brossura con alette
«Nel dare al comune un senso elevato, al consueto un
aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al
finito un’apparenza infinita, io li rendo romantici».
Novalis
Il Romanticismo
812966
In copertina:
Caspar David Friedrich, Il sognatore, 1835
San Pietroburgo - Museo dell’Ermitage
© Photoservice Electa/AKG Images
Esasperato dalla noiosa vita di Riga, dalle continue dispute al vetriolo con gli
ortodossi e dalle irritanti faide letterarie, nel 1769 il giovane pastore Johann
Gottfried Herder decide di tagliare i
ponti con tutto e prende il largo alla volta della Francia. Durante quel viaggio,
gli vengono idee che non fanno spiccare
il volo soltanto a lui, ma mettono le ali
a un’intera generazione. Quella leggendaria traversata, infatti, segna l’inizio di
un movimento letterario che avrebbe
marchiato a fuoco un’epoca e lasciato
un’impronta indelebile nella storia della
cultura: il Romanticismo. Un periodo
memorabile che, com’è ovvio, a un certo punto – con Eichendorff ed E.T.A.
Hoffmann – si conclude, ma lo spirito romantico sopravvive. Nato come
un’«ossessione tedesca», si diffonde
per mezza Europa contaminando la filosofia, la musica, la politica e persino
la quotidianità della gente comune. E
qui comincia la seconda storia, quella
dei romanticismi, dei risvolti politici teorizzati da Heinrich Heine e Karl
Marx, di quelli dionisiaci – in Wagner
e Nietzsche – e del loro possibile ruolo
nella tragedia nazionalsocialista e nel
movimento del ’68. Avvincente e affascinante come poche altre, quella dello
spirito romantico è una storia che non si
è ancora conclusa e che continua a ispirare la vita di ognuno di noi.
Rüdiger Safranski
Rüdiger Safranski, nato nel 1945 a
Rottweil, nel Württemberg, vive a
Berlino. Tra le sue opere: Heidegger e il
suo tempo (1996), Nietzsche. Biografia
di un pensiero (2001), Quanta globalizzazione possiamo sopportare? (2003),
Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia (2004) e Il male (2006). Ha ottenuto vari riconoscimenti, tra cui il premio
Ernst Robert Curtius per la saggistica
(1998) e il premio Friedrich Nietzsche
del Land Sachsen-Anhalt (2000).
Il Romanticismo
Rüdiger Safranski
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«Nel dare al comune un senso elevato, al consueto un
aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al
finito un’apparenza infinita, io li rendo romantici».
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Caspar David Friedrich, Il sognatore, 1835
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Esasperato dalla noiosa vita di Riga, dalle continue dispute al vetriolo con gli
ortodossi e dalle irritanti faide letterarie, nel 1769 il giovane pastore Johann
Gottfried Herder decide di tagliare i
ponti con tutto e prende il largo alla volta della Francia. Durante quel viaggio,
gli vengono idee che non fanno spiccare
il volo soltanto a lui, ma mettono le ali
a un’intera generazione. Quella leggendaria traversata, infatti, segna l’inizio di
un movimento letterario che avrebbe
marchiato a fuoco un’epoca e lasciato
un’impronta indelebile nella storia della
cultura: il Romanticismo. Un periodo
memorabile che, com’è ovvio, a un certo punto – con Eichendorff ed E.T.A.
Hoffmann – si conclude, ma lo spirito romantico sopravvive. Nato come
un’«ossessione tedesca», si diffonde
per mezza Europa contaminando la filosofia, la musica, la politica e persino
la quotidianità della gente comune. E
qui comincia la seconda storia, quella
dei romanticismi, dei risvolti politici teorizzati da Heinrich Heine e Karl
Marx, di quelli dionisiaci – in Wagner
e Nietzsche – e del loro possibile ruolo
nella tragedia nazionalsocialista e nel
movimento del ’68. Avvincente e affascinante come poche altre, quella dello
spirito romantico è una storia che non si
è ancora conclusa e che continua a ispirare la vita di ognuno di noi.
