Pagliacci - Cavalleria rusticana

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Persinsala Teatro
Claudia Schirripa
gennaio 24, 2011
Una nuova produzione del Teatro alla Scala propone una
lettura moderna del dittico verista – che divide fortemente il
pubblico, soprattutto per la direzione musicale e la regia.
Unanime dissenso e cascata di fischi, invece, per i tenori.
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Slittata la sera del 18 gennaio la prima di Cavalleria Rusticana di Pietro
Mascagni e di Pagliacci di Ruggero Leoncavallo – prevista al Teatro alla
Scala per il 16 – a causa di uno sciopero indetto dalla Segreteria
Territoriale e RSA CGIL. Rinvio che ha accresciuto ancora di più l’attesa e
l’aspettativa per queste due opere che mancavano dal tempio della lirica
milanese da più di vent’anni.
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La voglia di novità e di prendere le distanze dalla tradizione è intuibile
ancor prima che inizi lo spettacolo, nel momento in cui si apprende che
l’ordine consueto di esecuzione dei due capolavori sarà invertito. Il primo
pensiero è che sia stata una scelta dettata da esigenze tecniche – infatti,
come vedremo, Pagliacci ha un apparato scenico molto più complesso da
montare rispetto a Cavalleria. D’altronde, c’è anche una forte
motivazione poetica che – come spiega il sovrintendente Lissner in
un’intervista durante l’intervallo – vede più consono il passaggio da un
clima sì tragico ma ancora ricco di elementi tipici della commedia
(Leoncavallo) alla tragedia integrale di Mascagni, piuttosto che il contrario.
In effetti le due regie, curate entrambe da Mario Martone, sembrano
partire proprio da questo assunto.
Il sipario che si apre, quindi, su Pagliacci mostra una scena dominata,
sulla destra, da uno scorcio di raccordo autostradale praticabile – che fa
intuire come l’opera non sia ambientata nel piccolo paesino della Calabria
indicato dal compositore, me nella periferia di una grande città, in tempi
moderni. Sulla sinistra è posta una roulotte – che poi si rivelerà la dimora
di Nedda e Canio – e che sposta la condizione dei protagonisti da attori
girovaghi a rom dei giorni nostri. I costumi – tutti contemporanei – ne sono
una conferma. Il clima generale è più circense che teatrale – grazie anche
alla presenza di acrobati e funamboli che attraversano la scena, in
equilibrio su una fune, o fanno evoluzioni arrampicati su una pertica – per
buona parte dell’inizio.
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Teatralmente potrebbe anche essere un’ottima intuizione, se non fosse
che Oksana Dyka – la protagonista femminile che, qualche tempo fa,
abbiamo visto a Cremona in un Trovatore a dir poco disastroso – risulta
completamente disorientata rispetto al suo personaggio e a tutto lo
spettacolo. Non ha presenza scenica, vaga per un’ora e un quarto sul
palco senza collegare nemmeno una volta il gesto al testo, come se non
comprendesse il significato delle parole che canta. La voce, tuttavia, non è
brutta, ma è utilizzata in un solo modo, risultando così in
un’interpretazione piuttosto piatta. Chiaramente la giovane interprete
deve ancora affinare sia la tecnica attoriale – quasi inesistente – sia quella
vocale, soprattutto per evitare allo spettatore di essere aggredito da
spiacevoli urla, al posto di acuti potenti e, al contempo, morbidi ed
espressivi.
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L’altra cocente delusione arriva dal tenore José Cura, nella parte di Canio,
che non si dimostra all’altezza del ruolo: vocalmente carente, dà il peggio
di sé proprio nella celeberrima aria Vesti la giubba, cantando con estrema,
troppa libertà, tanto da essere completamente fuori tempo – rispetto
all’orchestra – per tutta la prima parte, giocando di un anticipo
ingiustificato e pedante, proprio perché persistente – se voleva essere una
raffinatezza, è caduto nella volgarità.
Bravi invece gli altri interpreti, soprattutto un magistrale Ambrogio Maestri
nella parte di Tonio, che ha eseguito un eccellente prologo con due “sol”
che raramente si sentono fatti così – sia a livello di intensità che per la
perfezione. Lode anche al giovane Mario Cassi nei panni di Silvio, che fa il
suo ingresso in scena a bordo di un’auto e che per tutto il secondo atto
occupa il suo posto di spettatore direttamente dalla prima fila, di fianco al
pubblico. Questa è effettivamente l’idea geniale di Martone: sfruttare tutti
gli spazi, alcuni dei quali creati ad hoc. Oltre alla scenografia praticabile –
di cui abbiamo già scritto – il regista ha infatti pensato di prolungare il
palco grazie a due ali laterali che abbracciano la buca dell’ orchestra, in
modo che l’azione si svolga anche affianco a questa. Gli interpreti, inoltre,
sfruttano la platea come via di fuga e tutta la prima fila di spettatori si
trova coinvolta nel dramma in atto: non a caso l’opera si chiude con lo
scontro tra Canio e Silvio, messo in scena praticamente tra il pubblico
astante. Finzione e realtà si fondono con successo e Martone amplifica in
modo notevole la tematica tanto cara a Leoncavallo, rompendo i confini
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spaziali tra teatro e vita, tra spettatori fittizi e reali.
