Le ragioni dell`intervento pubblico: i “fallimenti del mercato

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Le ragioni dell’intervento pubblico: i “fallimenti del mercato”
Economia del Benessere
(versione provvisoria)
Marisa Faggini – Università di Salerno
[email protected]
La teoria dell'intervento pubblico insieme con la Public finance (Hammond, 1990)
costituiscono la base dell'Economia pubblica per l'identificazione delle caratteristiche e delle
motivazioni dell'intervento pubblico nell'economia.
Si tratta di un argomento assai vasto per comprendere il quale è necessario illustrare i concetti
di mercato, di efficienza allocativa e di configurazione industriale attraverso cui comprendere e
descrivere l'"ambiente" nel quale operano imprese e consumatori, utilizzare i concetti di giustizia
distributiva e di libertà (sia in senso positivo sia negativo) per valutare i diversi assetti del mercato,
dibattere dei fallimenti di mercato e dei processi decisionali democratici per giungere finalmente alla
giustificazione di un intervento pubblico ed alle conseguenti difficoltà che incontra l'azione statale.
La “mano invisibile e la dinamica auto-regolatrice del mercato: caratteristiche e principi di
funzionamento.
Partiamo innanzitutto dalla definizione e dalla descrizione di ciò che tradizionalmente si
intende per mercato. Il mercato è quella struttura che garantisce un’allocazione efficiente delle risorse
e il luogo in cui beni e servizi vengono scambiati contro moneta, cioè il luogo di “incontro” di offerta
e domanda. Attraverso il modello di mercato si spiega come avvengono le scelte dei soggetti
economici rispetto ai beni e come queste scelte si raccordano tra loro in maniera che ciascuno
massimizzi il proprio benessere individuale. Il modello di mercato è in grado di dirci come e quando si
realizza una certa combinazione di prezzi e quantità in corrispondenza della quale ciascuno raggiunge
l’equilibrio ottimo.
La quantità relativa dei beni e servizi offerti e domandati determina i prezzi, i quali
rappresentano la “misura” fondamentale del valore delle risorse e della loro scarsità relativa ed
influenzano le scelte che gli operatori economici devono effettuare. Il consumo o l’uso di una certa
risorsa sarà tanto più elevato e/o intenso quanto più il prezzo di quella risorsa è basso1 .
Il prezzo, quindi, può essere visto come un indicatore di scarsità. Ciò che non ha prezzo ‘non
esiste’ e quindi, gli agenti economici nel prendere le proprie decisioni includono nel proprio calcolo
tutto quello per il cui utilizzo è necessario pagare un prezzo. Il processo di contrattazione, che
1
Ovviamente tale relazione tra prezzo e quantità domandata riguarda essenzialmente i beni cosiddetti normali, da distinguere
dai beni Giffen la cui domanda diminuisce al diminuire del prezzo e dai beni status symbol la cui domanda aumenta
all’aumentare del prezzo. Varian (2002)
1
caratterizza il libero mercato, permette di attribuire un prezzo a qualsiasi merce, ovverosia a qualsiasi
elemento del mondo fisico o biologico al quale gli individui attribuiscono un valore (utilità) o una
funzione nella sfera della produzione, identificando così una relazione stringente tra teoria del valore e
teoria dei prezzi.
La rilevanza scientifica di questa relazione poggia, ovviamente, su un’ipotesi particolarmente
rigida della teoria del valore di impostazione neoclassica. Il sistema dei mercati deve corrispondere
perfettamente al sistema delle transazioni. In altre parole, affinché teoria del valore e teoria dei prezzi
possano essere identificate, tutte le transazioni devono essere transazioni di mercato. Cioè, deve
esistere un contesto negoziale, appunto il mercato, in cui ha luogo il processo di negoziazione che
conduce alla formazione del prezzo in virtù del quale si realizza lo scambio; ciò che si richiede è la
realizzazione di una transazione volontaria.
Ne segue quindi, che, dato il comportamento massimizzante2 degli agenti economici un
prezzo elevato rappresenta un incentivo all’uso efficiente della risorsa. Poiché il prezzo di una risorsa
sarà tanto più alto quanto più la risorsa è scarsa relativamente alla quantità domandata, il mercato tiene
conto di tale scarsità della risorsa aumentandone il prezzo e, quindi ne garantisce un'allocazione
efficiente.
Strettamente connesso alle nozioni di equilibrio e di massimizzazione è il concetto di
efficienza allocativa. L’efficienza è un processo attraverso il quale i consumatori ottengono il
massimo dalle risorse presenti nel sistema. Nella teoria economica si distinguono tre nozioni di
efficienza:
1) Efficienza produttiva. Si ha quando non è possibile aumentare la quantità prodotta se non
aumentando l’impiego di un input. Nel caso che ci sia un solo input variabile e che la funzione di
produzione sia f(x), c’è efficienza (produttiva) quando y = f(x), mentre c’è inefficienza quando y <
f(x).
2) Efficienza economica. Si ha quando non è possibile aumentare la quantità prodotta se non
aumentando il costo. La condizione che la identifica è SST = w1/w2, ossia il saggio di sostituzione
tecnica eguagli il rapporto dei prezzi dei fattori (l’isocosto è tangente all’isoquanto). Altrimenti c’è
inefficienza.
3) Efficienza Allocativa. L’efficienza allocativa si ottiene quando non è possibile
riorganizzare la produzione o il consumo in modo tale da incrementare il soddisfacimento di un
individuo senza ridurre quello di un altro. Il criterio utilizzato per misurare l’efficienza allocativa è
quello paretiano in base al quale un’allocazione è Pareto efficiente o Pareto ottima se non esiste
nessuna altra allocazione raggiungibile tale che l’utilità di almeno un agente è aumentata senza
diminuire l’utilità degli altri agenti. Attraverso tale criterio è possibile valutare e confrontare le
2
L’approccio economico per la comprensione di un problema consiste nell’identificare gli agenti economici e determinare
poi che casa essi massimizzano e a quali vincoli siano soggetti
2
allocazioni delle risorse che scaturiscono come soluzioni di equilibrio nei diversi mercati e
determinare se l’intervento dello Stato, con finalità allocative3 può essere desiderabile.
Economia del benessere
Il concetto di efficienza allocativa rappresenta un punto cardine dell’Economia del benessere
che, come branca della Teoria Economica, studia la desiderabilità sociale di allocazioni economiche
alternative.