Rüdiger Safranski
Rüdiger Safranski, nato nel 1945 a
Rottweil, nel Württemberg, vive a
Berlino. Tra le sue opere: Heidegger e il
suo tempo (1996), Nietzsche. Biografia
di un pensiero (2001), Quanta globalizzazione possiamo sopportare? (2003),
Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia (2004) e Il male (2006). Ha ottenuto vari riconoscimenti, tra cui il premio
Ernst Robert Curtius per la saggistica
(1998) e il premio Friedrich Nietzsche
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Esasperato dalla noiosa vita di Riga, dalle continue dispute al vetriolo con gli
ortodossi e dalle irritanti faide letterarie, nel 1769 il giovane pastore Johann
Gottfried Herder decide di tagliare i
ponti con tutto e prende il largo alla volta della Francia. Durante quel viaggio,
gli vengono idee che non fanno spiccare
il volo soltanto a lui, ma mettono le ali
a un’intera generazione. Quella leggendaria traversata, infatti, segna l’inizio di
un movimento letterario che avrebbe
marchiato a fuoco un’epoca e lasciato
un’impronta indelebile nella storia della
cultura: il Romanticismo. Un periodo
memorabile che, com’è ovvio, a un certo punto – con Eichendorff ed E.T.A.
Hoffmann – si conclude, ma lo spirito romantico sopravvive. Nato come
un’«ossessione tedesca», si diffonde
per mezza Europa contaminando la filosofia, la musica, la politica e persino
la quotidianità della gente comune. E
qui comincia la seconda storia, quella
dei romanticismi, dei risvolti politici teorizzati da Heinrich Heine e Karl
Marx, di quelli dionisiaci – in Wagner
e Nietzsche – e del loro possibile ruolo
nella tragedia nazionalsocialista e nel
movimento del ’68. Avvincente e affascinante come poche altre, quella dello
spirito romantico è una storia che non si
è ancora conclusa e che continua a ispirare la vita di ognuno di noi.
Rüdiger Safranski
Rüdiger Safranski, nato nel 1945 a
Rottweil, nel Württemberg, vive a
Berlino. Tra le sue opere: Heidegger e il
suo tempo (1996), Nietzsche. Biografia
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Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia (2004) e Il male (2006). Ha ottenuto vari riconoscimenti, tra cui il premio
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ortodossi e dalle irritanti faide letterarie, nel 1769 il giovane pastore Johann
Gottfried Herder decide di tagliare i
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gli vengono idee che non fanno spiccare
il volo soltanto a lui, ma mettono le ali
a un’intera generazione. Quella leggendaria traversata, infatti, segna l’inizio di
un movimento letterario che avrebbe
marchiato a fuoco un’epoca e lasciato
un’impronta indelebile nella storia della
cultura: il Romanticismo. Un periodo
memorabile che, com’è ovvio, a un certo punto – con Eichendorff ed E.T.A.
Hoffmann – si conclude, ma lo spirito romantico sopravvive. Nato come
un’«ossessione tedesca», si diffonde
per mezza Europa contaminando la filosofia, la musica, la politica e persino
la quotidianità della gente comune. E
qui comincia la seconda storia, quella
dei romanticismi, dei risvolti politici teorizzati da Heinrich Heine e Karl
Marx, di quelli dionisiaci – in Wagner
e Nietzsche – e del loro possibile ruolo
nella tragedia nazionalsocialista e nel
movimento del ’68. Avvincente e affascinante come poche altre, quella dello
spirito romantico è una storia che non si
è ancora conclusa e che continua a ispirare la vita di ognuno di noi.
Rüdiger Safranski
Rüdiger Safranski, nato nel 1945 a
Rottweil, nel Württemberg, vive a
Berlino. Tra le sue opere: Heidegger e il
suo tempo (1996), Nietzsche. Biografia
di un pensiero (2001), Quanta globalizzazione possiamo sopportare? (2003),
Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia (2004) e Il male (2006). Ha ottenuto vari riconoscimenti, tra cui il premio
Ernst Robert Curtius per la saggistica
(1998) e il premio Friedrich Nietzsche
del Land Sachsen-Anhalt (2000).
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Il romantico inizio: Herder prende il largo. Reinventare la cultura.
Individualismo e le voci dei popoli. Dell’altalena delle cose
nel corso del tempo.
