La svolta “naturalistica”: Rousseau - Campus

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Furio Pesci
Storia delle idee
pedagogiche
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La svolta «naturalistica»: Rousseau
Qualsiasi presentazione manualistica del pensiero di Rousseau, per quanto approfondita,
rischia di non restituire al lettore la dimensione autenticamente enigmatica dell’uomo e
del pensatore. La vita di Rousseau fu, infatti, avventurosa ed il suo pensiero, pur raccogliendo enormi consensi già durante la vita del filosofo ginevrino, non ha ancora cessato
di rappresentare un notevole «scoglio» per qualsiasi interpretazione.
Il pensiero di Rousseau potrebbe essere definito una sorta di illuminismo «eretico»
per via dei rapporti complessi e contraddittori che questo pensatore tenne con i maggiori
esponenti dell’epoca dei lumi. Ma l’eresia autentica che caratterizza la filosofia rousseauiana consiste in alcuni caratteri intrinseci del suo impianto, che non trovano precedenti nel passato della filosofia occidentale, nemmeno nella modernità più vicina all’epoca di Rousseau stesso.
Si può sostenere che Rousseau sia stato tra coloro che hanno costruito l’idea di natura nel mondo occidentale, peraltro caratterizzandola in contrapposizione alle idee di società e di cultura che erano prevalse fino ad allora negli interessi dei filosofi ed anche dei
letterati. Quanto la genesi di questa idea abbia influenzato anche la riflessione sulle idee
e sulle pratiche educative costituisce una parte rilevante del lavoro ermeneutico intorno
a Rousseau e ai suoi numerosi seguaci, fino ad oggi.
Non è un caso che il nome di Rousseau sia stato identificato e abbinato, per oltre due
secoli dopo la sua morte, con molte tra le più significative esperienze di scuola ed educazione attive che hanno perseguito il fine di porre al centro dell’attenzione dell’opera
pedagogica il bambino stesso e la sua crescita; il cosiddetto «paidocentrismo» (l’espresi protagonisti
Jean-Jacques Rousseau
La vita di Rousseau (1712-1778) fu sempre inquieta. La madre morì al momento del parto e
l’infanzia di Jean-Jacques trascorse in un rapporto intenso, ma difficile con il padre. Affidato
ad uno zio, a sedici anni decise di andarsene e cominciò un lungo periodo di vagabondaggi e
di residenze a Lione, Friburgo, Losanna, Parigi, Ginevra. La sua vita privata fu dominata dal
rapporto con le nobildonne di cui divenne anche amante, e con M.-T. Levasseur, una cameriera
quasi illetterata con cui ebbe una relazione che durò tutta la vita e dalla quale ebbe cinque figli.
La sua vita pubblica seguì le vicende dell’alterna fortuna delle sue opere, che suscitarono sempre clamore, consensi e dissensi, ed anche la censura delle autorità civili e religiose, che lo costrinsero, in ultimo, a lasciare la Francia per riparare in Svizzera e in Inghilterra. La sua vita fu
segnata anche da contrasti dolorosi, soprattutto con gli illuministi parigini e con David Hume.
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sione deriva da un termine greco che significa «bambino») caratterizzante una parte cospicua della pedagogia contemporanea nasce, infatti, da Rousseau.
La filosofia rousseauiana parte da una riflessione estremamente problematica intorno
alla società del tempo e ai suoi mali principali. Il giovane Rousseau dedica i suoi primi
scritti originali all’analisi critica (quasi una denuncia, si potrebbe dire, nelle forme ammissibili nella Francia dell’epoca) della società aristocratica ed alto-borghese del secondo Settecento, per affermare recisamente che è la vita sociale stessa a deturpare l’uomo
e ad allontanarlo dalla sua vera natura.
Rousseau contrappone natura e società, natura e cultura, intendendo così denunciare
i guasti provocati da un modo di vivere artificiale e sofisticato, in cui ai bisogni essenziali si sovrappongono desideri smodati e indotti, la ricerca del potere e del denaro impera
e le diseguaglianze crescono fino a determinare una divisione dell’umanità in classi, che
costituisce la principale fonte di ingiustizia tra gli esseri umani.
Nella filosofia politica rousseauiana si trovano molti percorsi argomentativi, tra i
quali la critica della divisione della società in classi appare con un rilievo che saranno
altri, più tardi (soprattutto Marx) a riprendere in letture di aspetti del pensiero di Rousseau che influenzeranno fortemente la modernità nel secolo successivo. In Rousseau stesso è centrale la denuncia della deformazione dell’umano provocata dalla ricerca del
potere e della ricchezza.
La riflessione sulle origini delle diseguaglianze, condotta dal giovane ginevrino, peraltro nel contesto di un dibattito accademico tipico dell’epoca, offre a Rousseau l’occasione per ampliare la prospettiva e constatare, da un lato, l’esigenza di riscrivere una teoria della storia che vada oltre la mera apologia del progresso tanto cara agli illuministi,
dall’altro, di ipotizzare utopisticamente una strada verso una società migliore, più giusta.
I grandi temi che hanno reso la fama di Rousseau duratura fino ad oggi sono, appunto, di carattere politico, ma non bisogna etichettare questo pensatore come una figura rilevante soltanto per la storia delle teorie politiche. Il Rousseau che interessa la storia della pedagogia e dell’educazione ha, in realtà, molte sfaccettature diverse; per esempio, il
Rousseau narratore e biografo di se stesso e dei propri conflitti interiori ha un rilievo che
solo interpreti recenti hanno saputo mettere adeguatamente in luce.
La vita stessa di Rousseau, del resto, ha un profondo significato anche in vista di
una comprensione adeguata del suo pensiero. Nacque a Ginevra, ma già il rapporto
conflittuale con la sua città d’origine, che lo portò ad allontanarsene in gioventù, ha un
significato importante per comprendere la sua umanità. Ginevra era una delle culle del
pensiero protestante, ma evidentemente non poteva accogliere menti libere come quella rousseauiana.
Forse, definire Rousseau «inquieto», come uomo e come pensatore, restituisce nella
forma più semplice la vera «cifra» della sua enigmaticità, di cui il continuo peregrinare,
dopo l’addio dato a Ginevra, è emblematico. Rousseau volle difendere per tutta la vita la
propria libertà interiore ed esteriore, e sacrificò a questa salvaguardia sia la sicurezza di
una vita stabile sia gli affetti, giungendo anche a compiere scelte tanto radicali quanto,
come si vedrà a proposito dei suoi figli, discutibili.