Se il singolo consumatore valuta le allocazioni dal punto di vista della sua utilità, con più di un
agente occorre ridefinire la nozione di allocazione ottima dal punto di vista sociale e non solo
individuale. Scopo principale dell’Economia del benessere, quindi è quello di fornire criteri sulla base
dei quali è possibile giudicare proposte alternative di politica economica. Ovviamente la valutazione in
questione non si basa sulla definizione di una regola oggettiva, applicabile e valida a prescindere dal
contesto in cui si opera, per l’evidente ragione che qualunque regola si baserà su di un qualche
giudizio di valore. Ciò, tuttavia non impedisce che si possa comunque esprimere una desiderabilità di
politiche economiche alternative. Per questa ragione l’economia del benessere appartiene all’economia
normativa, che diversamente dall’economia positiva, volta all’analisi delle conseguenze di una politica
economica, esprime giudizi sulla desiderabilità di un intervento di politica. Attraverso un apparato
microeconomico, dunque l’Economia del benessere analizza come i risultati teorici che identificano le
condizioni di ottimo individuale possono essere estesi alle valutazioni dell’ottimo sociale.
Obiettivo, quindi è individuare qual è la configurazione ottimale di un sistema economico in
cui siano presenti più individui eterogenei, ossia con diverse preferenze e con diverse dotazioni iniziali
di fattori e di beni. Si assume che gli individui siano razionali e siano i migliori “giudici di se stessi”;
si adotta una visione non organicistica della società nel senso che lo “Stato” esiste, ma non è
un’autonoma fonte di valori: la volontà dello Stato è nulla più di quella che risulta dall’aggregazione
delle preferenze individuali; si adotta il criterio di Pareto (principio di efficienza o di ottimalità
paretiana), secondo il quale un’allocazione delle risorse che migliori il benessere di un individuo senza
arrecare danno agli altri rappresenta un miglioramento del benessere della società. Si parte da
un’analisi di equilibrio parziale per giungere ad una configurazione di equilibrio generale in cui si
individuano le interdipendenze esistenti tra i mercati. L’analisi microeconomica relativa
all’individuazione dell’ottimo del consumatore e dell’impresa ci permette di esaminare il
funzionamento del singolo mercato in isolamento, in un contesto cioè di equilibrio economico
parziale in cui l’unica variabile rilevante per l’equilibrio è il prezzo del bene. Si trascura l’influenza
degli altri prezzi sulla domanda e sull’offerta di quel bene. Gli altri prezzi vengono assunti dati (ipotesi
di ceteris paribus).
3
Musgrave (1959) individua come funzioni dello stato essenzialmente quella a) allocativa; distributiva e di stabilizzazione
3
Queste assunzioni hanno senza dubbio rende l’analisi dell’equilibrio più semplice, tuttavia si
perde in precisione, in quanto si trascura l’interdipendenza esistente tra tutti i mercati. Il modello che
considera esplicitamente i legami che si stabiliscono tra i diversi mercati è quello di equilibrio
generale o walrasiano. Prendendo in considerazione le interdipendenze esistenti tra i mercati è
possibile seguire l’effetto, trasmesso agli altri, di un disturbo su di un mercato e il nuovo equilibrio
raggiunto in queste nuove condizioni. È chiaro che l’equilibrio si realizza solo quando tutti i
consumatori, (ognuno dei quali massimizza la propria funzione di utilità sotto un vincolo di bilancio),
tutte le imprese (ognuna delle quali massimizza la propria funzione di profitto considerando i vincoli
di costo) e tutti i mercati raggiungono una situazione di quiete: non ci deve essere nessuna tendenza al
cambiamento.
L’equilibrio generale è, quindi una particolare configurazione che si instaura attraverso la
composizione delle interazioni fra consumatori e produttori (si compongono gli equilibri parziali) I
consumatori distribuiscono il loro reddito fra i diversi beni (presenti e futuri) cercando la massima
soddisfazione, che si ottiene quando le utilità marginali in valore degli stessi sono identiche. I
produttori, che mirano alla massimizzazione del profitto, fissano il livello di output in modo che il
costo marginale di produzione eguagli il prezzo di vendita; a sua volta il livello di output è ottenuto
impiegando fattori produttivi, la cui domanda è determinata dal prezzo degli stessi. In questo modello
l’equilibrio si calcola, non su un mercato alla volta, ma simultaneamente su tutti i mercati. Questo
induce a dover considerare l’ottimalità di una condizione o di un’allocazione non più analizzando
unicamente ciò che è perseguito da un singolo agente ma da più soggetti.
Nell’economia del benessere elemento fondamentale nella valutazioni di allocazioni
alternative è, dunque, il criterio Paretiano. A tal proposito diremo che uno stato sociale A è Pareto
superiore ad uno stato sociale B se e solo se vi è almeno un individuo che sta meglio in A che non in
B, senza che nessun altro individuo stia peggio in A che non in B. L’ottimalità paretiana denota uno
status quo in cui non è possibile trovare una situazione Pareto superiore per cui esistono tante
situazioni Pareto ottimali tra loro non confrontabili tante quante sono le distribuzioni del reddito
possibili. Rispetto all’infinità di situazioni Pareto-ottime bisogna sottolineare che il criterio paretiano è
scarsamente selettivo in quanto non permette di valutare i benefici di alcuni e gli oneri di altri. La
componente individualistica che informa il criterio paretiano impedisce di poter valutare la
desiderabilità delle diverse alternative sulla base di un giudizio morale.
Un esempio ci può chiarire quanto detto. Supponiamo che una società sia composta da ricchi e
da poveri. Ora, l’intervento di politica economica che togliesse ai ricchi, ad esempio gravando questi
con un’imposta sul reddito, e utilizzasse il gettito per sussidiare i poveri condurrebbe ad una situazione
non Pareto efficiente, nel senso che è migliorata la condizione dei poveri, che ora sono meno poveri
ma è peggiorata la situazione dei ricchi che ora sono un po’ meno ricchi. Quindi quello che, nell’ottica
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paretiana sarebbe un intervento non proponibile, da un punto etico e di giustizia distributiva sarebbe,
invece auspicabile.
Inoltre, il criterio paretiano non può essere considerato un criterio completo per la valutazione
dei diversi interventi di politica economica poiché non solo non ci permette di scegliere tra due
situazioni Pareto-ottime quella da preferire, ma non ci consente neanche di verificare tra due situazioni
Pareto-superiori se la variazione di benessere rispetto ad una qualche situazione di partenza abbia
interessato individui diversi e quindi, da questo punto di vista preferibile ad un’altra situazione pur
Pareto ottima. Quindi, il criterio di Pareto opera una netta distinzione fra l’efficienza allocativa di una
particolare configurazione economica e il giudizio di equità sulla stessa.