Due secoli e mezzo dopo Colombo e un secolo prima che Nietzsche
lanciasse la parola d’ordine « Via, sulle navi, filosofi! » un avventuroso
dello spirito avvertì il bisogno di andar per mare, alla volta del portentoso realmente esistente. Era il 17 maggio 1769 quando Johann
Gottfried Herder si congedò dalla sua comunità con queste parole:
« La mia unica intenzione è quella di imparare a conoscere il mondo
del mio Dio sotto un maggior numero di aspetti ». Herder salì a bordo di una nave che doveva trasportare segala e lino a Nantes. Lui
però non aveva ancora deciso quale dovesse essere la meta del suo
viaggio: forse, pensava, avrebbe rimesso piede a terra a Copenhagen,
forse avrebbe cambiato nave sulla costa francese settentrionale per
dirigersi verso lidi più lontani. L’incertezza lo eccitava: « Vado a vedere il mondo, spensierato come gli apostoli e i filosofi ».
Prendere il largo significò per Herder cambiare l’elemento in cui
viveva, lasciare il solido per il liquido, il certo per l’incerto; significò
tentare di acquisire distacco e distanza. C’era, a dargli le ali, anche il
pathos d’un nuovo inizio. Andò in cerca di un’esperienza di conversione, di un rivolgimento interiore, proprio della specie provata vent’anni prima da Rousseau sotto un albero lungo la strada per Vincennes: la riscoperta della vera natura sotto la crosta della civilizzazione.
Prima ancora di conoscere altra gente, altri paesi e altre usanze, Herder fa dunque nuova conoscenza con se stesso, con il suo Sé creativo.
Dondolato dai venti lievi del Baltico, si abbandona alla tempesta dei
suoi pensieri:
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Che vasti spazi apre alla riflessione una nave sospesa fra il cielo e il
mare! Qui tutto dà slancio, movimento e vasto orizzonte al pensiero! Lo sbattere delle vele, la nave che oscilla di continuo, il frusciante scorrere dell’onde, la nuvola che vola, l’orizzonte profondo
e infinito! Sulla terra si è vincolati a un punto morto, racchiusi
nella cerchia ristretta d’una situazione... O animo mio, come ti
sentirai quando uscirai da questo mondo?
È salito a bordo per « vedere il mondo », scrive Herder, però lì per lì,
a parte il mosso deserto dell’acqua e qualche profilo di costa, ne vede
poco. In compenso ha tempo e occasione per « distruggere » il suo
sapere libresco, per scoprire e per « inventare quel che ho da pensare
e credere ». L’incontro con un mondo estraneo diventa un incontro
con se stesso. È la caratteristica fondamentale di questo tedesco inizio: con i pochi mezzi di cui dispone a bordo e nella solitudine in
alto mare, un predicatore preso dalla nostalgia di paesi lontani si crea
un nuovo mondo. Non incontra gli indiani, non devasta gli imperi
degli atzechi e degli incas, non si carica di oro e di schiavi, non intraprende una nuova misurazione del mondo. Il suo nuovo mondo è
quello che in un batter d’occhio assumerà – ancora una volta – la
forma di un libro. L’Herder che aveva voluto lasciarsi alle spalle lo
« scaffale pieno di carta e di libri, il cui solo posto è la stanza da studio », è alla fin fine ugualmente e nuovamente raggiunto dal mondo
libresco perché, mentre è ancora sulla nave, s’infervora già attorno a
progetti letterari.
Che opera sulla razza umana! sullo spirito umano! la cultura della
terra! di tutti i territori! tempi! popoli! energie! mescolanze! personaggi! La religione asiatica! Dalla cronologia, passando per la polizia, fino alla filosofia... Tutto sulla Grecia! Tutto su Roma! La
religione nordica: diritto, usi e costumi, guerra, senso dell’onore!
L’epoca dei papi, dei monaci, dell’erudizione!... Politica cinese,
giapponese! Scienza naturale d’un nuovo mondo! Consuetudini
americane e così via... Una storia universale della formazione del
mondo!