La Ginevra conosciuta da Rousseau era, comunque, una sorta di stato oligarchico, dominato dalle famiglie dell’aristocrazia calvinista, che nel corso di circa due secoli aveva-
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no dato prova di non tollerare coloro che non si adattavano a professare una fede ortodossa, ricreando nel contesto di una forte commistione tra Stato e Chiesa, in versione protestante, dinamiche d’intolleranza tipicamente teocratiche.
Da questa città-stato Rousseau decise di allontanarsi, cominciando così una vita che
si può definire avventurosa come poche altre tra quelle vissute dai pensatori ricordati nelle storie della cultura occidentale. L’intreccio tra la sua vicenda biografica e lo sviluppo
del suo pensiero è molto forte, ed è Rousseau stesso a raccontarlo nella sua preziosa autobiografia, nella quale non evita di mettere a nudo anche lati assai controversi della sua
personalità.
Per quanto il resoconto delle Confessioni rousseauiane non possa definirsi sincero al
massimo grado (un’ampia letteratura critica considera difficile e raro il caso di autori che
mettano a nudo se stessi senza residui – il caso di Rousseau non si distinguerebbe da altri) è certo che il loro autore ebbe una vita avventurosa, e l’aggettivo potrebbe anche sembrare riduttivo o eufemistico, se si pensa alle traversie che dovette affrontare non solamente Rousseau, ma anche chi gli fu vicino.
La vita sentimentale di Rousseau fu, del resto, determinante per il suo destino e per il
modo in cui concepì i rapporti tra uomini e donne nella società, sia interpretando la situazione del suo tempo sia tratteggiando il percorso dell’educazione affettiva e sessuale dei
due adolescenti, Emilio e Sofia, nel suo romanzo pedagogico, in effetti manifestando vedute che alcuni interpreti hanno addirittura tacciato, non senza fondamento, di misoginia.
Non mancarono nemmeno, del resto, episodi oscuri nella vita privata del ginevrino:
Rousseau ebbe numerose amanti ed alcuni figli naturali, che lasciò al loro destino, non
potendo e non volendo occuparsene come padre. Questo fatto è sconcertante, se lo si considera in rapporto al fatto che questo pensatore è entrato nella storia delle idee pedagogiche per la sua affermazione della delicatezza dell’opera educativa e di quelli che oggi si
definiscono i diritti dell’infanzia.
Al di là, comunque, delle contraddizioni enigmatiche che percorrono la vita e l’opera
rousseauiane, occorre rivolgere l’attenzione a quelli che sono gli elementi fondamentali
del suo pensiero, cogliendone l’unitarietà che lega i molteplici ambiti della sua riflessione, da quello antropologico ed etico a quello politico ed a quello pedagogico; questa unitarietà è data dal fatto stesso che Emilio appare, nella finzione della forma romanzesca,
il testo che compendia meglio l’insieme della sua filosofia.
Leggendo in questa prospettiva unitaria il pensiero del ginevrino, uno dei punti fondamentali è, naturalmente, la sua teoria dello stato di natura e della condizione dell’uomo
in esso. Rousseau si pone al di fuori di una tradizione di pensiero già lunga e forte al suo
tempo, che ha sempre posto l’idea di «progresso» al centro della propria visione del mondo e della storia. Né la storia, per Rousseau, né l’agire umano sono orientati verso un miglioramento ed una crescita continui.
Questa constatazione assume i connotati di una riflessione sulla natura dell’uomo e
sulla sua posizione nel cosmo: se per natura Rousseau intende ciò che esce dalle mani del
suo Creatore, l’opera dell’uomo appare capace soltanto di un’indesiderabile contaminazione progressiva, che corrisponderebbe, appunto, alle degenerazioni della vita sociale e
della storia umana. La società deturpa, soprattutto con i suoi formalismi e le sue ingiustizie, ciò che Dio ha creato.
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L’ispirazione religiosa di Rousseau è evidente, anche se non si conciliò mai con alcuna delle confessioni religiose del suo tempo, né con la Chiesa cattolica, né con le varie
denominazioni protestanti. Il suo fu ciò che si definisce filosoficamente un deismo, la cui
ispirazione cristiana è chiara, sul quale si regge la stessa riflessione politica che costituisce il nucleo speculativo più celebre del pensiero di Rousseau.
L’uomo nello stato di natura si trova nella condizione primordiale che gli permetterebbe di raggiungere il pieno dispiegamento di tutte le sue potenzialità, lo sviluppo armonioso della sue facoltà e la massima felicità possibile; invece, la storia del genere umano appare una degenerazione progressiva dovuta allo sviluppo della società, con la progressiva distinzione degli individui in gruppi sociali.
Questa distinzione comporta una progressiva e sempre più complessa distinzione degli interessi personali e di gruppo, composti soltanto attraverso ritualismi e ordinamenti estrinseci, che ingabbiano l’uomo in una serie di regole e di limiti ai quali deve adattarsi, pena l’alienazione e la solitudine, e l’educazione appare, in questa prospettiva,
nient’altro che il processo di adattamento alla situazione sociale che ciascun essere umano trova alla nascita.
Se tutto ciò che il Creatore forgia è buono per natura, sarà la società a deturparlo; nelle mani dell’uomo tutto si trasforma in negativo. Per questo motivo, l’unico cambiamento auspicabile sarebbe un ritorno allo stato di natura, che Rousseau definisce in termini
pienamente positivi, andando contro la linea di pensiero che, da Hobbes in poi, identifica
lo stato di natura con una condizione di selvaggia lotta di tutti contro tutti.
L’enigma rousseauiano consiste anche nella difficile collocazione di questo filosofo nel
panorama culturale del suo tempo. In particolare, il suo rapporto con l’illuminismo richiede una verifica approfondita, perché sarebbe riduttivo interpretare la sua posizione come
estranea a quello che fu il principale movimento d’idee settecentesco, anche se è evidente
che la filosofia di Rousseau rappresentò storicamente un «superamento» dell’illuminismo.
Già da quanto si è finora accennato, appare evidente che la strada percorsa da Rousseau,
anticipando idee che si sarebbero compiutamente affermate soltanto alla fine del secolo
e all’inizio dell’Ottocento, assume connotati del tutto originali, rompendo con la tradizione del pensiero moderno e con lo stesso illuminismo sul punto essenziale della concezione della storia e della critica dell’idea di progresso.
