
porta ad identificare, in quanto fa seguire alla domanda sopra riportata un secondo commento: “Muro di Berlino. Di ritorno da una conferenza”. Tutta la storia e la geografia che
questa pubblicità pone in campo sono eccessive, per analogia, evidentemente, con
l’esagerazione dei costi del prodotto reclamizzato. L’analogia non finisce qui. Perché se tali
borse sono veramente per pochi, allo stesso modo la risposta al quesito con cui si è aperto
questo lavoro non è certo da tutti.
Già, ma dove andare a cercare le risposte? A chi o a che cosa chiedere quali viaggiatori siamo o piuttosto desideriamo essere? Cosa vorremmo vedere della terra che attraversiamo, o
piuttosto come sentiremmo l’esigenza di comprendere e raccontare questa terra?
Per i geografi le risposte contemporanee a tali questioni si legano a modelli ancora da venire. La “ragione cartografica”, secondo la geografia di Farinelli (2003), almeno dall’inizio della Modernità ha conquistato la nostra visione della e il nostro intervento sulla terra, facendocela concepire spazialmente come una mappa. Su quest’ultima valgono i criteri della distanza lineare tra due punti e della bidimensionalità della tavola, dell’annullamento della
differenza e della varietà in una reductio del tutto a punti, nomi e modularità della scala. Se
spazio e tempo hanno condizionato la nostra percezione del mondo per tutta la Modernità,
non è però più il criterio della distanza che può far comprendere come il mondo funzioni,
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Questo articolo propone le tematiche e i testi che ho già avuto modo di trattare e discutere pubblicamente nel mio talk dal titolo Your Road, Your Way. Where Advertising Meets Italian Geography and
Philosophy, presentato l’8 maggio 2009 alla XXIX Annual Conference of the American Association for
Italian Studies (AAIS), New York, Saint John’s University, Manhattan Campus, 7-10 maggio 2009.
almeno da quando la comunicazione al suo interno si è smaterializzata, mettendo dunque in
crisi il modello cartografico. Ritorna allora a profilarsi all’orizzonte il modello del globo, che
chiama in causa un’idea di totalità e compresenza ancora sfuggente e lontana dall’essere abbracciata, se mai potrà esserlo. Ecco, proprio il “se mai”, nel momento in cui costituisce per
ora uno scacco interpretativo, o comunque un faticoso e accidentato esercizio in fieri delle
scienze umanistiche, è invece un terreno fertilissimo per la pubblicità, essa che crea o interpreta desideri, sottolinea mancanze, promette di colmarle. E anche quando i desideri sono
epistemologici la pubblicità non si tira indietro, anzi a volte proprio la stessa pubblicità che si
serve di testimonial, diventa a sua volta una testimone sorprendentemente fedele di questioni
che sembrerebbero solo accademiche. E che invece diventano di tutti.
1. Nuovi modelli di auto...
Nel nostro caso l’advertising tratta di epistemologia autoreferenzialmente: se è la pubblicità
di una borsa, incentrata su un viaggio in auto, a porre una domanda, sono diverse pubblicità sulle auto, diffuse tra il 2007 e il 2008, a cercare una risposta.
Un primo tentativo: “Adesso il mondo è piatto”, recita la headline degli annunci a stampa ed
affissioni di Jeep Grand Cherokee (fig. 2). – Solamente adesso? – risponderebbe subito chi
conosce la logica della cartografia moderna e il suo potere performativo, molto vicino a
quello della jeep in questione, che nella pubblicità ha annullato tutti i rilievi e gli ostacoli
interponendo fra essi e le sue ruote una superficie lucida. Ma proprio nell’ispirarsi alla superficie di una carta tale pubblicità offre risposte retrograde, ormai superate. Ne dà avviso
la stessa affissione, rendendo la superficie trasparente e non opaca: i rilievi non tangono la
jeep ma rivendicano un posto nella rappresentazione, e creano una prima crepa nella visione del mondo piatto, un ponte per il dialogo con altre pubblicità.Del resto la jeep, auto da
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sentieri avventurosi, non può dirsi più un modello all’avanguardia essa stessa, e per questo
non è in grado di offrire risposte all’avanguardia. La pubblicità delle auto può andare verso
nuove visioni del mondo soltanto attraverso i nuovi modelli che lo specifico mondo dei motori offre. A partire dai Crossover, i modelli chiamati anche Suv (Sport Utility Vehicle). O
meglio, come ci informa Carlo Cavicchi su la Repubblica (10 marzo 2008), prima tali tipi di
auto erano chiamati solo Suv; poi però, poiché diventati nemici di tutti visto il loro enorme
successo, per renderli più sopportabili sono stati denominati Crossover – “incroci, bastardini”, sottolinea il giornalista. Ma è proprio tale identità ibrida che evidentemente costituisce il
loro punto di forza in epoca di incertezze e di liminarità, anche epistemologiche.
E l’advertising ha saputo cogliere immediatamente tale forza, anche laddove propone pubblicità a stampa esteticamente brutte. Come quella del Suv Daihatsu “a misura di città”, ma capace di aprire “tutti gli orizzonti possibili” (fig. 3). E così nel visual un tipico paesaggio urbano si apre alla sabbia del deserto sotto le ruote del suddetto Suv, tanto adeguato alla quotidianità quanto all’avventura, al traffico quanto agli spazi aperti, alla città e al suo opposto:
una perfetta sintesi insomma, procedendo per generalia, di cultura e natura.
Con molta più eleganza e fantasia, però sempre sulla stessa linea, anche la Citroën promuove il suo Suv, che denomina opportunamente C-Crosser. Il visual propone l’auto in un paesaggio irto di pinnacoli, ma la headline porta ad individuare in questo paesaggio qualcosa di
più poiché recita: “ore 17:07. Milano, Piazza Duomo”. In effetti i profili del paesaggio montagnoso sono stati costruiti per rendere riconoscibili le fattezze del duomo meneghino e dei
monumenti che lo circondano. È un intreccio fra opposti, natura e cultura, parecchio sofisticato e richiamato anche nella prima linea della bodycopy, parlando di strade: “asfaltata, sterrata, cittadina, di campagna, dritta o piena di curve. È la tua strada, e la devi percorrere nel
miglior modo possibile”. E il fatto di percorrere una strada significa per la casa Citroën poterla trasformare, seguendo l’invito della baseline: “C-Crosser. Trasforma la tua strada” (fig.
4). Il percorrere e trasformare una strada è chiaramente un’operazione in fieri, che
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l’annuncio a stampa coglie solo nel suo aspetto terminativo, ma che viene seguita passo passo dallo spot di lancio del medesimo Crossover, diffuso tra fine 2007 e inizio 2008.
Protagonista dello spot è un uomo che sta guidando C-Crosser e il cui atteggiamento iniziale
mostra noia e impazienza. Le sequenze immediatamente precedenti e successive ne offrono
la spiegazione: il guidatore sta attraversando una landa piatta a perdita d’occhio, senza
neppure un rilievo in lontananza, solcata da un’unica strada diritta centrale, che è esattamente tutt’uno con ciò che la circonda (fig 5). La visione ha la stessa desolazione della strada
percorsa dai protagonisti di Uccellacci e uccellini; e si tratta proprio del medesimo senso di
vuoto che Pasolini ha creato nelle sue inquadrature ispirate alla
visione prospettica, dove le linee
rette si perdono in fondo
all’infinito. Ma l’uomo che guida
C-Crosser, ed è solo in auto, non
ce la fa più, vuole capire esattamente dove si trova, anche perché è molto più facile perdersi
dove tutto si ripete identico, e
soprattutto vuole capire quando
uscirà da quella sorta di impasse
sottolineata da una musica sempre uguale e appena accennata
in sottofondo. Allora l’uomo accosta l’auto e afferra una carta
che giace piegata sul sedile del
passeggero, scende e dispiega la
carta sul cofano. Si china leggermente in avanti per consultare la mappa e, con le braccia distese, vi pone le mani sopra (fig.
