Testo Grillo - Istituto Superiore di Studi Medievali `Cecco d`Ascoli`

Alle origini della diplomazia comunale: amicizia e concordia nei rapporti fra i comuni italiani
nell’epoca della Lega Lombarda
È tristemente noto il brano di Rahewino, che descrivendo la partecipazione di Cremonesi e
Pavesi all’assedio di Milano del 1158 affermava che i conflitti pregressi fra le città avevano creato
profondi rancori e che i Lombardi si battevano fra loro «non ut cognatus populus, non ut domesticus
inimicus, sed velut in esternos hostes, in alienigenas, tanta in sese invicem sui crudeli tate seviunt
quanta nec in barbaros deceret». Sebbene fossero tutti latini (conlatini), infierivano reciprocamente,
tanto sui campi e sugli alberi da frutto, quanto sugli sventurati prigionieri, che non avevano scampo
se cadevano in mano di altri cittadini. Fatti salvi gli eccessi retorici del brano, le parole di Rahewino
evocano una realtà traumatica: le città lombarde, che avrebbero dovuto rappresentare una comunità
di natura quasi familiare («cognatus populus») erano invece frammentate e divise dall’odio
reciproco.
Al momento del trionfo di Federico I su Milano, le comunità urbane sembrano aver
conosciuto il grado zero delle loro relazioni intercittadine, dominate dalla sfiducia e dall’odio e
infine espressamente proibite dallo stesso imperatore durante la dieta di Roncaglia. Non è dunque
privo di interesse cercare di comprendere come in meno di un decennio esse siano riuscite a
ricostruire una rete di alleanze che presupponeva collaborazione e fiducia reciproca creando quella
Lega Lombarda che, come scriveva Cesare Vignati, «non uscì come Minerva dal cervello di Giove,
ma ebbe principio, sviluppo, consolidamento conforme natura». in effetti anche ai nostri giorni è
diffusa la tendenza a studiare la Lega senza tenere debitamente in conto la scarsità del retroterra
giuridico e documentario su cui i comuni fondatori si trovarono a lavorare, in una situazione di
emergenza dettata dall’azione imperiale, solo su sollecitazione della quale, come ha osservato
Ferdinand Opll, «nella lotta collettiva per il mantenimento ed il riconoscimento dei diritti» i comuni
riuscirono a superare quel «particolarismo così tipico dell’universo cittadino del Regno d’Italia».
Il risultato di tale superamento fu eccezionale. Gli studiosi più recenti hanno ben sottolineato
la grande novità rappresentata dalla Lega e la rivoluzione da essa portata nei rapporti intercittadini,
regolando la coesistenza dei diversi comuni, creando magistrature e strumenti giuridici per la
regolazione pacifica delle controversie, definendo in maniera più puntuale e precisa gli ambiti
territoriali d’azione dei diversi poteri urbani. Si trattò di una grandiosa opera di legittimazione
reciproca fra le città, che pur non eliminando i conflitti fra i comuni, ne delimitò radicalmente la
portata cancellando di fatto per tutto il Duecento la possibilità di esiti clamorosamente traumatici
quali la distruzione totale o la completa sottomissione di una città a un’altra, che invece si erano
verificati nella prima metà del XII secolo. Dall’epoca precedente, che soltanto in Lombardia aveva
visto la distruzione di Lodi (1117), Como (1127), Tortona (1153), Crema (1161) e Milano (1162) il
mutamento fu abissale.
È necessario chiedersi come i comuni italiani riuscirono a creare uno strumento complesso e
articolato quale la Lega Lombarda e a elaborare gli strumenti documentari e giuridici in grado di
sostenerne l’azione. Qui, in particolare, si vuole concentrare l’attenzione sugli aspetti retorici e sulla
costruzione di un quadro “emozionale” nel quale inscrivere l’azione collettiva delle città “amiche”
nell’ambito dell’alleanza. Un quadro emozionale che era evidentemente necessario, dopo il
durissimo conflitto intercittadino che aveva preceduto la creazione della Lega e che,
significativamente, ha pochi riscontri nella documentazione prodotta anteriormente.
1. I primi accordi intercittadini (1100-1158)
Gina Fasoli, studiando gli antecedenti della Lega Lombarda ha segnalato l’esistenza di
alcuni accordi intercittadini già nei primi decenni del XII secolo, spesso attestati solo da fonti
cronachistiche. Dalle sue pagine emerge bene la moltitudine delle tipologie documentarie utilizzate.