Da questo punto di vista, Rousseau confuta la tesi emersa come vincente dalla disputa tra i sostenitori della cultura antica e quelli della modernità, che animò i secoli precedenti e che si può considerare uno dei capitoli fondamentali della presa di coscienza che
gli intellettuali «moderni» raggiunsero a proposito di se stessi e della nuova epoca
che avevano inaugurato. L’alternativa tra i secoli «bui» del Medioevo e i «lumi» della ragione finisce per essere priva di senso nella concezione rousseauiana.
Non è errato, allora, sostenere che Rousseau si pose problematicamente di fronte alla
prospettiva dell’enciclopedismo, pur collaborando alla grande iniziativa di Diderot e
D’Alembert. La collaborazione alla principale impresa editoriale dei due capifila dell’illuminismo francese fu uno dei momenti principali dell’attività giovanile di Rousseau; non
si trattò di una situazione occasionale, ma nemmeno di un contributo organico al movimento enciclopedico, offrendo piuttosto al giovane collaboratore un’occasione per mettere a punto la propria posizione personale.
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Si pone, allora, il problema, fondamentale per qualsiasi tentativo d’interpretazione,
del rapporto autentico tra la filosofia di Rousseau e quella illuministica. Questo rapporto
è difficile da configurare, perché si può individuare nell’insieme dell’opera rousseauiana
una varietà di motivi consonanti con la corrente principale del pensiero illuministico accanto a quella che è la sua posizione più originale ed autonoma.
In estrema sintesi, la consonanza più rilevante consiste nel fatto che Rousseau coglie
e fa sua la critica degli illuministi all’antico regime e ad un sapere pieno di convenzioni e
fondamentalmente ipocrita e ideologico, espressione di quella connivenza degli intellettuali con l’aristocrazia ed il clero (tanto nei paesi cattolici che in quelli protestanti) che
la filosofia dei lumi combatterà fino a divenire l’espressione culturale dell’era delle rivoluzioni democratiche.
Rousseau supera, per così dire, l’illuminismo nel senso che il suo pensiero politico si
muove coraggiosamente in direzioni ben più radicali di quelle tipiche degli enciclopedisti e, in genere, dell’illuminismo prerivoluzionario, sostenendo le ragioni di un ordinamento democratico che non è funzionale, nel suo utopismo, alle rivendicazioni della borghesia, e che anzi contraddice qualsiasi azione politica volta a sostenere interessi di parte, sia pure quella meno rappresentata o più debole.
Il radicalismo democratico espresso da Rousseau si associa, del resto, con la critica
dell’idea di progresso e la denuncia della sua illusorietà. Pur riconoscendo l’odiosità dell’antico regime, che rappresentava ai suoi occhi uno Stato ingiusto da superare, è difficile
credere che Rousseau avrebbe interpretato la rivoluzione, con la sua foga distruttrice di
tutto ciò che rappresentava il passato e la sua retorica del nuovo e del futuro, come un fenomeno capace di instaurare l’ordinamento democratico da lui tratteggiato.
Infatti, un caposaldo dell’opera rousseauiana è, come si è già accennato, la raffigurazione teorica di un «contratto sociale», inteso come la base di tutto l’ordinamento politico delle società umane e come presupposto della democrazia autentica. Nella sua teoria
contrattualistica, che, in effetti, si colloca all’inizio di una corrente di pensiero che giunge fino ad oggi, Rousseau si distacca dalle raffigurazioni moderne dello Stato basate
sull’ipotesi teorica e storiografica di un contratto politico tra governanti e governati.
Se il contrattualismo moderno e prerousseauiano è caratterizzato, specialmente nella
versione di Hobbes, da una delega volontaria con cui i governati attribuiscono a chi li governerà un potere quasi illimitato, che ne esautora le prerogative in maniera pressoché
totale e irrevocabile, la teoria rousseauiana è caratterizzata, al contrario, da una sostanziale mancanza di delega, dato che il potere appare idealmente esercitato in modo diretto
dai cittadini che decidono assemblearmente.
Rousseau tratteggia nella sua teoria uno Stato di democrazia diretta, in cui non avviene alcun passaggio di poteri che travalichi l’ambito dell’amministrazione esercitata sulla
base di decisioni che nessuno delega ad altri; la democrazia rousseauiana non è rappresentativa, ma diretta, con ciò contraddicendo a priori quello che sarebbe stato lo sviluppo
delle forme democratiche di governo posteriori all’era rivoluzionaria.
Insomma, Rousseau si distacca dall’alveo principale dell’illuminismo per la sua critica all’idea di progresso, ed anche da quello del pensiero politico riformatore tipico della modernità; le sue vedute sono all’insegna, dunque, di un’originalità che non teme l’impopolarità di chi si pone contro il pensiero dominante. Lo stesso avverrà anche a propo-
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sito delle vedute di carattere pedagogico, che lo renderanno particolarmente inviso a molti tra i suoi contemporanei.
Così, l’Emilio, il romanzo che compendia la concezione pedagogica di questo originalissimo pensatore, è nello stesso tempo anche una sintesi di tutto il suo pensiero. Può
essere un motivo utile dal punto di vista interpretativo il fatto stesso che l’autore abbia
affidato ad una trattazione di carattere pedagogico, sulla natura dell’educazione, i suoi
fini, le tappe di sviluppo dell’essere umano, una rappresentazione complessiva del suo
pensiero.
La scelta della forma letteraria corrisponde, del resto, a più motivazioni e funzioni
espressive. Da un lato, infatti, il romanzo è un prodotto tipico della nuova sensibilità che
si fa strada nella cultura europea della seconda metà del Settecento, esprimendo plasticamente l’interesse per la storia, che si snoda attraverso le vicende dei singoli individui come dei popoli interi; dall’altro, consente al suo autore di mostrare meglio che in un trattato la prospettiva diacronica, per così dire, dell’evoluzione umana e la dinamicità intrinseca della sua natura.
Probabilmente, la scelta del romanzo come veicolo espressivo delle proprie idee
rispondeva anche ad una tendenza antirazionalistica implicita in tutto il pensiero rousseauiano. Alla trattatistica filosofica che ancora cercava di esporre tesi in senso generalistico, universalistico ed a priori, si contrappone, così, una forma espressiva che riesce a sottolineare la variabile temporale caratterizzante tutto ciò che riguarda l’uomo
e la vita umana.
