IL RITORNO DEL NARRATORE: RIPERCUSSIONI SULLE SCIENZE UMANE E SULLA TEOLOGIA. A.S. Filonenko Nel 1936 sulla rivista « Oriente e Occidente » fece la sua comparsa Il narratore di Walter Benjamin, un saggio dedicato all’opera di Nikolaj Leskov. Bisogna dire che i lettori tedeschi avevano la straordinaria possibilità di conoscere il patrimonio letterario di Leskov grazie alla raccolta completa delle opere in nove volumi pubblicata negli anni ’20. Questo saggio, scritto su richiesta del redattore Fritz Lieb, era tutt’altro che dedicato in maniera esclusiva all’opera del grande contemporaneo di Dostoevskij. In una lettera indirizzata al redattore Benjamin scriveva: « Dal momento che non desidero affatto addentrarmi in una discussione sulla storia della letteratura russa, io, prendendo a pretesto Leskov, porterò fuori dalla stalla il vecchio cavallino e proverò a contrattare con il committente la mia ininterrotta riflessione sulla contrapposizione tra romanziere e narratore e sulla mia predilezione per il secondo ». Questo saggio non contiene solamente uno schizzo di teoria del racconto e di antropologia del narratore, esso rappresenta anche un commiato da esse. Un commiato amaro, ma motivato. Cercherò di mostrare che la figura del narratore risulta nuovamente sintomatica per le scienze umane contemporanee e per la teologia, sulle quali dagli anni ’90 del secolo scorso si riflette il raffreddamento della discussione intorno a moderno e post moderno. Se riprendiamo questa discussione, risulta chiaro che, a partire dall’autore moderno e dall’interprete post moderno, al centro della teoria della letteratura, dell’antropologia e della teologia fa ritorno un narratore mai scomparso, ma, piuttosto, marginalizzato: il testimone. Pur non essendosi avverata la previsione benjaminiana della sua scomparsa, la fisionomia del narratore tratteggiata da Benjamin costituisce una chiave d’accesso alla cultura contemporanea. In questo articolo: 1) si ricostruirà l’antropologia del narratore benjaminiana e verranno esaminati i fondamenti della previsione benjaminiana della sua uscita di scena, 2) verranno passate in rassegna le teorie di H.U. Gumbercht, F. R. Ankersmit, E. Levinas, J.L. Marion e V.V. Bibichin, le quali consentono di descrivere un ritorno contemporaneo del narratore, 3) verranno descritte le conseguenze di questo ritorno per le scienze umane e la teologia. 1 Benjamin: il commiato dal narratore. Benjamin dà l’avvio alla sua analisi muovendo dalla descrizione della condizione antropologica, e lo fa alla lontana, a prima vista, a partire dalla problematica imprescindibile e minacciosa della cultura europea a cavallo delle due Guerre mondiali. Questa situazione consiste nel fatto che l’esperienza quotidiana « ci dice che l’arte di narrare si avvia al tramonto. E’ sempre più raro incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e sempre più spesso si diffonde l’imbarazzo quando, in una compagnia, qualcuno esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. E’ come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze »1. Nel 1971, a trentacinque anni dalla pubblicazione de Il narratore, H.G. Gadamer scrisse il saggio L’incapacità del comunicare nel quale si pose un problema affine a quello che emerge dalla diagnosi benjaminiana: « Sta davvero scomparendo l’arte del colloquio? Non osserviamo forse nella vita sociale del nostro tempo un crescente monologare del comportamento umano? »2. Constatando un « calo della capacità del dialogo » nel XX secolo, Gadamer ne individuò la causa sia nell’invenzione del telefono, dal momento che « una certa brutalità del disturbare resta al fondo di ogni chiamata telefonica, anche quando il partner assicura di rallegrarsi per la chiamata »3, sia nella sostituzione dello scambio epistolare con la videoscrittura; estrapolando, ricondusse la crisi del racconto al fatto che « il linguaggio, quale comune medio tra gli uomini, decade sempre di più, nella misura in cui ci siamo sempre più adattati alla situazione monologica della civiltà scientifica dei nostri giorni, e alla tecnica dell’informazione anonima alla quale siamo assoggettati »4. Gadamer mette in evidenza la straordinaria importanza del colloquio: « Il divenire sempre più capaci di comunicare, cioè divenire capaci di ascoltare l’altro, mi sembra essere la vera e propria elevazione dell’uomo verso la vera umanità »5. Al di fuori del colloquio non è possibile né formazione né scambio, né soprattutto « un discorso che sia in grado di trasfigurare l’uomo », dal momento che « non il fatto che siamo venuti a sapere qualcosa di nuovo ha fatto di qualcosa un colloquio, piuttosto il fatto che nell’altro ci è venuto incontro qualcosa, che nella nostra propria esperienza del mondo non ci era ancora capitato di incontrare »6. Per l’autore la dissoluzione del colloquio è un pericolo evidente, e, pur attribuendone la causa oggettiva al monologismo 1 W. Benjamin, Il narratore, Einaudi, Torino 2011, p. 3. 2 H.G. Gadamer, L’incapacità del comunicare, in Verità e metodo 2, Bompiani, Milano 2010, p. 175. 3 Ibi, p. 176. 4 Ibi, p. 182. 5 Ibidem. 6 Ibi, p. 179. 2 tecnicista, la causa soggettiva di una crisi di questo genere risiede nel fatto che « “incapacità del colloquio” non sembra più essere il rimprovero che uno fa a colui che non vuol seguire il suo proprio pensiero, quanto piuttosto la mancanza che l’altro realmente possiede »7. E sebbene tale causa soggettiva abbia dato un input alla nascita della filosofia dell’Altro, rimane tuttavia incomprensibile il motivo per cui tale riluttanza ad ascoltare l’altro si sia manifestata in modo così sistematico e distruttivo proprio nel XX secolo. Gadamer fa un passo indietro di fronte alla domanda da cui Benjamin comincia. A suo avviso, la ragione della scomparsa di persone che siano in grado di sostenere un discorso e di raccontare una storia in ogni frangente è la seguente: « Le quotazioni dell’esperienza sono crollate »8. Perché ci sia racconto, è necessario che l’ascoltatore abbia stima dell’esperienza personale. Noi interroghiamo e ascoltiamo perché riteniamo che l’esperienza personale di qualcun altro sia rilevante per la nostra vita. Questo crollo di quotazioni dell’esperienza personale è diretta conseguenza della Prima guerra mondiale: « Non si era notato che, dopo la fine della guerra, la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? »9. In luogo del racconto, un duplice ammutolimento. Prima di tutto, la guerra come frattura catastrofica nella vita di una generazione che significò uno svuotamento dell’esperienza del periodo precedente alla frattura: « Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorchè le nuvole, e sotto di esse, in un campo di forze attraversato da micidiali correnti ed esplosioni, il minuto e fragile corpo dell’uomo »10. In secondo luogo, la stessa esperienza di guerra si rivelò falsa, dal momento che, al fine di comprenderla in quanto evento, si diffusero tipi di analisi statistica, sociologica, economica, storica e, insomma, qualunque tipo di analisi anonima, tutto fuorchè « esperienza passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. Poiché mai esperienze furono più radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalle battaglie caratterizzate da grande dispiego di mezzi e materiali, di quelle morali dai detentori del potere »11. 7 Ibi, p. 173. 8 W. Benjamin, cit., pp. 3‐4. 9 Ibi, p. 4. 10 Ibidem . 11 Ibidem. 