I margini d’intervento pubblico all’interno di un sistema economico concorrenziale di tipo
neoclassico (walrasiano) sono delimitati dai due teoremi fondamentali dell’economia del benessere, i
quali rappresentano i principali risultati teorici raggiunti dagli economisti della "nuova economia del
benessere" (Arrow, Debreu mentre Pigou e a Pareto sono i rappresentanti della vecchia economia del
benessere).
Primo teorema fondamentale.
Enunciato: “Per ogni allocazione iniziale delle risorse, il sistema di mercato concorrenziale
garantisce un’allocazione finale efficiente in senso paretiano”. Il Primo Teorema dell’Economia del
Benessere individua le caratteristiche che il sistema economico di mercato deve rispettare per
determinare (spontaneamente) allocazioni efficienti.
Ad Arrow e Debreu (1951) si deve la dimostrazione di questo primo teorema. Basandosi sulle
ipotesi che i consumatori e le imprese agiscano da price-takers, cioè adottando comportamenti
perfettamente concorrenziali, che esista un insieme completo di mercati, tramite i quali le merci
vengono allocate agli agenti, e che sia presente una perfetta informazione degli agenti, i due
economisti giunsero alla conclusione che l'eventuale equilibrio competitivo raggiunto, se esiste, è
efficiente in termini paretiani. In altre parole, mercati perfettamente competitivi e completi portano ad
allocazioni Pareto-efficienti.
Una tendenza largamente dominante ritiene che nel giudizio di efficienza ci si debba affidare
alla percezione che i singoli individui hanno del proprio benessere individuale (sovranità del
consumatore); si assume, cioè, che ciascuno sia il miglior giudice dei propri interessi e ci si rimette
pertanto alla sua insindacabile valutazione. Lo strumento attraverso cui individuare l’ottimo
individuale (WELFARISMO) è dato dalle preferenze o dall’utilità.
Nel caso di un solo agente l’allocazione ottima massimizza l’utilità. Con due o più agenti al
crescere dell’utilità di uno può corrispondere una riduzione dell’utilità dell’altro. Inoltre, avendo un
proprio sistema di preferenze e un dato ammontare di risorse (dotazioni), ciascuno giudicherà
diversamente un determinato stato del mondo. Come si può allora, muovendo dai giudizi individuali,
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pervenire a un giudizio di efficienza che riguardi l’intera collettività? Il giudizio di efficienza, quindi
sembra indissolubilmente legato al giudizio di equità, perchè non pare possibile evitare di valutare gli
interessi degli uni a fronte degli interessi degli altri.
Il primo problema, inerente l’individuazioni di condizioni di efficienza per la collettività sono
analizzate dal primo teorema dell’economia del benessere.
Per dimostrare il primo teorema dell’economia del benessere è necessario che:
• esistano solo beni privati, omogenei e perfettamente divisibili;
• l’utilità dei consumatori dipende solo dai beni che essi consumano e riflette la legge dei SMS
decrescenti;
e che sia abbia:
•
efficienza nello scambio;
•
efficienza nella produzione;
•
efficienza generale
Efficienza nello scambio
Un’allocazione è Pareto-efficiente nello scambio se è realizzabile e se non esiste un'altra
allocazione tale da porre almeno un individuo in una posizione migliore senza peggiorare la situazione
di nessun altro.
Consideriamo un’economia (economia di puro scambio), in cui non esiste produzione. Quindi
avremo:
•
due soli individui A e B);
•
due beni X e Y;
•
le dotazioni iniziali;
•
le curve di indifferenza.
Ciascun individuo esprime le proprie preferenze relativamente ai due beni X e Y. (Fig. 1)
Fig.1 Preferenze degli individui A e B
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Attraverso queste configurazioni costruiamo la scatola di Edgeworth (Fig. 2) rappresentata da
un rettangolo la cui dimensione dei lati rappresenta le quantità disponibili dei due beni, e i cui punti
interni rappresentano tutte le allocazioni possibili.
Indichiamo con (Ax, Ay) e (Bx, By) le dotazioni iniziali di beni di ciascun soggetto, e rispetto
all’origine OA rappresentiamo la situazione dell’individuo A, ossia tutte le sue curve di indifferenza e
rispetto ad OB la situazione dell’individuo B.
Muoversi da un punto all’altro della scatola significa realizzare una riallocazione tale per cui
l’aumento delle quantità di un bene per un individuo eguaglia la diminuzione delle quantità dello
stesso bene per l’altro individuo. Condizioni essenziale è che la quantità totale del bene X dovrà
distribuirsi tra i due individui in modo tale che Ax + Bx,=X e Ay + By= Y.
Indichiamo con W la distribuzione iniziale dei due beni tra i due soggetti (Fig. 2). In questo
punto le curve di indifferenza dei due soggetti A e B si intersecano, cioè i saggi marginali di
sostituzione (SMSxy) delle due curve di indifferenza misurati in quel punto sono tra loro diversi.
L’area ricompressa dall’intersezione delle due curve d’indifferenza rappresentano un miglioramento
paretiano rispetto a W.
A partire dalla situazione delineata in W gli individui saranno disposti a scambiarsi i beni e
raggiungere un equilibrio in cui almeno uno ha un maggiore livello di utilità.
Fig. 2 Scatola di Edgeworth
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Fig. 3 Curva dei contratti
Infatti, dal punto W gli individui possono raggiungere il punto C (Fig. 3), il quale rappresenta
una condizione in cui l’individuo A non ha modificato la sua utilità si è semplicemente mosso lungo la
curva di indifferenza UA1, mentre l’individuo B ha aumentato la sua utilità in quanto l’allocazione
definita dal punto C si trova su una curva di indifferenza più alta UB3 rispetto alla UB1. in cui si
individua l’allocazione data dal punto W.
Nel punto C le curve di indifferenza sono tangenti, cioè i saggi marginali di sostituzione sono
uguali (SMS Axy= SMS Bxy). Questa situazione evidenzia l’assenza di ulteriori vantaggi nello scambio.
