Le ragioni dell’intervento pubblico: i “fallimenti del mercato” Economia del Benessere (versione provvisoria) Marisa Faggini – Università di Salerno [email protected] La teoria dell'intervento pubblico insieme con la Public finance (Hammond, 1990) costituiscono la base dell'Economia pubblica per l'identificazione delle caratteristiche e delle motivazioni dell'intervento pubblico nell'economia. Si tratta di un argomento assai vasto per comprendere il quale è necessario illustrare i concetti di mercato, di efficienza allocativa e di configurazione industriale attraverso cui comprendere e descrivere l'"ambiente" nel quale operano imprese e consumatori, utilizzare i concetti di giustizia distributiva e di libertà (sia in senso positivo sia negativo) per valutare i diversi assetti del mercato, dibattere dei fallimenti di mercato e dei processi decisionali democratici per giungere finalmente alla giustificazione di un intervento pubblico ed alle conseguenti difficoltà che incontra l'azione statale. La “mano invisibile e la dinamica auto-regolatrice del mercato: caratteristiche e principi di funzionamento. Partiamo innanzitutto dalla definizione e dalla descrizione di ciò che tradizionalmente si intende per mercato. Il mercato è quella struttura che garantisce un’allocazione efficiente delle risorse e il luogo in cui beni e servizi vengono scambiati contro moneta, cioè il luogo di “incontro” di offerta e domanda. Attraverso il modello di mercato si spiega come avvengono le scelte dei soggetti economici rispetto ai beni e come queste scelte si raccordano tra loro in maniera che ciascuno massimizzi il proprio benessere individuale. Il modello di mercato è in grado di dirci come e quando si realizza una certa combinazione di prezzi e quantità in corrispondenza della quale ciascuno raggiunge l’equilibrio ottimo. La quantità relativa dei beni e servizi offerti e domandati determina i prezzi, i quali rappresentano la “misura” fondamentale del valore delle risorse e della loro scarsità relativa ed influenzano le scelte che gli operatori economici devono effettuare. Il consumo o l’uso di una certa risorsa sarà tanto più elevato e/o intenso quanto più il prezzo di quella risorsa è basso1 . Il prezzo, quindi, può essere visto come un indicatore di scarsità. Ciò che non ha prezzo ‘non esiste’ e quindi, gli agenti economici nel prendere le proprie decisioni includono nel proprio calcolo tutto quello per il cui utilizzo è necessario pagare un prezzo. Il processo di contrattazione, che 1 Ovviamente tale relazione tra prezzo e quantità domandata riguarda essenzialmente i beni cosiddetti normali, da distinguere dai beni Giffen la cui domanda diminuisce al diminuire del prezzo e dai beni status symbol la cui domanda aumenta all’aumentare del prezzo. Varian (2002) 1 caratterizza il libero mercato, permette di attribuire un prezzo a qualsiasi merce, ovverosia a qualsiasi elemento del mondo fisico o biologico al quale gli individui attribuiscono un valore (utilità) o una funzione nella sfera della produzione, identificando così una relazione stringente tra teoria del valore e teoria dei prezzi. La rilevanza scientifica di questa relazione poggia, ovviamente, su un’ipotesi particolarmente rigida della teoria del valore di impostazione neoclassica. Il sistema dei mercati deve corrispondere perfettamente al sistema delle transazioni. In altre parole, affinché teoria del valore e teoria dei prezzi possano essere identificate, tutte le transazioni devono essere transazioni di mercato. Cioè, deve esistere un contesto negoziale, appunto il mercato, in cui ha luogo il processo di negoziazione che conduce alla formazione del prezzo in virtù del quale si realizza lo scambio; ciò che si richiede è la realizzazione di una transazione volontaria. Ne segue quindi, che, dato il comportamento massimizzante2 degli agenti economici un prezzo elevato rappresenta un incentivo all’uso efficiente della risorsa. Poiché il prezzo di una risorsa sarà tanto più alto quanto più la risorsa è scarsa relativamente alla quantità domandata, il mercato tiene conto di tale scarsità della risorsa aumentandone il prezzo e, quindi ne garantisce un'allocazione efficiente. Strettamente connesso alle nozioni di equilibrio e di massimizzazione è il concetto di efficienza allocativa. L’efficienza è un processo attraverso il quale i consumatori ottengono il massimo dalle risorse presenti nel sistema. Nella teoria economica si distinguono tre nozioni di efficienza: 1) Efficienza produttiva. Si ha quando non è possibile aumentare la quantità prodotta se non aumentando l’impiego di un input. Nel caso che ci sia un solo input variabile e che la funzione di produzione sia f(x), c’è efficienza (produttiva) quando y = f(x), mentre c’è inefficienza quando y < f(x). 2) Efficienza economica. Si ha quando non è possibile aumentare la quantità prodotta se non aumentando il costo. La condizione che la identifica è SST = w1/w2, ossia il saggio di sostituzione tecnica eguagli il rapporto dei prezzi dei fattori (l’isocosto è tangente all’isoquanto). Altrimenti c’è inefficienza. 3) Efficienza Allocativa. L’efficienza allocativa si ottiene quando non è possibile riorganizzare la produzione o il consumo in modo tale da incrementare il soddisfacimento di un individuo senza ridurre quello di un altro. Il criterio utilizzato per misurare l’efficienza allocativa è quello paretiano in base al quale un’allocazione è Pareto efficiente o Pareto ottima se non esiste nessuna altra allocazione raggiungibile tale che l’utilità di almeno un agente è aumentata senza diminuire l’utilità degli altri agenti. Attraverso tale criterio è possibile valutare e confrontare le 2 L’approccio economico per la comprensione di un problema consiste nell’identificare gli agenti economici e determinare poi che casa essi massimizzano e a quali vincoli siano soggetti 2 allocazioni delle risorse che scaturiscono come soluzioni di equilibrio nei diversi mercati e determinare se l’intervento dello Stato, con finalità allocative3 può essere desiderabile. Economia del benessere Il concetto di efficienza allocativa rappresenta un punto cardine dell’Economia del benessere che, come branca della Teoria Economica, studia la desiderabilità sociale di allocazioni economiche alternative. Se il singolo consumatore valuta le allocazioni dal punto di vista della sua utilità, con più di