3 Benjamin scriveva questo nel 1936, mentre l’Europa era dinanzi alla ripetizione del medesimo ammutolimento. Giorgio Agamben, prendendo in esame la letteratura dell’Olocausto, rileva che, tra coloro che erano tornati dal lager, si erano diffusi due tipi di reazioni: « Alcuni dei sopravvissuti poi preferiscono tacere. [...] E tuttavia, per altri, non far morire il testimone è l’unica ragione di vita »12. Anche Benjamin descrive la prima reazione, considerandola un’uscita di scena definitiva del racconto dalla letteratura e dalla cultura. Ma la seconda, di gran lunga meno diffusa, risulta determinante per il ritorno del narratore in chiave contemporanea, tramite la figura del testimone‐sopravvissuto e il superamento del mutismo. Scrive Agamben a proposito delle fonti del secondo tipo di reazione: « Nel campo una delle ragioni che possono spingere un deportato a sopravvivere, è diventare testimone »13. E’ significativa la notazione di Agamben che, dal piano giuridico, muove verso una dimensione antropologica: « In latino ci sono due parole per dire il testimone. La prima, testis, da cui deriva il nostro termine testimone, significa etimologicamente colui che si pone come terzo (*terstis) in un processo o in una lite tra due contendenti. La seconda, superstes, indica colui che ha attraversato qualcosa, ha attraversato fino alla fine un evento, e può dunque renderne testimonianza »14. Ma per Benjamin è però fondamentale un’altra questione: la catastrofe del XX secolo ha messo in dubbio la possibilità di un’esposizione della propria vita, possibilità che deriverebbe da un colloquio confidenziale sull’esperienza personale dell’altro uomo. L’opinione di Benjamin è che una società di narratori sia andata irrimediabilmente perduta, e di questo si debba cercare la ragione. Ne Il narratore, egli intende mostrare che la scomparsa del narratore, di cui la Prima guerra mondiale non è altro che un poderoso evento finale, è tutt’altro che un fenomeno recente: l’intera storia della modernità è uno spostamento progressivo dal racconto al romanzo15. Così Benjamin, per spiegare in modo compiuto l’antropologia del narratore, e per descrivere il racconto, opera una distinzione tipologica tra racconto e romanzo, individuando la loro radice comune nell’epos16. Egli dispiega un insieme di opposizioni: 1) Il racconto – originato dall’ascolto, e il romanzo – originato dall’individuo nel suo isolamento. « Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che 12 G. Agamben, Il testimone, in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 13‐14. 13 Ibi, p. 13. 14 Ibi, p. 15. 15 Cfr. W. Benjamin, cit., p. 16 e p. 18. 16 Cfr. ibi, p. 19, p. 23, e pp. 56‐57. 4 gli è stata riferita –; e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Il romanziere si è tirato in disparte »17. E così, l’uno ha a che fare con qualcuno che ascolta, l’altro con un lettore: « Chi ascolta una storia è in compagnia del narratore [...] mentre il lettore di un romanzo è solo »18. Il racconto è un evento comunitario, mentre il romanzo è un prodotto dell’individualizzazione ed è legato alla circolazione del libro, leggibile in solitudine. 2) Il racconto si costituisce sulla base di un interesse verso l’altro, la cui autorità porta in sé qualcosa di lontano e di meraviglioso. La forma di comunicazione imparentata con il romanzo, l’informazione su ciò che è più prossimo e proprio, tende invece alla verosimiglianza19. Il libro si avvicina progressivamente alla stampa. Due figure tipiche di narratore ‐ l’agricoltore sedentario e il mercante navigatore – che si trasformano all’interno della bottega artigianale in artigiano sedentario e in garzone errante. Nell’artigianato medievale « la conoscenza dei paesi lontani acquisita da chi ha molto viaggiato si fondeva con quella del passato, caratteristica invece dei sedentari »20. 3) Il racconto si costituisce intorno ad avvenimenti, evitando spiegazioni che li riducano a una mera fattualità: « E’ infatti già la metà dell’atto di narrare lasciare libera la storia, nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni »21. Il romanzo, al contrario, nasce da fatti‐notizie « infarcite di spiegazioni »22. E se l’informazione « si consuma nell’istante della sua novità »23 e « vive solo in quest’attimo »24, il racconto invece « non si esaurisce. Esso conserva la propria forza raccolta e sa dispiegarsi anche dopo lungo tempo»25 scatenando « in noi meraviglia e riflessioni »26. 4) La possibilità del racconto si dà soltanto all’interno di una comunità di ascoltatori riunita da quegli aspetti dell’attività artigianale che sono legati alla noia. « La noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza »27. I suoi nidi vengono distrutti perché « non si 17 Ibi, p. 19. 18 Ibi, p. 66. 19 Cfr. ibi, pp. 23‐24. 20 Ibi, p. 10. 21 Ibi, p. 24. 22 Ibidem. 23 Ibi, p. 27. 24 Ibidem. 25 Ibi, p. 28. 26 Ibidem. 27 Ibi, p. 34. 5 tesse e non si fila più ascoltando le storie »28. Il dono di ascoltare, legato alla possibilità di ascoltare dimentichi di sé, forma « una rete su cui si fonda l’arte del narrare »29. Il romanzo fiorisce in una società atomizzata, che non ha tempo per la noia. Il ritmo lento del racconto scade nella « short story »30. 5) Il racconto è legato ad una società in cui l’esperienza della morte è pubblica, e attraversa la vita intera. E, soprattutto, « la vita vissuta – che è la materia da cui nascono le storie, assume forma tramandabile solo nel morente »31. La rilevanza della morte di ogni uomo determina l’autorità di ciò che ha raccontato ai vivi che « circondano [il suo letto di morte]»32. « La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare. Dalla morte egli attinge la sua autorità »33. Il racconto muore nella società borghese che tende a « evitare agli uomini la vista dei morenti »34 e che spinge/confina la morte stessa in ospedali e sanatori, lontano « dal mondo percettivo dei viventi »35. La privatizzazione della morte nell’Epoca moderna distrugge il racconto, ma allo stesso tempo alimenta il romanzo, scritto per un uomo che non sa della propria morte. 6) Il senso di un racconto sta nell’iniziativa, che si stabilisce a partire dall’ascolto di un altro narratore. Il narratore non è né un autore né un interprete, bensì sempre un testimone. Nel romanzo, al contrario, la produzione di senso si realizza attraverso la sua fine. Il commentatore‐interprete arriva dopo la fine. Per spiegarlo, Benjamin costruisce un ragionamento di questo genere: per conoscere « il significato della vita » di un uomo di cui parliamo, è importante sapere quanti anni ha vissuto. E così se ha vissuto, per esempio, trentacinque anni, allora significa che ogni giorno della sua vita è il giorno della vita di un uomo che è vissuto fino a trentacinque anni. Se lo stesso uomo fosse vissuto fino a settant’anni, allora avremmo valutato i suoi primi giorni in modo completamente diverso: giorni della vita di un uomo di settant’anni. Il problema nel quale vive l’individuo moderno è il seguente: gli risulta impossibile capire il senso dell’oggi perché non sa quanto a lungo vivrà. Se sapesse con precisione che la sua vita sarà quella di uomo di novant’anni, allora un singolo giorno avrebbe questo carattere, di essere in relazione con una vita di novant’anni, nel caso 28 Ibidem. 29 Ibi, p. 35. 30 Ibi, p. 39. 31 Ibi, p. 44. 32 Ibidem. 33 Ibi, p. 47. 34 Ibi, p. 43. 35 Ibi, p. 44. 6 invece sapesse che la sua vita sarà quella di un uomo di quaranta, allora un singolo giorno avrebbe quest’altro carattere. Ma siccome noi non sapremo mai quanto vivremo, ne consegue, secondo Benjamin, il sorgere della forma romanzesca, grazie alla quale possiamo vivere la vita di un altro uomo, l’eroe del romanzo, una vita conchiusa e delimitata entro un arco di tempo dato: “Quel destino altrui, grazie alla fiamma da cui è consumato, genera in noi il calore che non possiamo mai ricavare dal nostro. Ciò che attira il lettore verso il romanzo, è la speranza di riscaldare la sua vita infreddolita alla morte di cui legge »36. Benjamin lega la privatizzazione della morte al fatto che il romanzo ha sempre una fine, la morte dell’eroe, oppure la fine del libro in senso letterale. Anche per questo, il romanzo è essenzialmente legato al libro. La presenza pubblica della morte, legata al racconto, offre una struttura inversa della domanda. Se leggiamo i romanzi per arrivare alla fine, domandandoci “Come si conclude tutto questo?”, il racconto, invece (prendiamo come modello la narrazione di Sherazade), offre la possibilità di chiedere “E dopo cos’è successo?”. 