Così, ad esempio, nel 1107, un accordo fra Verona e Venezia prese le forme di un diploma concesso
dal doge di Venezia, nel quale si regolavano i commerci e le relazioni militari fra le due città.
Cinque anni dopo Milano e Tortona strinsero un’alleanza tramite un giuramento reciproco a
difendersi «contra quemlibet mortalem». Verso il 1113 Padovani e Vicentini si promisero aiuto
reciproco nell’ambito di un contratto destinato a regolare il potenziamento e l’uso di un canale.
A partire dal terzo decennio del XII secolo i trattati intercittadini presero una struttura più
definita, quali brevia recordationis di giuramenti reciproci, che contenevano gli impegni delle città
stipulanti. La molteplicità delle modalità di validazione utilizzate – sigillo comunale, «carta
partita», sottoscrizione notarile – restituisce comunque l’impressione di un processo ancora in gran
parte in fieri, nel quale le forme documentarie non erano ancora definite e, in mancanza di modelli
di riferimento precisi, venivano variate a seconda delle necessità immediate. Il nucleo più
consistente di queste carte è rappresentato da accordi fra Genova e città dell’entroterra, conclusi fra
il 1140 e il 1156. Un altro, piccolo nucleo documentario proveniente dall’area emiliano - romagnola
vede quali protagoniste Ravenna e Bologna. Altri atti, più isolati, riguardano infine Piacenza,
Milano e Pisa. Non è inoltre improbabile che un certo numero di accordi – impossibile da
quantificare – venisse affidato alla sola tradizione orale.
I contenuti erano di norma piuttosto scarni. Le parti promettevano di non recarsi
reciprocamente danno, a fornirsi aiuto in caso di guerra e, talvolta, a garantire libero transito ai
mercanti e alle vettovaglie sui propri territori. Un’eccezione è rappresentata dal noto accordo fra
Ravenna e Forlì del 1138, che prevedeva una vera e propria fusione politica fra le due città, che
avrebbero costituito collegi consolari comuni.
Soprattutto, colpisce al primo sguardo la povertà formale di questi documenti. Nelle carte
genovesi prevale una scarna elencazione degli impegni reciproci, senza alcun apparato retorico ad
introdurre i testi. Nel trattato del 1149 fra Genova e Pisa, ad esempio, viene posto in primo piano
l’elemento negativo, dato che il testo si apre con un impegno a non nuocere agli alleati («Per 29
anni, io console di Pisa non offenderò né permetterò di offendere alcun genovese») e solo in seguito
vengono elencate le clausole positive di natura commerciale e militare. Gli altri accordi genovesi,
bolognesi e ravennati ricalcano nella sostanza questo schema.
Due sole sono le eccezioni, che però ci portano ai margini del mondo comunale e sono
rappresentate da altrettante carte pisane degli inizi del XII secolo. Nel precoce trattato di alleanza
concluso nel 1126 fra Pisani e Amalfitani, quando, nel contesto dei soliti giuramenti reciproci,
prima di elencare le clausole dettagliate, gli abitanti delle due città si promisero reciprocamente di
essere «amici», mentre «boni amici et vicini» erano gli abitanti di Nizza ai quali verso il 1119 si
rivolgeva il vescovo di Pisa. È probabile che qui il termine sia stato utilizzato in senso strettamente
tecnico, quale sinonimo di alleati, anche se le scarse possibilità di contestualizzazione dell’atto
impediscono di approfondirne il significato.
2. Le “amicizie” di Milano
Nell’Italia settentrionale, l’assenza di arenghe e di altri spazi di elaborazione retorica non
consentiva che i trattati assumessero un contenuto emozionale, che ponesse le relazioni
intercittadine in un quadro di sentimenti di amichevoli e non le limitasse a un arido rapporto di do ut
des. L’unica eccezione, completamente isolata, è rappresentata da un trattato fra Pavia e Piacenza
del 1141, che si apre con un’invocazione a Cristo, definito «amator concordie».
In alcuni casi si trova menzione dell’“amicizia” fra città, ma, in questo contesto
documentario ancora poco strutturato, il termine veniva utilizzato in senso tecnico, senza
implicazioni retoriche. Lo dimostra il caso dell’alleanza stipulata nel 1138 fra Ravenna e Forlì, a cui
si è già accennato prima. Anche questo testo si presenta come un breve iuramenti e non prevede
arenghe o altre forme di captatio benevolentiae retoriche. Fra le clausole si prevede però che le due
città mettessero in comune le reti di alleanze: «promittimus quod quam amicitiam nos aquiremus
communiter, adquiremur eam pro nobis et pro Liviensibus (o Ravennatis) hominibus». “Amicizia”,
qui, equivaleva evidentemente ad “alleanza”: si trattava della ripresa di un uso classico: in autori
noti all’epoca, l’idea di amicizia tra popoli o tra genti era di norma connessa all’esistenza di legami
ufficiali e di espliciti trattati («amicitia et societas» è lemma diffuso nelle opere di Sallustio e
«foedus et amicitia» in Livio).