un agente occorre ridefinire la nozione di allocazione ottima dal punto di vista sociale e non solo individuale. Scopo principale dell’Economia del benessere, quindi è quello di fornire criteri sulla base dei quali è possibile giudicare proposte alternative di politica economica. Ovviamente la valutazione in questione non si basa sulla definizione di una regola oggettiva, applicabile e valida a prescindere dal contesto in cui si opera, per l’evidente ragione che qualunque regola si baserà su di un qualche giudizio di valore. Ciò, tuttavia non impedisce che si possa comunque esprimere una desiderabilità di politiche economiche alternative. Per questa ragione l’economia del benessere appartiene all’economia normativa, che diversamente dall’economia positiva, volta all’analisi delle conseguenze di una politica economica, esprime giudizi sulla desiderabilità di un intervento di politica. Attraverso un apparato microeconomico, dunque l’Economia del benessere analizza come i risultati teorici che identificano le condizioni di ottimo individuale possono essere estesi alle valutazioni dell’ottimo sociale. Obiettivo, quindi è individuare qual è la configurazione ottimale di un sistema economico in cui siano presenti più individui eterogenei, ossia con diverse preferenze e con diverse dotazioni iniziali di fattori e di beni. Si assume che gli individui siano razionali e siano i migliori “giudici di se stessi”; si adotta una visione non organicistica della società nel senso che lo “Stato” esiste, ma non è un’autonoma fonte di valori: la volontà dello Stato è nulla più di quella che risulta dall’aggregazione delle preferenze individuali; si adotta il criterio di Pareto (principio di efficienza o di ottimalità paretiana), secondo il quale un’allocazione delle risorse che migliori il benessere di un individuo senza arrecare danno agli altri rappresenta un miglioramento del benessere della società. Si parte da un’analisi di equilibrio parziale per giungere ad una configurazione di equilibrio generale in cui si individuano le interdipendenze esistenti tra i mercati. L’analisi microeconomica relativa all’individuazione dell’ottimo del consumatore e dell’impresa ci permette di esaminare il funzionamento del singolo mercato in isolamento, in un contesto cioè di equilibrio economico parziale in cui l’unica variabile rilevante per l’equilibrio è il prezzo del bene. Si trascura l’influenza degli altri prezzi sulla domanda e sull’offerta di quel bene. Gli altri prezzi vengono assunti dati (ipotesi di ceteris paribus). 3 Musgrave (1959) individua come funzioni dello stato essenzialmente quella a) allocativa; distributiva e di stabilizzazione 3 Queste assunzioni hanno senza dubbio rende l’analisi dell’equilibrio più semplice, tuttavia si perde in precisione, in quanto si trascura l’interdipendenza esistente tra tutti i mercati. Il modello che considera esplicitamente i legami che si stabiliscono tra i diversi mercati è quello di equilibrio generale o walrasiano. Prendendo in considerazione le interdipendenze esistenti tra i mercati è possibile seguire l’effetto, trasmesso agli altri, di un disturbo su di un mercato e il nuovo equilibrio raggiunto in queste nuove condizioni. È chiaro che l’equilibrio si realizza solo quando tutti i consumatori, (ognuno dei quali massimizza la propria funzione di utilità sotto un vincolo di bilancio), tutte le imprese (ognuna delle quali massimizza la propria funzione di profitto considerando i vincoli di costo) e tutti i mercati raggiungono una situazione di quiete: non ci deve essere nessuna tendenza al cambiamento. L’equilibrio generale è, quindi una particolare configurazione che si instaura attraverso la composizione delle interazioni fra consumatori e produttori (si compongono gli equilibri parziali) I consumatori distribuiscono il loro reddito fra i diversi beni (presenti e futuri) cercando la massima soddisfazione, che si ottiene quando le utilità marginali in valore degli stessi sono identiche. I produttori, che mirano alla massimizzazione del profitto, fissano il livello di output in modo che il costo marginale di produzione eguagli il prezzo di vendita; a sua volta il livello di output è ottenuto impiegando fattori produttivi, la cui domanda è determinata dal prezzo degli stessi. In questo modello l’equilibrio si calcola, non su un mercato alla volta, ma simultaneamente su tutti i mercati. Questo induce a dover considerare l’ottimalità di una condizione o di un’allocazione non più analizzando unicamente ciò che è perseguito da un singolo agente ma da più soggetti. Nell’economia del benessere elemento fondamentale nella valutazioni di allocazioni alternative è, dunque, il criterio Paretiano. A tal proposito diremo che uno stato sociale A è Pareto superiore ad uno stato sociale B se e solo se vi è almeno un individuo che sta meglio in A che non in B, senza che nessun altro individuo stia peggio in A che non in B. L’ottimalità paretiana denota uno status quo in cui non è possibile trovare una situazione Pareto superiore per cui esistono tante situazioni Pareto ottimali tra loro non confrontabili tante quante sono le distribuzioni del reddito possibili. Rispetto all’infinità di situazioni Pareto-ottime bisogna sottolineare che il criterio paretiano è scarsamente selettivo in quanto non permette di valutare i benefici di alcuni e gli oneri di altri. La componente individualistica che informa il criterio paretiano impedisce di poter valutare la desiderabilità delle diverse alternative sulla base di un giudizio morale. Un esempio ci può chiarire quanto detto. Supponiamo che una società sia composta da ricchi e da poveri. Ora, l’intervento di politica economica che togliesse ai ricchi, ad esempio gravando questi con un’imposta sul reddito, e utilizzasse il gettito per sussidiare i poveri condurrebbe ad una situazione non Pareto efficiente, nel senso che è migliorata la condizione dei poveri, che ora sono meno poveri ma è peggiorata la situazione dei ricchi che ora sono un po’ meno ricchi. Quindi quello che, nell’ottica 4 paretiana sarebbe un intervento non proponibile, da un punto etico e di giustizia distributiva sarebbe, invece auspicabile. Inoltre, il criterio paretiano non può essere considerato un criterio completo per la valutazione dei diversi interventi di politica economica poiché non solo non ci permette di scegliere tra due situazioni