7) Il romanzo e il racconto sono connessi, ciascuno a suo modo, alle fonti storiografiche. Per Benjamin la storiografia rappresenta « il punto di indifferenza creativa di tutte le forme dell’epica »37 e sta ad esse « come la luce bianca ai colori dell’iride »38. E se il racconto è legato alle cronache e ai cronisti, che descrivono i fatti, rifuggendo dalle interpretazioni, che appartengono al cielo, il romanzo è invece legato agli storici che tentano di dare una dimostrazione esplicativa dell’avvenimento. 8) La memoria del romanziere è legata « all’eternità rispetto a quella dilettevole39 del narratore »40, che si apre all’interesse dell’ascoltatore « di conservare ciò che è narrato »41 in vista della « possibilità della riproduzione »42. « Quanto più dimentico di sé l’ascoltatore, quanto più a fondo si imprime in lui ciò che ascolta »43. E se la memoria è il dono epico per eccellenza – perciò Mnemosine è la musa della poesia epica – questo principio “musico” compare sotto forme differenti nel romanzo e nel racconto. Nel racconto esso agisce come ricordo, volto a « creare la rete che tutte le storie finiscono per formare tra loro »44. Nel 36 Ibi, p. 67. 37 Ibi, p. 51. 38 Ibidem. 39 Nel testo dell’articolo si legge « korotkij » cioè « breve » (N.d.T.) 40 Ibi, p. 57. 41 Ibi, p. 56. 42 Ibidem. 43 Ibi, pp. 34‐35. 44 Ibi, p. 57. 7 romanzo interviene come rammemorazione del romanziere che mantiene l’unità della storia, caduta fuori dalla rete dell’epos. 9) Il racconto rappresenta una « forma di comunicazione artigianale » immersa nella vita del narratore. « Il racconto reca il segno del narratore come una tazza quello del vasaio »45. Se nel romanzo la voce è autonoma, nel racconto il mondo si rivela come moltitudine di voci tese alla ricerca di un accordo: un aspetto di questo accordo consiste nella consonanza di anima, occhi e mani del narratore, come unione di aspetto, voce e gesti. Il narratore, per usare il lessico dell’artigiano, ha « il compito di lavorare la materia prima delle esperienze – altrui e proprie – in modo solido, unico e irripetibile »46. 10) Se il romanziere parte dalla verosimiglianza dell’esperienza individuale, il narratore invece spalanca la scala dell’esperienza collettiva « per cui anche la scossa più profonda di ogni esperienza individuale – la morte – non rappresenta affatto uno scandalo o un limite »47. Questa scala « sprofonda nell’abisso dell’inanimato »48 ma si innalza verso la testimonianza del giusto e si regge sull’autorità della venerazione, che è andata perduta nel romanzo. « Il narratore entra fra i maestri e i saggi. [...] Il narratore è la figura in cui il giusto incontra se stesso »49. E così tutti i tratti distintivi del racconto e del romanzo fungono, in Benjamin, da argomentazioni per un’unica tesi forte: la cultura europea, da un lato si è ritirata dalle arti, andando verso l’industria borghese, dall’altro si è trovata davanti alla Catastrofe del XX secolo, momento in cui l’esperienza personale cessa di essere significativa per l’altro, e non aiuta più ad affrontare l’esperienza di una catastrofe di tali dimensioni. E così il narratore è scomparso. Che cos’è comparso al suo posto? A questa domanda risponde indirettamente J.F. Lyotard, quando nel 1979 ne La condizione postmoderna, distingue i racconti tradizionali, l’analisi dei quali si avvicina a quella di Benjamin, dai grandi racconti, che svolgono la funzione di legittimazione moderna della conoscenza e della scienza. La modernità, secondo Lyotard, conduce ad una legittimazione della conoscenza e della scienza attraverso due tipi di grandi racconti: il discorso speculativo sulla dialettica dello Spirito e il 45 Ibi, p. 37. 46 Ibi, p. 85. 47 Ibi, p. 71. 48 Ibi, p. 78. 49 Ibi, p. 86. 8 discorso sulla liberazione. Il soggetto di questi racconti è sempre uno, sia esso il popolo oppure lo Spirito, in lui confluiscono i ruoli di narratore, ascoltatore e relatore, ed è questo a distinguere i grandi racconti moderni dai tradizionali, che la modernità ha rigettato: « I rappresentanti della nuova legittimazione “popolare” sono anche gli affossatori dei saperi popolari tradizionali, concepiti ormai come minoranze o potenziali separatismi necessariamente votati all’oscurantismo »50. La modernità distrugge la cultura dei racconti tradizionali, la cui forma narrativa si contrappone alla lingua nozionale della scienza, ma per legittimare la scienza stessa costruisce la sua grande narrativa. Per Benjamin, a questo corrisponde la relazione tra romanzo e racconto. I grandi racconti della modernità, espungendo il narratore, hanno di fatto legittimato generi narrativi basati su una autodeterminazione dello Spirito. Dopo la seconda guerra mondiale, la loro distruzione definisce a sua volta la condizione postmoderna, nella quale « la grande narrazione ha perso credibilità, indipendentemente dalle modalità di unificazione che le vengono attribuite, sia che si tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo »51. Per Lyotard, è evidente che « il ricorso alle grandi narrazioni è escluso; non si sarebbe più in grado di ricorrere né alla dialettica dello Spirito, né all’emancipazione dell’umanità per la validazione del discorso scientifico postmoderno. Ma [...] la “piccola narrazione” resta la forma per eccellenza dell’invenzione immaginativa, innanzitutto nella scienza »52. E’ curioso che solo in alcune note egli tratti il tema del ritorno benjaminiano del narratore come nuova possibilità di legittimazione. Tendendo « ad una idea e ad una pratica di giustizia che non siano legate a quelle del consenso »53, che non si appoggino sull’autonomia degli interlocutori come frammento del racconto dell’emancipazione, e rivolgendosi alla politica « in cui saranno ugualmente rispettati il desiderio di giustizia e quello di ignoto »54, Lyotard invita a pensare il paralogismo come forma del ritorno del racconto nel discorso della legittimazione, i cui elementi caratterizzanti sono il metodo dei sistemi aperti, il localismo, l’antimetodo, la performatività e così via. Dopo l’esilio del narratore, si impongono i grandi racconti della modernità a partire dalla loro tensione all’utopia, ma ad essi, in compenso, appartiene l’ironia postmoderna, sbocciata nel 50 J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1989, p. 57. 51 Ibi, p. 69. 52 Ibi, p. 110. 53 Ibi, p. 120. 54 Ibi, p. 122. 9 momento in cui « la nostalgia della narrazione perduta è anch’essa perduta per la maggior parte della gente »55. Il postmoderno sposta nella qualità del soggetto della cultura la figura dell’interprete, caratterizzata dall’ironia della libertà interiore, ma incapace di legittimare un nuovo tipo di conoscenza. Al posto dell’interprete, fa ritorno un narratore che realizza il paralogismo lyotardiano attraverso la testimonianza. E questa differenza tra testimone e interprete è molto rilevante per la comprensione della figura del narratore. Il narratore è sempre un testimone. Egli è un interprete solo in seconda battuta, e, di norma l’interpretazione è un fallimento del racconto. Il narratore non ricopre il ruolo di interprete della storia che racconta. Benjamin suggerisce un bell’esempio in proposito: la storia che racconta Erodoto a proposito del faraone d’Egitto Psammenito, fatto prigioniero. I persiani, nel tentativo di umiliarlo, condussero davanti a lui la figlia e il figlio, ma egli non pianse; poco dopo condussero un servo, ed egli scoppiò a piangere. Erodoto conclude qui, ma Montaigne riprende la storia e dà un’interpretazione, beninteso non unica, sul motivo del pianto del faraone. Egli può aver pianto per una decina di motivi. E ognuno può trovare da sé almeno due cause. Benjamin sottolinea che il carattere di racconto dipende proprio dal fatto che Erodoto non ci dice il motivo esatto per cui il faraone scoppia in pianto, e la storia resta continuamente meravigliosa e nuova. Ogni nuova generazione, attraverso questa storia, scopre qualcosa sulla propria vita. Perciò l’interpretazione per il narratore è uno sbaglio, un depotenziamento del racconto56. Presenza, epifania, gratitudine: il ritorno del narratore nelle scienze umane. Il ritorno del narratore è legato ad un generale rinnovamento delle scienze umane cominciato negli anni novanta. Per argomentare questa affermazione, faccio riferimento ad un’opera programmatica pubblicata nel 2004, Production of presence: what meaning cannot convey di Hans Urlich Gumbrecht, critico letterario e teorico della cultura tedesco, che lavora all’Università di Standford. La mossa teoretica di questo libro muove verso il superamento della crisi nelle scienze umane contemporanee, le quali, secondo Gumbrecht, sono chiuse in una assolutizzazione della procedura interpretativa. Egli si muove in questa direzione per « prendere fermamente posizione contro l’abitudine di deviare in modo sistematico dalla presenza e contro la posizione assolutamente incontrastata che occupa l’interpretazione 55 Ibi, p. 76. 