6). Inavvertitamente, appoggiandosi sulla carta dispiegata,
ne provoca un’increspatura (fig.
7). Nulla di strano, se non che la
stessa increspatura si manifesta,
oltre che sulla carta, sulla superficie della terra (fig. 8). O meglio,
si manifesta su una landa piatta
che della carta aveva ereditato
tutti gli aspetti, dalla linearità
alla reductio ad unum (fig. 9). Quando si increspa la superficie della carta, all’orizzonte – alla
fine ora possibile di quella strada diritta – anche la superficie piatta della terra si increspa e
crea dei rilievi. Cioè crea finalmente un paesaggio da contemplare in lontananza. Per
l’uomo che guida C-Crosser è una sorpresa, che però lo lascia tutt’altro che sgomento o
stordito: se le prime increspature della sua carta sono state fortuite, ora l’uomo si mette
d’impegno ad increspare, propriamente ad accartocciare la mappa (figg. 10-11). E in contemporanea il paesaggio diventa sempre più mosso, nel senso che la terra riconquista la verticalità del rilievo, la ricchezza della differenziazione e di quelle mutazioni della superficie,
4
che, come quando vi è un terremoto o un’eruzione vulcanica, vengono dalle sue viscere (fig.
12). Tali movimenti fanno affiorare, portano in superficie cioè alla nostra attenzione, il pensiero della profondità della terra, e con esso, nel caso di cataclismi naturali, il terrore del
non controllabile.Nello spot in questione, però, il quid di sconosciuto e di sorprendente è
interpretato euforicamente. La sequenza successiva inquadra l’uomo di spalle, piccolo piccolo accanto alla sua auto, a contemplare la grandiosità di ciò che è riuscito a creare (fig. 13).
Questa sequenza costituisce a mio parere la versione contemporanea più fedele delle vedute
pittoresche del Sette-Ottocento con uno o pochi minuscoli uomini (quando presenti) al cospetto del protagonista indiscusso dell’immagine, vale a dire il paesaggio nella sua maestosità. Proprio le vedute pittoresche trovano grande fortuna presso gli esponenti della geografia
tedesca dell’Ottocento, Alexander von Humboldt e Carl Ritter, i medesimi che introducono
in geografia il concetto di paesaggio. Questo perché la loro geografia, denominata Erdkunde
(conoscenza in quanto novella della terra), si fonda sull’osservazione di viaggio, sui punti di
vista, sulla mobilità del soggetto, che coincide con l’affermazione della sua individualità.
L’Erdkunde, insomma, si basa non su un’idea di soggetto immobilizzato di fronte alla carta
ma piuttosto su un’idea di paesaggio come soggettivo punto di vista2. La geografia tedesca
dell’Ottocento costituisce un’eccezione nella storia di questa disciplina, lungo la quale
l’imperialismo della logica cartografica guida l’intervento umano sulla terra, la pianificazione del territorio. Di tale logica proprio le sequenze iniziali dello spot, che si aprono su un
“intorno” desolato, piatto e disumanizzato, costituiscono una possibile esemplificazione. Ma
la novità e la chiave di volta di questa pubblicità è che l’intervento umano, prima involontario e poi intenzionale, non è applicato sulla terra seguendo la carta, ma al contrario mira
esclusivamente alla carta. Se la Modernità per alcuni ha trasformato la terra sul modello della mappa, nello spot è invece la carta a subire mutamenti. Questi ultimi sono applicati alla
mappa conferendole tutto quello che della terra non ha mai rappresentato: la profondità e
l’altezza anzitutto, che sulla terra significano varietà e cambiamento. Solo in virtù
dell’intervento sulla carta diventa possibile che muti anche quella terra che era stata conquistata dalla linearità della strada e perciò tendeva ad identificarsi con la carta stessa. E solo
così questa terra riscopre la sua dimensione più “naturale” di paesaggio. Contemporaneamente il soggetto torna a divertirsi perché diventa soggetto attivo del viaggio, come anche la
strada lineare e piana diventa sentiero avventuroso e pieno di curve (fig. 14). La strada, da
meccanismo lineare di pianificazione e riduzione all’identico, da strada a tutti comune, diviene invece un percorso a misura del soggetto, della creatività che vuole esprimere attraverso il suo viaggio. Diventa la sua strada, e anche tutta un’altra storia di viaggio.
2. …auto per nuovi modelli
Già dalla prima volta in cui mi è capitato di vedere questo spot in televisione ho avuto
un’impressione di déjà vu. Immediatamente un’altra immagine mi è balzata davanti, questa
volta una creazione artistica. Si tratta di Mirage, opera del 1979 di Michel Granger (fig. 15),
confluita in un volume dell’artista intitolato L’État des lieux (1985, p. 20)3. Che i pubblicitari
abbiano potuto trarre aspirazione da questa opera di Granger è alquanto probabile, visto
che l’artista contemporaneo condivide l’origine francese sia con la casa automobilistica che
con l’agenzia ideatrice dello spot (H-Paris). Ma se anche tale ispirazione non fosse effettiva,
il quadro e lo spot danno propriamente corpo allo stesso miraggio, allo stesso desiderio
2
3
Su questi aspetti dell’Erdkunde cfr. Farinelli (1992, pp. 107ss.) e (2003, parte II).
Ora sul sito: http://www.granger-michel.com
5
all’orizzonte: quello di una carta che si increspa, conquista la verticalità e crea il profilo di
un paesaggio. Si tratta della medesima forza inventiva e creatrice. Il paesaggio emerge, o
meglio riemerge, dalla linearità orizzontale della carta. Solo che lo spot, per quanto solo da
un certo punto in poi, al contrario della realizzazione artistica, attribuisce tale forza inventiva ad un preciso soggetto, ad un individuo in movimento (v. infra). Questi inventa la sua
strada nel momento in cui inventa un paesaggio, o meglio fa affiorare il paesaggio a partire
dalla carta. Vale a dire, ciò accade nel momento in cui tale soggetto segue l’esortazione espressa dalla headline di un’utilitaria Fiat: “Esprimiti. Punto.”, claim giocato sul fatto che l’auto
in questione è dotata di ESP, sistema di controllo della stabilità (fig. 16).