L’uomo è, appunto, innanzitutto un essere che abita il tempo e nessuna definizione
astratta può essere isolata dalla considerazione della dimensione temporale dell’esistenza. Ciò vale per il mondo intero, del resto, e costituisce una dimensione ulteriore della
concezione della realtà propria del pensiero postilluministico, preromantico e romantico.
L’educazione diventa, quindi, un banco di prova e, nello stesso tempo, una metafora ontologica necessaria per parlare dell’uomo senza astrazioni riduttive.
La rilevanza della forma «pedagogica» per l’articolazione complessiva del pensiero
rousseauiano è attestata anche dal fatto che all’interno del percorso che descrive le varie
fasi della crescita di Emilio troviamo anche l’esposizione della sua fede religiosa, uno dei
nuclei centrali della filosofia di Rousseau, attraverso una celebre «scena» del romanzo,
vale a dire la nota professione di fede del vicario savoiardo.
La centralità dell’Emilio nell’economia dell’opera rousseauiana non deve porre in ombra altre opere di rilievo e, peraltro, in molti casi decisamente innovative. È il caso, tra le
opere maggiori del ginevrino, di un altro romanzo, questa volta di carattere sentimentale,
la Nuova Eloisa, significativo anche per comprendere la sua concezione della donna e
dell’amore, che inaugura un nuovo modo di concepire la vita sentimentale ed affettiva
già, in qualche modo, «contemporaneo» a noi.
Rousseau si inserisce, con questo romanzo, nel filone del romanzo sentimentale settecentesco, con un gusto già «preromantico» che lo allinea ad altri grandi scrittori europei, per esempio a Richardson, tratteggiando una visione del matrimonio basata sull’amore che alcuni interpreti hanno considerato come una vera «novità» nella storia della famiglia in Occidente. Si può dubitare della validità di questa interpretazione, ma vale la
pena cogliere la sottolineatura dell’importanza attribuita da Rousseau ai sentimenti.
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L’amore è, per Rousseau, l’unica giustificazione dell’unione sessuale e matrimoniale; la
famiglia stessa trova la sua legittimità soltanto nel sentimento che dovrebbe essere alla base
dell’unione coniugale. Il romanzo narra, peraltro, la storia di un amore giovanile e contrastato che ha paralleli in altri capolavori della letteratura romantica e che compendia la «storia»
d’amore, meno romanzata, che conclude l’Emilio con le nozze tra il protagonista e Sofia.
La vicenda di Rousseau mostra che il suo pensiero si formò progressivamente, a cominciare dai primi scritti giovanili, tra i quali è da ricordare il Discorso sulle scienze e
sulle arti. Qui la rilevanza dell’opera consiste nella sottolineatura del valore dei saperi
per la società, che riecheggia motivi illuministici, evidentemente, ma che si orienta anche
già verso una valenza critica del sapere nei confronti della società.
Rousseau, nel Discorso, si manifesta per quello che Bauman ha definito come intellettuale «legislatore», vale a dire come portatore di un sapere che non si rassegna all’inoperatività, ma che, al contrario, è ben consapevole del valore non soltanto euristico, ma
concretamente pratico e innovativo che scienze e arti, ed i loro cultori, rappresentano per
una società bisognosa di rinnovamento.
L’istanza della trasformazione sociale, tuttavia, in Rousseau si orienterà non verso
l’esaltazione della ragione, come avviene nell’illuminismo, ma verso la denuncia di una
condizione esistenziale che soltanto una radicale contestazione delle convenzioni vigenti, anche in ambito filosofico, può portare a compimento, come un altro scritto giovanile
rousseauiano, fondamentale per lo sviluppo successivo del pensiero di questo grande filosofo, il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, avrà
per obiettivo di dimostrare.
Il romanzo è un testo molto ampio che ha subito numerose critiche e persino censure,
tanto da risultare uno dei più controversi, oltre che rappresentativi, di Rousseau. Quando
apparve, fu accolto da un favore entusiastico, ma anche dalle critiche più severe, fino al
rischio della censura. L’effetto delle reazioni di alcuni suoi critici, come l’abate Gerdil,
fu, in fondo, pari a quello, appunto, di una censura ufficiale.
È interessante notare che le critiche più severe rivolte al romanzo furono quelle di carattere pedagogico. Di fronte alla proposta di un’educazione certamente tanto libertaria
da risultare rivoluzionaria rispetto alle prassi più diffuse, le reazioni furono clamorosamente ostili, fino al punto di apparire pericolose quanto o più delle idee politiche esposte
dal loro autore. D’altra parte, tutta la storia successiva delle idee pedagogiche è animata dal
dibattito intorno alle prospettive aperte da Emilio.
Uno dei grandi pregi del testo è la vasta e particolareggiata descrizione, in forma romanzata, delle grandi tappe dell’evoluzione psicologica, culturale e morale di un bambino, a ciascuna delle quali è dedicato un libro. La pedagogia rousseauiana è la prima a
fondarsi principalmente sul percorso psicoevolutivo del bambino, ribaltando l’impostazione tradizionale di una pedagogia fondata su idee e princìpi a priori.
All’affermazione di princìpi ideali o di norme non si sottrae nemmeno Rousseau, in
effetti, che nel primo libro del suo romanzo descrive i princìpi fondamentali dell’educazione, con osservazioni critiche relative agli usi del tempo e importanti considerazioni di
carattere generale. Tuttavia, la grande differenza rispetto alla tradizione pedagogica precedente consiste nell’affermazione che l’educazione deve seguire la natura e che la crescita non ha fini estrinseci.
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Secondo Rousseau, dunque, sono tre i «maestri» dell’essere umano che cresce: la
natura, gli uomini e le cose. L’influsso veramente positivo è dato dalla natura, perché
tanto gli uomini, ovvero la società, quanto le cose possono esercitare influssi ambivalenti: per esempio, gli adulti possono indurre nei bambini difetti di carattere, idiosincrasie, vizi, mentre l’educazione stessa può essere orientata negativamente dalla pratica di princìpi erronei.
Di conseguenza, l’unico autentico principio pedagogico è l’affermazione di un’educazione «secondo natura», nel senso che ad una crescita armoniosa e positiva serve innanzitutto la libera espressione della propria intelligenza attraverso l’interazione con
l’ambiente fisico e sociale sotto la cura attenta dell’educatore, il cui compito è quello di
prevenire ogni possibile esperienza negativa. Il precettore di Emilio, infatti, concentra il
suo impegno nel predisporre ambienti ed oggetti per le esperienze in prima persona del
bambino a lui affidato.