56 Cfr. W. Benjamin, cit., p. 28. 10 all’interno di quelle discipline accademiche, che si chiamano “scienze umane e artistiche” »57. Siamo in una situazione in cui ogni umanista è in grado di fornire decine di interpretazioni per ogni testo, e tale sovrapproduzione è condizionata da una riduzione della conoscenza umanistica a istituzione al servizio della macchina interpretativa. Gumbercht mostra che questa crisi denota una caduta al di fuori dal campo interpretativo dell’esperienza della presenza, esperienza produttiva di testi. L’uscita dalla crisi è legata ad un ritorno dell’interrogativo su ciò che genera la testualità della presenza. A quel punto il nucleo delle scienze umane si sposta dalla domanda sugli effetti del significato, al problema della relazione tra gli effetti della presenza e gli effetti del significato. L’analisi della presenza che viene proposta, rompe « con la tradizione “postmoderna” appassita secondo la quale sono ammissibili soltanto i concetti e le argomentazioni antisostanzialistiche »58. Lo stesso Gumbrecht analizza questo cambiamento epistemologico nella filologia, nella filosofia, nell’estetica, nella storia e nella pedagogia, ma il suo discorso verte non soltanto sull’ambiente accademico, ma anche sulla nuova sensibilità culturale. Descrivendo le fonti della crisi contemporanea delle scienze umane, egli sviluppa uno schema tipologico della cultura europea, e mette in evidenza, all’interno di essa, una cultura della presenza, prossima all’epoca medievale, e una cultura del significato, che è andata diffondendosi nell’Età moderna, e che ha avuto un ruolo centrale nel corso del XX secolo. Questa schematizzazione è molto simile a quella di Benjamin. Il confronto tra esse autorizza a mettere a paragone il racconto con la cultura della presenza, e il romanzo con la cultura del significato. La schematizzazione si struttura anche attraverso l’accentuazione di significative caratteristiche tipologiche oppositive: 1) La cultura della presenza è la cultura del corpo, la cultura del significato, con il dominio del paradigma soggettivo/oggettivo, è la cultura dello spirito, o della coscienza. 2) Il corpo è incluso nel mondo e possiede un significato intrinseco, lo spirito come soggetto è eccentrico rispetto al mondo. 3) Nella cultura della presenza la conoscenza è manifesta e si dà come effetto dello stesso auto­schiudersi del mondo (come dono, e non per uno sforzo dell’uomo); nella cultura del significato la conoscenza è un risultato dell’attività interpretativa del soggetto. 57 H.U. Gumbrecht, Proizvodstvo prisutstvija: čego ne možet peredat značenie, Moskva, Novoe literaturnoe obozrenie 2006, p. 12 (Le traduzioni del testo di Gumbrecht che seguono sono state qui tradotte sulla base delle citazioni della traduzione russa riportata da A. Filonenko). Cfr. la versione inglese: Production of presence: what meaning cannot convey, Stanford University Press 2004. 58 H.U. Gumbrecht, cit., p. 30. 11 4) La cultura della presenza si dispiega intorno alle cose come unità di sostanza e forma, la cultura del significato intorno ai segni come unità di significante e significato. 5) La cultura della presenza lega l’uomo al cosmo e alla sua trasfigurazione, della quale l’uomo non è autore ma collaboratore; per la cultura del significato è fondamentale l’attività umana autonoma e la trasformazione del mondo è il compito più importante. 6) La « produzione della presenza » si dispiega in uno spazio configurato come insieme di luoghi occupati da corpi, mentre gli effetti del significato presuppongono un dominio del tempo come attributo della coscienza. 7) La violenza come occupazione dello spazio mediante corpi nella cultura della presenza e il potere come traccia della violenza attuale nella cultura del significato. 8) Nella cultura della presenza l’avvenimento è una rottura meravigliosa della continuità, nella cultura del significato l’avvenimento è sorprendente come effetto imprevisto che eleva al valore dell’innovazione. 9) Il carnevale della corporeità e il gioco/invenzione come lavoro di motivi e significati. 10) L’Eucarestia, nella quale « è generata la reale presenza di Dio », e il parlamento nel quale vengono prese le decisioni non tanto sulla base della presenza fisica dei parlamentari, quanto sulla base della dignità intellettuale di concezioni e di argomenti in competizione fra loro. 11) L’opposizione, legata alla differenza tra Eucarestia e parlamento, tra l’intensività quantificabile della presenza nel realismo platonico, nella cultura della presenza, e la non quantificabilità logica del reale nella cultura del significato. Gumbrecht individua la possibilità di uscire dalla crisi contemporanea in una attualizzazione della sensibilità della cultura della presenza, che comporta anche il ritorno del narratore. Nel nuovo « ambiente intellettuale », che non è in cerca di una predominanza paradigmatica tra gli interpreti, ma di una « produzione della presenza » nei racconti dei testimoni, si apre di nuovo la cultura della presenza. E’ curioso che, non essendo un teologo, Gumbrecht sottolinei l’eucaristicità della cultura della presenza, e che, descrivendo gli effetti della presenza, faccia ricorso alla nozione di epifania. Nella sua analisi della presenza, egli intende mostrare che la cultura del significato è stata determinata dall’ipotesi, secondo cui la realtà stessa è oggettiva e passiva, e che l’attività del soggetto è separata dalla realtà, mentre la cultura della presenza non è nata da un’attività autonoma del soggetto, bensì come risposta all’attività della realtà. La produzione della presenza è essa stessa un’attività della realtà, che Gumbrecht definisce anche epifania. 12 La partizione classica propria della cultura del significato legava la storia all’estetica e alla pedagogia, così che la storia determinava la comprensione del valore estetico degli oggetti della cultura, che a sua volta conteneva un messaggio etico, il quale fungeva da fondamento per la pedagogia59. Nella cultura della presenza il rapporto tra queste discipline è rivelato da un’epifania estetica incommensurabile rispetto alle norme etiche, ma legata alla storia, la quale si occupa non di un’interpretazione storica, bensì della « presentificazione dei mondi passati » e delle organizzazioni degli effetti della presenza legati a tali mondi. L’estetica e la storia insieme forniscono gesti deittici, che conducono « gli studenti a momenti di complessità intellettuale » realizzando allo stesso tempo una pedagogia universitaria che sorga dall’attenzione per l’avvenimento della presenza e l’estetizzazione della storia60. L’esperienza estetica come tale è caratterizzata da otto aspetti: 1) esperienza estetica come momento di intensità61; 2) attrattiva di quei momenti legata all’eccezionalità rispetto alla sfera della quotidianità62; 3) distanza dell’esperienza estetica rispetto al mondo della quotidianità, in quanto legata alla repentinità e alla separazione; la posizione “insulare” dell’esperienza estetica porta verso una incommensurabilità di essa rispetto all’impianto istituzionale delle norme etiche63; 4) lo stato d’animo corrispondente all’esperienza estetica è « apertura e concentrazione », « smarrimento dentro una intensità concentrata »64; 5) esperienza estetica come « oscillazione tra gli effetti della presenza e gli effetti del significato »65; 6) l’esperienza estetica è un’epifania come avvenimento che nasce da nulla e da un quando ignoto, che si dispiega nello spazio attraverso un avvicinamento/allontanamento, che « si autoannienta nel processo della sua origine »66; 7) l’esperienza estetica è un avvenimento nel corso del quale « una sostanza occupa uno spazio », ma questa occupazione è violenza come « attualizzazione di un potere »67; 59 Cfr. H.U. Gumbrecht, cit., p. 98. 