Pareto-ottime quella da preferire, ma non ci consente neanche di verificare tra due situazioni Pareto-superiori se la variazione di benessere rispetto ad una qualche situazione di partenza abbia interessato individui diversi e quindi, da questo punto di vista preferibile ad un’altra situazione pur Pareto ottima. Quindi, il criterio di Pareto opera una netta distinzione fra l’efficienza allocativa di una particolare configurazione economica e il giudizio di equità sulla stessa. I margini d’intervento pubblico all’interno di un sistema economico concorrenziale di tipo neoclassico (walrasiano) sono delimitati dai due teoremi fondamentali dell’economia del benessere, i quali rappresentano i principali risultati teorici raggiunti dagli economisti della "nuova economia del benessere" (Arrow, Debreu mentre Pigou e a Pareto sono i rappresentanti della vecchia economia del benessere). Primo teorema fondamentale. Enunciato: “Per ogni allocazione iniziale delle risorse, il sistema di mercato concorrenziale garantisce un’allocazione finale efficiente in senso paretiano”. Il Primo Teorema dell’Economia del Benessere individua le caratteristiche che il sistema economico di mercato deve rispettare per determinare (spontaneamente) allocazioni efficienti. Ad Arrow e Debreu (1951) si deve la dimostrazione di questo primo teorema. Basandosi sulle ipotesi che i consumatori e le imprese agiscano da price-takers, cioè adottando comportamenti perfettamente concorrenziali, che esista un insieme completo di mercati, tramite i quali le merci vengono allocate agli agenti, e che sia presente una perfetta informazione degli agenti, i due economisti giunsero alla conclusione che l'eventuale equilibrio competitivo raggiunto, se esiste, è efficiente in termini paretiani. In altre parole, mercati perfettamente competitivi e completi portano ad allocazioni Pareto-efficienti. Una tendenza largamente dominante ritiene che nel giudizio di efficienza ci si debba affidare alla percezione che i singoli individui hanno del proprio benessere individuale (sovranità del consumatore); si assume, cioè, che ciascuno sia il miglior giudice dei propri interessi e ci si rimette pertanto alla sua insindacabile valutazione. Lo strumento attraverso cui individuare l’ottimo individuale (WELFARISMO) è dato dalle preferenze o dall’utilità. Nel caso di un solo agente l’allocazione ottima massimizza l’utilità. Con due o più agenti al crescere dell’utilità di uno può corrispondere una riduzione dell’utilità dell’altro. Inoltre, avendo un proprio sistema di preferenze e un dato ammontare di risorse (dotazioni), ciascuno giudicherà diversamente un determinato stato del mondo. Come si può allora, muovendo dai giudizi individuali, 5 pervenire a un giudizio di efficienza che riguardi l’intera collettività? Il giudizio di efficienza, quindi sembra indissolubilmente legato al giudizio di equità, perchè non pare possibile evitare di valutare gli interessi degli uni a fronte degli interessi degli altri. Il primo problema, inerente l’individuazioni di condizioni di efficienza per la collettività sono analizzate dal primo teorema dell’economia del benessere. Per dimostrare il primo teorema dell’economia del benessere è necessario che: • esistano solo beni privati, omogenei e perfettamente divisibili; • l’utilità dei consumatori dipende solo dai beni che essi consumano e riflette la legge dei SMS decrescenti; e che sia abbia: • efficienza nello scambio; • efficienza nella produzione; • efficienza generale Efficienza nello scambio Un’allocazione è Pareto-efficiente nello scambio se è realizzabile e se non esiste un'altra allocazione tale da porre almeno un individuo in una posizione migliore senza peggiorare la situazione di nessun altro. Consideriamo un’economia (economia di puro scambio), in cui non esiste produzione. Quindi avremo: • due soli individui A e B); • due beni X e Y; • le dotazioni iniziali; • le curve di indifferenza. Ciascun individuo esprime le proprie preferenze relativamente ai due beni X e Y. (Fig. 1) Fig.1 Preferenze degli individui A e B 6 Attraverso queste configurazioni costruiamo la scatola di Edgeworth (Fig. 2) rappresentata da un rettangolo la cui dimensione dei lati rappresenta le quantità disponibili dei due beni, e i cui punti interni rappresentano tutte le allocazioni possibili. Indichiamo con (Ax, Ay) e (Bx, By) le dotazioni iniziali di beni di ciascun soggetto, e rispetto all’origine OA rappresentiamo la situazione dell’individuo A, ossia tutte le sue curve di indifferenza e rispetto ad OB la situazione dell’individuo B. Muoversi da un punto all’altro della scatola significa realizzare una riallocazione tale per cui l’aumento delle quantità di un bene per un individuo eguaglia la diminuzione delle quantità dello stesso bene per l’altro individuo. Condizioni essenziale è che la quantità totale del bene X dovrà distribuirsi tra i due individui in modo tale che Ax + Bx,=X e Ay + By= Y. Indichiamo con W la distribuzione iniziale dei due beni tra i due soggetti (Fig. 2). In questo punto le curve di indifferenza dei due soggetti A e B si intersecano, cioè i saggi marginali di sostituzione (SMSxy) delle due curve di indifferenza misurati in quel punto sono tra loro diversi. L’area ricompressa dall’intersezione delle due curve d’indifferenza rappresentano un miglioramento paretiano rispetto a W. A partire dalla situazione delineata in W gli individui saranno disposti a scambiarsi i beni e raggiungere un equilibrio in cui almeno uno ha un maggiore livello di utilità. Fig. 2 Scatola di Edgeworth 7 Fig. 3 Curva dei contratti Infatti, dal punto W gli individui possono raggiungere il punto C (Fig. 3), il quale rappresenta una condizione in cui l’individuo A non ha modificato la sua utilità si è semplicemente mosso lungo la curva di indifferenza UA1, mentre l’individuo B ha aumentato la sua utilità in quanto l’allocazione definita dal punto C si trova su una curva di indifferenza più alta UB3 rispetto alla UB1. in cui si individua l’allocazione data dal punto W. Nel punto C le curve di indifferenza sono tangenti, cioè i saggi marginali di sostituzione sono uguali (SMS Axy= SMS Bxy). Questa situazione evidenzia l’assenza di ulteriori vantaggi nello scambio. Nel punto C, infatti l’ammontare di Y che A è disposto a scambiare per ottenere un’unità di in più di X è uguale a ciò che B chiede per cedere