Nel punto C, infatti l’ammontare di Y che A è disposto a scambiare per ottenere un’unità di in più di X
è uguale a ciò che B chiede per cedere un’unità di X. Qualunque scambio ulteriore peggiorerebbe la
situazione dell’uno o dell’altro rispetto alla situazione definita nel punto C.
Dunque, punti come C, E, D in cui le curve di indifferenza sono tra loro tangenti identificano
allocazioni Pareto-efficienti. L’insieme delle allocazioni Pareto efficienti forma la curva dei contratti
OAOB. La caratteristica dei punti che compongono la curva dei contratti è che rispetto a se stessi non
esiste nessun altra situazione che sia preferita da uno dei due agenti senza che essa non sia meno
preferita dall’altro. Quindi, in sintesi partendo da una allocazione iniziale W il processo di
contrattazione avrà termine solo quando si raggiungerà un punto sulla curva dei contratti, dove
nessuno dei due agenti può migliorare la propria posizione di benessere senza che l’altro peggiori la
propria.
Nell’economia semplificata che abbiamo visto, la contrattazione diretta tra gli individui
determina la posizione finale. Nelle economie di mercato dove operano contemporaneamente milioni
di persone, l’equilibrio finale si raggiunge attraverso il meccanismo dei prezzi.
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Quando, ad un determinato prezzo, vi è un eccesso di domanda per un bene molti acquirenti
saranno disposti a pagare di più rispetto a tale prezzo. A parità di offerta, il prezzo di quel bene
aumenterà rispetto al prezzo degli altri beni e, per questa via, l’eccesso di domanda per quel bene
viene riassorbito. Quindi diremo che in equilibrio generale si realizza la condizione: (SMSAx,y)=
(SMSBx,y)=px/py che evidenzia da un lato la condizione di ottimalità nel mercato concorrenziale e
dall’altro la condizione di efficienza.
Da questo consegue l’importantissimo risultato che i mercati competitivi consentono il
raggiungimento di un equilibrio nello scambio che è Pareto-efficiente.
Efficienza nella produzione
Analogo
procedimento
si
utilizza
per
dimostrare l’efficienza
nella
produzione:
un’allocazione di input è Pareto-efficiente se è realizzabile e se non esiste un'altra allocazione tale da
consentire ad almeno un’impresa di produrre una maggiore quantità di output senza che
contemporaneamente nessun altra impresa debba ridurre la propria.
Diversamente dalla dimostrazione dell’efficienza nello scambio ora consideriamo:
•
due imprese (A e B);
•
due fattori produttivi K e L;
•
le dotazioni iniziali degli input;
•
gli isoquanti di produzione.
La condizione di minimizzazione dei costi (e di massimizzazione dei profitti) implica che
ciascuna impresa raggiunge la condizione di ottimo quando: SMSTK,L=w/r, cioè quanto la pendenza
dell’isoquanto eguaglia la pendenza dell’isocosto.
Per determinare la condizione di equilibrio simultaneo delle due imprese consideriamo la
scatola di Edgeworth (Fig. 4) i cui lati rappresentano l’offerta disponibile delle risorse k e l, i punti
interni tutte le possibili allocazioni di risorse detenute dalle due imprese.
Partendo da un punto W è possibile ottenere delle produzioni sempre più efficienti fintantoché
non si raggiunge il punto C o il D, ossia punti in cui gli isoquanti delle due imprese sono tangenti.
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Fig. 4 Efficienza nella produzione
Tali punti, in cui i saggi marginali di sostituzione tecnica(a parità di output quanto deve
variare un input in rapporto ad una piccola variazione dell’altro input) tra capitale e lavoro sono
uguali, rappresentano allocazioni di input Pareto-efficienti.
Quindi, un’allocazione di fattori produttivi è Pareto-ottimale quando i saggi marginali di
sostituzione tecnica sono eguali nella produzione di ogni coppia di beni: SMSTXK,L= SMSTYK,L.
Dall’unione di tutti questi i punti Pareto efficienti otteniamo (Fig.4) la Curva dei Contratti della
Produzione (OxOy).
Considerato che in un mercato concorrenziale tutte le imprese pagano gli stessi prezzi per i
fattori che impiegano e tutte hanno come obiettivo una produzione che massimizzi i profitti avremo
che le due imprese sono congiuntamente in equilibrio quanto SMSTXK,L= SMSTYK,L=w/r.
Come per lo scambio anche per la produzione vi saranno un’infinità di allocazioni Pareto
efficienti, tuttavia solo uno di questi infiniti equilibri si può realizzarsi ed è quello in cui risulta
soddisfatta la condizione SMSTXK,L= SMSTYK,L=w/r. Quindi dato un certo w/r è univocamente
determinato il punto di ottimo sulla curva dei contratti.
Da quanto detto deriva che i mercati competitivi consentono il raggiungimento di un
equilibrio nella produzione che è Pareto-efficiente.
Efficienza congiunta nel consumo e nella produzione.
Le allocazioni di fattori efficienti possono essere rappresentati, oltre che dalla curva dei
contratti nella produzione, anche attraverso la curva di trasformazione, cioè misurando sugli assi delle
ascisse e delle ordinate le quantità dei due beni. Le combinazioni di beni associate ai punti di ottimo
compongono la curva delle possibilità di produzione OxOy. (o curva di trasformazione Fig. 5).
La curva delle possibilità di produzione esprime, per ogni determinata quantità di uno dei due
beni, la quantità massima che si può produrre dell’altro bene, considerando fisse la tecnologia e le
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quantità dei fattori di produzione.
In virtù del primo teorema sappiamo che il mercato concorrenziale, partendo da un dato
assetto delle dotazioni iniziali, condurrà il sistema ad una allocazione efficiente.
Fig. 5 Efficienza generale
Scegliamo sulla curva di trasformazione (Fig. 5) un qualsiasi punto C che individua le quantità
prodotte dei due beni. Si considerino, ora, le curve di indifferenza riferite a due individui i cui punti
ottimi saranno dati dai punti di tangenza delle curve di indifferenza. Lungo la curva dei punti Pareto
ottimi nello scambio i SMS sono variabili; infatti al pendenza delle curve di indifferenza nel punto C’
è diversa da quella definita nel punto D’. Tuttavia, è possibile individuare lungo la curva dei contratti
una distribuzione dei due beni tra gli individui per cui si verifica che il saggio marginale di
sostituzione è uguale al saggio marginale di trasformazione, corrispondente alla combinazione
produttiva originaria: rispetto a C sarà C’ e rispetto a D sarà D’
Quindi, il problema di massimizzazione del benessere si risolve scegliendo, lungo la curva
delle possibilità di produzione, la combinazione di output che consente di raggiungere la curva di
indifferenza di indice più elevato. Si tratterà di individuare un punto di tangenza della curva delle
possibilità di produzione e il punto di tangenza tra due curve di indifferenza (Fig. 5). Nel punto di
tangenza si ha l’eguaglianza tra il saggio marginale di sostituzione (misurato dalla pendenza della
curva di indifferenza) e il tasso marginale di trasformazione (misurato dalla pendenza della curva di
trasformazione che esprime quante unità aggiuntive di y possono essere ottenute rinunciando alla
produzione di un’unità di x data la tecnologia e le dotazioni complessive di fattori di produzione).