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Herder si nutrì poi per tutta una vita delle idee che gli passarono per
la mente durante quel viaggio sul mare mosso. Il diario nel quale le
annotò – e che è un importante documento filosofico-letterario della
seconda metà del XVIII secolo – fu pubblicato solo postumo, nel
1846, col titolo Giornale di viaggio 1769. Però l’uomo che l’aveva
scritto incontrò poco dopo quel viaggio, nel 1771 a Strasburgo, un
giovanotto che gli sembrò assai promettente, di nome Johann Wolfgang Goethe, il quale fu fortemente attratto dal suo turbinio d’idee:
e che trasmise ad altri e sviluppò per conto suo molto di quel che ebbe modo di sentirgli dire. Nel decimo libro di Poesia e verità, Goethe
ricorda il loro casuale primo incontro sulle scale di una locanda di
Strasburgo in cui Herder era andato ad alloggiare mentre si sottoponeva a un protratto e doloroso periodo di trattamento per curarsi
un’infiammazione delle ghiandole lacrimali. Racconta che Herder gli
sembrò proprio un abate con quei capelli incipriati e inanellati, per
l’elegante modo di salire le scale, le code del lungo mantello di seta
nera infilate con indifferente trascuratezza nelle tasche dei calzoni.
Goethe, in quella circostanza, fu soltanto discepolo. Si sentiva
quasi in ogni cosa non all’altezza di quell’altro che aveva cinque anni
più di lui, e la cui frequentazione era tutt’altro che facile. Apprezzò,
sì, le « vaste conoscenze » e la « profondità dei giudizi » di Herder, ma
dovette sopportarne anche le « sgridate e i rimbrotti », un qualcosa a
cui non era abituato perché fino ad allora, scrive Goethe, le persone
più anziane e più preparate avevano « cercato di istruirlo con riguardo », a volte persino « perdonando con indulgenza ». Da Herder invece, che con le sue idee gli scombussolò la mente, « non ci si poteva
aspettare mai un’approvazione, per quanto si facesse ». Goethe dovette quindi far forza su se stesso, soffocare certe reazioni suggeritegli
dall’orgoglio, per riuscire a farsi « sospingere ogni giorno, quasi ogni
ora anzi, verso nuovi modi di cogliere le cose ».
Vide in Herder l’avventuriero dello spirito che, reduce dal viaggio
in alto mare, portava con sé una brezza fresca, di quelle che stimolano la fantasia. È questo che pensa di lui quando gli scrive, il 10 luglio
1772:
Sono sempre ancora sull’onde con la mia piccola barchetta, e
quando le stelle si nascondono, libro sospeso nelle mani del desti-
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no, con il coraggio, la speranza, la paura e la quiete che mi si alternano in petto.
È verosimile che la storia della partenza, ovvero della quasi-fuga di
Herder da Riga abbia suggerito al giovane Goethe l’idea della scena
nello studio dell’Urfaust, scritta ancora sotto l’impressione del loro
primo incontro. « Ohimè! sono ancora in carcere? [...] Assediato da
questo mucchio di libri, [...] Fuggi! Esci nel vasto mondo... » Herder
era fuggito dal duomo di Riga proprio come Faust fugge ora dalle
cupe mura del suo studio.
Durante quel viaggio a Herder erano venute in mente tantissime
idee. Sono tuttavia ancora, sia pur bellamente, confuse e non selezionate. È tuttora alla ricerca del linguaggio con cui esprimere il tumulto interiore. La ragione, scrive, è sempre una « ragione del poi ». Essa
lavora con i concetti della causalità e non è quindi in grado di cogliere bene l’insieme creativo. Perché? Ma perché i processi causali sono
prevedibili, quelli creativi no. Per questo Herder è in cerca di una
lingua che si adatti alla misteriosa eccitazione di certi momenti della
vita, fatta più di metafore che di concetti. Molte cose rimangono vaghe, accennate, intuite. In non pochi contemporanei proprio a causa
di quanto vi è di sospeso e di erratico nel suo dire Herder susciterà
irritazione. Kant per esempio si rivolse con ironica modestia a Hamann affinché gli spiegasse il pensiero del suo amico Herder:
Ma possibilmente nel linguaggio degli uomini [...] perché io povero figlio della terra non sono affatto organizzato per il divino
linguaggio della ragione contemplativa. A quel che mi si può
compitare in comuni concetti secondo regole logiche, beh, fin lì ci
arrivo ancora...