L’obiettivo fondamentale dell’educazione è formulato, quindi, in maniera significativa con un riferimento all’arte di vivere. Educare significa insegnare a vivere, non nell’accezione utilitaristica che questa espressione ha nel linguaggio comune, ma nel senso che
l’insegnamento e la relazione tra adulto e bambino deve essere improntata alla concretezza di ciò che è effettivamente proficuo alla vita sociale, senza la retorica e la pedante
erudizione della scuola tradizionale.
In questa prospettiva assume un ruolo fondamentale l’educazione familiare, anche se
Rousseau la definisce e descrive in maniera certamente anticonvenzionale per l’epoca.
La famiglia è il luogo degli affetti, per il pensatore ginevrino, ed è su questo che si fonda
anche l’opera educativa del padre e della madre, che devono offrire ai figli opportunità di
crescita libera nella sicurezza di poter contare sempre sulla famiglia come luogo sicuro
per coltivare le relazioni più autentiche.
Rousseau passa, poi, a considerare le qualità che deve avere l’educatore e quelle che
deve avere l’allievo. Il primo deve essere capace di riconoscere i bisogni e le qualità, i
punti di forza, di coloro che gli sono affidati, lasciandoli liberi di sviluppare le proprie
propensioni e capacità; un compito non facile, come non è facile da parte dell’allievo rispettare la libertà e l’autonomia ricevute. In entrambi i casi si tratta di possedere e di sviluppare le doti tipiche dell’umanità autentica.
Uno dei tratti più «utopistici» della proposta pedagogica rousseauiana è la raccomandazione che l’educazione di Emilio debba avvenire in campagna, data la vicinanza con
la natura e la possibilità di relativizzare i danni della vita sociale, specialmente se troppo
precoce. Nella finzione del romanzo, Emilio è figlio di una famiglia agiata, che vive nella sua dimora di campagna, ed è affidato ad un precettore privato; una situazione rara
all’epoca non meno che al giorno d’oggi.
Questo aspetto ha indotto gli interpreti ad affermare che il portato del romanzo rousseauiano è fondamentalmente ideale; Rousseau ha affermato con forza e originalità le
ragioni della libertà del bambino, ma le sue indicazioni non si adattano concretamente ad
un contesto e ad un sistema formativo che preveda uguali prerogative per tutti. Si potrebbe parlare, in effetti, di aristocraticismo a proposito di Rousseau; certamente di un’utopia
che non contempla la scuola come principale luogo della formazione umana e che, da
questo punto di vista, si può considerare addirittura antistorica.
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La grandezza di Rousseau, comunque, consiste anche nella relativa novità di affermazioni di grande profondità esistenziale, come quelle sul ruolo che ha l’esperienza del dolore nella formazione dell’individuo. Si tratta di vedute che ancora oggi colpiscono; il
dolore è presente nella vita dell’uomo e l’educazione non può fare a meno di contemplarlo, non per sadismo, ma nell’ambito di quella preparazione alla vita che costituisce l’essenza dell’educazione stessa.
In sostanza, occorre riconoscere al bambino una pienezza di personalità che lo ponga,
nel rispetto dei tempi della sua maturazione (quindi, senza precocismi) in contatto con la
vita reale: come sostiene Rousseau, l’educatore deve considerare l’uomo nell’uomo e il bambino nel bambino, ma ciò significa riconoscere in ciascun momento dello sviluppo la pienezza delle prerogative e delle opportunità proprie di quel periodo della vita del bambino.
L’educazione deve, dunque, essere indiretta per garantire al bambino la massima libertà possibile, condizione necessaria affinché possa divenire un adulto effettivamente
libero. Non si può diventare adulti liberi, senza avere già fatto l’esperienza della libertà
e del suo uso durante l’infanzia e l’adolescenza. Questa tesi, che sarà successivamente
condivisa dai grandi esponenti dell’educazione «nuova» ed «attiva» (Dewey, Ferriére,
Montessori), fu una delle più controverse ed avversate, perché non si riconosceva facilmente, all’epoca, quel «diritto» all’autonomia che Rousseau prospetta per l’infanzia.
Rousseau è contrario anche alle forme intellettualistiche tipiche dell’insegnamento
tradizionale, che nella scuola tiene conto soltanto dell’ordinamento logico della materia
impartita e non dell’esigenza di un adeguamento delle attività alle potenzialità psichiche
del bambino ai vari stadi dello sviluppo. Per questo motivo la pedagogia rousseauiana è
anche contraria ad un eccesso di ragionamenti con i bambini, ai quali è preferibile proporre modalità d’apprendimento che ricorrano alla loro esperienza diretta.
In generale, il rapporto tra autorità e libertà diviene con Rousseau il principale tema
della filosofia dell’educazione modernamente intesa. Non è esagerato sostenere che la
filosofia dell’educazione contemporanea verta innanzi tutto sulla riflessione al riguardo
della delicata relazione che vige tra autorità e libertà nelle relazioni interpersonali e nei
gruppi sociali. Qui si ritrova, del resto, anche una preziosa testimonianza della necessità
di una dimensione filosofica nella riflessione sull’educazione.
L’importanza di questa dimensione riflessiva e, se si vuole dire così, «teorica» è evidente anche in una delle principali tesi di Rousseau, a proposito di quella che egli chiama
educazione «negativa». Gli educatori, in sostanza, non dovrebbero intervenire direttamente nella formazione di coloro di cui si prendono cura, meno che mai imponendosi con
premi e punizioni, ma «evitando» intromissioni sempre ambigue, anche quando fossero
giustificate, rispetto all’orientamento dell’autonomia di ciascuno.
L’importanza dell’esperienza condotta in prima persona è ribadita dal fatto che un
ruolo essenziale riveste, in questo approccio antintellettualistico ed esperienziale, l’educazione dei sensi. Rousseau condivide con i pensatori più rappresentativi della sua età la
convinzione che la radice del sapere umano risieda nella percezione e che, dunque, sia da
privilegiare il concreto sull’astratto, rifiutando l’insegnamento libresco a favore di un
contatto diretto e dell’indagine personale dell’allievo.