60 Cfr. ibi, p. 100. 61 Cfr. ibi, p. 101‐103. 62 Cfr. ibi, p.103. 63 Cfr. ibi, p. 105‐106. 64 Ibi, p. 107‐108. 65 Ibi, p. 110. 66 Ibi, p. 114‐116. 67 Ibi, p. 117. 13 8) l’esperienza estetica preserva « dalla perdita completa della sensazione e della memoria della fisicità della nostra vita »68, e conduce verso il grado estremo di imperturbabilità serenità e quiete, che è legato « all’autoschiudersi dell’Essere »69. Non è difficile accorgersi della somiglianza tra la descrizione del soggetto dell’esperienza estetica gumbrechtiana e l’ascoltatore del racconto benjaminiano: resta però oscuro come questo ascoltatore possa trasformarsi in narratore. Per avvicinarsi alla risposta a questa domanda, bisogna rilevare i fondamenti della costruzione della presenza. Lo stesso Gumbrecht, richiamandosi nell’analisi dell’esperienza estetica alla violenza, intesa troppo astrattamente come « occupazione e ostruzione dello spazio da parte dei corpi »70, si limita ad un’unica forma di attività della realtà: la forma della violenza. Questa presenza è una sfida della realtà, sulla quale noi non abbiamo nessun potere, ma alla quale non possiamo non rispondere. Per molti teorici, gli avvenimenti dell’undici settembre hanno messo fine all’epoca postmoderna, dei lenti e ironici giochi dell’interpretazione dal momento che la realtà si è disvelata in modo catastrofico. Ci siamo trovati « nel deserto della realtà ». La presenza come violenza predetermina una comprensione della cultura come sistema di difesa dalla realtà. Questa comprensione della cultura pone anche un rapporto con la lingua come mezzo di difesa, a proposito della quale lo storico olandese Franklin Rudolf Ankersmit scrive: « Noi siamo in possesso della lingua per non avere esperienza, per evitare pericoli e ansie che solitamente sono generati dall’esperienza. La lingua è uno scudo che ci difende da quel contatto diretto con il mondo che accade nell’esperienza »71. Ciononostante, la mia analisi dell’epifania non si colloca in questo letto di Procuste della comprensione della presenza come violenza. Gumbrecht parla di sfuggita di due modalità dell’epifania che non portano verso una forma di violenza: « L’apertura dell’Essere può compiersi sia nella modalità del bello, sia nella modalità del sublime: [...] essa può condurci nello stato della chiarezza apollinea, oppure della frenesia dionisiaca »72. Bisogna cominciare l’analisi dalla perdita del dono del discorso e del silenzio dinanzi alla forma sublime della presenza, quando il reale si apre attraverso il superamento dell’orizzonte esistenziale tracciato dalla lingua. Cercando la presenza oltre i confini del significato, noi 68 Ibi, p. 119. 69 Ibi, p. 120. 70 Ibi, p. 117. 71 F.R. Ankersmit, Vozvyšennyj istoričeskij opyt, Moskva, Izdatel’stvo “Evropa”, 2007, p. 33. Cfr. la versione inglese: F.R. Ankersmit, Sublime historical experience, Stanford University press, 2005. 72 H.U., Gumbrecht, cit., p. 120. 14 scopriamo che la realtà è ciò che, secondo Ankersmit, « anticipa e supera il mondo, dato a noi nella lingua e attraverso la lingua. E per quanto possa apparire ridicolo, accade che la realtà come tale e, dunque, il passato come tale, evochino in noi il terrore ». Bisogna ricordare l’acuta osservazione di Ankersmit a proposito dell’appello di Nietzsche a lasciare « la prigione della lingua »: « Nietzsche ha dimenticato di aggiungere che la prigione della lingua, è una prigione molto confortevole, dove ci sono sempre gas, luce, acqua calda e fredda, dove sono disposte dappertutto comode poltrone, e letti tiepidi pronti. D’altronde, da tempi immemorabili l’umanità ha fatto sforzi di ogni genere per rendere la prigione della lingua il più confortevole possibile »73. Presuntuosamente, nello spirito dell’illuminismo, tendendo verso la realtà oltre i confini del significato, noi scopriamo il sublime attraverso l’avvenimento del dolore, della perdita, della morte, del terrore, della sofferenza e della tristezza, che aprono il « mondo del trauma »74. L’epifania del sublime ci apre alla presenza extra linguistica. Nella lingua, invece, essa si manifesta come rottura, che si esprime nella poetica romantica dell’infinito. Da questa prospettiva si capisce perché il superamento del radicalismo linguistico postmoderno accada mediante il ritorno all’esperienza e alla stessa categoria di sublime, che era nota ben prima dell’undici settembre. Ma esiste un’altra forma di presenza, che non sia riconducibile alla violenza e all’esperienza sublime, e, rispettivamente, una cultura che non conduca soltanto ad una difesa dalle sfide della realtà, e che faccia memoria non soltanto delle cicatrici lasciate dall’esperienza del sublime? Bisogna esaminare questa domanda in qualità di domanda sul bello come forma della presenza, e avvalersi della filosofia dell’Altro, all’interno della quale la cultura può essere considerata non solo come difesa dalla sfida della realtà ‘altra’, ma anche come risposta al richiamo dell’Altro. La presenza dell’altro può manifestarsi come sfida dell’Altro, alla quale io non posso non rispondere, oppure come richiamo al quale io posso non dare risposta, e allora la risposta è libera e apre la mia umanità. La cultura, intesa come difesa dalla sfida, non è ‘piena’, e questo è del tutto evidente nelle concettualizzazioni postmoderne della cultura. E’ indubbiamente prezioso, quando un uomo è capace di difendere se stesso e la propria identità dalle sfide catastrofiche che gli stanno di fronte, ma il problema è che, difendendosi dalle sfide, l’uomo può diventare incapace di accorgersi del richiamo. Una società di persone che sono 73 F.R. Ankersmit, Vozvyšennyj istoričeskij opyt, cit., p. 5. 74 Ibi, p. 6. 15 perfettamente in grado di difendersi dagli appelli, che non si sentono l’un l’altro e che non sentono Dio, è una società postmoderna. La crisi della relazioni nella società individualizzata, mette in questione la cultura come ascolto, obbedienza e attenzione al richiamo dell’Altro. Cosa rende possibile una tale cultura? La domanda su questa cultura – una domanda sulla possibilità del superamento della totalità della violenza, è posta da Emmanuel Levinas nella prefazione a Totalità e infinito, come prima questione della filosofia dell’Altro. Per Levinas, l’avvenimento catastrofico della guerra mette a nudo la realtà della violenza che « non consiste tanto nel ferire e nell’annientare, quanto nell’interrompere la continuità delle persone, nel far loro recitare delle parti nelle quali non si ritrovano più, nel far loro mancare non solo a degli impegni, ma alla loro stessa sostanza »75. « La guerra instaura un ordine che assorbe la totalità della persona umana »76, e « in essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa »77. La guerra sopprime la morale ingenua e per questo il tentativo di prevedere la minaccia della guerra conduce sovente ad una contrapposizione tra una morale ingenua e una politica fredda: « La politica si oppone alla morale, come la filosofia all’ingenuità »78. Ma la soluzione politica al problema della guerra è illusoria, dal momento che lo stesso freddo ordine politico è nato da guerre. « La pace degli imperi prodotti dalla guerra si fonda sulla guerra. Essa non restituisce agli esseri alienati la loro identità perduta. E’ necessaria una relazione originaria ed originale con l’essere »79. Effettivamente, il tentativo di prevenire la catastrofe della violenza mediante una neutralizzazione dell’Altro, ottenuta situandolo in un mondo che sia sotto il nostro controllo, e la pace, pensata come tregua nella guerra globale, sono gravidi del trionfo dell’anonimità totale. La freddezza della politica, che tenta di porre freno alla violenza con l’aiuto di una forza legittima, determina la filosofia della guerra. Ad essa, Levinas contrappone l’escatologia della pace, che procede oltre “ragionevolezza” della tregua postbellica. La relazione autentica con l’essere è escatologica, poiché si colloca al di là della totalità80. Essa « sottrae gli esseri alla giurisdizione della storia e del futuro » e li esorta, li sprona « verso la loro piena responsabilità ». « L’idea dell’essere che va oltre i confini della storia rende possibili degli ent’i (étant’s) impegnati nell’essere e, nello stesso tempo, personali, chiamati a rispondere al loro 75 E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1996, p. 20. 