Considerando che la condizione di equilibrio nello scambio è data dalla condizione (SMSAx,y)=
(SMSBx,y)=px/py e che SMTx,y= px/py
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Si può, pertanto, enunciare la condizione di efficienza generale: Un’allocazione delle risorse è
Pareto-ottimale quando per ogni coppia di beni il saggio marginale di sostituzione è eguale al saggio
marginale di trasformazione: SMSx,y=SMTx,y o nello specifico SMSAx,y= SMSBx,y=SMTx,y. Quindi,
non è possibile migliorare la condizione di un operatore del mercato senza peggiorare
contemporaneamente la condizione di un altro operatore.
Il risultato raggiunto è, dunque che i mercati competitivi consentono il raggiungimento
di un equilibrio generale che è Pareto-efficiente.
Abbiamo così dimostrato il primo teorema dell’economia del benessere: Per ogni allocazione
iniziale delle risorse, il sistema di mercato concorrenziale garantisce un’allocazione finale efficiente in
senso paretiano.
Il primo teorema, stabilendo l’ottimalità paretiana di qualsiasi equilibrio concorrenziale,
fornisce una giustificazione normativa del meccanismo di mercato basata sull’idea di efficienza. Il
teorema riprende l’ intuizione della mano invisibile formulata originariamente da Adam Smith (1776):
l’idea cioè che il perseguimento dell’interesse personale da parte di ogni singolo agente economico
porti, attraverso l’operato di una mano invisibile, al raggiungimento di un risultato desiderabile per
l’intera collettività. In base a questa intuizione per raggiungere un risultato desiderabile per la
collettività non è dunque, necessario che gli agenti siano buoni o altruisti.
Secondo teorema fondamentale
Enunciato: Per ogni allocazione Pareto-efficiente esiste sempre un’allocazione iniziale delle
risorse che, all’interno di sistema di mercato concorrenziale, è in grado di garantirla. Il Secondo
Teorema dell’Economia del benessere individua le caratteristiche che il sistema economico di mercato
e gli strumenti di intervento pubblico devono avere affinché sia possibile raggiungere, tramite il
funzionamento del mercato, allocazioni (efficienti ed) socialmente desiderabili (cioè, eque).
Il secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere fornisce, invece, la seconda
motivazione tradizionale per l'intervento pubblico in economia. Strettamente legato al primo, esso si
basa sulle stesse ipotesi alle quali si aggiungono alcune condizioni tecniche di regolarità e convessità
degli insiemi rilevanti, e la possibilità di realizzare trasferimenti a somma fissa, cioè personalizzati e
non distorsivi. Ne consegue allora che ogni allocazione Pareto-efficiente, in particolare quella
eticamente desiderata sulla base di una qualche teoria end-state della giustizia (Zamagni, 1986;
Dasgupta, 1989), può essere raggiunta tramite mercati perfettamente competitivi.
In sostanza, decentralizzando l'economia tramite prezzi competitivi ed effettuando appropriati
trasferimenti interpersonali si può alterare la distribuzione delle dotazioni iniziali nella direzione
voluta. Il secondo teorema affronta un tema diverso. Si consideri la frontiera delle utilità (Fig.6) dove
ogni punto su tale frontiera `e ottimo nel senso di Pareto. Tuttavia, i diversi ottimi hanno implicazioni
profondamente diverse sotto il profilo dell’equità distributiva.
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Fig. 6 Frontiera delle utilità
In virtù del primo teorema sappiamo che il mercato concorrenziale, partendo da un dato
assetto delle dotazioni iniziali, condurrà il sistema ad una allocazione efficiente.
Supponiamo, però che questa allocazione non sia desiderabile per ragioni di equità e
ipotizziamo esista un altro ottimo, tra quelli possibili, che risulta essere desiderabile anche in termini
distributivi. Il secondo teorema risponde permette di risolvere questo problema stabilendo che, al fine
di raggiungere l’allocazione desiderata, sarà sufficiente intervenire sulle dotazioni iniziali attraverso
opportuni strumenti di redistribuzione - imposte e sussidi in somma fissa - lasciando poi che il mercato
faccia il resto.
In altre parole, il secondo teorema dimostra che ogni allocazione efficiente, e quindi anche
l’allocazione preferita sotto il profilo distributivo, può essere ottenuta mediante un meccanismo di
mercato decentralizzato purché si operi una redistribuzione delle dotazioni iniziali attraverso imposte e
sussidi in somma fissa (lump sum).
È evidente quindi, che la distribuzione finale dei beni fra i soggetti quale è realizzata dal
mercato concorrenziale dipende dall’allocazione iniziale.
Consideriamo le allocazioni nello scambio definite nella Fig. 7 dove è rappresentata la scatola
di Edgeworth relativa allo scambio. Nella configurazione iniziale W l’individuo A possiede più
dell’individuo B. L’equilibrio competitivo relativo ad W è D. Anche l’allocazione C, la cui
configurazione iniziale è A si trova sulla curva dei contratti e dunque è, dunque anch’essa è Paretoefficiente con la differenza che è preferibile all’allocazione D sulla base di un giudizio di equità.
I due punti C e D rappresentano entrambi allocazioni ottime in senso paretiano ma partendo
dalla condizione W non potremmo mai arrivare alla più equa allocazione C.
A questo proposito il secondo teorema del benessere dice che attraverso un’opportuna
redistribuzione iniziale delle risorse è possibile raggiungere un qualsiasi ottimo paretiano come
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equilibro competitivo. Questa redistribuzione iniziale può essere realizzata dall’autorità centrale
attraverso trasferimenti in somma fissa o lump-sum che porteranno il sistema dal punto W al punto A.