un’unità di X. Qualunque scambio ulteriore peggiorerebbe la situazione dell’uno o dell’altro rispetto alla situazione definita nel punto C. Dunque, punti come C, E, D in cui le curve di indifferenza sono tra loro tangenti identificano allocazioni Pareto-efficienti. L’insieme delle allocazioni Pareto efficienti forma la curva dei contratti OAOB. La caratteristica dei punti che compongono la curva dei contratti è che rispetto a se stessi non esiste nessun altra situazione che sia preferita da uno dei due agenti senza che essa non sia meno preferita dall’altro. Quindi, in sintesi partendo da una allocazione iniziale W il processo di contrattazione avrà termine solo quando si raggiungerà un punto sulla curva dei contratti, dove nessuno dei due agenti può migliorare la propria posizione di benessere senza che l’altro peggiori la propria. Nell’economia semplificata che abbiamo visto, la contrattazione diretta tra gli individui determina la posizione finale. Nelle economie di mercato dove operano contemporaneamente milioni di persone, l’equilibrio finale si raggiunge attraverso il meccanismo dei prezzi. 8 Quando, ad un determinato prezzo, vi è un eccesso di domanda per un bene molti acquirenti saranno disposti a pagare di più rispetto a tale prezzo. A parità di offerta, il prezzo di quel bene aumenterà rispetto al prezzo degli altri beni e, per questa via, l’eccesso di domanda per quel bene viene riassorbito. Quindi diremo che in equilibrio generale si realizza la condizione: (SMSAx,y)= (SMSBx,y)=px/py che evidenzia da un lato la condizione di ottimalità nel mercato concorrenziale e dall’altro la condizione di efficienza. Da questo consegue l’importantissimo risultato che i mercati competitivi consentono il raggiungimento di un equilibrio nello scambio che è Pareto-efficiente. Efficienza nella produzione Analogo procedimento si utilizza per dimostrare l’efficienza nella produzione: un’allocazione di input è Pareto-efficiente se è realizzabile e se non esiste un'altra allocazione tale da consentire ad almeno un’impresa di produrre una maggiore quantità di output senza che contemporaneamente nessun altra impresa debba ridurre la propria. Diversamente dalla dimostrazione dell’efficienza nello scambio ora consideriamo: • due imprese (A e B); • due fattori produttivi K e L; • le dotazioni iniziali degli input; • gli isoquanti di produzione. La condizione di minimizzazione dei costi (e di massimizzazione dei profitti) implica che ciascuna impresa raggiunge la condizione di ottimo quando: SMSTK,L=w/r, cioè quanto la pendenza dell’isoquanto eguaglia la pendenza dell’isocosto. Per determinare la condizione di equilibrio simultaneo delle due imprese consideriamo la scatola di Edgeworth (Fig. 4) i cui lati rappresentano l’offerta disponibile delle risorse k e l, i punti interni tutte le possibili allocazioni di risorse detenute dalle due imprese. Partendo da un punto W è possibile ottenere delle produzioni sempre più efficienti fintantoché non si raggiunge il punto C o il D, ossia punti in cui gli isoquanti delle due imprese sono tangenti. 9 Fig. 4 Efficienza nella produzione Tali punti, in cui i saggi marginali di sostituzione tecnica(a parità di output quanto deve variare un input in rapporto ad una piccola variazione dell’altro input) tra capitale e lavoro sono uguali, rappresentano allocazioni di input Pareto-efficienti. Quindi, un’allocazione di fattori produttivi è Pareto-ottimale quando i saggi marginali di sostituzione tecnica sono eguali nella produzione di ogni coppia di beni: SMSTXK,L= SMSTYK,L. Dall’unione di tutti questi i punti Pareto efficienti otteniamo (Fig.4) la Curva dei Contratti della Produzione (OxOy). Considerato che in un mercato concorrenziale tutte le imprese pagano gli stessi prezzi per i fattori che impiegano e tutte hanno come obiettivo una produzione che massimizzi i profitti avremo che le due imprese sono congiuntamente in equilibrio quanto SMSTXK,L= SMSTYK,L=w/r. Come per lo scambio anche per la produzione vi saranno un’infinità di allocazioni Pareto efficienti, tuttavia solo uno di questi infiniti equilibri si può realizzarsi ed è quello in cui risulta soddisfatta la condizione SMSTXK,L= SMSTYK,L=w/r. Quindi dato un certo w/r è univocamente determinato il punto di ottimo sulla curva dei contratti. Da quanto detto deriva che i mercati competitivi consentono il raggiungimento di un equilibrio nella produzione che è Pareto-efficiente. Efficienza congiunta nel consumo e nella produzione. Le allocazioni di fattori efficienti possono essere rappresentati, oltre che dalla curva dei contratti nella produzione, anche attraverso la curva di trasformazione, cioè misurando sugli assi delle ascisse e delle ordinate le quantità dei due beni. Le combinazioni di beni associate ai punti di ottimo compongono la curva delle possibilità di produzione OxOy. (o curva di trasformazione Fig. 5). La curva delle possibilità di produzione esprime, per ogni determinata quantità di uno dei due beni, la quantità massima che si può produrre dell’altro bene, considerando fisse la tecnologia e le 10 quantità dei fattori di produzione. In virtù del primo teorema sappiamo che il mercato concorrenziale, partendo da un dato assetto delle dotazioni iniziali, condurrà il sistema ad una allocazione efficiente. Fig. 5 Efficienza generale Scegliamo sulla curva di trasformazione (Fig. 5) un qualsiasi punto C che individua le quantità prodotte dei due beni. Si considerino, ora, le curve di indifferenza riferite a due individui i cui punti ottimi saranno dati dai punti di tangenza delle curve di indifferenza. Lungo la curva dei punti Pareto ottimi nello scambio i SMS sono variabili; infatti al pendenza delle curve di indifferenza nel punto C’ è diversa da quella definita nel punto D’. Tuttavia, è possibile individuare lungo la curva dei contratti una distribuzione dei due beni tra gli individui per cui si verifica che il saggio marginale di sostituzione è uguale al saggio marginale di trasformazione, corrispondente alla combinazione produttiva originaria: rispetto a C sarà C’ e rispetto a D sarà D’ Quindi, il problema di massimizzazione del benessere si risolve scegliendo, lungo la curva delle possibilità di produzione, la combinazione di output che consente di raggiungere la curva di indifferenza di indice più elevato. Si tratterà di individuare un punto di tangenza della curva delle