Herder fu abbastanza immodesto da voler rinnovare il concetto di
ragione: anche contro Kant, presso il quale aveva inizialmente studiato e al quale era legato da amicizia. Quando Kant, nella sua fase precritica, si era dedicato a speculazioni cosmologiche sulla nascita dell’universo, dei sistemi solari e della Terra, e aveva portato avanti ricerche antropologiche, etnografiche e geografiche, Herder gli si era
sentito spiritualmente vicino. Quel soffermarsi con stupore davanti
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alla varietà del mondo apparente era un qualcosa di suo gusto. Però
quando il filosofo di Königsberg aveva cominciato a indicare alla ragione i suoi limiti e a sminuire l’importanza dell’intuizione e della
visione, le loro strade si erano separate. La Critica della ragion pura
era fatta, secondo Herder, di « vuoto vaniloquio », ed era espressione
di dubbi infruttuosi. Come Hegel una generazione dopo, Herder
contestava a Kant che anche il timore di sbagliare poteva essere uno
sbaglio. Lui in ogni caso non aveva nessuna intenzione di farsi ostacolare e frenare dai critici preliminari del processo della conoscenza,
e voleva invece attingere alla vita a piene mani. Herder parla di una
ragione « viva », contrapponendola a quella astratta. La ragione viva è
concreta, si tuffa nell’elemento dell’esistenza, dell’inconscio, dell’irrazionale, dello spontaneo, dunque nella vita oscura, creativa, stimolante oltre che essa stessa stimolata dalle circostanze. La « vita » è un
qualcosa che assume in Herder un suono nuovo, entusiasta. Ed è
un’eco che si diffonde lontano. Poco dopo l’incontro con Herder,
Goethe farà dire al suo Werther: « Trovo vita ovunque, nient’altro
che vita... ».
L’enfatica filosofia della vita di Herder stimolò, fra l’altro, quella
venerazione del genio che fu tipica dello Sturm und Drang (e più
tardi del Romanticismo). Era considerato genio colui nel quale la
vita poteva fluire liberamente e dispiegare la sua energia creatrice.
Cominciò proprio allora il culto chiassoso attorno ai cosiddetti « geni
vigorosi »: in esso c’era molta scena e presunzione, però anche slancio
sincero e sicurezza di sé. Lo spirito dello Sturm und Drang volle essere levatore della genialità che sonnecchierebbe come miglior disposizione in chiunque e non aspetterebbe altro che di venire finalmente
al mondo.
Riconsiderando in seguito il tumulto di quegli anni, Goethe, nel
dodicesimo libro di Poesia e verità, definì abbastanza impietosamente
il « genio » come un’espressione molto generica di « quella celebre,
famosa e famigerata epoca letteraria in cui una massa di giovanotti
geniali » si era gettata a capofitto, « piena di coraggio e di arroganza »,
per smarrirsi poi nell’incapacità di darsi dei limiti.
E di fatti Goethe e i suoi amici ne avevano combinate davvero di
cotte e di crude in quel periodo geniale. Dopo l’incontro con Herder, Goethe si trasferì nel 1776 a Weimar e fece di questo placido
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Parnaso il nuovo, temporaneo quartier generale della genialità. Si tirò dietro, come la coda d’una cometa, giovani scrittori e ambigui
personaggi come Lenz, Klinger, Kaufmann e quei fratelli Stolberg
che, allora, non erano ancora i devoti baciapile che divennero in seguito. Tutti insieme organizzarono feste su cui i filistei di Weimar
continuarono a spettegolare per decenni. « Fra l’altro », riferisce un
testimone dell’epoca, Carl August Böttiger,
una di quelle geniali bevute cominciò con lo scaraventare subito
tutti i bicchieri fuori dalla finestra, e con l’usare a mo’ di boccali
un paio di sporche urne cinerarie che erano state prelevate da un
vecchio cimitero dei dintorni.