76 Il testo nella traduzione italiana legge: « Essa instaura un ordine [...] che distrugge l’identità dello stesso ». Ibidem. 77 Ibidem. 78 Ibi, p. 19. 79 Ibi, p. 20. 80 Ibi, p. 20‐21. 16 processo e, quindi, già adulti ma, per ciò stesso, degli ent’i che possono parlare, invece di offrire le labbra ad una parola anonima della storia. La pace si produce in questa capacità di parola. La visione escatologica rompe la totalità delle guerre e degli imperi nella quale non si parla »81. La cultura che poggia sull’ascolto dell’Altro, presuppone una risposta al richiamo dell’Altro, e un discorso che vinca le divisioni ma si prenda cura delle differenze. La soggettività ad essa corrispondente si configura come « accoglienza dell’Altro, come ospitalità »82. L’incontro con il volto dell’Altro, ingiunge il “non uccidere”: quel volto implora appunto l’ospitalità, dando vita alla parola. All’interno di una parola siffatta, si dispiega una successione di forme corrispondenti alla cultura dell’ascolto del richiamo: una tra queste è la forma del racconto. La prima tra queste parole è la parola di ringraziamento: per scoprirla dobbiamo rivolgerci alla fenomenologia della donazione di Jean‐Luc Marion. La fenomenologia del ringraziamento non trae origine dalla risposta al dono dell’Altro, bensì dalla scoperta del dono stesso al centro della datità. Se la fenomenologia classica ha a che fare non con i doni, ma con i fenomeni‐dati, nei quali il dono è indistinguibile, la fenomenologia di Marion aiuta a identificare nel fenomeno la donazione, che si apre nel suo darsi irriducibile: « La fenomenologia non comincia con l’apparire o con l’evidenza (altrimenti rimarrebbe identica alla metafisica), ma con la scoperta, tanto difficile quanto stupefacente, che l’evidenza in se stessa cieca, può diventare lo schermo dell’apparire – il luogo della donazione »83. Il lavoro del ringraziamento è la scoperta del dono in questo mondo. Ogni giorno abbiamo a che fare con la datità di questo mondo, ma quando oltre la datità noi riconosciamo il dono, allora questo è segno del lavoro del ringraziamento. Il Metropolita Antonij di Surož presenta così l’inizio di questo lavoro: « Non appena noi ci rendiamo conto che nulla di ciò che chiamiamo ‘nostro’ ci appartiene, e allo stesso tempo capiamo che è DATO a noi da Dio e dagli uomini, intorno a noi comincia a stabilirsi il Regno di Dio... Se fossimo veramente attenti a ciò che accade nella vita, noi potremmo raccogliere gratitudine a partire da tutto, come un’ape raccoglie il miele. Gratitudine da ogni movimento, dal respiro libero, dal cielo aperto, da tutti i rapporti umani... E allora la vita diventerebbe sempre più ricca, man mano che diventassimo sempre più poveri. Perché quando un uomo non ha più nulla, e si rende conto che tutto nella vita è carità e amore – egli è già entrato nel 81 Ibi, p. 21. 82 Ibi, p. 25. 83 J.L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, SEI, Torino 2005, p. 21. 17 regno di Dio »84. La nostra capacità di percepire il richiamo è la capacità di scorgere un dono meraviglioso oltre la datità, la quotidianità, il grigiore e la banalità della vita. Meraviglioso non nel senso sentimentale, ma nel preciso senso fenomenologico della parola, come ciò che conduce fuori dalla mente verso l’incontro infinito con l’Altro. Il lavoro del ringraziamento indica un’introduzione alla cultura dell’ascolto del richiamo. Il mio rapporto con l’esperienza non può essere descritto dalla fenomenologia classica. Non si tratta di mettersi davanti all’esperienza del reale; tutto sta invece nel fatto che questa esperienza passi attraverso il lavoro del ringraziamento quale incontro con la donazione come dono. E allora risulta evidente che ad ogni sforzo di comprensione prelude l’operazione della grazia che si manifesta come universale e primaria. Dunque possiamo parlare, se seguiamo Marion, del fatto che le scienze umane contemporanee, andando in cerca della produzione della presenza, devono aprire nel loro fulcro una ermeneutica eucaristica85. Non possiamo più parlare di ermeneutica universale, ad esempio, nello spirito di Gadamer, dal momento che tale ermeneutica assolutizza la procedura interpretativa. Possiamo però parlare di un’ermeneutica che fa memoria della sua nascita dall’esperienza, e questa rammemorazione – è il lavoro del ringraziamento. L’ermeneutica eucaristica indica che il lavoro del ringraziamento, che precede lo sforzo della comprensione, rende evidente questa formula di relazione tra esperienza e narrazione. L’ermeneutica eucaristica è una proposta alternativa, rispetto alla tesi postmoderna secondo cui noi abbiamo a che fare con testi, testi e nient’altro che testi. Per l’ermeneutica eucaristica è importante osservare come la parola e il testo nascano dal lavoro del ringraziamento. Essa è anche uno spazio teoretico, all’interno del quale è possibile pensare un racconto che nasca da ciò che è stato udito nell’avvenimento dell’incontro: un racconto tale che unisca l’esperienza e la narrazione all’interno di una comunità di ascoltatori. Forme distinte di presenza – la violenza, la sfida del sublime e il richiamo del bello – e le forme a loro corrispondenti della cultura e della lingua, permettono di fare ritorno alla domanda benjaminiana sul legame tra racconto e storiografia, e di esaminare il ritorno della narrazione nel contesto della storiografia postbellica. Seguendo Ankersmit si possono distinguere tre forme di filosofia della storia: una filosofia della storia epistemologica, una filosofia della 84 Antonij, mitropolit Surožkij, O blagodarnost’, in Antonij, mitropolit Surožkij. Ljubov’ vsepobeždajuščaja: propovedi, proiznesennye v Rossii, SPb, Satis 1994, pp. 149‐156. 85 Cfr. J.L. Marion, Dio senza essere, Jaca Book, Milano 1987. 