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La stessa idea di massima sfruttabilità scenica si ritrova in Cavalleria
Rusticana dove, però, il regista abbandona la chiave di lettura moderna,
a favore di una messinscena maggiormente in linea con la tradizione,
almeno per quanto riguarda i costumi. Gli apparati scenici sono ridotti
all’osso e il principio è quello di un grande spazio che, di volta in volta, si
trasforma nei luoghi deputati all’azione – grazie a piccoli elementi o ai
sapientissimi giochi di luce del bravo Pasquale Mari.
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Anche questa volta si scivola, però, in qualche cliché – come la scena
iniziale del bordello alla quale, in realtà, Mascagni non ha mai pensato; o il
vestito rosso di Lola – ma l’atmosfera generale è più raccolta ed è facile
intuire che la chiave di lettura scelta sia stata quella di puntare sulla
centralità del rito. Per la quasi totalità dello spettacolo, alle spalle dei
cantanti, si celebra – non a caso – una lunghissima messa pasquale, molto
curata nei dettagli, con tanto di preti, chierichetti, aspersori e incensieri,
oltre a un grande crocifisso calato dall’alto, che ricorda molto la stessa
soluzione adottata da Emma Dante per la sua Carmen – nella scorsa
stagione scaligera.
Certo, questa regia ha molto poco a che vedere con i colori solari della
musica di Mascagni, ma risulta ugualmente una boccata d’ossigeno per i
melomani già delusi da Pagliacci, soprattutto grazie alla bellissima
interpretazione di Luciana D’Intino nel ruolo di Santuzza. Voce calda, piena
e ricca di espressività che il soprano sa usare con grande bravura tecnica
e buon gusto assoluto.
Altra amara delusione, ancora una volta, per il tenore protagonista –
Salvatore Licitra, nelle vesti di un Turiddu assolutamente fuori parte – che
riesce a rovinare la famosissima scena di commiato con Mamma Lucia.
Dovrebbe essere il momento più tenero e commovente di tutta l’opera,
quando madre e figlio si salutano per l’ultima volta, perché presto Turiddu
morirà in duello, ucciso dal rivale Alfio. Il risultato, purtroppo, è una scena
gridata, attorialmente scadente – Licitra canta quasi sempre con lo
sguardo fisso nel vuoto, senza volgere mai gli occhi verso la sua partner,
forse preoccupato dalle note da intonare, visto che sicuramente delle
parole e del loro significato non si preoccupa minimamente.
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Peccato vedere e sentire cantanti poco preparati che, ancora nel 2011,
assumono pose in voga forse nell’Ottocento e che non trovano il loro
spazio all’interno dell’economia dello spettacolo.
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Lo spettacolo continua:
Teatro alla Scala
via Filodrammatici, 2 – Milano
fino a sabato 5 febbraio
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In realtà, se la regia di Martone non è stata capita fino in fondo è
essenzialmente a causa loro, dato che la direzione di Daniel Harding –
seppur abbia asciugato la partitura, allontanandosi molto
dall’interpretazione emozionante che tutti si aspettano per queste due
opere – era perfettamente in linea con l’idea registica.
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Pagliacci
libretto e musica di Ruggero Leoncavallo
con Oksana Dyka (16, 18, 20, 25 gennaio; 1, 5 febbraio) Kristine Opolais (22, 28 gennaio; 3 febbraio), José
Cura (16, 18, 20, 22, 25 gennaio; 1, 5 febbraio) Antonello Palombi (28 gennaio; 3 febbraio), Ambrogio
Maestri (16, 18, 20, 25 gennaio; 1, 5 febbraio), Alberto Mastromarino (22, 28 gennaio; 3 febbraio), Celso
Albelo, Mario Cassi (16, 18, 20, 25, 28 gennaio; 1, 5 febbraio), Gabriele Viviani (22 gennaio; 3 febbraio)
direttore Daniel Harding
regia Mario Martone
scene Sergio Tramonti
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
Cavalleria Rusticana
libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, musica di Pietro Mascagni
con Luciana D’Intino (16, 18, 20, 25 gennaio; 1, 5 febbraio), Marianne Cornetti (22, 28 gennaio; 3
febbraio), Giuseppina Piunti, Salvatore Licitra (16, 18, 20 gennaio), Yonghoon Lee (22, 25 gennaio; 1, 5
febbraio), Francesco Anile (28 gennaio; 3 febbraio), Claudio Sgura (16, 18, 20, 22, 25 gennaio; 1 febbraio),
Ivan Inverardi (28 gennaio; 3, 5 febbraio), Elena Zilio
direttore Daniel Harding
regia Mario Martone
scene Sergio Tramonti
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
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