Ancora di più, tale concetto di “amicizia” intercittadina, quale rapporto formale, emerge
durante le prime guerre federiciane, dalle pagine dei cronisti filoimperiali, soprattutto per connotare
la rete di alleanze che faceva capo a Milano.
Sono in particolare Ottone di Frisinga e Rahewino a disegnare la trama di rapporti che univa
la metropoli ambrosiana ai centri alleati. Per Ottone Tortona era «natura et arte munita,
Mediolanensibus amica ipsisque contra Papienses federe iuncta». Per Rahewino l’Isola Comacina
«erat autem amica Mediolanensibus et multo tempore per fedus coniuncta» e i Bresciani a loro volta
«erant quippe Mediolanensibus amicitia et societate coniuncti». È dunque evidentissimo il nesso
esistente fra l’amicizia e l’esistenza di un legame formale di alleanza, fosse esso un foedus o una
societas, forse messi per iscritto in carte diplomatiche, forse semplicemente consegnati ad accordi
orali.
In questo senso, il termine torna nel diploma imperiale che il 7 settembre 1158, dove si
assicurava che, conclusa la pace, i «confederati» di Milano, ossia Tortonesi, Cremaschi e Isolani,
avrebbero potuto rimanere alleati «illibatis amicitiis» con la metropoli. Il pagamento di 120 marchi
d’argento avrebbe consentito ai Milanesi «et amici eorum» di tornare nella piena grazia
dell’imperatore. Come nelle testimonianze precedenti, la nozione di amicizia è strettamente legata
all’esistenza di una vera «confederatio».
La natura prevalentemente formale dei legami di amicizia è infine confermata dal fatto che
tali rapporti potevano essere coatti, come ci mostra Ottone Morena nell’affermare che quando, nel
1158, i consoli di Milano imposero loro di giurare fedeltà, i Lodigiani colsero l’occasione per «ab
eorum amicitia recedere sine ignominia».
3. Dopo Roncaglia
La pace fra il Barbarossa e Milano, come si è accennato, salvaguardava la rete di alleanze
che faceva capo alla metropoli ambrosiana, ma poche settimane dopo l’imperatore smentì
clamorosamente tale atteggiamento, quando, a Roncaglia, alla fine di novembre, vietò
esplicitamente tutte le «conventiculae et omnes coniurationes… inter civitatem et civitatem».
Non ci sono rimasti, purtroppo, documenti che riguardino quella “Lega Veronese” che
rappresentò la prima clamorosa violazione della legge di Roncaglia. Forse proprio perché
formalmente illegale, l’alleanza non fu formalizzata per iscritto: Bosone, nel riferirne la nascita,
insiste sul fatto che essa avvenne «occulte» e che si concretizzò, ancora una volta, in una serie di
giuramenti reciproci rimasti orali.
Il caso veronese non rimase comunque isolato. È significativo delle difficoltà di Federico nel
controllare la penisola il fatto che un anno prima della nascita della Lega Lombarda due città
filoimperiali come Lucca e Genova abbiano proceduto senza remore a siglare un trattato di alleanza,
nel 1166. Il testo introduce ormai a un nuovo clima, nel quale la retorica assume un ruolo di primo
piano. L’accordo, infatti, pur presentandosi ancora una volta come un giuramento pronunciato in
prima persona dai consoli lucchesi, è introdotto da un’arenga nella quale si afferma che i Lucchesi
intendono concludere «pacis et amoris federa cum Ianuensibus». La componente emotiva
rappresenta dunque un elemento dell’accordo al quale si ritenne necessario dare un certo rilievo.
D’altro canto, la situazione generale richiedeva indubbiamente la messa in opera di un
apparato retorico in grado di giustificare anche su un piano affettivo la costruzione di rapporti di
alleanza fra i comuni, dopo che il durissimo conflitto degli anni 1158-1162 fra Milano e il
Barbarossa, nonché fra le città alleate dell’uno o dell’altro contendente, aveva lasciato un cruento
strascico di odi reciproci, ben simboleggiato dall’entusiasmo con cui cremonesi, pavesi, novaresi,
comaschi e lodigiani parteciparono alla distruzione di Milano.
