Premessa
«My usual self is a very unusual self»
(A Taste of Honey, Atto II, Scena I).
Shelagh Delaney è un caso unico nella storia del teatro britannico. Con
la sua opera d’esordio, A Taste of Honey (1958), scritta a soli diciotto anni,
ha contribuito a cambiare il volto del teatro inglese imponendosi fra gli
autori più innovativi del suo tempo ed è poi rapidamente sparita dalla
scena, dopo il mancato successo del suo secondo dramma. Da allora il
suo nome è stato quasi dimenticato, anche se la sua opera ha continuato
a influenzare, più o meno direttamente, la cultura britannica: dal dramma e il romanzo della stagione del cosiddetto kitchen sink realism1, alla
drammaturgia femminista degli anni Settanta, al cinema di denuncia
degli anni Ottanta e Novanta.
Di Shelagh Delaney si è tornato a parlare soltanto alla sua morte,
nel novembre 2011. Con l’enfasi e la retorica che contraddistingue
i necrologi, c’è stato allora chi l’ha celebrata come la prima grande
drammaturga della storia inglese e come un’eroina dei diritti delle
donne e degli omosessuali. Quel che è certo è che pochi autori hanno
saputo, con una produzione così ridotta, incidere tanto sulla storia
della letteratura inglese. Fuor di retorica, Delaney è stata una apripista
per la sua generazione e per le donne di lettere, preparando la strada alla drammaturgia femminile più consapevole degli anni Settanta,
guidata da autrici come Pam Gems e Caryl Churchill. Queste, tuttavia,
ebbero il vantaggio di operare all’interno di una comunità che si andava consolidando, mentre Delaney dovette avventurarsi da sola su un
territorio inesplorato e spesso ostile. Un territorio che, anche dopo
1
Nata nell’ambito delle arti visive per riferirsi ai soggetti domestico-proletari scelti
da pittori come John Bratby ed Edward Middleditch, l’espressione si estese poi al
teatro, alla letteratura e al cinema. Nel teatro il kitchen sink drama fu la reazione alle
‘well-made plays’ di autori come Rattigan e Coward; in letteratura il filone vide il
contributo di romanzieri come Alan Sillitoe, John Braine, David Storey e Stan Barstow; al cinema, infine, il kitchen sink realism è riscontrabile nei film del Free Cinema e
nell’opera di registi come Tony Richardson, Jack Clayton e Ken Loach.
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l’arrivo della cosiddetta new wave, era restato competenza esclusiva di
autori maschi, con la parziale eccezione di Ann Jellicoe. Come nota
Sue-Ellen Case, Delaney è stata, infatti, «an isolated playwright, writing
before the commencement of the feminist movement and its critique,
but with the impulse toward staging the oppression and promise in the
lived experiences of women»2.
Abile tanto nella scrittura quanto nella costruzione del suo stesso
personaggio, Delaney è stata forse la prima donna davvero ‘mediatica’
del mondo delle lettere. Non poteva, del resto, passare inosservata:
alta oltre un metro e ottanta in un’epoca in cui l’altezza media maschile era di poco superiore al metro e sessanta, Delaney impose anche la
sua figura fisica nell’immaginario collettivo. Inoltre era giovanissima,
veniva da una provincia disagiata e aveva ricevuto un’istruzione a dir
poco approssimativa. Tutte queste componenti la resero il personaggio giusto al momento giusto; un momento in cui il teatro britannico,
scosso dalla rabbia giovane di John Osborne, voleva sbarazzarsi degli
ultimi orpelli d’anteguerra e parlare della contemporaneità alle nuove
generazioni.
Tuttavia, A Taste of Honey, a differenza di Look Back in Anger, non costituisce un manifesto politico e generazionale. È piuttosto la fotografia
di un mondo – quello della working class del nord – mai portato in scena
con una tale schiettezza e autenticità. Disse la stessa autrice in una delle
sue prime interviste:
I had strong ideas about what I wanted to see in the theatre. We used to object to
plays where the factory workers came cap in hand and call the boss ‘sir’. Usually
North Country people are shown as gormless, whereas in actual fact they are
very alive and cynical3.