Fig. 7 Curva dei contratti nello scambio
Il teorema quindi, ci dice che qualunque punto efficiente può essere raggiunto purché le
autorità di politica economica abbiano a disposizione gli strumenti appropriati, considerate le modalità
di funzionamento del sistema economico e il comportamento degli agenti.
Per conseguire quest’obiettivo l’autorità centrale dovrebbe non solo conoscere le possibilità
tecnologiche e le dotazioni iniziali dei singoli individui, ma anche le loro funzioni di utilità. Se ciò non
fosse non sarebbe possibile determinare con esattezza i trasferimenti tali da poter modificare le
dotazioni iniziali nel senso voluto (passare da W ad A). E’ anche vero, però che se l’autorità centrale
fosse in grado di sapere ciò non si giustificherebbe la necessità di arrivare tramite il meccanismo di
mercato all’allocazione C potendola raggiungere direttamente.
Inoltre, e questo sembra essere l’aspetto più paradossale, mentre il secondo teorema del
benessere è chiamato in causa allo scopo di sostenere la tesi secondo cui lo Stato deve avvalersi del
mercato, esso è valido sono in quelle circostanze in cui non c’è alcun bisogno di avvalersi del mercato
come meccanismo allocativo.
A ciò si aggiunga che l’esistenza di un’infinità di punti Pareto ottimo implica la necessità di
definire un criterio per metta di individuare un punto socialmente ottimo lungo la frontiera delle
possibilità di utilità. È necessario dunque, costruire un funzione di benessere sociale che permetta di
ordinare di ordinare sulla base dei giudizi di valore preminenti nella collettività le diverse
configurazioni efficienti.
I fallimenti del mercato
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Tuttavia, come già faceva notare Adam Smith, il valore economico di un bene, cioè il suo
valore di scambio (il prezzo), non necessariamente è in relazione con la sua utilità, cioè con il suo
valore d’uso. Questa dicotomia induce ad un uso inefficiente delle risorse per le quali non è possibile
identificare un valore di scambio, ossia per le quali il sistema dei prezzi è incompleto. La loro gratuità
ne incentiva lo spreco. Tali sono ad esempio le risorse naturali (aria, acqua, ecc.) da sempre
considerate beni liberi, l’esistenza delle quali evidenzia l’insostenibilità dell’identificazione tra teoria
del valore e teoria dei prezzi.
I "fallimenti di mercato” altro non sono che il venir meno delle ipotesi assunte nel teorema,
"imperfezioni" del mercato come le esternalità, i beni pubblici, l'assenza di mercati futuri e
contingenti, i rendimenti di scala crescenti, ecc. Tali fallimenti, assai diffusi nella realtà, forniscono la
motivazione fondamentale dell'intervento pubblico come correttivo delle imperfezioni e delle
inefficienze del libero mercato (Petretto, 1993).
Infatti, nonostante l’operare della “mano invisibile”, ossia di una dinamica auto-regolatrice del
mercato che garantisce la realizzazione di una produzione efficiente e di un’allocazione ottimale delle
risorse, si verificano fenomeni che la teoria economica qualifica come fallimenti del mercato.
Con il termine fallimento del mercato si vuole individuare una situazione in cui i mercati non
sono in grado di organizzare la produzione in maniera efficiente, o non allocano efficientemente beni e
servizi ai consumatori. Fondamentalmente ci si riferisce a situazioni in cui l'inefficienza risultante è
notevole, o quando istituzioni esterne al mercato potrebbero essere impiegate per raggiungere un
risultato preferibile.
Considerata la su esposta relazione tra prezzo, efficienza e allocazione possiamo precisare che
si ha fallimento del mercato quando un bene viene utilizzato senza che a tale uso corrisponda
l’individuazione di un prezzo. Per questi beni, cioè, non esiste un «contesto negoziale» per cui è
impossibile dar luogo al processo di negoziazione e quindi, alla formazione del prezzo.
Fondamentalmente quindi, i fenomeni relativi al fallimento del mercato sono esaminati sulla
base delle relazioni che intercorrono tra teoria del valore e teoria dei prezzi, quale mancata
convergenza del sistema economico verso un determinato equilibrio ed evoluzione dello stesso
secondo criteri non ottimali dal punto di vista dell’efficienza e/o equità e permanga in tali posizioni
non ottimali.
Quando si parla di fallimento del mercato distinguiamo:
1)
Fallimenti micro. Una prima fonte di fallimenti del mercato è legata alla presenza
di costi e/o benefici esterni al mercato stesso. Esempi sono: beni pubblici; mercati
non concorrenziali; esternalità; mancanza di definizione di diritti di proprietà,
asimmetrie informative nella specifica considerazione delle problematiche relative
a selezione avversa, azzardo morale, problemi principale-agente.
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2)
Fallimenti macro: Diversa origine, invece, hanno imperfezioni del mercato, come
disoccupazione, inflazione e disequilibrio le quali individuano essenzialmente una
mancata convergenza del sistema economico verso l’equilibrio.
Il tema dei fallimenti del mercato e i relativi interventi con cui poterli affrontare e sanare è
fonte di un vivace dibattito tra le diverse scuole di pensiero economico tra cui la scuola neoclassica,
keynesiana, austriaca, public choice, liberista e marxista
La Scuola neoclassica individua come fallimento di mercato essenzialmente situazioni in cui il
mercato dà adito a inefficienze. Da questo punto di vista, quindi qualunque risultato efficiente in
senso paretiano, non è considerato un fallimento del mercato, a prescindere dal fatto che serva o meno
l'interesse pubblico.
Un esempio può chiarire quanto detto. L’esistenza di disuguaglianze nella distribuzione della
ricchezza e del reddito potrebbe secondo alcuni essere considerata una situazione contraria
all’interesse pubblico. Ciononostante tale risultato può essere comunque essere efficiente in senso
paretiano.
Supponiamo che si abbia un caso in cui tutta la ricchezza di un'economia sia concentrata nelle
mani di un singolo individuo, e tutti gli altri individui non possiedano nulla. Questa situazione
paradossalmente può essere configurata come un ottimo paretiano; non è possibile, cioè migliorare la
posizione degli individui che non possiedono nulla senza peggiorare quella dell'individuo che detiene
tutta la ricchezza. Quindi una redistribuzione volta a ridurre la disuguaglianza sarebbe inefficiente
sotto il profilo paretiano e secondo l’ottica neoclassica sarebbe questa situazione e non la
concentrazione del reddito nelle mani di un’unica persona a qualificarsi come fallimento del mercato4
Partendo sempre dalla matrice neoclassica, nell’individuare le motivazioni del fallimento del
mercato la moderna macro-economia keynesiana e neokeynesiana sottolinea l'incapacità di conseguire
il pieno impiego delle risorse. Una volta modificato per tener conto dei fallimenti del mercato, il
modello Walrasiano di equilibrio economico generale usualmente produce risultati di tipo keynesiano.