Se lo spot francese del C-Crosser recita “Inventez votre route”, quello italiano preferisce
“Trasforma la tua strada”, evidentemente perché vi era già un altro claim in italiano, sempre
dedicato ad un’auto, che recitava esattamente “Inventa la tua strada”. Si tratta della headline
della pubblicità di Outlander, il fuoristrada Mitsubishi (fig. 17). Alla creatività della headline
fa però riscontro in maniera imperfetta il visual, dove è rappresentata un’auto che percorre
una strada innevata, ma fuoriesce da una serie di quadri, incassati l’uno nell’altro. In essi
varia l’“intorno” – prima urbano, poi desertico, poi da viale di villa o di campagna in autunno – ma sempre rimane fissa un’unica centrale strada diritta. La linearità prospettica della
strada è tutt’uno con i quadri, vale a dire con le tavole. L’auto non percorre una propria
strada, ma sempre la stessa strada, quella che riduce alla tavola, a più tavole, ciascuno dei
paesaggi. Un quadro si genera dall’altro, la strada è sempre la medesima: pur nella variazione dei paesaggi, questa auto li percorre come se fosse su una carta, come se fossero sempre gli stessi. Li omologa e li pone in continuità: tutto è assolutamente rassicurante, nulla è
creativo. Nulla ha dunque il dinamismo delle linee curve e delle sfide in altezza, ciò che invece può chiedere al Crossover chi lo guida, ricevendo dall’auto e dal suo brand una vera e
propria competenza, in termini tanto di volere quanto di potere. Questo è un classico schema narrativo adottato dalla pubblicità, ma è il poter fare che il Crossover consente ad essere
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nuovo, o meglio la novità consiste nel supporto su cui agire, vale a dire la carta che viene
stravolta nella sua bidimensionalità. Ma cosa implicita quel poter-fare in cui risiede parte
della competenza fornita dall’auto? La risposta è offerta dalla pubblicità della Civic, non un
Suv ma comunque un nuovo modello della Honda (fig. 18). Questa affissione prevede due
tempi di lettura, vale a dire due immagini e due headline, una superiore e una inferiore.
L’immagine in alto mostra una superficie gialla e grigia che presenta tagli, granulosità, sollevamenti. Ancora l’arte del secolo scorso viene in aiuto, perché sono i quadri di Fontana e
di Burri le immagini più rassomiglianti a quella proposta. La fotografia sottostante inquadra
invece l’auto Civic che percorre una strada contrassegnata da segnaletica gialla. Ed ecco il
dialogo fra le due headline, rispettivamente quella superiore e quella inferiore, dialogo che
guida l’interpretazione della connessione fra le due immagini. Se la pseudo-tela novecentesca aveva a commento l’invito “Guarda il mondo attraverso Civic”, la fotografia sottostante
viene accompagnata dall’affermazione secondo cui “A bordo di una nuova Civic, anche una
semplice linea gialla si trasforma in un’opera d’arte”4. L’auto è un competenzializzatore in
quanto permette di saper-vedere in modo differente.
In fondo, vedere la linea gialla di una strada rettilinea come un quadro di Fontana o di
Burri è la stessa cosa che increspare una carta. In entrambi i casi, infatti, viene conferita
profondità, una terza dimensione, alla superficie della tavola, o della carta, o della strada
che costituisce lo strumento più efficace per l’applicazione della logica cartografica sul territorio. L’opera d’arte, la componente creativa proposta da questa pubblicità, è di nuovo
un’emersione. E allora si ritorni al quesito iniziale: “si viaggia per scoprire il mondo o per
cambiarlo?”. Secondo la pubblicità di queste auto, viaggiamo per cambiare la nostra visione
del mondo, per scoprire una soggettiva visione di esso. Viaggiamo per liberarci dal navigatore satellitare, cioè dalla mappa dove ogni strada è uguale all’altra, per scoprire il senso di
4
È il caso di ricordare che il primo annuncio a stampa qui citato, quello di Louis Vuitton, era inserito
in una campagna pubblicitaria incentrata su “the art of travel”.
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un nostro percorso. Tale senso non prescinde dal conferimento di profondità e di altezza a
ciò che si sta percorrendo. Resta quel “se mai” di ogni modello ibrido, la consapevolezza
che una carta increspata a generare un paesaggio rimanga propriamente un miraggio alla
Michel Granger. Ciò non crea assolutamente problemi in campo pubblicitario, anzi è il caso
contrario. L’advertising si muove infatti del tutto a proprio agio nell’ambito di ciò che si profila solo all’orizzonte, del non ancora raggiunto ma non irraggiungibile. Tanto più se tale
modello liminare di carta increspata deve pubblicizzare per analogia il modello ora più ibrido di auto, un Crossover. Ma per la geografia l’identità ibrida di un modello rimane un
problema, o meglio un traguardo epistemologico non ancora raggiunto. Una carta increspata, capace di generare un paesaggio, è infatti una perfetto intreccio di quello che si vorrebbe
chiedere ad un modello di conoscenza del mondo: controllabile e comprensibile come una
mappa, ma divertente e vario, dunque più fedele al mondo stesso e alla creatività dei soggetti che lo percorrono, come un paesaggio. La geografia seguirà gli esperimenti di incrocio
del mercato delle auto o tali liminarità rimarranno sfumate all’orizzonte? E quanto lo zoom
delle mappe di Google, che fa passare dalla carta ad una particolareggiata e cangiante visione di luoghi immagine dopo immagine a scelta dell’utente, può dirsi un dispositivo borderline, già capace di attraversare le soglie fra carta e paesaggio? È innegabile che ci sia una trasformazione a misura di rotellina di mouse per quanto riguarda la visione di porzioni molto
ristrette di mondo, che non si perdono all’orizzonte. Lungo le strade di Google maps, tuttavia, a muoversi è un manichino guidato dal mouse, la cui visione è sottoposta sempre e comunque alle regole di un programma, rappresentate da direzioni di frecce. Questo simulacro molto depauperato della soggettività, per quanto consenta nuove visioni del mondo oltre la mappa, mai può distaccarsi totalmente da quest’ultima, e dunque non riesce a divenire uno strumento per creare percorsi davvero individuali.
3. L’enunciazione. Dallo spazio ai luoghi
Tutti questi racconti di viaggio dovrebbero richiamare immediatamente qualcosa alla mente
di ogni semiologo. Si ripensi un attimo al claim pubblicitario della Citroën, che ora riporto in
inglese: “Invent your own road”, praticamente uguale a quello successivo di Nuova Mazda
6, lo spot in cui l’auto viaggia su fondali marini che assumono le sembianze di un paesaggio
urbano: “Create your own road”; e ancora, praticamente uguale a quello inglese di Mitsubishi Outlander: “Build your own way”5. Tutti i verbi rinviano a qualcosa di creativo e inventivo. In tutti e tre i claim risalta questo aggettivo “own”, secondo cui ogni invenzione diventa
un’appropriazione. E non solo. Ogni strada creata e inventata è una propria strada, perché
è contemporaneamente anche un proprio modo di vedere le cose. Lo suggerisce la scelta di
Mitsubishi a favore del termine inglese way, che significa tanto “strada” quanto “riguardo,
punto di vista, modo, maniera”. Appropriazione, punto di vista, creatività, individualità. Basterebbero i claim appena citati per dire che questi spot possono essere considerati una messa in discorso di ciò che la semiotica chiama enunciazione.
È sufficiente ricordare la descrizione che di quest’ultima fornisce il suo primo teorico, Benveniste:
En tant que réalisation individuelle, l’énonciation peut se définir par rapport à la
langue, comme un procès d’appropriation. (1970, p. 81)
5
E si consideri anche che lo spot italiano di Fiat Punto, corrispondente all’annuncio a stampa con
headline “Esprimiti. Punto”, ha per claim: “Non seguire nessuna strada. Creala”.
8
L’acte individuel d’appropriation de la langue introduit celui qui parle dans sa parole.
(ivi, p. 82)
Si ritorni a quella sequenza dello spot qui letta come la versione contemporanea dei quadri
pittoreschi (fig. 13). Sia in questi ultimi che in tale sequenza ha luogo, in termini greimasiani, un’enunciazione del tutto enunciata: l’uomo di schiena è simulacro di quell’enunciatario
che, nel caso dello spot, il verbo all’imperativo del claim evoca e a cui si rivolge come target.