Un altro elemento della riflessione rousseauiana è il rapporto tra il sapere e il fare; è
evidente da quanto già detto, che è privilegiato il secondo rispetto al primo. La motiva-
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zione di questa tendenza consiste nel fatto che Rousseau, con la sua critica della società
e la sua rivalutazione ideale dello stato di natura, svaluta contestualmente le forme di cultura che non abbiano immediati risvolti applicati nella concretezza dell’esperienza e della vita personale e sociale.
L’educazione deve essere anche diretta ad insegnare l’utile, non nel senso meschino
del tornaconto personale, ma, anche in questo caso, in una prospettiva di concreta aderenza alla vita reale. Se questa proposta ha suscitato un dibattito continuo, che dura fino
ad oggi, e nel quale anche le tesi contrarie hanno argomenti a proprio favore, un aspetto
positivo dell’impostazione rousseauiana è che l’apprendimento indiretto propugnato da
Rousseau punta, quindi, anche nella formazione culturale, non ad «imparare» saperi, ma
a «scoprirli» progressivamente attraverso l’impegno e l’interesse personali.
In questo processo di scoperta è importante anche l’errore. Occorre permettere al bambino di compiere il processo d’apprendimento secondo i suoi tempi, eventualmente aspettando a lungo e, nei casi più problematici, diversificando i percorsi a seconda della prontezza degli allievi, offrendo a ciascuno ciò che ha bisogno, nella convinzione che persino
l’errore, quando è frutto di un impegno autentico in prima persona, è educativo.
Il lavoro dell’educatore deve essere, dunque, volto ad una formazione piena dell’essere umano e non soltanto ad un arricchimento culturale fine a se stesso. Se Rousseau
svaluta le ragioni della cultura disinteressata, tuttavia propone una visione molto significativa della plasticità del processo d’apprendimento e della formazione umana nel suo
complesso, che vuole focalizzare l’attenzione sulla persona umana e sul bambino in
particolare.
È alla formazione della persona che è interessata la filosofia dell’educazione rousseauiana ed è per questo motivo che Rousseau dedica all’educazione morale e religiosa
l’importante quarto libro della sua opera maggiore, anche in questo caso proponendo idee
molto originali e distanti dalle credenze del suo tempo. Quello del pensatore ginevrino è
un deismo caratterizzato da una forte fiducia nell’essere umano, buono per natura, così
come è stato voluto dal suo Creatore, ed è questa la nota distintiva di tutta la religiosità
ottimistica che il «vicario savoiardo» espone nell’Emilio.
La concentrazione sulla natura dell’uomo e sulle modalità più positive del suo sviluppo
si riscontra anche nelle considerazioni di Rousseau intorno alla vita affettiva dell’essere
umano. Anche qui troviamo una prospettiva «genetica», in cui la crescita avviene nel tempo. Il bambino giunto alle soglie dell’adolescenza vive una seconda nascita attraverso la
scoperta dell’altro sesso, per preparare la quale occorre un’educazione sessuale adeguata.
Il caso dell’educazione affettiva e sessuale è soltanto uno dei temi che Rousseau analizza nei libri conclusivi del suo romanzo pedagogico, nei quali passa in rassegna le principali problematiche riguardanti la formazione morale. Infatti, il «secondo passo» verso
l’età adulta è costituito da un esplicito insegnamento morale; l’adulto non deve omettere
di presentare al bambino le principali norme guida del comportamento morale, lasciando
che il libero agire faccia comprendere le conseguenze delle azioni compiute senza imposizioni o punizioni.
Anche l’insegnamento religioso è improntato alle stesse coordinate. Esso è concentrato, già lo si è detto, nella celebre professione di fede del vicario savoiardo, nella quale
Rousseau riesce, attraverso un lungo monologo inserito nella trama dell’azione, ad espor-
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re sistematicamente le sue vedute su Dio, mettendo nelle parole di questo personaggio
una visione di Dio e del mondo creaturale improntata all’idea cristiana degli esseri come
immagine di Dio stesso.
Se ogni essere, e in particolare l’uomo, porta in sé qualche riflesso della divinità, allora non è possibile che esista il peccato nelle forme per millenni professate dalle Chiese.
Il peccato sarà, semmai, la degenerazione dell’ordine naturale ad opera dell’uomo corrotto dalla vita sociale. Di conseguenza, la religiosità rousseauiana si indirizza al culto e
alla custodia della natura, svalutando l’elemento ritualistico delle celebrazioni religiose
ed affermando, invece, l’elemento etico della fede.
Le vedute etiche e religiose di Rousseau furono oggetto di aspre controversie in tutta
Europa, sia in campo cattolico sia in campo protestante; in effetti, si può dire che Rousseau
sia stato uno dei principali esponenti del deismo e di un’etica basata su una prospettiva
antropologica ottimistica, che coglie nell’umanità dell’uomo il punto culminante di un
universo nel quale la vita deve essere accolta nella prospettiva di un assecondamento della natura che rappresenta l’idea centrale della stessa teoria dell’educazione.
L’ultima fase della formazione di Emilio è l’incontro con l’altro sesso, la frequentazione di una ragazza (Sofia), che offre a Rousseau la possibilità di ragionare anche dell’educazione femminile, rispetto alla quale mostra di avere idee meno avanzate che in altri
ambiti, dato che, in fondo, l’educazione della donna deve essere rivolta al matrimonio.
La donna deve essere formata in vista dei suoi compiti domestici.
Rousseau non contempla un ruolo pubblico per la donna, più debole dell’uomo, più
volubile e incostante sia sul piano intellettuale sia sul piano degli affetti. Vale anche per
lui, tuttavia, il principio di un’educazione libera, secondo natura, «negativa» ed il metodo
dell’educazione deve essere lo stesso per entrambi i sessi. Rousseau sostiene, in sostanza, la complementarietà del maschile e del femminile sul piano antropologico e sulla base non di una posizione teologica o di fede, ma della sua concezione della natura.
Giunto alle soglie della sua maturità, Emilio è pronto per quello che sarà il banco di
prova per lui, il viaggio che metterà a verifica ciò che Emilio avrà appreso e che sarà diventato. Il tema del viaggio «pedagogico» attraversa tutta la cultura settecentesca e costituisce una delle più interessanti idee della cultura del tempo. Prerogativa riservata esclusivamente ai giovani di un certo lignaggio, impossibile per la stragrande maggioranza
delle persone, esso fu, comunque, un coerente esempio dell’idea di un’educazione aderente alla vita che affascinò gli innovatori del secolo XVIII.