possibilità di produzione e il punto di tangenza tra due curve di indifferenza (Fig. 5). Nel punto di tangenza si ha l’eguaglianza tra il saggio marginale di sostituzione (misurato dalla pendenza della curva di indifferenza) e il tasso marginale di trasformazione (misurato dalla pendenza della curva di trasformazione che esprime quante unità aggiuntive di y possono essere ottenute rinunciando alla produzione di un’unità di x data la tecnologia e le dotazioni complessive di fattori di produzione). Considerando che la condizione di equilibrio nello scambio è data dalla condizione (SMSAx,y)= (SMSBx,y)=px/py e che SMTx,y= px/py 11 Si può, pertanto, enunciare la condizione di efficienza generale: Un’allocazione delle risorse è Pareto-ottimale quando per ogni coppia di beni il saggio marginale di sostituzione è eguale al saggio marginale di trasformazione: SMSx,y=SMTx,y o nello specifico SMSAx,y= SMSBx,y=SMTx,y. Quindi, non è possibile migliorare la condizione di un operatore del mercato senza peggiorare contemporaneamente la condizione di un altro operatore. Il risultato raggiunto è, dunque che i mercati competitivi consentono il raggiungimento di un equilibrio generale che è Pareto-efficiente. Abbiamo così dimostrato il primo teorema dell’economia del benessere: Per ogni allocazione iniziale delle risorse, il sistema di mercato concorrenziale garantisce un’allocazione finale efficiente in senso paretiano. Il primo teorema, stabilendo l’ottimalità paretiana di qualsiasi equilibrio concorrenziale, fornisce una giustificazione normativa del meccanismo di mercato basata sull’idea di efficienza. Il teorema riprende l’ intuizione della mano invisibile formulata originariamente da Adam Smith (1776): l’idea cioè che il perseguimento dell’interesse personale da parte di ogni singolo agente economico porti, attraverso l’operato di una mano invisibile, al raggiungimento di un risultato desiderabile per l’intera collettività. In base a questa intuizione per raggiungere un risultato desiderabile per la collettività non è dunque, necessario che gli agenti siano buoni o altruisti. Secondo teorema fondamentale Enunciato: Per ogni allocazione Pareto-efficiente esiste sempre un’allocazione iniziale delle risorse che, all’interno di sistema di mercato concorrenziale, è in grado di garantirla. Il Secondo Teorema dell’Economia del benessere individua le caratteristiche che il sistema economico di mercato e gli strumenti di intervento pubblico devono avere affinché sia possibile raggiungere, tramite il funzionamento del mercato, allocazioni (efficienti ed) socialmente desiderabili (cioè, eque). Il secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere fornisce, invece, la seconda motivazione tradizionale per l'intervento pubblico in economia. Strettamente legato al primo, esso si basa sulle stesse ipotesi alle quali si aggiungono alcune condizioni tecniche di regolarità e convessità degli insiemi rilevanti, e la possibilità di realizzare trasferimenti a somma fissa, cioè personalizzati e non distorsivi. Ne consegue allora che ogni allocazione Pareto-efficiente, in particolare quella eticamente desiderata sulla base di una qualche teoria end-state della giustizia (Zamagni, 1986; Dasgupta, 1989), può essere raggiunta tramite mercati perfettamente competitivi. In sostanza, decentralizzando l'economia tramite prezzi competitivi ed effettuando appropriati trasferimenti interpersonali si può alterare la distribuzione delle dotazioni iniziali nella direzione voluta. Il secondo teorema affronta un tema diverso. Si consideri la frontiera delle utilità (Fig.6) dove ogni punto su tale frontiera `e ottimo nel senso di Pareto. Tuttavia, i diversi ottimi hanno implicazioni profondamente diverse sotto il profilo dell’equità distributiva. 12 Fig. 6 Frontiera delle utilità In virtù del primo teorema sappiamo che il mercato concorrenziale, partendo da un dato assetto delle dotazioni iniziali, condurrà il sistema ad una allocazione efficiente. Supponiamo, però che questa allocazione non sia desiderabile per ragioni di equità e ipotizziamo esista un altro ottimo, tra quelli possibili, che risulta essere desiderabile anche in termini distributivi. Il secondo teorema risponde permette di risolvere questo problema stabilendo che, al fine di raggiungere l’allocazione desiderata, sarà sufficiente intervenire sulle dotazioni iniziali attraverso opportuni strumenti di redistribuzione - imposte e sussidi in somma fissa - lasciando poi che il mercato faccia il resto. In altre parole, il secondo teorema dimostra che ogni allocazione efficiente, e quindi anche l’allocazione preferita sotto il profilo distributivo, può essere ottenuta mediante un meccanismo di mercato decentralizzato purché si operi una redistribuzione delle dotazioni iniziali attraverso imposte e sussidi in somma fissa (lump sum). È evidente quindi, che la distribuzione finale dei beni fra i soggetti quale è realizzata dal mercato concorrenziale dipende dall’allocazione iniziale. Consideriamo le allocazioni nello scambio definite nella Fig. 7 dove è rappresentata la scatola di Edgeworth relativa allo scambio. Nella configurazione iniziale W l’individuo A possiede più dell’individuo B. L’equilibrio competitivo relativo ad W è D. Anche l’allocazione C, la cui configurazione iniziale è A si trova sulla curva dei contratti e dunque è, dunque anch’essa è Paretoefficiente con la differenza che è preferibile all’allocazione D sulla base di un giudizio di equità. I due punti C e D rappresentano entrambi allocazioni ottime in senso paretiano ma partendo dalla condizione W non potremmo mai arrivare alla più equa allocazione C. A questo proposito il secondo teorema del benessere dice che attraverso un’opportuna redistribuzione iniziale delle risorse è possibile raggiungere un qualsiasi ottimo paretiano come 13 equilibro competitivo. Questa redistribuzione iniziale può essere realizzata dall’autorità centrale attraverso trasferimenti in somma fissa o lump-sum che porteranno il sistema dal punto W al punto A. Fig. 7 Curva dei contratti nello scambio Il teorema quindi, ci dice che qualunque punto efficiente può essere raggiunto purché le autorità di politica economica abbiano a disposizione gli strumenti appropriati, considerate le modalità di funzionamento del sistema economico e il comportamento degli agenti. Per conseguire quest’obiettivo l’autorità