Si tratta di un imperativo che è conferimento di un volere al soggetto da parte dell’azienda
destinante, la quale mette in forma propriamente dei desideri e si racconta come capace di
esaudire quello stesso volere che essa ha imposto con l’evidenza di un dato di fatto ai destinatari (cfr. Marrone 2007, pp. 72-76). Questi ultimi sono ignari a priori di che cosa il brand
riesca a fare per la loro stessa identità di soggetti, proprio come ci avverte la casa automobilistica alla fine dello spot: “Vous n’imaginez pas tout ce que Citroën peut faire pour vous”.
L’enunciatario di questo spot è invitato a diventare, tramite l’acquisto di un’auto, soggetto di
un racconto sull’istanza individuale e creativa dell’enunciazione, quell’istanza che determina
l’inserirsi della soggettività nel linguaggio, negli atti individuali di discorso6. Per questo, una
volta creata una propria strada, le ultime sequenze dello spot inquadrano il soggetto (accanto all’auto o alla guida) sempre dentro il paesaggio, a contemplarlo o ad attraversarlo.
Ma che questo spot fosse un racconto sull’enunciazione, o meglio giocasse il suo appeal su
tutti quegli elementi che costituiscono il fascino dell’enunciazione stessa, veniva già anticipato da quel quadro di Michel Granger che subito mi era venuto in mente alla prima visione
della pubblicità. Nell’opera di Granger il paesaggio emerge dalla carta, esattamente come
un’emersione dal profondo è considerata l’istanza dell’enunciazione nel percorso generativo
greimasiano. Ecco, che cosa rimane al di sotto della linea della convocazione enunciativa e
cosa vi affiora sopra? Tra parentesi, bisogna specificare che se in geografia la profondità è
essenzialmente quella della terra e del mare, connessa ad un’idea di ciò che sta sotto i piedi
e sotto la superficie, all’inverso la consueta rappresentazione schematica del percorso generativo pone sopra quello che sta in profondità (le strutture semio-narrative). Per Greimas la
profondità è connessa all’astrazione e a ciò che viene prima in termini di semplificazione. Si
tratta cioè di un percorso dalla profondità verso la superficie che è essenzialmente culturale,
riguarda il senso del mondo fatto linguaggio, proprio come il percorso che non parte del
mondo ma da quel mondo rappresentato spazialmente che è la carta. Le profondità del
percorso generativo sono profondità di immanenza. In quest’ultimo termine vi è la radice
dello stare dentro, dell’essere insito, il che implica che il profondo si opponga al superficiale
come l’interno all’esterno, ma non forzatamente come il basso all’alto. Quest’ultima mancanza di connessione è confermata, ad esempio, anche alla voce “discours” del Dictionnaire,
dove la competenza semio-narrativa risulta “située en amont, antérieure qu’elle est à
l’énonciation”, laddove la competenza discorsiva è chiaramente “en aval” (Greimas e Courtés 1979, pp. 103-104). Quando insomma la metafora del corso di un fiume diviene utile
per descrivere il percorso generativo, l’alto è tutt’uno con l’anteriorità, con le sorgenti del
senso. Ma è il ribaltamento di prospettiva nel parlare dei livelli greimasiani che sembra aver
avuto la meglio, forse anche in virtù di una “consuetudine geografica”. Da sempre siamo
infatti abituati a concepire le profondità della terra come l’ambito della coincidenza fra ciò
6
In questo lavoro si intenderà per “discorso”, seguendo Fontanille (2003, p. 85), “une instance
d’analyse où la production, c’est-à-dire l’énonciation, ne saurait être dissociée de son produit,
l’énoncé”. Già Benveniste (1966, p. 251) intendeva per istanze di discorso “les actes discrets et chaque
fois uniques par lesquels la langue est actualisée en parole par un locuteur”.
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che sta all’interno, nelle viscere, e ciò che sta sotto i nostri piedi, più in basso di noi. E così,
negli sviluppi della teoria testuale, le strutture semio-narrative sono descritte per lo più come soggiacenti, e la concezione semiotica del discorso risulta essere un punto di vista ascendente sul percorso generativo, poiché va dal più astratto al più concreto (Fontanille 2003,
pp. 88-89)7.
Parlando dunque nei termini di quest’ultima “geografica” consuetudine interpretativa, sotto
la linea dell’enunciazione rimane l’“intuition spatiale de relations entre positions” (Petitot 1985,
p. 198). Se qui si partirà da questa affermazione e se ne citeranno altre di Petitot, lo si proverà a fare, però, con una concezione di spazio non propria della topologia di Thom, ma
piuttosto peculiarmente geografica e ancorata alla tradizione della geometria classica. Tale
tentativo acquisisce senso sulla base di una constatazione: in Sémantique structurale l’approccio
greimasiano all’opposizione, incentrato sulla nozione di asse semantico, è completamente
forgiato sulla nozione aristotelica di contrarietà, che il semiologo lo abbia scelto consapevolmente oppure no. Infatti, quando ancora l’asse semantico non è stato inserito nella rappresentazione del quadrato (che verrà coniata nel 1968 insieme a Rastier), l’opposizione “se
présente sous la forme de deux pôles extrêmes d’un même axe” (1966, p. 21). E ancora nel
1980, a quadrato costituito da dodici anni, così Ricoeur parla della contrarietà delle strutture semio-narrative greimasiane: “Que dire […] de la contrariété entre s and s ? Elle oppose
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deux sèmes également positifs, et dont l’un n’est le contraire de l’autre que si on peut les
opposer polairement comme les extrêmes d’une série graduée, par conséquent comme les
qualités polaires d’une même catégorie” (1980, p. 31, nota 4).
Qui non sto che riportando a passi spediti le riflessioni che ho scritto in due miei precedenti
lavori (Bonfiglioli 2008b e 2008c), a cui rinvio per lo svolgimento argomentativo e le citazioni dei passi aristotelici8. Comunque, procedendo appunto alla velocità di uno spot, è lo
Stagirita che rende la contrarietà una questione di posizione e distanza lineare proprio nel
momento in cui la connette al categoriale. Aristotele intende per contrari i due confini estremi di una categoria, come ad esempio bianco e nero per la qualità del colore, vale a dire
quelle due specie la cui differenza è considerata compiuta, perfetta, in quanto non si può
andare oltre, al di là dei limiti imposti da tali specie. Il termine greco per perfetto, teleios,
deriva infatti da telos, che significa fine, termine. E così diventa una questione posizionale e
distanziale anche tutto ciò che sulla contrarietà si fonda, a partire dalla concezione del movimento nel mondo sublunare, che nella Fisica è descritto come quel cambiamento che avviene fra contrari.
Distanza, confini ed estremi de-finiscono, in tutti i sensi, la contrarietà e il movimento, almeno per due ragioni. Si tratta di due motivazioni geografiche, perché entrambe hanno a
che fare con il topos. Prima ragione: la concezione di contrarietà, in quanto distanza massima
fra due specie dello stesso genere, ha per Aristotele una genesi connessa al topos in senso cosmologico. Tale concezione deriverebbe infatti dalla distanza massima fra i limiti e la regione che sta nel mezzo del cosmo, concepiti rispettivamente come l’alto e il basso nell’universo
(Cat. 6a11-18). Seconda ragione: all’inizio del libro IV della Fisica (208a29-32) il movimento
secondo topos è considerato il più comune e il più importante poiché tutto ciò-che-è è necessariamente da qualche parte (pou).