Nella prospettiva della nuova macroeconomia keynesiana, si pone l'accento sui ritardi
nell'aggiustamento di grandezze quali prezzi e (soprattutto) salari.
Diversa posizione è quella proposta dalla scuola austriaca e della public choice.
I sostenitori del laissez faire (scuola austriaca) spesso negano l'esistenza di fallimenti del
mercato, o li considerano eventi accidentali, irrilevanti e temporanei. Non a caso il fenomeno delle
esternalità è spesso sminuito, mutandone il nome in 'neighbourhood effects' (effetti "collaterali").
4
Dal punto di vista neoclassico, il tema della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza originante dal
passato di un'economia è completamente separato dal problema del fallimento del mercato, almeno in un'analisi di tipo
statico. Questo risultato non è necessariamente vero nel caso di modelli di sapore neoclassico che esplicitamente incorporino
una dinamica. In particolare, diversi economisti neoclassici sono propensi a vedere un fallimento del mercato in quelle
situazioni in cui il libero operare delle forze di mercato conduce a una crescente disuguaglianza nella distribuzione della
ricchezza. L'abilità di coloro che detengono una quota maggiore di ricchezza di usare il proprio potere economico per
incrementarla, nello specifico, costituirebbe nella prospettiva di diversi ricercatori un fallimento del mercato.
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Analoga posizione è sostenuta dagli economisti della scuola della public choice per i quali
l’esistenza di fallimenti del mercato non implica la necessità o l'opportunità dell'intervento del
governo, in quanto i costi legati ai fallimenti del governo potrebbero essere maggiori di quelli legati al
fallimento del mercato che con l’intervento pubblico si cerca di mitigare. Infatti, il fallimento del
governo è visto come il risultato di problemi inerenti alla democrazia, nonché del potere di gruppi di
potere che cercano posizioni di rendita (rent seekers), nel settore privato come nella burocrazia
governativa.
Agli occhi di queste scuole, i fallimenti del mercato sono letti soprattutto come assenze di
mercato. In alternativa, si argomenta che i risultati chiamati "fallimenti del mercato" non sarebbero in
realtà tali, se la presenza di mercati non ne evita lo sviluppo. Inoltre, condizioni che molti
considererebbero negative sono spesso viste come effetti della distorsione delle forze del mercato da
parte dell'intervento dello Stato.
Gli esponenti delle scuole liberali vedono nei fallimenti del mercato un problema comune a
qualsiasi sistema di mercato non regolamentato per cui l'intervento dello Stato nell'economia dovrebbe
essere finalizzato ad assicurare al contempo l'efficienza e la giustizia sociale (quest'ultima solitamente
interpretata in termini di limite alle disuguaglianze di ricchezza e reddito).
Un rilevante argomento contro tali tesi è che esse riporrebbero troppa fiducia nella buona fede
del governo e/o nella capacità dei cittadini di controllarne l'operato con strumenti democratici. Come
osservato, i sostenitori del laissez-faire vantano numerosi esempi di fallimento del governo, in cui
l'intervento dello Stato o del governo nei mercati ha prodotto risultati peggiori. I neoliberali replicano
che si dovrebbe ricercare una combinazione ottimale di mercato e Stato, alla luce dei fallimenti di
entrambi. Naturalmente, dal punto di vista della maggioranza degli economisti i mercati non
esisterebbero se lo Stato non fosse garante dei diritti di proprietà e dei contratti, per cui l'idea di un
mercato completamente libero sarebbe irrealizzabile.
Nelle speculazioni della scuola marxista elemento fondamentale è rappresentato dal sistema
dei diritti di proprietà rispetto ai quali si argomenta che le risorse dovrebbero essere allocate in
maniera diversa da quella che realizza il mercato. Il fallimento del mercato nella sua accezione tipica
non rientra in genere tra le loro argomentazioni di tale scuola. Più in generale il marxismo non
individua nel "mercato perfetto" (senza, cioè, fallimenti) un obiettivo ragionevole e quindi, 'qualunque'
mercato condurrebbe ad un risultato inefficiente e non auspicabile in un ordinamento democratico. In
sintesi, la scuola di pensiero marxista considera i fallimenti del mercato inerenti a qualunque economia
capitalista.
La presenza di un pianificatore centrale, o di comitato di pianificazione, democraticamente
responsabile nei confronti del popolo permetterebbe di evitare situazioni di fallimenti di mercato che
http://it.wikipedia.org/wiki/Fallimento_del_mercato#Interpretazioni
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non sono più qualificabili come situazioni specifiche - tipicamente intese come "anomalie" – e frutto
dell’inefficienza di mercato, essendo in sé questo qualificato come un fallimento.
Sebbene non discuta esplicitamente il tema dei fallimenti del mercato, la scuola marxista non
manca di osservare che i leader di governo e coloro che traggono beneficio dai fallimenti del mercato
(titolari di imprese che inquinano, monopolisti, etc.) spesso formano alleanze, così che il governo non
è un potere neutrale, in grado di apportare soluzioni tecnocratiche nel nome del popolo. Sotto questa
prospettiva, il fallimento del mercato accompagnerebbe quello del governo. Soltanto la pressione
popolare sia sul governo che sulle imprese capitaliste che si avvantaggiano del fallimento del mercato
possono portare a un'efficace riduzione dei problemi legati ai fallimenti del mercato.
Il ruolo dello Stato nell’economia.
Le diverse considerazioni in merito all’esistenza dei fallimenti di mercati implica
necessariamente una diversa giustificazione dell’intervento dello Stato nell’economia.
Sotto certe condizioni il modello di mercato ci dice che la combinazione di prezzi e quantità
che realizza il massimo tornaconto individuale realizza al contempo il massimo benessere per la
collettività nel suo complesso, ossia realizza un equilibrio di ottimo per tutta la collettività. Il libero
mercato, dunque, genera la migliore allocazione delle risorse, l’efficienza paretiana e garantisce lo
stimolo alla crescita e al progresso economico. Il ruolo dello stato in questo contesto non può che
essere marginale in quanto non può provocare che danni.
