ISSN 2284-0354 novembre | dicembre periodico di cultura dell’Università del Salento periodico di cultura dell’Università del Salento ISSN 2284-0354 novembre | dicembre www.ilbollettino.unisalento.it www.ilbollettino.unisalento.it Invenzione e progetto, la semiotica del design Emanuele Dell’Attia a Dottore di ricerca in “Studi linguistici, storico-letterari e interculturali” dell’Università del Salento L a semiotica contemporanea si trova sia alla base che al crocevia delle scienze, incrociandole, ibridandole, essa affonda le sue radici negli annali dell’umanità, nella capacità diagnostica e prognostica, perciò progettuale dell’essere umano di cui il design è una realizzazione. È stato questo il tema del secondo appuntamento del ciclo di Seminari di semiolinguistica, curato dai professori Cosimo Caputo (docente di Semiotica generale e Teoria dei segni e del linguaggio) e Annarita Miglietta (docente di Linguistica italiana) del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento in collaborazione con le Edizioni Pensa MultiMedia di Lecce. Invenzione e progetto: la semiotica del design: questo il titolo del seminario, rivolto agli studenti di Lingue, Lettere, Filosofia e Scienze della Comunicazione dell’Ateneo salentino, che si è tenuto il 21 novembre 2014, a partire dalle ore 9.30, nell’aula SP/4 dell’Edificio Sperimentale Tabacchi, relatore il prof. Salvatore Zingale, docente di “Semiotica del progetto” alla Scuola di Design del Politecnico di Milano. Di design, in Italia, si comincia a discutere sin dagli anni ’50 del secolo scorso. In particolare, nel 1954, cominciano le pubblicazioni di “Stile industria”, una rivista fondata da Alberto Rosselli (1921-1976) a Milano. Nell’editoriale del primo numero, Rosselli esplicita la differenza tra un artefatto meramente tecnico e un artefatto progettato secondo un’ “idea di design”: i prodotti industriali non sono più vincolati esclusivamente alle leggi della tecnica e dell’economia, ma divengono “forme”, acquistano linee e caratteristiche estetiche che prima non possedevano. Siamo, dunque, di fronte ad una cesura – logica e cronologica – tra un “prima” e un “dopo”. Se fino a quel momento, infatti, la produzione economica era prevalentemente determinata da ragioni legate al valore d’uso e di scambio di un artefatto (criteri economici), ora si comincia a comprendere l’insufficienza di tali criteri per valutarne la qualità: occorre ricercare la “qualità tecnica” ponendo attenzione – scriveva Rosselli – alla forma propria del design (criterio estetico). Si determina, perciò, un’inedita esigenza produttiva, quella di ricorrere ad una nuova categoria di “artisti” che rivolgano la propria attività alla produzione industriale. Sempre nello stesso anno, e sempre a Milano, si colloca un altro importante evento per la storia del design: si celebra il primo Congresso Internazionale dell’Industrial Design, ove convengono storici dell’arte, teorici del design e, sorprendentemente, un filosofo: il fenomenologo Enzo Paci (1911-1976). Paci, che in quell’occasione presiedeva il Comitato esecutivo, introduce, per la prima volta, almeno in Italia, tematiche semiotiche in riferimento al design. Fatto storiograficamente notevole, dal momento che la scienza dei segni in quel periodo era scarsamente conosciuta nel nostro Paese. Si ha design, sosteneva Paci, quando si ha “produzione di senso”. Diversamente si è di fronte a mera applicazione tecnologica. Il designer, perciò, assolve ad un “ruolo sociale”: media tra l’arte e la società, interpretando – sosteneva il filosofo italiano – non solo le funzioni del prodotto, ma anche il “significato” che la forma che egli crea può potenzialmente avere per gli uomini. Svolgendo tale funzione mediatrice tra artefatti ed effetti di senso, mettendo in dialogo, cioè, committenza e utenza, il designer assolve ad una funzione semiotica. Il lavoro semiotico del designer consiste nell’ “inventare”. Non si tratta, però, dell’invenzione ingegneristica, perlomeno non solo, bensì dell’invenzione di “segni mediatori”, di nuovi “interpretanti”, di nuovi “abiti 14 Ebbene, tutti gli artefatti, prima di essere progettati, sono assenti e possibili, e se siamo in grado di pensarli è solo per via logico-abduttiva. L’abduzione, inferenza che avvia ogni percorso interpretativo (dalle situazioni della vita quotidiana alle grandi opere di ingegno: dal senso comune alla scienza), è lo strumento della progettualità del designer. Il suo lavoro, quindi, è un lavoro di interpretazione, dove interpretazione sta – peirceanamente – per traduzione, sguardo in avanti, proiezione, prefigurazione. La prefigurazione progettuale ha a che fare con l’interpretazione in quanto il suo lavoro consiste nella “segnicità”, cioè nell’assumere qualcosa come segno di qualcos’altro. sociali”. Il designer, di fronte al ripetersi stereotipato delle forme di una data produzione industriale, ha il compito di inventare “forme nuove”: così come il poeta rinnova il suo linguaggio per fuggire dalla stasi dei significati, allo stesso modo il designer reinventa le forme per rispondere alle esigenze del consumo. Ma per quali ragioni, risalendo ora ad un livello teorico, il design è attività semiotica? Zingale risponde a questa domanda ricorrendo al concetto peirceano di “abduzione”. Come tutte le attività progettuali, il design comporta un “saper cercare”, con lo scopo di colmare lo iato tra il sentimento presente di inadeguatezza e la prefigurazione di un equilibrio futuro. E la strategia di ragionamento che permette di considerare un “assente possibile” è data dall’inferenza abduttiva. L’abduzione, a differenza dell’induzione e della deduzione, è un’inferenza che perviene sempre ad una conclusione possibile ma non certa: perviene ad un may-be, un poter-essere. In particolare, a differenza dell’induzione, che cerca enumera i fatti per giungere ad una teoria, l’abduzione cerca un’ipotesi che spieghi i fatti che sollecitano la mente: è una sorta di “scommessa” di spiegazione dei fatti. È un ragionamento che permette di prefigurare un “assente possibile”. Se il design, dunque, è attività interpretante e proiettiva, la sua natura non può che essere segnica. L’attività progettante del designer è riconducibile ad una facoltà della mente: la “capacità semiotica”, che è la capacità specie-specifica dell’animale umano di ideare, fantasticare, inventare mondi possibili e impossibili, creare utopie, rendere presente un’assenza. Ecco che, immerso nella semiotica, il design, da sapere pratico e “settoriale”, incontra la teoria ed assume una valenza “generale”. Conseguentemente, almeno nella prospettiva di Zingale, l’ambito disciplinare di riferimento (la Semiotica del design) non si occuperà tanto dei prodotti – sebbene anche questi, in quanto “artefatti-testi”, abbiamo la loro rilevanza sociale, in quanto generatori e propagatori di valori culturali – quanto, piuttosto, del lavoro semiosico/mentale che è alla base di essi. Il progetto ha a che fare con l’intenzione proiettiva, il design, invece, è l’attività competente che dà forma al progetto. Per questa via, ma ricorrendo ad altre fonti semiotiche, diremo che il design, inteso come saper fare pratico (grafico), è la manifestazione del “designprogetto”, atto psichico e “linguistico” (dove linguaggio è “capacità astrattiva” dell’umano, prima ancora che comunicativa), concetto sovrapponibile, poiché occupante lo stesso spazio semantico, ad un antico termine tratto dalla filosofia greca: lógos.