Philosophie de Rousseau, a cura di Blaise Bachofen, Bruno Bernardi, André Charrak e Florent Guénard, Classiques Garnier, collezione «L’Europe des Lumières» (no 31), Paris, 2014, 510 pp. Il titolo dell’imponente volume – che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Lione nel giugno del 2012, in occasione del tricentenario della nascita di Rousseau – può apparire di primo acchito scontato, se non addirittura banale. Esso implica invece il consapevole confronto con una categoria interpretativa e storiografica particolarmente spinosa. Parlare della «filosofia di Rousseau» non vuol dire infatti soltanto ribadire la statura filosofica dell’intera opera del pensatore ginevrino – operazione ormai superflua – ma sostenere che le sue idee, esposte in maniera volutamente asistematica, possono confluire nell’unità di una filosofia. Si tratta, com’è noto, di una delle grandi sfide della critica rousseauiana, a partire dal pioneristico contributo di Cassirer Das Problem Jean-Jacques Rousseau del 1932; sfida che viene affrontata nel presente volume alla luce delle più recenti acquisizioni filologiche e metodologiche, riassunte da Bruno Bernardi nella densa prefazione (pp. 927) che apre il volume. Sulla base della convinzione che la «coerenza dinamica» (p. 18) del pensiero di Rousseau sia da ricercarsi nelle operazioni che caratterizzano la pluralità dei regimi discorsivi che confluiscono nella sua filosofia piuttosto che nella precisa definizioni di temi, l’analisi (inevitabilmente plurale per oggetti scelti e metodi adottati) ruota attorno a tre nozioni, che coincidono con la tripartizione del volume: dispositions, sensibilité e relations. Queste tre nozioni, che «giocano nell’opera di Rousseau un ruolo al tempo stesso cardinale e trasversale» (p. 26) rappresentano le principali modalità attraverso cui egli pensò ciò che, al di là di qualsiasi evoluzione e oscillazione, è l’oggetto centrale della sua filosofia: il divenire della natura umana. L’idea di «disposizioni» – come spiega André Charrak (pp. 31-35) – indica quel complesso insieme di rapporti materiali e passionali che legano inevitabilmente l’individuo alla dimensione storica. La «teoria dell’uomo» di Rousseau, lungi dall’esaurirsi in una sorta di meditazione del soggetto su se stesso (come suggerito in passato da una ingenua critica esistenzialistica) implica un perenne confronto con la dimensione dell’esperienza e, conseguentemente, con le dottrine filosofiche incentrate su tale aspetto. L’approfondimento dei rapporti che Rousseau intrattenne con la filosofia empirista e, in particolare, con i suoi più estremi esiti materialistici, rappresenta il fil rouge di questa prima parte del volume. Mettendo in discussione lo stereotipo storiografico che vede in Rousseau un nemico implacabile di qualsiasi forma di riduzionismo meccanicistico, i contributi qui raccolti mettono in luce come il confronto con il materialismo rappresenti una tappa fruttuosa nella formazione delle sue idee gnoseologiche e morali. Le ripercussioni di questo confronto si estendono ben oltre l’impianto epistemologico di chiara ascendenza sensistica dell’Émile (Marion Chottin, pp. 85-97), per toccare vari punti della riflessione filosofica di Rousseau: dall’origine del linguaggio (Thomas Robert, pp. 99111) alla questione della perfettibilità (John McGuire, pp. 113-129), sino a toccare la chimica, scienza che diventa aperto terreno di confronto epistemologico con gli altri philosophes (François Pépin, pp. 131-143). L’inesausta volontà di Rousseau di coniugare gli aspetti positivi del materialismo con un’istanza morale di ordine superiore trova probabilmente la sua testimonianza più efficace nel progetto incompiuto del Matérialisme du sage, analizzato da Rudy Le Menthéour (pp. 69-83). La seconda sezione del volume è consacrata alla nozione di «sensibilità», vera e propria chiave di volta dell’antropologia di Rousseau e significativo elemento di originalità da lui apportato al dibattito filosofico contemporaneo. In un periodo in cui la sensibilità, intesa in particolar modo nella sua declinazione morale, era considerata una qualità, Rousseau l’esamina alla stregua di una vera e propria facoltà, come mostra con puntualità il contributo di Martin Rueff (pp. 193-214). Nella complessa analisi della sensibilità s’intrecciano numerosi problemi e interrogativi riconducibili a tre principali ordini di questioni. Un primo orizzonte è quello genealogico: si tratta, in altri termini, di chiarire che tipo di relazione la sensibilità, in quanto facoltà pienamente morale e sociale, intrattiene con le inclinazioni originarie, e in particolar modo con l’amor di sé e quella sua degenerazione che è l’amor proprio. A queste problematiche, approfondite dai contributi di John Scott (pp. 233-247) e Hélène Bouchilloux (pp. 249-260), si affiancano delle «questioni pratiche in senso stretto» (p. 191), riguardanti cioè le contromisure che il saggio – sia esso il pedagogo o il legislatore – può adottare per evitare che la sensibilità degeneri. In tale prospettiva, come suggerisce Florent Guénard (pp. 261273), l’amor proprio può essere paradossalmente sfruttato per sviluppare sentimenti positivi, come l’amore per l’uguaglianza, e il concetto di «sensibilità negativa» può essere utilizzato come chiave di lettura per dirimere la complessa posizione di Rousseau nei confronti del suicidio (Christophe Litwin, pp. 275-288). L’ultimo orizzonte in cui viene analizzata la sensibilità è quello che riguarda la natura delle relazioni dell’individuo con il suo prossimo. In tale prospettiva, la sensibilità può condurre a esiti sia negativi, come nel caso del narcisismo illustrato da Charles Griswold (pp. 289-304), sia positivi, come dimostrano gli esempi dell’amicizia (Géraldine Lepan, pp. 319-335) e degli sviluppi politici della pietà istintuale (Ryan Hanley, pp. 305-318). L’ultima parte del libro è dedicata all’approfondimento delle «relazioni» che caratterizzano il pensiero filosofico di Rousseau. Poiché l’essere umano è inevitabilmente una creatura de-naturata (nel senso descrittivo e non valutativo del termine) esso non potrà far altro che realizzare se stesso nella relazione con gli altri, in quella paradossale forma di «buon snaturamento» suggestivamente evocata nell’Émile: «Le buone istituzioni sociali sono quelle che sanno snaturare meglio l’uomo, togliendogli la sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa». Alla luce di queste premesse, la sezione conclusiva – che risulta nel suo insieme la parte meno convincente e coesa del volume – raccoglie contributi, alquanto eterogenei tra loro, di argomento politico (dedicati in particolare al repubblicanesimo) e religioso. Tra questi contributi, si segnalano per originalità il saggio di Blaise Bachofen (pp. 393-411) dedicato alla nozione d’«interesse particolare» e quello di Rosanne Kennedy, che sottolinea le implicazioni politiche di un testo generalmente letto in chiave intimistica come le Rêveries (pp. 413-426). [M. Me.]