Quindi, se è vero che i mercati sono efficienti perché lo stato dovrebbe intervenire e quale
dovrebbe essere il suo un ruolo nell’economia? L’intervento del governo si verifica quando i mercati
non operano in maniera ottimale e non sempre allocano le risorse in modo efficiente così da
raggiungere il massimo di benessere sociale. Attraverso l’intervento dello stato è possibile correggere
le distorsioni create dal fallimento di mercato e di migliorare l’efficienza nel modo in cui i mercati
funzionano.
Adam Smith nel 1776 nella sua opera la ricchezza delle nazioni sosteneva che il
perseguimento degli interessi individuali (profitto) in un mercato concorrenziale avrebbe garantito,
attraverso l’operare della mano invisibile, il perseguimento dell’interesse pubblico.
Mentre i mercantilisti propugnavano un intervento energico dello Stato, Adam Smith, forte
anche delle esperienze del suo tempo, sottolineò la possibilità che non sempre coloro cui era affidato il
compito di governare, effettivamente avrebbero perseguito l’interesse sociale. L’intervento dello Stato,
dunque non è necessario, anche perché in alcuni casi, anziché risolvere può aggravare la situazione.
Secondo l’impostazione smithiana, per poter agire nell’interesse pubblico non è necessario
affidarsi ad un ente superiore in quanto il perseguimento dell’interesse privato garantirebbe
l’ottenimento dell’interesse pubblico. L’idea è che se un bene o un servizio cui i consumatori
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attribuiscono un valore non viene prodotto, essi saranno disposti a comprarlo. Gli imprenditori in vista
di un profitto saranno disposti a produrlo e, dunque, a colmare l’eventuale deficienza di mercato e
avendo come obiettivo il profitto, andranno a ricercare tecniche di produzione sempre più efficienti e,
soprattutto, prodotti atti a soddisfare completamente i bisogni dei consumatori. Quindi, la
massimizzazione del welfare economico può conseguirsi solo attraverso l’azione del libero mercato e
il perseguimento dell’interesse individuale. Tutto ciò garantirebbe il raggiungimento di un equilibrio
generale.
Successivamente, però, si comprese che in alcune situazioni il libero mercato non assicura la
produzione di tutti i beni e servizi di cui la società necessità.
Il fallimento del mercato e fenomeni come fluttuazioni nei prezzi ed esternalità sottolinearono
la necessità di interventi che potessero correggere e migliorare il sistema economico attraverso
l’utilizzo di strumenti di cui solo lo Stato dispone (tassazione, spesa pubblica, incentivi, ect). Solo così
sarebbe stato possibile conseguire il massimo livello di produzione e di welfare.
Da questo punto di vista il 1920 rappresenta una pietra miliare nella definizione del ruolo dello
Stato nell’economia di mercato. In questo anno Pigou pubblica The Economics of Welfare con cui
dimostra che l’intervento dello Stato, in qualunque forma realizzato, tassazione, spesa pubblica o altro,
è necessario affinché l’economia raggiunga un ottimo livello di produzione.
Pigou, dunque apre la strada a ciò che la Grande Depressione del 1930 e la pubblicazione della
General Theory di Keynes J. M., (1936) sancirono come definitivi compiti dello Stato: allocazione,
redistribuzione e stabilità .
Da un lato, la Depressione del 1930 e dall’altro la General Theory con cui Keynes prospettava
l’idea di un’economia fondamentalmente instabile, instabilità cui probabilmente si doveva attribuire la
Grande Depressione, indussero gli economisti ad una riconsiderazione del ruolo dello Stato.
La nuova fiducia nella capacità regolatrice dello Stato, la disponibilità di strumenti attraverso
cui poter definire politiche ottime, condussero alla definizione di una serie di interventi che
caratterizzarono il decennio tra il gli anni ‘60 e la prima metà degli anni ‘70. In particolare, dal 1960 la
politica economica fu sostanzialmente volta a stabilizzare l’economia attraverso interventi di fine
tuning; gli avvenimenti di quegli anni, tra l’altro, non fecero che consolidare questa linea di condotta
da parte dello Stato: per più di otto anni l’economia non conobbe periodi di recessione .
La situazione cambiò radicalmente agli inizi degli anni ’70. Il cambiamento, però, non fu
certamente dovuto alla posizione di quei pochi economisti pessimisti circa l’attività di stabilizzazione
fino ad allora svolta dallo Stato, quanto piuttosto agli eventi. In questi anni, infatti, l’economia
statunitense (e in seguito quella dei paesi avanzati) cominciò ad entrare in una fase di recessione: la
disoccupazione e l’inflazione raggiunsero livelli mai conosciuti prima di allora.
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Il risultato di ciò fu un riesame dell’efficacia delle politiche di stabilizzazione fino ad allora
perseguite e, soprattutto, dell’intervento dello Stato. Non pochi economisti in quel periodo ritornarono
alla visione pre-keynesiana, secondo cui il principale obiettivo dello Stato era “First, do no harm” .
Nella metà degli anni ’70 la convinzione di poter controllare l’economia, e quindi
dell’opportunità di un ruolo attivo dello Stato andò via via scemando. Fu messa in discussione la
modellistica che aveva supportato quest’idea e contemporaneamente la possibilità di definire politiche
macroeconomiche ottime. Lucas (1976) dimostrò, infatti, la difficoltà di determinare politiche ottime,
sulla base della considerazione che l’annuncio di queste da parte dei policy-maker avrebbe comportato
cambiamenti nei comportamenti degli agenti economici e, dunque modifiche nei parametri su cui la
politica era stata determinata in sede di modellizzazione. Quindi, le politiche monetarie e fiscali, pur
nella loro massima efficacia, non avrebbero avuto nessun effetto sulle variabili economiche. In
particolare, “[…] deterministic policy rules can have no effect on the joint probability distribution
functions of real economic variables, but that stochastic policy behaviour can increase the variability
of real variables relative to their full information values” .
Ben presto, però fu evidente che l’idea di una neutralità della politica, quale evidenziata dalla
teoria delle aspettative razionali, non poteva essere sostenuta. Infatti, l’inesistenza di contingent
forward markets , la presenza di informazioni imperfette e la qualificazione dei mercati come non
market-clearing condurranno ad una rivalutazione del ruolo dello stato e delle politiche economiche
quale strumento di raggiungimento di specifici obiettivi.
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