centrale dovrebbe non solo conoscere le possibilità tecnologiche e le dotazioni iniziali dei singoli individui, ma anche le loro funzioni di utilità. Se ciò non fosse non sarebbe possibile determinare con esattezza i trasferimenti tali da poter modificare le dotazioni iniziali nel senso voluto (passare da W ad A). E’ anche vero, però che se l’autorità centrale fosse in grado di sapere ciò non si giustificherebbe la necessità di arrivare tramite il meccanismo di mercato all’allocazione C potendola raggiungere direttamente. Inoltre, e questo sembra essere l’aspetto più paradossale, mentre il secondo teorema del benessere è chiamato in causa allo scopo di sostenere la tesi secondo cui lo Stato deve avvalersi del mercato, esso è valido sono in quelle circostanze in cui non c’è alcun bisogno di avvalersi del mercato come meccanismo allocativo. A ciò si aggiunga che l’esistenza di un’infinità di punti Pareto ottimo implica la necessità di definire un criterio per metta di individuare un punto socialmente ottimo lungo la frontiera delle possibilità di utilità. È necessario dunque, costruire un funzione di benessere sociale che permetta di ordinare di ordinare sulla base dei giudizi di valore preminenti nella collettività le diverse configurazioni efficienti. I fallimenti del mercato 14 Tuttavia, come già faceva notare Adam Smith, il valore economico di un bene, cioè il suo valore di scambio (il prezzo), non necessariamente è in relazione con la sua utilità, cioè con il suo valore d’uso. Questa dicotomia induce ad un uso inefficiente delle risorse per le quali non è possibile identificare un valore di scambio, ossia per le quali il sistema dei prezzi è incompleto. La loro gratuità ne incentiva lo spreco. Tali sono ad esempio le risorse naturali (aria, acqua, ecc.) da sempre considerate beni liberi, l’esistenza delle quali evidenzia l’insostenibilità dell’identificazione tra teoria del valore e teoria dei prezzi. I "fallimenti di mercato” altro non sono che il venir meno delle ipotesi assunte nel teorema, "imperfezioni" del mercato come le esternalità, i beni pubblici, l'assenza di mercati futuri e contingenti, i rendimenti di scala crescenti, ecc. Tali fallimenti, assai diffusi nella realtà, forniscono la motivazione fondamentale dell'intervento pubblico come correttivo delle imperfezioni e delle inefficienze del libero mercato (Petretto, 1993). Infatti, nonostante l’operare della “mano invisibile”, ossia di una dinamica auto-regolatrice del mercato che garantisce la realizzazione di una produzione efficiente e di un’allocazione ottimale delle risorse, si verificano fenomeni che la teoria economica qualifica come fallimenti del mercato. Con il termine fallimento del mercato si vuole individuare una situazione in cui i mercati non sono in grado di organizzare la produzione in maniera efficiente, o non allocano efficientemente beni e servizi ai consumatori. Fondamentalmente ci si riferisce a situazioni in cui l'inefficienza risultante è notevole, o quando istituzioni esterne al mercato potrebbero essere impiegate per raggiungere un risultato preferibile. Considerata la su esposta relazione tra prezzo, efficienza e allocazione possiamo precisare che si ha fallimento del mercato quando un bene viene utilizzato senza che a tale uso corrisponda l’individuazione di un prezzo. Per questi beni, cioè, non esiste un «contesto negoziale» per cui è impossibile dar luogo al processo di negoziazione e quindi, alla formazione del prezzo. Fondamentalmente quindi, i fenomeni relativi al fallimento del mercato sono esaminati sulla base delle relazioni che intercorrono tra teoria del valore e teoria dei prezzi, quale mancata convergenza del sistema economico verso un determinato equilibrio ed evoluzione dello stesso secondo criteri non ottimali dal punto di vista dell’efficienza e/o equità e permanga in tali posizioni non ottimali. Quando si parla di fallimento del mercato distinguiamo: 1) Fallimenti micro. Una prima fonte di fallimenti del mercato è legata alla presenza di costi e/o benefici esterni al mercato stesso. Esempi sono: beni pubblici; mercati non concorrenziali; esternalità; mancanza di definizione di diritti di proprietà, asimmetrie informative nella specifica considerazione delle problematiche relative a selezione avversa, azzardo morale, problemi principale-agente. 15 2) Fallimenti macro: Diversa origine, invece, hanno imperfezioni del mercato, come disoccupazione, inflazione e disequilibrio le quali individuano essenzialmente una mancata convergenza del sistema economico verso l’equilibrio. Il tema dei fallimenti del mercato e i relativi interventi con cui poterli affrontare e sanare è fonte di un vivace dibattito tra le diverse scuole di pensiero economico tra cui la scuola neoclassica, keynesiana, austriaca, public choice, liberista e marxista La Scuola neoclassica individua come fallimento di mercato essenzialmente situazioni in cui il mercato dà adito a inefficienze. Da questo punto di vista, quindi qualunque risultato efficiente in senso paretiano, non è considerato un fallimento del mercato, a prescindere dal fatto che serva o meno l'interesse pubblico. Un esempio può chiarire quanto detto. L’esistenza di disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del reddito potrebbe secondo alcuni essere considerata una situazione contraria all’interesse pubblico. Ciononostante tale risultato può essere comunque essere efficiente in senso paretiano. Supponiamo che si abbia un caso in cui tutta la ricchezza di un'economia sia concentrata nelle mani di un singolo individuo, e tutti gli altri individui non possiedano nulla. Questa situazione paradossalmente può essere configurata come un ottimo paretiano; non è possibile, cioè migliorare la posizione degli individui che non possiedono nulla senza peggiorare quella dell'individuo che detiene tutta la ricchezza. Quindi una redistribuzione volta a ridurre la disuguaglianza sarebbe inefficiente sotto il profilo paretiano e secondo l’ottica neoclassica sarebbe questa situazione e non la concentrazione del reddito nelle mani di un’unica persona a qualificarsi come fallimento del mercato4 Partendo sempre dalla matrice neoclassica, nell’individuare le motivazioni del fallimento del mercato la moderna macro-economia keynesiana e neokeynesiana sottolinea l'incapacità di conseguire il pieno impiego delle risorse. Una volta modificato per tener conto dei fallimenti del mercato, il modello Walrasiano di equilibrio economico generale usualmente produce risultati di tipo keynesiano. Nella prospettiva della nuova macroeconomia keynesiana, si pone l'accento sui ritardi nell'aggiustamento di grandezze quali prezzi e (soprattutto) salari. Diversa posizione è quella proposta dalla scuola austriaca e della public choice. I sostenitori del laissez faire (scuola austriaca) spesso negano l'esistenza di fallimenti del mercato, o li considerano eventi accidentali, irrilevanti e temporanei. Non a caso il fenomeno delle esternalità è spesso sminuito, mutandone il nome in 'neighbourhood effects' (effetti "collaterali"). 