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Se queste considerazioni possono apparire superflue, in realtà mi sembra che riflettano una millenaria ricerca linguistica di “collocazione” della verità oltre che del senso. Il dentro, l’alto e il basso
sono infatti posizioni e direzioni chiamate in causa sin dall’Antichità per parlare di modelli di conoscenza del mondo e della sua totalità, dei sensi ultimi e più riposti del linguaggio, tanto verbale quanto visivo (cfr. Bonfiglioli 2008a, pp. 223-225).
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Dove questi ultimi non siano qui indicati. Ciò vale anche per i passi aristotelici del § 4.
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Il termine topos è tradotto comunemente “luogo”, ma nelle Categorie è descritto anzitutto
come una quantità continua, fondata sull’interrelazione di posizioni. E proprio le posizioni
(le theseis) sono le specie del topos nella Fisica. Sempre nel libro IV di quest’opera la trattazione del topos ha una complessità che sfocia almeno in una duplicità di significati, in una
bifaccialità di questo concetto. È lo stesso Aristotele ad avvertirci che la questione su cosa sia
il topos è irta di difficoltà e non ha un’interpretazione univoca (Phys. 208a32-34). Da una parte, infatti, il topos viene descritto come un vaso o un contenitore – motivo quanto mai arcaico
– capace di aderire perfettamente a ciò che contiene, e anche come collocazione naturale dei
corpi nel mondo sublunare (alto per i corpi leggeri, basso per quelli pesanti). Dall’altra, tuttavia, nella Fisica si afferma pure una trattazione geometrica del movimento lineare, che non
può disgiungere la spiegazione complessiva del topos dall’idea di uno spazio composto di posizioni vuote, occupate, in ragione dei mutamenti del mondo fisico, ora da un elemento del
mondo sublunare, ora dall’altro, finché ciascuno dei corpi non arrivi ad occupare la posizione che gli spetta. Ed è ovviamente questa seconda concezione del topos, propriamente
spaziale in senso geografico-cosmologico, che viene applicata al categoriale, dunque anche
all’ambito linguistico, e al movimento lineare e direzionato da un estremo all’altro.
In virtù di questa seconda concezione del topos classico si può dire che l’idea geografica di
spazio pertenga sotto qualche rispetto alle strutture semio-narrative greimasiane, tanto alla
contrarietà della categoria quanto ai movimenti/cambiamenti della sintassi attanziale (per
cui rinvio infra). Ma quanto, sempre dal punto di vista geografico, può essere corretto parlare di “localismo” in relazione alle medesime strutture, come fa Petitot nella sua prospettiva
morfogenetica?
Laddove lo spazio cartografico costituisce l’ambito dell’equivalenza geometrica e delle relazioni distanziali, il luogo è invece l’opposto ambito dell’unicità e dell’irriducibilità, di ciò che,
non essendo posizione vuota ma ormai identità piena, non è interscambiabile con nessun’altra identità (cfr. Farinelli 2003, p. 11). Il luogo, nel richiamare quella che qui è stata
delineata come la prima faccia del topos classico, è insomma l’ambito della individualità, della
prensione soggettiva del mondo e del paesaggio in particolare. Il luogo è l’ambito del discorso, della realizzazione testuale di un’istanza enunciativa.
Ciò diventa piuttosto importante per la terminologia relativa all’enunciazione. Una delle tre
fondamentali procedure di discorsivizzazione derivanti da tale istanza è quella di spazializzazione. Ma nell’individualità di un discorso possono instaurarsi spazi, in senso geografico?
Vedendo la questione da un altro punto di vista, Petitot sente il bisogno primario di estendere il concetto di spazio alle strutture semio-narrative profonde, anzi di porlo al centro della comprensione di tali strutture. Secondo l’autore, infatti, la teoria greimasiana concepisce
une infrastructure géométrico-topologique de la localisation spatio-temporelle qui est à
celle-ci ce que les actants sont aux acteurs. La spatialité immanente qu’elle met en jeu
n’a, évidemment, rien à voir avec la représentation de l’espace-temps “objectif” installé
par la figurativisation dans les discours. C’est une spatialité abstraite (immanente et
idéelle) qui se trouve appliquée dans l’espace-temps lors de la localisation spatiotemporelle et qui est la clef de la compréhension de la syntaxe actantielle comme syntaxe
topologique profonde s’identifiant à la syntaxe des opérations. (Petitot 1985, p. 258)
La mia visione geografica del percorso greimasiano, se può concordare pienamente sul fatto
che le strutture profonde siano rette da una spazialità astratta, è portata però a ritenere che,
per opposizione, l’installazione, la creazione del locale diventi peculiarità esclusiva del livello
discorsivo. Ogni discorso posto in essere da un’enunciazione è un’emersione di senso che
11
parla dell’irriducibilità di luoghi, non può essere ricondotta al termine “spazio” perché altrimenti perderebbe la propria identità.
Per questo la mia proposta è di riservare il termine “spazio” e i suoi derivati all’astratto del
pre-enunciativo; per quanto riguarda invece la descrizione delle procedure di figurativizzazione, sostituirei alla parola “spazializzazione” (a ciò che Petitot chiama rappresentazione
dello spazio-tempo “oggettivo”) quella di “localizzazione” (tout court, non spazio-temporale
come vuole Petitot seguendo Greimas). Ogni creazione enunciazionale è insomma
l’emersione dell’individualità dei luoghi dall’astratto impersonale dello spazio: l’emersione
di paesaggi dallo spazio della carta, come nel Mirage di Granger.
A proposito di Mirage, proprio quest’opera era stata scelta per la sovraccoperta di un bel
saggio di Moretti intitolato Atlante del romanzo europeo. Non conosco le intenzioni di Moretti
nel legare questa immagine ai contenuti del suo libro, in cui il concetto di spazio è proposto
in diverse declinazioni. Parlo dunque di quale connessione si è stabilita nella mia interpretazione fra l’opera di Granger e alcuni passaggi del saggio dedicati alle funzioni di Propp.
Moretti accenna appena alla teoria greimasiana, sostenendo che essa concorda con quella
proppiana su un punto, cioè l’opposizione binaria come premessa di ogni narrazione, e rimarca poi i termini peculiarmente spaziali della Morfologia della fiaba, ma anche, seppur in
inciso, dell’analisi greimasiana (1997: pp. 74-77, 111). Ecco, ritengo che il principale lascito
di Propp alle strutture semio-narrative di Greimas sia proprio il concetto cartografico di
spazialità, quello esplicitato su un atlante. Parlare dell’enunciazione, come ho scelto di fare
in questo contributo, significa esattamente increspare ancora una volta l’astrazione sottostante dell’atlante, ma anche le sue conquiste conoscitive, e far riaffiorare l’ombra e
l’incertezza di un profilo di paesaggio.
Alla conclusione di questo percorso dallo spazio ai luoghi, perché rivolgersi proprio alla geografia per riflettere sull’enunciazione? Perché la definizione che di quest’ultima è fornita
dal Dictionnaire include un concetto che ogni mappa della cartografia moderna ha sempre
presupposto. Nelle parole di Greimas e Courtés (1979, p. 127):
[L’énonciation est] l’instance de l’instauration du sujet. C’est la projection, hors de cette
instance, et des actants de l’énoncé et des coordonnées spatio-temporelles, qui constitue
le sujet de l’énonciation par tout ce qu’il n’est pas.
Ogni enunciazione è propriamente una proiezione e ogni proiezione implica un’espulsione.