Quando, di fronte all’arroganza imperiale, le nemiche di un tempo dovettero unirsi nella
Lega Lombarda, si rivelò necessario ricostruire non solo un tessuto diplomatico, ma anche le basi
della convivenza civile fra uomini di città che negli anni presenti avevano di volta in volta inflitto e
subito atrocità pesantissime. Gli atti fondativi della Lega Lombarda si distinguono dunque
dall’asciuttezza degli accordi precedenti per la messa in opera di un apparato retorico che, benché
tutt’altro che ridondante, grazie all’uso accorto dei termini evocava anche ideologicamente l’inizio
di una nuova fase di pace nei rapporti fra i comuni.
4. Concordia: i prodromi della Lega Lombarda
Sin dal più antico documento della Lega conservatosi, il giuramento dei Cremonesi a
Milano, Mantova, Bergamo e Brescia, pronunciato nel marzo del 1167, venne utilizzato il termine
che più di ogni altro connotò la lunga serie degli accordi multilaterali e bilaterali che venne a
formare la Lega Lombarda: “concordia”. L’uso di tale parola negli accordi intercittadini non è una
novità. La si ritrova già in un trattato fra Genova, Milano e Piacenza stipulato nel 1156 e nella resa
di Piacenza al Barbarossa nella primavera del 1162. Nei documenti costitutivi della Lega, però, il
termine “concordia” è presente in maniera talmente diffusa a capillare – rispetto all’assoluta
saltuarietà delle attestazioni precedenti – che risulta evidente la programmaticità con cui esso venne
utilizzato. Praticamente tutti gli accordi fra le città erano definite “concordie” e in alcuni atti di
particolare rilievo – per tutti basti citare il grande giuramento pronunciato dai comuni alleati il 1°
dicembre 1167 – la parola si ripete oltre una dozzina di volte.
Talvolta utilizzata da sola, talvolta in coppia con altri termini («concordia et societas», «pax
et concordia» o «concordia et sacramentum»), la “concordia” aveva una felice ambiguità fra il
significato strettamente tecnico di “accordo, pace” e quello più ampio di “armonia, vicinanza di
cuori”, virtù civica per eccellenza a partire dal De republica di Cicerone per giungere – per limitarsi
ad un solo esempio – all’affresco del Buon governo di Ambrogio Lorenzetti. Il valore sentimentale
e retorico di tale termine era dunque evidente e non c’è da stupirsi se esso permeava letteralmente
gli atti, con una significativa polisemia di significati.
“Concordia” non rappresentava solo la definizione dei trattati che univano le città della
Lega, ma anche la descrizione del modo in cui la Lega stessa operava. I suoi membri e i suoi rettori,
infatti, dovevano decidere «in concordia» le azioni da intraprendere. La concordia era inoltre il fine
di gran parte di tali azioni, visto che il mantenimento delle buone relazioni fra gli alleati era
fondamentale. Così, il grande giuramento del 3 maggio 1168 era definito «lex et concordia
civitatum», nell’ambito della quale I rettori delle città di Cremona, Milano, Bologna, Padova,
Verona, Mantova, Parma, Piacenza, Brescia, Bergamo, Lodi, Como, Novara, Vercelli, Asti, Tortona
e Alessandria e Obizzo Malaspina stabilirono «in concordia» diverse norme. I membri che «contra
concordiam» avessero agito sarebbero stati perseguiti dagli altri «donec ad pacem et concordiam vel
ad iusticiam pervenerit».
L’uso diffuso e pregnante della parola “concordia” caratterizzò soprattutto i primi, decisivi
anni di vita della Lega. Con il consolidarsi dell’alleanza e l’assopirsi della conflittualità
intercittadina, si diede progressivamente maggior peso al termine più tecnico di “societas”. Negli
atti degli anni Settanta e Ottanta, l’alleanza venne definita invariabilmente «societas
Lombardorum», mentre “concordia” era la pacificazione che, da Montebello a Costanza, si
ricercava non più fra le città italiane ma fra queste (o almeno fra la maggior parte di loro) e
l’Imperatore. Lo slittamento semantico può in questa maniera chiudere una fase significativa. Ormai
la Lega era una realtà condivisa e accettata, sicché la terminologia tecnica prese il posto di quella
più evocativa utilizzata negli atti fondativi. Il problema della ricomposizione del conflitto si
spostava invece su un piano più alto: era infatti con l’Impero che le città italiane dovevano e
volevano ritrovare – come afferma la Pace di Costanza – le necessarie «pax et concordia».
Paolo GRILLO
Università degli studi di Milano.