4 Dal punto di vista neoclassico, il tema della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza originante dal passato di un'economia è completamente separato dal problema del fallimento del mercato, almeno in un'analisi di tipo statico. Questo risultato non è necessariamente vero nel caso di modelli di sapore neoclassico che esplicitamente incorporino una dinamica. In particolare, diversi economisti neoclassici sono propensi a vedere un fallimento del mercato in quelle situazioni in cui il libero operare delle forze di mercato conduce a una crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. L'abilità di coloro che detengono una quota maggiore di ricchezza di usare il proprio potere economico per incrementarla, nello specifico, costituirebbe nella prospettiva di diversi ricercatori un fallimento del mercato. 16 Analoga posizione è sostenuta dagli economisti della scuola della public choice per i quali l’esistenza di fallimenti del mercato non implica la necessità o l'opportunità dell'intervento del governo, in quanto i costi legati ai fallimenti del governo potrebbero essere maggiori di quelli legati al fallimento del mercato che con l’intervento pubblico si cerca di mitigare. Infatti, il fallimento del governo è visto come il risultato di problemi inerenti alla democrazia, nonché del potere di gruppi di potere che cercano posizioni di rendita (rent seekers), nel settore privato come nella burocrazia governativa. Agli occhi di queste scuole, i fallimenti del mercato sono letti soprattutto come assenze di mercato. In alternativa, si argomenta che i risultati chiamati "fallimenti del mercato" non sarebbero in realtà tali, se la presenza di mercati non ne evita lo sviluppo. Inoltre, condizioni che molti considererebbero negative sono spesso viste come effetti della distorsione delle forze del mercato da parte dell'intervento dello Stato. Gli esponenti delle scuole liberali vedono nei fallimenti del mercato un problema comune a qualsiasi sistema di mercato non regolamentato per cui l'intervento dello Stato nell'economia dovrebbe essere finalizzato ad assicurare al contempo l'efficienza e la giustizia sociale (quest'ultima solitamente interpretata in termini di limite alle disuguaglianze di ricchezza e reddito). Un rilevante argomento contro tali tesi è che esse riporrebbero troppa fiducia nella buona fede del governo e/o nella capacità dei cittadini di controllarne l'operato con strumenti democratici. Come osservato, i sostenitori del laissez-faire vantano numerosi esempi di fallimento del governo, in cui l'intervento dello Stato o del governo nei mercati ha prodotto risultati peggiori. I neoliberali replicano che si dovrebbe ricercare una combinazione ottimale di mercato e Stato, alla luce dei fallimenti di entrambi. Naturalmente, dal punto di vista della maggioranza degli economisti i mercati non esisterebbero se lo Stato non fosse garante dei diritti di proprietà e dei contratti, per cui l'idea di un mercato completamente libero sarebbe irrealizzabile. Nelle speculazioni della scuola marxista elemento fondamentale è rappresentato dal sistema dei diritti di proprietà rispetto ai quali si argomenta che le risorse dovrebbero essere allocate in maniera diversa da quella che realizza il mercato. Il fallimento del mercato nella sua accezione tipica non rientra in genere tra le loro argomentazioni di tale scuola. Più in generale il marxismo non individua nel "mercato perfetto" (senza, cioè, fallimenti) un obiettivo ragionevole e quindi, 'qualunque' mercato condurrebbe ad un risultato inefficiente e non auspicabile in un ordinamento democratico. In sintesi, la scuola di pensiero marxista considera i fallimenti del mercato inerenti a qualunque economia capitalista. La presenza di un pianificatore centrale, o di comitato di pianificazione, democraticamente responsabile nei confronti del popolo permetterebbe di evitare situazioni di fallimenti di mercato che http://it.wikipedia.org/wiki/Fallimento_del_mercato#Interpretazioni 17 non sono più qualificabili come situazioni specifiche - tipicamente intese come "anomalie" – e frutto dell’inefficienza di mercato, essendo in sé questo qualificato come un fallimento. Sebbene non discuta esplicitamente il tema dei fallimenti del mercato, la scuola marxista non manca di osservare che i leader di governo e coloro che traggono beneficio dai fallimenti del mercato (titolari di imprese che inquinano, monopolisti, etc.) spesso formano alleanze, così che il governo non è un potere neutrale, in grado di apportare soluzioni tecnocratiche nel nome del popolo. Sotto questa prospettiva, il fallimento del mercato accompagnerebbe quello del governo. Soltanto la pressione popolare sia sul governo che sulle imprese capitaliste che si avvantaggiano del fallimento del mercato possono portare a un'efficace riduzione dei problemi legati ai fallimenti del mercato. Il ruolo dello Stato nell’economia. Le diverse considerazioni in merito all’esistenza dei fallimenti di mercati implica necessariamente una diversa giustificazione dell’intervento dello Stato nell’economia. Sotto certe condizioni il modello di mercato ci dice che la combinazione di prezzi e quantità che realizza il massimo tornaconto individuale realizza al contempo il massimo benessere per la collettività nel suo complesso, ossia realizza un equilibrio di ottimo per tutta la collettività. Il libero mercato, dunque, genera la migliore allocazione delle risorse, l’efficienza paretiana e garantisce lo stimolo alla crescita e al progresso economico. Il ruolo dello stato in questo contesto non può che essere marginale in quanto non può provocare che danni. Quindi, se è vero che i mercati sono