La geografia, che fin da Tolomeo (II sec. d.C.) fonda su tale tecnica la riduzione del globo
ad una superficie piana, sa bene che ogni proiezione prevede, nel significato della parola
latina proiectio, un “hors”, esattamente un’espulsione ovvero esclusione, e che tale espulsione
è quella che spetta al soggetto rispetto al risultato della sua rappresentazione del mondo sulla matrice della tavola (Farinelli 1989). Il punto di vista del soggetto rimane fuori dalla
mappa, e questo contribuisce a conferire alla carta quella pretesa oggettività/obiettività
scientifica che sembra escludere ogni relativizzazione.
La concezione semiotica di proiezione è tuttavia più soft: il sincretismo io-qui-ora dell’istanza
di enunciazione, anche se hors dal testo, anche senza marche simulacrali all’interno
dell’enunciato, è sempre e comunque presupposto da ogni testo, pure da quello più oggettivato come una mappa mira ad essere. È in questa concezione più soft della proiezione enunciativa che i geografi tedeschi dell’Erdkunde si sarebbero riconosciuti, anzitutto perché
erano convinti che le carte “prétendent toutes faire autorité mais ne sont que rarement le
fruit d’opinions personnelles ou l’aboutissement d’observations soigneusement sélectionnées” (Ritter 1852, trad. fr. p. 60). In secondo luogo, gli Erdkunder hanno scelto il paesaggio
rispetto alla carta, vale a dire hanno privilegiato il modo geografico di descrizione che mag12
giormente implica l’irrompere dei simulacri enunciazionali nella rappresentazione. E ciò
vale sia che tale rappresentazione risulti essere quella di un atlante pittoresco, sia che invece
venga concepita come una descrizione verbale. La diegesi delle parole, infatti, riflette più
fedelmente una conoscenza della terra che sia anche esperienza di viaggio. Vale a dire,
l’Erdkunde è una conoscenza che è racconto della terra, un dis-corso della terra implicante
un per-corso, perché costruito dal dis-correre di soggetti (enunciatori ed enunciatari) in
movimento. Questo soggetto in viaggio per Humboldt e Ritter ha una definizione precisa: è
infatti “der sittliche Mensch”, l’uomo morale (Ritter 1852, trad. fr. p. 41).
4. L’Erdkunde, Aristotele, il soggetto
Può la sfera etica dirci qualcosa in più del percorso dallo spazio ai luoghi attraverso cui si è
letta qui l’enunciazione? Tutto ciò che segue è volto a rispondere affermativamente a tale
questione. Partiamo dagli studi contemporanei sull’Erdkunde finora citati. L’uomo morale è
il soggetto, l’individuo della società borghese prussiana, che nella prima metà dell’Ottocento
è disgiunta dall’esercizio del potere, di stampo ancora aristocratico. La sfera etica è quella
privata ma che allo stesso tempo esercita l’arma del giudizio, dell’opinione, sull’operato di
chi è al potere. È a questa idea di individuo etico che gli Erdkunder si rivolgono con una coscienza pienamente politica del loro fare geografico: il piacere del paesaggio, diventato parte della cultura estetica borghese, deve mutarsi in conoscenza scientifica della terra, in un
sapere cioè funzionale ad una strategia di conquista del potere. Il quadro della natura dipinto o descritto acquisisce così una intenzionalità politica forte e straordinaria per quanto
implicita, una intenzionalità portatrice di un desiderio di mutamento, di rivoluzione. Si tratta di quel cambiamento, che, in una fusione fra natura e storia umana, le vedute pittoresche
riescono a veicolare privilegiando la rappresentazione dei vulcani (Farinelli e Isenburg
1981). Le eruzioni laviche, come i terremoti del resto, sono fautrici di quelle variazioni sulla
superficie della terra che vengono dalla profondità.
Tali cambiamenti non sono creazioni soggettive, certo, ma nella visione del viaggiatore pittoresco, che è soggetto in movimento, essi acquisiscono una valenza assolutamente positiva,
euforica. Ciò è possibile anche perché la loro rappresentazione, vale a dire ricreazione artistica, diventa preludio e pratica dell’affermazione di un’individualità borghese dotata di un
disegno, di un’intenzione nascosta. Anche l’uomo in movimento dello spot di C-Crosser non
è dotato di una soggettività immediatamente forte, direzionata su un oggetto, non è insomma pura intenzionalità. Ciò che accade al primo incresparsi della carta è un’“azione” che “si
compie attraverso” il soggetto, il quale risulta “coinvolto” ma non in quanto “agente attivo”
e causa, nel senso che i primi momenti e risultati di questo incresparsi non sono frutto della
volontà del soggetto9. Certo è che quest’ultimo – prima ignaro di quale competenza potesse
offrirgli la sua auto – accoglie tale accadimento del tutto euforicamente e in virtù di ciò diventa un “soggetto forte”. Ciò che si è compiuto attraverso di lui, invece che spaventarlo, è
in grado di conferirgli una creatività e una intenzionalità che prima non possedeva.
Detto questo, però, a mio parere rimane ancora tanto da esplorare. Intendo dire che l’idea
dell’“uomo morale” apre vie di indagini che, a mia conoscenza, non sono ancora state percorse, per lo meno nella prospettiva qui assunta. Si parta da una questione apparentemente
9
Le espressioni tra virgolette sono citazioni del saggio di Violi (2007, pp. 194-195). L’autrice si serve
di tali espressioni per tratteggiare una concezione ergativa della soggettività, da accostare e contrapporre all’idea forte di soggettività come intenzionalità, che Violi definisce soggettività transitiva. Cfr.
Ead. (2005, pp. 11-13).
13
lontana da quelle trattate: quali sono le fonti filosofiche classiche di quella “philosophy of
Nature” (A. v. Humboldt 1845, trad. ingl. p. 24) che è la geografia degli Erdkunder, dove tali
fonti non siano esplicitate? Più che altro, sotto quali aspetti gli autori classici sono richiamati
in questi testi geografici? Stando all’introduzione che precede la traduzione francese
dell’Einleitung ritteriana (Nicolas-Obadia 1974), le prime fonti dell’Erdkunde sono essenzialmente platoniche. In effetti, la nota tensione di Humboldt e Ritter alla descrizione della totalità, intesa come una connessione unitaria della molteplicità dei fenomeni, fa propendere
a favore dell’ipotesi platonica, neoplatonica in particolare.
Tuttavia, la scelta ritteriana di riferirsi proprio all’inizio della sua Erdkunde all’uomo morale
richiama un altro filosofo. E ancora di più lo richiama la scelta che già Humboldt ha compiuto nel 1807, nella prefazione alla prima edizione dei suoi Quadri della natura, quando evidenzia “il perenne influsso che la natura esercita sulla disposizione morale (die moralische
Stimmung) dell’umanità”. Dove il concetto di disposizione incontra l’etica, la geografia
dell’Ottocento incontra Aristotele. E qui lo si va ad incontrare per la seconda volta, con una
convinzione: se già altri commentatori hanno accennato all’influenza dello Stagirita su
Humboldt, lo hanno fatto riferendosi però ad aspetti eminentemente teoretico-cosmologici
dell’opera del geografo10. È invece l’Aristotele della scienza pratica e finalizzata che qui mi
preme porre in luce come fonte – piuttosto implicita perché fondante – degli Erdkunder. E
proprio la ripresa della scienza pratica aristotelica costituisce il dialogo filosofico tra
l’Erdkunde e gli autori classici che più collima con l’intenzionalità del pittoresco.