Si faceva a gara in gesti ed esibizioni che volevano essere sconvenienti: Jakob Michael Reinold Lenz – autore di drammi come Il precettore e I dosati, e che divenne poi il protagonista dell’omonima novella
di Georg Büchner – s’atteggiava a matto; Ferdinand Klinger, che col
suo dramma Sturm und Drang diede il nome a un’intera epoca letteraria, si faceva notare mangiando con le mani pezzi di carne cruda di
cavallo; Kaufmann si presentava alla tavola del duca di Weimar col
petto nudo fino all’ombelico, i capelli sciolti e svolazzanti e un grosso
e nodoso bastone in mano. Fra gli « scherzi geniali » di Goethe vi fu
un viaggio a cavallo in compagnia dell’amico duca nel corso del quale i due si scambiarono gli abiti per andare poi in cerca di erotiche
avventure. « A Stoccarda », riferisce Böttiger, « venne loro il ghiribizzo
di andare a corte. E così, di punto in bianco, si dovettero convocare i
sarti, e farli lavorare notte e giorno sugli abiti di gala. » Elegantemente agghindati, i due ammirati geni in transito – vale a dire il duca di
Weimar e l’amico Goethe – si presentarono anche alla festa di fine
d’anno scolastico presso l’accademia militare di Stoccarda, dove furono ospiti d’onore, in galleria, del duca Carlo Eugenio, per assistere
con benevola condiscendenza a una distribuzione di premi nel corso
della quale ebbe un riconoscimento anche un allievo che la carriera
del genio l’aveva ancora tutta davanti: Friedrich Schiller. Anche lui,
nella sua fase di Sturm und Drang, celebrerà ed esalterà la « vita vigorosa ».
La quale vita, nella sua bollente e germinante irrequietudine, ha
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però anche un che di portentoso di fronte al quale la coscienza arretra a volte con spavento. È ancora Herder ad accennare, come più
tardi farà pure Nietzsche, all’« abisso » anche pauroso che la vita può
rappresentare.
E meno male che [...] le più profonde profondità dell’animo nostro sono avvolte dalla notte! La nostra povera mente non sarebbe
stata certamente in grado di cogliere ogni stimolo, il seme d’ogni
sensazione alle sue prime avvisaglie; non sarebbe stata in grado di
ascoltare un oceano mugghiante di cotante onde scure senza essere avvolta d’orrore e di paura, e colta da quella premonizione
d’ogni angoscia e pusillanimità che fa sfuggire di mano il timone.
La natura materna allontanò insomma da lei ciò che non poteva
essere assoggettato alla lucida coscienza. [...][La mente] è sull’orlo
di un abisso d’infinità ma non sa di esserci; ed è solo grazie a quest’ignoranza che sta salda e sicura.
Il concetto che Herder ha della natura viva comprende l’aspetto creativo, al quale ci si abbandona euforicamente, ma anche quello inquietante, dal quale ci si sente minacciati. E sono appunto queste
sensazioni miste e contrastanti a colpirlo mentre viaggia sulla nave.
Le idee più importanti, quelle che in seguito emergeranno delineandosi più chiaramente dal tumulto di pensieri sorti in alto mare e
faranno colpo anche sui romantici, si possono riassumere come segue. Tutto è storia. E questo vale non solo per l’uomo e la sua cultura, ma anche per la natura. È una concezione nuova, quella d’intendere la storia della natura come storia di un’evoluzione che fa emergere la molteplicità delle forme naturali, perché in questo modo la
divina creazione del mondo è accolta nel processo naturale. È la natura stessa la potenza creatrice che era stata in precedenza collocata in
un ambito esterno al mondo. L’evoluzione percorre diversi stadi,
quello minerale, quello vegetale e quello animale. Ogni stadio ha una
sua ragion d’essere in sé, ma contiene anche e contemporaneamente
il germe d’un qualcosa di superiore. Tutti questi stadi sono fasi preparatorie dell’uomo. La cui caratteristica sta nel fatto di poter e dover
assumere egli stesso la responsabilità della potenza creatrice che opera
nella natura. Può farlo grazie all’intelligenza e al linguaggio di cui
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dispone, e deve farlo perché è povero d’istinti e quindi indifeso. La
potenza creatrice di cultura è dunque espressione sia d’una forza sia
d’una debolezza.