18 storia narrativa86, e una filosofia dell’esperienza storica sublime. La filosofia della storia epistemologica è moderna, descrittiva e critica. Essa distingue quale unità interpretativa la dichiarazione dal fatto storico, ed è tesa a rispondere alla domanda sulla veridicità di queste dichiarazioni87. Da questa prospettiva, è evidente la sua contiguità con la tradizione analitica. La filosofia della storia narrativa è postmoderna, interpretativa e linguistica. Essa distingue quale unità interpretativa il narrativo, non scomponibile nelle distinzioni della dichiarazione, ed è tesa a non uscire dai confini della lingua dello storico88, distingue tipi possibili di interpretazione e si preoccupa della loro proliferazione89. Dalla narrativa storica non è possibile separare lo storico stesso, e perciò la domanda sulla veridicità della interpretazione è messa tra parentesi. L’approccio narrativo è legato ad una svolta linguistica nella storiografia, e, oltre ai lavori dello stesso Ankersmit, distintosi negli anni ottanta come apologeta dell’approccio narrativo90, bisogna citare lo studio fondamentale di Paul Ricoeur Tempo e racconto91, e la Metastoria92 di Hayden White. Il terzo approccio, presentato da Ankersmit come filosofia dell’esperienza storica sublime, si delinea durante gli anni novanta ed è legato alla svolta che la teoria storica compie dalla lingua all’esperienza, « dai sistemi universali del significato al significato, circoscritto a situazioni e avvenimenti concreti »93. La seguente constatazione di Ankersmit è vicina all’analisi gumbrechtiana: « La “teoria” e il significato non vanno più mano nella mano; il significato ha trovato un nuovo e più sicuro compagno di viaggio nell’esperienza »94. Dal mondo post‐strutturalista « nel quale “la lingua parla l’uomo” e il soggetto, o l’autore, sono – nel migliore dei casi – attributi della lingua » ci spostiamo verso un paradigma nel quale « scoperta reiterata dell’esperienza è una scoperta reiterata del soggetto »95. Dopo la svolta linguistica, compiamo una svolta antropologica. Al centro di questa filosofia della storia non c’è il narrativo storico, ma il narratore con le sue storie orali. In inglese history e story (due cose diverse in russo), ovvero la storia come occupazione propria dello 86 Cfr. F.R. Ankersmit, Narrativnaja logika. Semantičeskij analiz jazyka istorikov, Moskva, Ideja‐Press, 2003 e Istorija i tropologija: vzlet i nadenie metafory, Moskva, Kanon+, 2009. (Le traduzioni del testo di Ankersmit che seguono sono state qui tradotte sulla base delle citazioni della traduzione russa riportata da A. Filonenko). Cfr. la versione inglese: Narrative logic. A semantic analysis of the historian’s language, Martinus Nijhoff Publishers, 1983 e History and Tropology: The Rise and Fall of Metaphore, University of California press, 1994. 87 Cfr. F.R. Ankersmit, Istorija i tropologija: vzlet i nadenie metafory, cit., pp. 83‐84. 88 Ibi, p. 84. 89 Ibi, p. 129. 90 Cfr. F.R. Ankersmit, Narrativnaja logika. Semantičeskij analiz jazyka istorikov, cit. 91 P. Ricoeur, Tempo e racconto (3 voll.), Jaca Book, Milano 1986‐1988. 92 H. White, Metahistory: the historical imagination in XIXth­century Europe, Baltimore, The John’s Hopkins University Press, 1973. 93 F.R. Ankersmit, Vozvyšennyj istoričeskij opyt , cit., p. 19. 94 Ibi, p. 20. 95 Ibi, p. 21. 19 storico, e la storia come occupazione del narratore, convergono, e questa convergenza risulta pregnante all’interno del terzo paradigma, e prospetta il ritorno del narratore come nuovo cronista e annalista nella storiografia dell’avvenimento contemporanea. Un esempio di nuova storiografia è la storia dell’Olocausto, i cui testimoni sono, o persone ammutolite nella Catastrofe, che non parlano di questa esperienza, ma vivono a partire da essa, oppure testimoni‐narratori: la ricezione dei loro racconti orali si scontra con le difficoltà che stanno al centro del metodo della nuova storiografia. Queste difficoltà possono essere rappresentate con la metafora della vita sulla cascata, presentata da Jonatan Sofran Foer, autore ventenne del romanzo d’esordio Ogni cosa è illuminata96 (Everything is illuminated, 2002). L’autore narra del suo viaggio in Ucraina in cerca di testimonianze sulla patria dei suoi antenati, il piccolo paese ebraico di Trachimbrod, raso al suolo dai nazisti. Il romanzo‐ testimonianza – che fa ridere fino alle lacrime e che fa piangere ai limiti del pianto, disperatamente lucido e commovente oltre ogni speranza, una confessione sincera ed esaltante, che lega insieme i racconti e scioglie il dolore, che si risolve ad un passo verso l’Altro e diviene esso stesso tale passo – è uno splendido esempio di ricerca di una lingua che corrisponda « all’esperienza storica sublime ». In questo romanzo viene presentata una metafora a proposito della vita su una cascata, una vita che unisce più generazioni che, con essa, hanno risposto agli indomabili impulsi tettonici di una forza sovraumana, e a proposito di una famiglia che si è stabilita in una casa nei pressi del rombo della cascata. Dapprima essi diventano sordi e gridano l’uno all’altro, per superare il rumore della cascata, tormentati dall’insonnia corrono fuori casa, ma dopo un paio di mesi si abituano al suo fragore e cominciano ad ascoltarsi l’un l’altro. « E questo è vivere vicino a una cascata, Safran. Ogni vedova si sveglia di mattina, forse dopo anni di lutto puro e inossidabile, per rendersi conto di aver trascorso una bella nottata di sonno, e di poter fare colazione, e di non sentire il fantasma del marito ininterrottamente, ma solo a tratti. Al suo dolore subentra un’utile tristezza »97. Ma la cascata costringe a far memoria di sé, quando essi decidono di prendere a parlare sottovoce con coloro che vivono lontano dalla loro casa: « L’ho capito la prima volta che ho tentato di bisbigliare un segreto senza riuscirvi, o fischiettare una canzone senza insinuare la paura nei cuori di chi era nel raggio di cento metri, quando i miei colleghi nella conceria mi hanno supplicato di abbassare la voce perché “Chi riesce a pensare se gridi in quel modo”? Al che io ho domandato: “STO DAVVERO GRIDANDO?” »98. 96 J. S. Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, 2004. 97 Ibi, pp. 314‐315. 98 Ibi, p. 315. 20 Gli uomini possono dire le cose più profonde e più preziose soltanto sussurrando, e la vita presso la cascata ha insegnato, con il tempo, a parlarsi l’un l’altro di ciò che è importante. Ma ogni nuova generazione, nata lontano da questo roboante e disumano silenzio della Catastrofe, non presta ascolto alle testimonianze, perché esse gridano, benchè sussurrino di una ferita. In ogni caso, noi ci troviamo ora in una situazione in cui è necessario impadronirsi dell’arte di parlare sottovoce, e di mettersi in ascolto attraverso il grido e il mutismo. Senza quest’arte il narratore non verrà udito. Essa mostra la chiave metodologica delle nuove scienze umane. Il testimone: il ritorno del narratore nella teologia. Se al centro delle nuove scienze umane troviamo la relazione fra gli effetti della presenza e gli effetti del significato, il loro interrogativo riguarda soprattutto la poetica della presenza e la lingua del ringraziamento, in relazione al racconto e alle altre forme linguistiche. Questa intenzione metodologica determina una svolta teologica nell’ambito delle scienze umane, sensibili all’esperienza e alla lingua dell’epifania e dell’eucarestia. Ma è anche la teologia stessa a volgersi verso la questione del dono, del ringraziamento e delle loro forme linguistiche, rivelandosi come teologia eucaristica della comunione. Una siffatta teologia, in quanto pratica generativa volta all’Eucarestia, si definisce appunto come opera di ringraziamento. Se la lingua della teologia ortodossa nel XX secolo è stata o una lingua speculativa, orientata verso la corrente filosofica del tempo (sofiologia), oppure la lingua pratica dell’ascesi, che subordina l’elemento catafatico del pensiero speculativo a quello apofatico della teologia mistica esistenziale (sintesi neopatristica), la prima lingua della teologia eucaristica non può essere, invece, né apofatica né catafatica. L’epifania, che si spalanca come un richiamo, esce dai confini delle lingue teologiche, tanto da quello apofatico, quanto da quello catafatico, e, allo stesso tempo, si rivela come fonte di entrambe le pratiche lingustiche. Il richiamo, infatti, genera una forza apofatica, dal momento che appare come un dono che fa cadere in un silenzio carico di adorazione, e che priva del dono della parola. Il richiamo, percepito all’interno di situazioni concrete legate alle diverse pratiche linguistiche, blocca queste stesse pratiche, aprendo una sorta di frattura. Ma in questa frattura nasce una relazione vitale mediante il richiamo, e, come risposta, il ringraziamento. L’avvenimento del richiamo‐dono si manifesta nel mondo come gratitudine, in essa si realizza e permane. Il ringraziamento costituisce anche la fonte della forza catafatica. 