È Aristotele il filosofo che per primo fonda sul concetto di disposizione l’idea della soggettività umana in connessione all’etica. Non solo. L’uomo morale di Aristotele è anzitutto un
soggetto in movimento, perché le Etiche dello Stagirita sono fondate sulla sua Fisica. Aristotele è il primo che rende l’etica una scienza della praxis, dell’azione, e per lui ogni praxis è movimento e ogni movimento, lo si è visto, è cambiamento che avviene fra contrari. Qualora
poi si tratti di contrari graduabili, il movimento passa anche per il centro, conosce cioè tappe nel mezzo. Quest’ultimo è esattamente il caso di quelle azioni che sono movimenti volti
verso la virtù o i vizi, visto che, notoriamente, la virtù è ciò che sta in mezzo tra due vizi contrari. Come ogni meson tra contrari, la virtù per Aristotele è syn-thesis, cioè com-posizione:
non si tratta qui soltanto del fatto che ogni intermedio è composto in qualche modo degli
estremi, ma anche del fatto che ogni meson, nel movimento/cambiamento da un contrario
all’altro, può essere considerato una posizione comune ad entrambi gli estremi. Vale a dire
che il meson può assumere ora il posto (la posizione) di un estremo, ora quello dell’altro –
funge da uno dei due estremi rispetto all’altro – sulla base della direzione di tale movimento11. Per quello che qui ci interessa, la spiegazione che di ogni intermedio viene offerta dalla
Fisica si fonda sulla nozione di posizione nel contesto di un movimento direzionato.
La tensione alla virtù è descritta da Aristotele come una “seconda navigazione”, cioè una
navigazione faticosa a remi e senza vento, volta ad andare anzitutto in direzione opposta rispetto ai vizi a cui siamo più inclini. Già Platone aveva parlato di seconda navigazione in ri-
10
Cfr. Hard (1969, pp. 145-148). Per un confronto fra Humboldt e Aristotele, anche in senso oppositivo, su altre questioni teoretiche, si veda Meyer-Abich (1969, pp. 187-188); sulla formazione filosofica
classica di Humboldt, si vedano gli accenni in Bunge (1969, pp. 28-29).
11
Per cercare di chiarire questa mia ultima asserzione, porto un esempio tratto esattamente dalla Fisica aristotelica (229b17-19): in un movimento dal grigio al bianco, il grigio (che è naturalmente il meson) funge da nero in quanto punto di partenza; oppure lo stesso grigio funge da nero in quanto fine
del movimento se quest’ultimo si sviluppa dal bianco verso il grigio; o ancora, in un movimento dal
nero al grigio il meson funge da bianco in quanto fine.
14
ferimento alla sua ardua rotta filosofica, diversa dalle precedenti (Fedone 99c-d), ma
nell’Etica Nicomachea (1109a35-36) la medesima espressione acquisisce una luce nuova.
Per Aristotele la figura del viaggio costituisce esattamente la messa in discorso del fondamento della sua teoria etica, vale a dire una spazialità caratterizzata da linearità e distanza e
dalla concezione della virtù come giusto mezzo fra vizi contrari. La virtù è una dis-posizione,
un abito che produce scelte. La scelta, principio di ogni scienza fondata sulla praxis, è fusione di desiderio e di intelletto, e come tale è un pensiero orientato, che tende ad un oggetto
e nello stesso tempo delinea l’ambito della soggettività in quanto intenzione. In tal senso la
scelta, e la disposizione, determina l’azione di un soggetto che è movimento verso un oggetto del desiderio. Nel caso la disposizione sia virtuosa, il fine dell’azione è chiaramente quel
massimo bene che è la felicità, che deve essere perseguito tanto nella sfera etica individuale
quanto in quella politica. Ma appunto, la virtù è dis-posizione, vale a dire ritrova in questa
definizione le sue radici posizionali e spaziali di meson fra contrari: infatti, nel movimento
fisico che può allontanarsi dagli o avvicinarsi agli estremi, la virtù può essere tappa finale
come iniziale. La figura della seconda navigazione parla di un faticoso allontanamento dagli
estremi che vuole porsi come fine il raggiungimento di una giusta disposizione (o competenza) nel mezzo. In un secondo tempo, tale disposizione diventa il punto di partenza per
un ulteriore viaggio, linearmente orientato dal desiderio, verso il raggiungimento di un obiettivo che si profila all’orizzonte come foriero di felicità.
5. Tra fisica ed etica: il paesaggio linguistico
Fra lo spazio dei contrari della fisica e i soggetti in movimento orientati dal desiderio, ho già
avuto modo altrove di delineare l’etica aristotelica come la radice più antica di una filosofia
della narratività odierna12. Ora quella “seconda navigazione” fa emergere un elemento ulteriore. Lo fa propriamente emergere trattandosi della figurativizzazione di una teoria etica
che è anche teoria su un’idea lineare e direzionata del senso. È certamente una banalità parlare della componente etica di ogni viaggio; ma è forse meno banale dire che la figura del
viaggio costituisce la più antica messa in discorso, nella cultura occidentale, dell’idea stessa
dell’etica come scienza della prassi. Gli Erdkunder, con il loro “uomo morale”, non fanno che
rinnovare l’antico legame fra etica e movimento. Non c’è individuo etico che non sia soggetto della praxis e dunque soggetto del movimento. Già in Aristotele il viaggio fonda l’idea di
uomo etico come soggetto mobile, perché al contempo mosso dal desiderio e
dall’intenzione. È in fondo ciò che pure uno spot, soprattutto nelle sue sequenze finali, continua a raccontarci, seppure il viaggio per antonomasia non sia più quello in nave ma (forse
ancora per poco) quello in auto.
Non solo. Si legga l’intero titolo dell’Erdkunde di Ritter (I ediz. del 1817-18): Die Erdkunde im
Verhältnis zur Natur und Geschichte des Menschen, vale a dire La conoscenza della terra nei suoi
rapporti con la natura e la storia degli uomini; o ancora si pensi alla descrizione programmatica
che Humboldt fornisce del suo progetto teorico, quello di scrivere una “physical history of
the world”, cioè una “physical geography, combined with a description of the regions of
space and the bodies occupying them” (1845, trad. ingl. p. 49). Scienze della physis e storia
dell’uomo non si disgiungono in una geografia che propone una visione nuova della terra,
essenzialmente stratificata in altezza. Più propriamente si tratta di una “geognosia”, capace
di considerare ogni fenomeno terrestre “dans son apparence comme dans son essence” (Ritter 1852, trad. fr. p. 65). Gli strati geologici, per portare un esempio, conoscono la scansione
12
Rinvio in merito sempre a Bonfiglioli (2008b) e (2008c).
15
temporale e il cambiamento esattamente come la storia dell’uomo: i grandi mutamenti che
vengono dalla profondità della terra modificano la superficie e si interconnettono così alla
scena delle azioni umane. Aristotele non parlava di superficie terrestre ma comunque la sua
fisica costituiva il fondamento teorico profondo degli assunti etici, capaci di indirizzare la
storia individuale e collettiva. È Humboldt l’ammiratore esplicito di Aristotele come teorico
della fisica in quanto scienza della physis, cioè del movimento. Lascio dunque alle parole del
geografo una lettura di Aristotele che, dal mio punto di vista, può dirsi legata alla doppiezza
semantica del topos:
It was reserved for the powerful genius of Aristotle, alike profoundly speculative and
practical, to sound with equal success the depths of abstraction and the inexhaustible
resources of vital activity pervading the material world. (A. v. Humboldt 1845, trad.
ingl. p. 65)
Vale a dire, vi è l’astrazione della distanza lineare fra contrari, tratta dalla fisica e dalla logica, che costituisce il fondamento teorico profondo dell’emersione di figure di movimento,
anzitutto quella del viaggio. Con un passaggio nel mezzo, però: quello sulla base del quale
posizioni differenziali, ritagliate su una grandezza continua, divengono tappe etiche. In virtù di ciò la navigazione di Aristotele fa emergere spostamenti fra luoghi che raccontano di
una soggettività forgiata sulla praxis e sulla felicità, tanto dell’individuo quanto della polis.