Diversamente da alcuni dei cosiddetti angry young men cui fu frettolosamente accostata, Delaney non pecca mai di paternalismo, nemmeno involontario, nei confronti dei suoi personaggi di estrazione proletaria. I
protagonisti dei suoi drammi non masticano uno slang improbabile che
li riduce a caricature, né pretendono di parlare a nome di una classe sociale o di una generazione. Si limitano – ma non è certo poca cosa – a vivere. Accettano la vita come è toccata loro in sorte, facendo poco o nulla
per cambiarla, ma la vivono con dignità e autoironia, senza farsi illusioni
eppure senza cedere alla disperazione, malgrado le avversità che sono
2
S.E. Case, The Power of Sex. English Plays by Women, 1958-1988, in «New Theatre
Quarterly», 27 (1991), 7, p. 239.
3
L. Kitchin, Mid-Century Drama, London, Faber, 1962, p. 169.
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chiamati ad affrontare: povertà, instabili legami familiari, maternità indesiderate, matrimoni falliti, sessualità tormentate. Inoltre, il talento di
Delaney nel creare dialoghi ironici e disincantati e la sua naturalezza
narrativa evitano alle sue storie la deriva lacrimevole o sensazionalistica.
Con una sola opera, Delaney ebbe il coraggio di infrangere diversi
tabù dell’epoca attraverso delle mosse radicali: scelse come protagoniste due donne della working class e privilegiò il punto di vista femminile; presentò come naturale, e perfettamente accettabile, una relazione
interrazziale; fece di un omosessuale il personaggio di gran lunga più
positivo del dramma; mostrò la determinazione, e le paure, di una adolescente in attesa di un bambino concepito fuori dal matrimonio e, per
soprammercato, con un ragazzo nero.
Naturalmente gliela avrebbero fatta pagare. Prima che ‘pezzi da novanta’ della critica come Harold Hobson e Kenneth Tynan e colleghi
come Osborne e Arnold Wesker accorressero in sua ‘difesa’, Delaney
fu oggetto di attacchi inusualmente severi e personali. La scrittrice
mancuniana Jeanette Winterson, definendo Delaney un’eroina della
letteratura femminile – «a lighthouse pointing the way and warning
about the rocks underneath» –, ha osservato: «The reviews of Honey and
her second play, Lion in Love, read like a depressing essay in sexism»4.
Winterson forse estremizza ma, in effetti, se si guarda alla ricezione
critica dell’epoca, si fatica a trovare una recensione che consideri essenzialmente l’opera. Quasi tutte, con pochissime eccezioni, guardano
al sesso, all’età e alla classe sociale della sua autrice; in alcuni casi con
paternalistica indulgenza, à la Samuel Johnson, come a «un cane che
cammina sulle zampe posteriori. Non lo fa bene ma è comunque sorprendente che riesca a farlo»5; in altri casi addirittura con malcelato
disprezzo. Non è forse una coincidenza che, dovendo infine ammettere la qualità di A Taste of Honey, molti si affrettarono a insinuare dubbi
sulla vera paternità dell’opera.
Una questione lungamente dibattuta dalla critica, infatti, è stato l’apporto di Joan Littlewood e il suo lavoro sul testo, il cui peso è stato decisamente gonfiato nel corso degli anni, complici le memorie autocelebrative
della regista. Se è vero che l’impatto iniziale di A Taste of Honey dovette
molto alle intuizioni di Littlewood – che, con il suo approccio antinaturalista, trasformò un potenziale dramma di realismo sociale in una brillante
commedia con atmosfere da music-hall –, la bontà del testo originario è
confermata dalle messe in scena successive (incluso il film che ne fu tratto) che spesso eliminarono gli elementi più apertamente comici.
4
5
J. Winterson, My Hero: Shelagh Delaney, in «The Guardian», 17 settembre 2010.
J. Boswell, The Life of Samuel Johnson, LL. D., London, 1791.
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Comunque si decida di presentare il dramma oggi, è difficile capire
l’importanza di A Taste of Honey se non si conosce il contesto storico,
sociale e culturale in cui venne messo in scena per la prima volta, il 27
maggio 1958. Il presente studio si propone, perciò, di fornire gli strumenti per apprezzare l’opera e comprenderne la rilevanza nella storia
della letteratura inglese.
Il primo capitolo è un rapido sguardo alla società inglese del dopoguerra e, in particolare, della prima metà degli anni Cinquanta. Ci si
sofferma, soprattutto, su alcuni aspetti che saranno poi rilevanti nell’opera di Delaney: la situazione economica, il ruolo dei giovani, la condizione della donna, la percezione dell’omosessualità, i problemi legati
all’immigrazione.