efficienti perché lo stato dovrebbe intervenire e quale dovrebbe essere il suo un ruolo nell’economia? L’intervento del governo si verifica quando i mercati non operano in maniera ottimale e non sempre allocano le risorse in modo efficiente così da raggiungere il massimo di benessere sociale. Attraverso l’intervento dello stato è possibile correggere le distorsioni create dal fallimento di mercato e di migliorare l’efficienza nel modo in cui i mercati funzionano. Adam Smith nel 1776 nella sua opera la ricchezza delle nazioni sosteneva che il perseguimento degli interessi individuali (profitto) in un mercato concorrenziale avrebbe garantito, attraverso l’operare della mano invisibile, il perseguimento dell’interesse pubblico. Mentre i mercantilisti propugnavano un intervento energico dello Stato, Adam Smith, forte anche delle esperienze del suo tempo, sottolineò la possibilità che non sempre coloro cui era affidato il compito di governare, effettivamente avrebbero perseguito l’interesse sociale. L’intervento dello Stato, dunque non è necessario, anche perché in alcuni casi, anziché risolvere può aggravare la situazione. Secondo l’impostazione smithiana, per poter agire nell’interesse pubblico non è necessario affidarsi ad un ente superiore in quanto il perseguimento dell’interesse privato garantirebbe l’ottenimento dell’interesse pubblico. L’idea è che se un bene o un servizio cui i consumatori 18 attribuiscono un valore non viene prodotto, essi saranno disposti a comprarlo. Gli imprenditori in vista di un profitto saranno disposti a produrlo e, dunque, a colmare l’eventuale deficienza di mercato e avendo come obiettivo il profitto, andranno a ricercare tecniche di produzione sempre più efficienti e, soprattutto, prodotti atti a soddisfare completamente i bisogni dei consumatori. Quindi, la massimizzazione del welfare economico può conseguirsi solo attraverso l’azione del libero mercato e il perseguimento dell’interesse individuale. Tutto ciò garantirebbe il raggiungimento di un equilibrio generale. Successivamente, però, si comprese che in alcune situazioni il libero mercato non assicura la produzione di tutti i beni e servizi di cui la società necessità. Il fallimento del mercato e fenomeni come fluttuazioni nei prezzi ed esternalità sottolinearono la necessità di interventi che potessero correggere e migliorare il sistema economico attraverso l’utilizzo di strumenti di cui solo lo Stato dispone (tassazione, spesa pubblica, incentivi, ect). Solo così sarebbe stato possibile conseguire il massimo livello di produzione e di welfare. Da questo punto di vista il 1920 rappresenta una pietra miliare nella definizione del ruolo dello Stato nell’economia di mercato. In questo anno Pigou pubblica The Economics of Welfare con cui dimostra che l’intervento dello Stato, in qualunque forma realizzato, tassazione, spesa pubblica o altro, è necessario affinché l’economia raggiunga un ottimo livello di produzione. Pigou, dunque apre la strada a ciò che la Grande Depressione del 1930 e la pubblicazione della General Theory di Keynes J. M., (1936) sancirono come definitivi compiti dello Stato: allocazione, redistribuzione e stabilità . Da un lato, la Depressione del 1930 e dall’altro la General Theory con cui Keynes prospettava l’idea di un’economia fondamentalmente instabile, instabilità cui probabilmente si doveva attribuire la Grande Depressione, indussero gli economisti ad una riconsiderazione del ruolo dello Stato. La nuova fiducia nella capacità regolatrice dello Stato, la disponibilità di strumenti attraverso cui poter definire politiche ottime, condussero alla definizione di una serie di interventi che caratterizzarono il decennio tra il gli anni ‘60 e la prima metà degli anni ‘70. In particolare, dal 1960 la politica economica fu sostanzialmente volta a stabilizzare l’economia attraverso interventi di fine tuning; gli avvenimenti di quegli anni, tra l’altro, non fecero che consolidare questa linea di condotta da parte dello Stato: per più di otto anni l’economia non conobbe periodi di recessione . La situazione cambiò radicalmente agli inizi degli anni ’70. Il cambiamento, però, non fu certamente dovuto alla posizione di quei pochi economisti pessimisti circa l’attività di stabilizzazione fino ad allora svolta dallo Stato, quanto piuttosto agli eventi. In questi anni, infatti, l’economia statunitense (e in seguito quella dei paesi avanzati) cominciò ad entrare in una fase di recessione: la disoccupazione e l’inflazione raggiunsero livelli mai conosciuti prima di allora. 19 Il risultato di ciò fu un riesame dell’efficacia delle politiche di stabilizzazione fino ad allora perseguite e, soprattutto, dell’intervento dello Stato. Non pochi economisti in quel periodo ritornarono alla visione pre-keynesiana, secondo cui il principale obiettivo dello Stato era “First, do no harm” . Nella metà degli anni ’70 la convinzione di poter controllare l’economia, e quindi dell’opportunità di un ruolo attivo dello Stato andò via via scemando. Fu messa in discussione la modellistica che aveva supportato quest’idea e contemporaneamente la possibilità di definire politiche macroeconomiche ottime. Lucas (1976) dimostrò, infatti, la difficoltà di determinare politiche ottime, sulla base della considerazione che l’annuncio di queste da parte dei policy-maker avrebbe comportato cambiamenti nei comportamenti degli agenti economici e, dunque modifiche nei parametri su cui la politica era stata determinata in sede di modellizzazione. Quindi, le politiche monetarie e fiscali, pur nella loro massima efficacia, non avrebbero avuto nessun effetto sulle variabili economiche. In particolare, “[…] deterministic policy rules can have no effect on the joint probability distribution functions of real economic variables, but that stochastic policy behaviour can increase the variability of real variables relative to their full information values” . Ben presto, però fu evidente che l’idea di una neutralità della politica, quale evidenziata dalla teoria delle aspettative razionali, non poteva essere sostenuta. Infatti, l’inesistenza di contingent forward markets , la presenza di informazioni imperfette e la qualificazione dei mercati come non market-clearing condurranno ad una rivalutazione del ruolo dello stato e delle politiche economiche quale strumento di raggiungimento di specifici obiettivi. 20