L’ultimo momento del romanzo è quello delle nozze tra Emilio e Sofia; Rousseau sostiene evidentemente le ragioni della famiglia naturale, forse nell’Emilio più che nelle
altre sue opere. L’uomo ben fatto deve dedicare le sue energie alla costruzione di una famiglia, la prima cellula della società naturale, insieme alla sua amata, impegnandosi nel
contempo ad essere un cittadino giusto e conciliando l’etica della vita domestica con l’etica pubblica.
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Parte antologica
Le prime pagine del capolavoro rousseauiano (apparso nel 1762) espongono sinteticamente l’attitudine del loro autore intorno all’educazione dell’essere umano,
nel quadro della sua visione del mondo e della natura dell’uomo, così influente
presso i suoi contemporanei e determinante per lo sviluppo successivo del pensiero europeo. È significativo che la filosofia di Rousseau trovi la via della sua espressione più organica nella cornice di una riflessione «pedagogica».
Tutto, quando esce dalle mani dell’autore delle cose, è bene; tutto degenera nelle
mani dell’uomo. Questo costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero
a portare i frutti di un altro; scompiglia e confonde i climi, gli elementi, le stagioni;
mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo, sconvolge tutto, sfigura tutto, ama la
deformità, i mostri; non vuole niente come l’ha fatto la natura, neppure l’uomo; questo bisogna addestrarlo per lui come un cavallo da maneggio; bisogna modellarlo
secondo il suo gradimento, come un albero del suo giardino.
Se ciò non fosse, tutto andrebbe ancora peggio: la nostra natura non vuole essere
modellata solo a metà. Nello stato in cui versano ormai le cose, l’uomo, abbandonato
a se stesso fin dalla nascita in mezzo agli altri, finirebbe con l’essere il più deformato
di tutti. I pregiudizi, l’autorità, la necessità, l’esempio, tutte le istituzioni sociali, in
cui ci troviamo sommersi, soffocherebbero in lui la natura senza mettere nulla al suo
posto. Essa sarebbe in lui come un arboscello nato per caso in mezzo a una strada, che
i passanti fanno tosto perire, urtandolo da ogni parte e piegandolo in ogni senso.
Mi rivolgo a te, madre tenera e previdente, che hai saputo allontanarti dalla strada
maestra e proteggere l’arboscello nascente dall’urto delle opinioni umane! Coltiva,
innaffia la pianticella prima che muoia: i suoi frutti, un giorno, faranno la tua delizia.
Erigi per tempo un recinto intorno all’anima del tuo bimbo: un altro ne può tracciare
la circonferenza, ma solo tu devi costruire su di essa la barriera.
Le piante si formano con la coltivazione, gli uomini con l’educazione. Se l’uomo
nascesse grande e forte, la mole e la forza non gli servirebbero a nulla finché non
avesse imparato a servirsene; anzi, gli sarebbero di danno, perché impedirebbero agli
altri di pensare ad assisterlo; in tal modo, abbandonato a se stesso, morirebbe miserabilmente prima ancora di avere conosciuto i suoi bisogni. Ci si lamenta della condizione infantile e non si vede che la razza umana sarebbe perita se l’uomo non avesse
cominciato con l’esser bambino.
Nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto
quello che non possediamo al momento della nascita e di cui abbiamo bisogno da
grandi ci è dato dall’educazione.
L’educazione ci proviene dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Lo sviluppo
interno delle facoltà e degli organi costituisce l’educazione della natura; l’uso che ci
viene insegnato a fare di questo sviluppo è l’educazione degli uomini; e l’acquisto
dell’esperienza personale relativa agli oggetti che cadono sotto i sensi è l’educazione
delle cose.
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Ciascuno di noi è dunque formato da tre specie di maestri. Il discepolo nel quale
le loro diverse lezioni si contrastano è educato male e non sarà mai d’accordo con se
stesso; quello, invece, nel quale esse convergono sugli stessi punti e tendono agli
stessi fini, si dirige da solo al suo scopo e vive coerentemente. Solo questo è educato
bene. [...].
Il nostro vero studio è quello della condizione umana. Quello di noi che sa sopportare meglio i beni ed i mali della vita, a mio giudizio, è il meglio educato; onde si
ha la conseguenza che la vera educazione consiste più in esercizi che in precetti. Noi
cominciamo ad istruirci cominciando a vivere; la nostra educazione comincia con noi;
il nostro primo precettore è la nostra nutrice. La parola educazione aveva presso gli
antichi anche un altro significato che non le diamo più: significa allevamento. Educit
obstetrix, dice Varrone, educat nutrix, instituit paedagogus, docet magister.
Così l’educazione, l’istituzione e l’istruzione sono tre cose tanto diverse, rispetto
al loro scopo, quanto la governante, il precettore e il maestro. Ma queste distinzioni
sono male intese e, per essere ben guidato, il bimbo deve seguire una sola guida.
Bisogna dunque generalizzare le nostre vedute e considerare nell’allievo l’uomo
astratto, l’uomo esposto a tutti gli accidenti della vita umana. Se gli uomini nascessero attaccati al suolo di un paese, se la stessa stagione durasse tutto l’anno, se ciascuno
fosse legato alla sua sorte in modo tale da non poter mai cambiare, la pratica stabilita,
sotto certi aspetti, sarebbe buona, poiché l’uomo educato per la sua condizione, non
uscendo mai da essa, non potrebbe essere esposto agli inconvenienti di un’altra. Ma
considerata la mobilità delle cose umane, considerato lo spirito inquieto e irrequieto
di questo secolo che sconvolge ogni cosa ad ogni generazione, si può concepire un
metodo più insensato di quello di educare il bambino come se non dovesse mai uscire
dalla sua camera, come se dovesse essere sempre circondato dai suoi? Se l’infelice fa
un solo passo sulla terra, se discende un solo gradino, è perduto. [...] Si pensa solo
a conservare il proprio bimbo; non basta: bisogna insegnargli a conservarsi da uomo, a
sopportare i colpi della fortuna, a vivere, se occorre, fra i ghiacci dell’Islanda o sulla
rupe ardente di Malta. Inutilmente prendete precauzioni perché egli non muoia. Dovrà pur morire, ed anche se la sua morte non sarà opera delle vostre cure, esse saranno egualmente fraintese. Non si tratta tanto di impedirgli di morire quanto di farlo
vivere. Vivere non significa respirare, ma significa agire, significa far uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte le parti di noi stessi che ci danno il sentimento
dell’esistenza. L’uomo che è vissuto più a lungo non è quello che ha contato il maggior numero di anni, ma quello che ha sentito di più la vita.