Il secondo capitolo vuole essere invece una fotografia del teatro inglese colto nel periodo immediatamente precedente all’avvento di Delaney. Si parte da un’analisi delle stagioni a metà degli anni Cinquanta per
poi concentrarsi sulle due compagnie protagoniste degli anni a venire,
entrambe importanti nella carriera di Delaney: la English Stage Company di George Devine e il Theatre Workshop di Joan Littlewood.
La vita di Delaney prima dell’improvvisa celebrità è trattata brevemente nel terzo capitolo, che intende illustrare anche il background sociale e culturale dell’autrice.
Il quarto e più sostanzioso capitolo è quello dedicato alla lettura
critica del dramma. Una lettura basata sul testo, ma che cerca di tenere conto anche della rappresentazione scenica voluta da Littlewood,
per meglio comprendere l’impatto dell’opera sul pubblico del tempo.
Le trattazioni critiche di A Taste of Honey sono poche e scarsamente
approfondite, e ancor più rare sono quelle di tipo accademico. Fra
queste sono prevalenti – ed è abbastanza comprensibile – le interpretazioni femministe, come quelle di Michelene Wandor e Jozefina
Komporaly. La mia analisi tiene naturalmente conto di questi punti di
vista, ma cerca di avere un respiro più ampio, non applicando griglie
critiche preconfezionate a un testo e a un’autrice che, per loro natura, le rifiuterebbero.
Il quinto capitolo è dedicato, infine, alla carriera di Shelagh Delaney
dopo A Taste of Honey. Scemata l’intensa esposizione mediatica seguita
al suo felice debutto, e in seguito alla scarsa fortuna del suo secondo
dramma, Delaney scelse di condurre una vita privata ai limiti della reclusione e una carriera professionale di basso profilo, lavorando quasi
nell’ombra per la radio, la televisione e il cinema.
Nei lunghi anni di oblio fra Sweetly Sings the Donkey – la sua ultima
opera pubblicata – e la morte, solo una personalità importante della cultura britannica ha tenuto vivo il ricordo di Shelagh Delaney, al
tempo stesso testimoniando un’influenza che ha travalicato il mondo
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dell’arte drammatica. Morrissey, già leader degli Smiths6, forse l’autore
più raffinato e ‘letterario’ della musica pop inglese, ha costantemente
riconosciuto il suo debito nei confronti della scrittrice. Oltre a citare
le opere di Delaney in molte sue canzoni e a utilizzare la sua immagine come copertina di diversi dischi7, Morrissey è giunto ad affermare:
«I’ve never made any secret of the fact that at least 50 per cent of my
reason for writing can be blamed on Shelagh Delaney»8.
Senza l’impulso di Morrissey difficilmente avrei conosciuto a fondo
la vita e l’opera di Shelagh Delaney, che vengono liquidate in poche
righe nei più recenti libri di storia della letteratura inglese. Ho perciò
utilizzato i testi delle sue canzoni, prendendoli direttamente o parafrasandoli, per il titolo di questo libro9 e dei capitoli che lo compongono.
Un piccolo divertimento che vuole anche essere un omaggio all’artista
che meglio di tutti ha preservato l’eredità letteraria di Shelagh Delaney.
6
The Smiths, fondati a Manchester nel 1982 e scioltisi nel 1987, sono stati uno dei
gruppi musicali più influenti nella scena pop-rock mondiale degli anni Ottanta.
7
L’immagine di Shelagh Delaney compare sull’antologia Louder Than Bombs (Sire/
Rough Trade, 1987) e sul singolo Girlfriend in a Coma (Rough Trade, 1987); il singolo
William, It Was Really Nothing (Rough Trade, 1984) riporta invece un fotogramma
tratto dal film Charlie Bubbles. Citazioni dai drammi di Delaney compaiono in decine
di canzoni e il testo di una di queste, This Night Has Opened My Eyes, è interamente
basato sulla trama di A Taste of Honey.
8
I. Pye, Some Mothers Do ‘Ave ‘Em, in «New Musical Express», 7 giugno 1986, p. 23.
9
Il titolo è parafrasato dal singolo Sheila Take a Bow (Rough Trade, 1987).
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