Del resto, quando si ritorna all’Erdkunde e alla sua diegesi della terra, scienze della natura e
linguaggio non possono disgiungersi nella descrizione fisica del globo e delle sue profondità:
In tracing the physical delineation of the globe, we behold the present and the past
reciprocally incorporated, as it were, with one another; for the domain of nature is like
that of languages, in which etymological research reveals successive development, by
showing us the primary condition of an idiom reflected in the form of speech in use at
the present day. (A. v. Humboldt 1845, trad. ingl. p. 72)
È chiaro, la stratificazione geografica incontra qui quell’impostazione storico-evolutiva della
scienza del linguaggio che da Saussure in poi chiamiamo diacronica. Ed è anche chiaro a
quali studi Alexander von Humboldt si stia referendo: non deve cercarli molto lontano, sono quelli del celebre fratello Wilhelm. Quest’ultimo non può definirsi soltanto un linguista
storico secondo le tendenze della grammatica comparata a lui coeva. Per Wilhelm lo studio
linguistico comparato acquisisce senso quando diventa analisi della diversità sul modo di
procedere del pensiero nel costituire diverse visioni del mondo. Il fratello di Alexander è
anzitutto il teorico della lingua come attività, aristotelicamente energeia, come prassi, individuale e intersoggettiva. È infatti il concetto di energeia quello in grado di riunire in Humboldt la prospettiva storica ed individuale del linguaggio (cfr. Di Cesare 2000, pp.
LXXVIss.). Quest’ultimo è colto nella sua dimensione dinamica ed evolutiva perché anzitutto colto nella singolarità e varietà delle produzioni linguistiche degli individui. Wilhelm von
Humboldt, in termini contemporanei, è dunque un teorico della singolarità del discorso. È
evidentemente attingendo agli studi del fratello, e a sua volta influenzandoli, che Alexander
coglie l’idea di disposizione morale come connessa ad un’attività in fieri. Del resto Wilhelm
stesso parla di disposizione spirituale in quanto fondamento delle lingue e della loro diversificazione; e si tratta del medesimo autore che mostra un’approfondita conoscenza dell’Etica
Nicomachea nei suoi scritti politici sulla libertà e la realizzazione degli individui all’interno
16
delle nazioni13. Ma soprattutto, Alexander interpreta questa energeia linguistica come il presupposto di una soggettività che dis-corre, una soggettività in movimento e come tale legata
alla concezione del paesaggio coniata dall’Erdkunde. Questa concezione ottocentesca della
Landschaft, anche da un punto di vista semiotico, dimostra di essere più attuale di tutta la
discussione novecentesca sul paesaggio intrapresa dalla geografia umana. E pure le sequenze di uno spot, teso a interpretare desideri e necessità assolutamente contemporanei, possono contribuire a riaffermare tale attualità.
Il modello ottocentesco del paesaggio va concepito alla stregua di un discorso, poiché prevede tanto l’inclusione più o meno esplicita del punto di vista soggettivo quanto
l’intenzionalità sottesa a tale punto di vista. Per questo la rappresentazione, il dis-corso del
paesaggio, è il perfetto trait d’union tra la scienza della physis e quella del linguaggio colto nelle procedure di figurativizzazione. In fondo, però, si può ora dire che il modello della visione del paesaggio in movimento è capace di collegare lo studio del discorso alla stratificazione diacronica della langue. Infatti, seguendo Saussure (1916, p. 121) per quanto concerne
quest’ultima, “quand le linguiste suit l’évolution de la langue, il ressemble à l’observateur en
mouvement qui va d’une extrémité à l’autre du Jura pour noter les déplacements de la
perspective”. Nel Cours questa descrizione della linguistica diacronica si oppone all’idea di
uno studio sincronico della langue che è come un panorama delle Alpi preso da un solo punto. E la statica visione di un’unica prospettiva trova la sua eco poco più avanti nella concezione di sincronia linguistica, che significa concezione dello stato di una lingua, come proiezione di un corpo su un piano. Saussure qui sta propriamente parlando dello spazio cartografico derivato dall’idea strong di proiezione. La semiotica greimasiana, che ha spostato il
suo focus dalla langue al testo e ai suoi simulacri di soggettività, già aveva reso – dovuto rendere – molto più soft il suo concetto di proiezione, lo si è visto. Ed ora che la semiotica
dell’enunciazione ha ulteriormente spostato la sua analisi dal testo al discorso in quanto
prassi ed energeia, si impone forse una revisione del concetto di proiezione in semiotica, della sua ancora possibile o già decaduta utilità e usabilità.
Non c’è dubbio che Saussure parlasse di paesaggi montani sulla scorta dell’eredità del bisavolo Horace-Bénédict, la cui esplorazione delle Alpi e gli studi conseguenti sono stati fonti,
guarda caso, delle opere di Humboldt e Ritter. Anche questi passaggi su proiezioni e paesaggi hanno evidentemente condotto un geografo contemporaneo come Farinelli (2002;
2003, p. 200) a partire dallo schema del segno saussuriano per parlare di concezione geografica o ctonica della terra, di differenza fra conoscenza superficiale e profonda della stessa.
Certo che, ritornando alla semiotica, alla luce di tutto questo discorrere (propriamente) di
viaggi e individualità, fa un certo effetto ricordare il passaggio in cui Petitot afferma che la
teoria greimasiana, in quanto teoria morfogenetica dei racconti, “retrouve l’idée ‘biologique’
d’un ‘paysage’ épigénétique (pour reprendre le terme de l’embryologiste Waddington) gouvernant le déploiement de la narrativité” (1985, p. 259).
Anche sulla base della concezione “classica” di spazio cartografico come differente da quella
di luogo, il per-corso generativo di senso diventa il dis-corso di un paesaggio che è conversione di posizioni spaziali nella varietà di luoghi. L’ambivalente nozione del topologico qui
tratteggiata risulta così funzionale ad una rilettura tanto del pre- quanto del postenunciativo. Il percorso generativo come discorso paesaggistico è infatti un percorso di emersione teso tra le due facce opposte di quel Giano che è il topos classico. Meglio, si tratta di
un percorso che è una tappa di un lungo percorso storico-culturale, sempre giocato sulla
connessione entro un unico discorso di linguaggio, physis ed etica. E senza la geografia
13
Cfr. in particolare W. v. Humboldt (1836) per lo studio del linguaggio, (1792) per etica e politica.
17
dell’Ottocento sarebbe arduo percepire tale fattore di continuità. Fare riemergere
quest’ultimo voleva essere lo scopo della geografia dell’enunciazione qui tratteggiata, ora
che le profondità linguistiche non sono più quelle ottocentesche della diacronia, ma sono
ritornate quelle classiche dell’astrazione.
pubblicato in rete il 17 maggio 2009
18
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