[...] Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili; tutte le nostre usanze
non sono altro che assoggettamento, soggezione e costrizione. L’uomo civile nasce,
vive e muore in schiavitù: alla nascita viene cucito nelle fasce; alla morte viene inchiodato in una bara: finché conserva aspetto umano, è incatenato dalle istituzioni.
Si dice che alcune levatrici, modellando la testa del neonato, pretendano di
darle una forma più conveniente, e ciò viene tollerato! Le nostre teste, così come
le ha forgiate l’autore del nostro essere, sarebbero mal fatte; dobbiamo farle modellare di fuori dalle levatrici e di dentro dai filosofi. I Caraibi sono di una metà
più fortunati di noi.
[...].
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Il destino dell’uomo è quello di soffrire in ogni tempo. La cura stessa della sua
conservazione è legata al dolore. [...] Non ci si uccide per i dolori della gotta: solo
quelli dell’anima generano la disperazione. Compiangiamo il destino dell’infanzia,
mentre è il nostro che dovremmo compiangere. I nostri mali più grandi ci derivano da
noi stessi.
Alla nascita, il bimbo strilla; la prima infanzia trascorre fra i pianti. Talvolta viene
dondolato, viene lusingato per farlo stare quieto; talvolta viene minacciato, viene picchiato per farlo tacere. O facciamo ciò che piace a lui, o esigiamo da lui ciò che piace
a noi; o ci sottomettiamo ai suoi capricci, o lo sottomettiamo ai nostri: non c’è via di
mezzo, bisogna che dia ordini e che ne riceva. Così le sue prime idee sono quelle di
dominio e di servitù. Prima di saper parlare, comanda; prima di poter agire, obbedisce;
talvolta viene castigato prima che possa commetterne. In questo modo vengono insinuate per tempo nel suo cuore le passioni che in seguito si imputano alla natura e,
dopo essersi dati da fare per renderlo cattivo, ci si lamenta di trovarlo tale. Il bambino
passa sei o sette anni in questo modo, tra le mani delle donne, vittime del loro capriccio
e del suo; e dopo avergli fatto imparare questo e quello, cioè dopo avere sovraccaricato la sua memoria o di parole che non può capire o di cose che non gli servono a niente; dopo aver soffocato l’indole con le passioni che si sono fatte nascere, si affida
questo essere alle mani di un precettore, il quale finisce di sviluppare i germi artificiali che trova già bell’e formati e gli insegna tutto fuorché a conoscersi, fuorché a trar
partito da se stesso, fuorché a saper vivere e a rendersi felice. Infine, quando il bimbo,
schiavo e tiranno, pieno di scienza e privo di buon senso, debole tanto di corpo quanto
di anima, è gettato nel mondo, mostrando in esso la sua inettitudine, il suo orgoglio e
tutti i suoi vizi, fa deplorare la miseria e la perversità umane. Ma ci si inganna. Questo
è l’uomo dei nostri capricci: quello della natura è fatto in un altro modo.
[...] Un padre, quando genera e nutre dei figli, con ciò non fa più di un terzo del
suo dovere. Egli deve alla sua specie degli uomini; deve alla società degli uomini
socievoli; deve allo Stato dei cittadini. Ogni uomo che può pagare questo triplice
debito e non lo fa è colpevole, è più colpevole ancora, forse, quando lo paga solo a
metà. Colui che non può adempiere i doveri di padre non ha il diritto di diventarlo.
Non c’è né povertà, né lavoro, né rispetto umano, che lo dispensino dal nutrire i suoi
figli e dall’educarli egli stesso. Lettori, potete credermi. Predìco a chiunque abbia
viscere e trascuri questi santi doveri che verserà a lungo lacrime amare sulla sua colpa e non ne sarà mai consolato.
Ma che cosa fa quest’uomo ricco, questo padre di famiglia tanto indaffarato e
costretto, secondo lui, a lasciare i figli nell’abbandono? Paga un altro per attendere
alle cure che gli sono gravose. Anima venale! Credi di dare un altro padre a tuo figlio
servendoti del denaro? Non ti ingannare su ciò; non è neanche un maestro che gli dài,
ma un servo. Egli ne formerà ben presto un secondo.
Si discute molto sulle qualità di un buon precettore. La prima che esigerei in lui
– e questa sola ne presuppone molte altre – è quella di non essere uomo venale. Ci
sono mestieri tanto nobili, che non si possono esercitare per denaro senza mostrarsi
indegni di esercitarli; tale è quello di un uomo d’armi; tale è quello dell’istitutore. Chi
educherà dunque mio figlio? Te l’ho già detto, tu stesso. Io non posso. Non puoi?...
fatti dunque un amico. Non vedo altra via d’uscita.
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Un precettore! Oh, che anima sublime!... in verità per fare un uomo bisogna che
noi stessi siamo o padri o più che uomini. Ecco il compito che affidate tranquillamente a mercenari.
Più ci si pensa, più si scorgono nuove difficoltà. Bisognerebbe che il precettore
fosse stato educato per il suo allievo, che i domestici di questo fossero stati educati
per il loro padrone, che tutti quelli che lo avvicinano avessero ricevuto le impressioni
che gli devono comunicare; bisognerebbe, di educazione in educazione, risalire non
si sa fin dove. Come può avvenire che un fanciullo sia educato bene da chi non è
stato bene educato egli stesso?
Questo raro mortale è dunque introvabile? Non lo so. In questi tempi di avvilimento, chi sa mai a quale grado di virtù può ancora giungere un’anima umana? Ma supponiamo di avere trovato questo prodigio. Considerando quello che deve fare, vedremo che cosa dev’essere. Ciò che credo di poter prevedere è che il padre che sente
tutto il valore di un buon precettore, decida di farne a meno; poiché dovrebbe faticare
di più a cercarlo che a diventarlo egli stesso. Vuole dunque farsi un amico? Educhi
suo figlio ad esserlo; eccolo dispensato dal cercarlo altrove, e la natura ha già fatto
metà dell’opera.
[Da: Jean-Jacques Rousseau, Emilio, Armando, Roma 1969, pp. 3-27 passim].
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