Con quest’idea, dell’uomo che proprio in quanto essere difettoso
è produttore di cultura, Herder appare un antesignano della moderna antropologia. Secondo Herder, la storia della cultura dell’umanità
fa parte della storia della natura, ma d’una storia della natura in cui la
forza di quest’ultima, fino ad allora operante senza consapevolezza,
perviene nel pensiero umano e nella sua deliberata opera creatrice
alla coscienza di sé. Herder chiama « promozione dell’umanità » la
trasformazione dell’uomo per sua stessa opera e la produzione della
cultura come un contesto in cui vivere. L’umanità non è contrapposta alla natura, ma è vista come l’autentica realizzazione della natura
umana. Herder offrì al XIX secolo il concetto d’una storia dinamica,
aperta. Non contempla alcun sogno d’una paradisiaca preistoria alla
quale si vorrebbe tornare. Ogni attimo, ogni epoca contiene una sua
propria sfida e una verità che si tratta di cogliere e di trasformare.
Con questa concezione Herder si contrappone nettamente a Rousseau, secondo il quale l’attuale civiltà è invece una forma di decadenza
e di alienazione della vita umana:
Il genere umano ha in tutte le sue epoche, ma in ognuna in altro
modo, la felicità come somma; noi, nella nostra, sbagliamo se,
come Rousseau, esaltiamo tempi che più non sono e mai sono
stati
scrive Herder nel Giornale. La storia inoltre non è un processo di
« cieca accidentalità », come la considerano invece i materialisti francesi, abbandonata ai capricci del caso e a un disanimato meccanismo.
È sensata anche se non orientata verso un obiettivo che si possa intellettualmente cogliere in anticipo. La realizzazione dell’umanità è una
specie di experimentum mundi, un processo aperto il cui svolgimento
dipende dall’uomo sebbene sullo sfondo operi un’intenzione della
natura. Poiché questa non è tuttavia esplicitamente afferrabile, non
resta altro che compiere l’opera dell’autoformazione secondo criteri
che l’uomo stesso si pone. Sono criteri che operano come una bussola interiore la quale indica via via la direzione in cui si può trovare la
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maggior misura di autodispiegamento individuale e collettivo. Il processo della storia non scorre linearmente, ma si compie fra interruzioni e rivolgimenti. Occorre tener conto di « spinte e rivoluzioni
[...], di sensazioni che a volte diventano esaltate, violente, addirittura
ripugnanti », scrive Herder. Ma non bisogna lasciarsi spaventare, perché sono parti delle forme vulcaniche da cui erompe il nuovo.
Fino a quel momento la storia non era stata mai intesa in termini
così dinamici ed enfatici, ed è stupefacente che ciò sia accaduto proprio nella Germania frantumata in tanti piccoli Stati e socialmente
arretrata, in cui la storia reale era per così dire raggelata. Fu come un
raccordarsi in anticipo con il grande evento costituito dalla Rivoluzione francese, perché solo allora giunse il momento in cui la storia sembrò mantenere ciò che Herder s’era atteso da lei due decenni prima.
Si era sempre parlato « dell’essere umano » come d’un singolare
collettivo. Herder invece – e questa è, dopo la concezione della dinamicità della storia, la sua seconda, fecondissima idea – scoprì l’individualismo o personalismo e, di conseguenza, la pluralità.
« L’essere umano » è un’astrazione, perché esistono solo « gli » esseri umani. Come la vita nel suo complesso dispone in ogni grado del
suo sviluppo di una propria ragion d’essere e di un proprio significato, così avviene anche al genere umano. Ogni individuo esprime alla
sua particolare maniera ciò che l’essere umano è e può essere. Herder
sostiene un personalismo radicale. Esiste l’umanità in quanto grandezza astratta, ed esiste l’umanità che ciascuno può dentro di sé rispettare e alla quale ognuno può conferire una forma individuale.
Che è poi quella che conta. Da questo punto di vista, dunque, la storia non è più solo il grande panorama davanti al quale il singolo risalta. Le forze che muovono la storia e che si scoprono fuori di sé, possono e debbono essere esperite dal singolo come vitalità creativa interiore: una correlazione che Herder colse durante il suo viaggio per
mare in termini addirittura estatici. Solo chi esperisce il principio
creativo sul proprio corpo, lo scoprirà anche fuori, nel corso del
mondo e nella natura. È un’idea che Goethe riassumerà in seguito,
nelle sue Massime, in questa frase: « Della storia non può giudicare se
non chi l’abbia esperita in sé ».
Il singolo che si costituisce in individuo è e rimane il centro di riferimento dei sensi e dei significati anche se, come non si può negare,
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