21 La stessa divisione tradizionale delle lingue predicative in apofatico e catafatico, risalente alla teologia di Dionigi Aeropagita, si ritrova inserita, come ha mostrato bene J.L. Marion, nella lingua della lode, o dell’inno: « Dionigi tende a sostituire al dire del linguaggio predicativo, un altro verbo, hymnein, lodare. Che cosa significa questa sostituzione? Essa indica certamente il passaggio dal discorso alla preghiera, perché “la preghiera è un logos, ma né vero né falso” (Aristotele) »99. Marion insiste sul fatto che « bisogna oltrepassare l’alternativa categorica, per accedere ad un diverso modello del discorso »100, che definisce discorso di lode. Volendo innanzitutto metterne in evidenza i segni distintivi, Marion precisa: « Dal punto di vista del Postulato, l’anonimato, e la polionimia si incontrano come i due bordi della stessa distanza. E’ compito dei postulanti parlare un linguaggio che si rende conto, per rispettarla, di questa equivalenza di fondo »101. Nel ruolo del linguaggio « appropriato alla distanza che comprende iconicamente il linguaggio stesso »102 si rivela l’inno, o lode. L’operazione del “come” prende per Dionigi la forma logica della lode, in luogo delle operazioni di affermazione e negazione: « donde una proposizione del tipo “x loda il Postulato come y”, nella quale “come” non equivale affatto a “come se, als ob” ma a “in quanto” »103. « E’ certo pronunciato un enunciato [di lode], il quale però è sempre compreso in un meta linguaggio che implica il locutore nella determinazione stessa dell’enunciato » o « riprende la soggettività del locutore nell’insuperabile intenzione al Postulato »104. Andando in cerca del fondamento della teoria del discorso di lode nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, e mettendo a confronto lode e performativo, Marion sottolinea la peculiarità del performativo innografico: se ogni « performativo presuppone che l’enunciatore sia minimamente qualificato sì da autorizzare la performazione corrispondente all’enunciato », qui, invece, « ogni postulante » deve pronunciare la lode, e per di più « la postulazione, per performarsi, dipende qui dal Postulato più ancora che dal postulante, che può e deve postulare solo in chi lo guida e lo precede nella distanza anteriore: il Postulato »105. « Il postulante, lungi dal potere di performare il proprio enunciato, in virtù della propria qualificazione, riceve quest’ultima originariamente da quello che il suo enunciato intenziona senza predicarne nulla »106. La lode trova il proprio fondamento non nel soggetto che la compie, bensì in Colui verso il quale è diretta. Essa « lavora certamente come un performativo 99 J.L. Marion, L’idolo e la distanza, Jaca Book, Milano 1979, p. 183. 100 Ibidem. 101 Ibi, p. 184. 102 Ibi, p. 185. 103 Ibidem. 104 Ibi, p. 186. 105 Ibi, p. 187. 106 Ibidem. 22 (“Ti lodo...”), ma come performativo che, invece di fare delle cose con delle parole, elabora con delle parole dei doni »107. E così l’inno, o discorso di lode, è la prima lingua dell’ermeneutica eucaristica, la quale lega la Presenza e l’Eucarestia, la Parola di Dio e la lode, il dono e il ringraziamento, l’esperienza e la lingua. Se non prestiamo attenzione all’inno come prima lingua teologica, giungiamo inesorabilmente alla frattura tra l’esperienza della teologia esicasta e mistico‐apofatica da un parte, e la teologia dogmatica dall’altra. La crisi della teologia accademica contemporanea consiste nella frattura tra l’esperienza eucaristica della presenza di Dio e le nostre speculazioni: è stato perso l’anello di congiunzione tra la teoria e le pratiche interpretative – e questo anello di congiunzione è l’inno. La teologia contemporanea necessita di una comprensione dettagliata dell’inno. Vladimir Veniaminovič Bibichin l’aveva sentito acutamente, muovendo, in parallelo a Marion, i primi passi nella direzione di una chiarificazione dei tratti peculiari dell’inno: Bibichin tenne un ciclo di lezioni, intitolato “Filosofia grammatica della poesia”, nel secondo semestre del 2000 alla Facoltà di filosofia dell’Università Statale di Mosca (MGU). Durante il corso, partendo dalle sue traduzioni degli inni del Rgveda, realizzate a cavallo degli anni sessanta e anni settanta, presentò uno schizzo della teoria dell’inno: « Nella teoria della letteratura contemporanea, l’inno non si distingue per la poetica accanto all’epica, alla lirica, al dramma, e viene spesso incluso nella lirica. Io lo considero talmente a sé stante, che ritengo piccola la distinzione tra i generi enumerati dalla teoria della letteratura, e grande la differenza dell’inno rispetto alla loro totalità »108. Inscrivendo l’inno in un genere autonomo, Bibichin comincia da una descrizione della posizione particolare dell’autore. Se nell’epos e nel dramma « l’atto dell’autore è già escluso, perché in quei casi l’autore non compare in scena », invece « nella lirica l’io si desta, diventa un altro, vede con sorpresa se stesso e questa condizione di amekania, egli esclude completamente l’atto», mentre nell’inno « il poeta stesso partecipa all’azione esatta, estrema e roboante della chiamata, della partecipazione, precisamente nel compito finale del dono di sé, ossia della professione di fede »109. Bibichin osserva che nella filologia dell’antica Grecia, il primo inno è stato dimenticato, ma è stata conservata la denominazione innografica della poesia come il fare »110. Esaminando, come fa Marion, la natura performativa dell’inno, Bibichin constata: « L’inno è un atto limite, uno slancio 107 Ibi, p. 188. Il testo termina, nella traduzione italiana con l’esplicazione: « “Ti lodo come ‘y’, ‘y’, ‘y’”, ecc. » (N.d.t.). 108 V.V. Bibichin, Grammatika poezii. Novoe russkoe slovo, Izdatel’stvo Ivana Limbacha, SPb 2009, p. 133. 109 Ibi, p. 136. 110 Ibi, p. 132. 23 estremo, un momento trionfale della storia, che si accompagna alla certezza nella liminarità di questo stesso avvenimento. La trasformazione‐dilatazione è accolta con gioia ..., colui che canta entra in contatto con un sé che prima, probabilmente, non aveva mai conosciuto, e riconosce questo nuovo sé come autentico ». Inoltre, la scoperta dell’autentico io che canta si disvela nell’inno e nella società parcellizzata del noi: « E’ chiaro che, sul confine verso il quale tende l’inno, l’io diventa noi, perché è pronto ad abbracciare tutti, e questo, a sua volta, accade perché esso si lega alla vita, all’essere. Quando un canto realizza questi due passaggi, verso tutti e verso tutto, partecipando di tutto e di tutti, il termine lirica è ancora meno adeguato per denominare questo genere di poesia; esso costituisce le fondamenta, semmai, per parlare in modo specifico dell’inno »111. Nell’inno c’è « una via d’apertura verso ciò che è unico, verso un livello di affermazione della vita (dell’essere). L’unicità qui è l’uscita dalla metrica. Non si salva nulla dei parametri del progresso, oltre alla felicità folle, all’estasi »112. Nella descrizione dell’esperienza innografica di Bibichin, sono presenti tutti i caratteri dell’epifania che sono messi in evidenza da Gumbrecht, ma ad essi si aggiungono la distinzione linguistica dell’epifania nella comunità di coloro che cantano e esultano, e l’aspetto performativo della lingua innografica: « Nell’inno se non c’è parola non c’è un fatto, così che non c’è il silenzio efficace, efficiente »113. Nella parola dell’innografia « non esiste differenza tra religione, poesia e filosofia né, ancora, differenza tra le diverse arti, né tanto meno tra pensiero e parola, e men che meno tra vita e essere. Questo insieme di acquisizioni non è preso dalla teoria, ma dalla forza »114. La lingua dell’inno, la lingua del ringraziamento, somiglia « alla fisica contemporanea, che conosce soltanto una datità affidabile, e precisamente questa stessa datità, che la datità è data, e dà in risposta ad essa una figura », ma gli autori di inni « distinguono, creano un volto, la cui immagine viene dall’essere ». Se per Benjamin è importante il rapporto genetico del racconto con l’epos, l’ermeneutica eucaristica invece si apre per mezzo della relazione del racconto con l’inno. L’inno « che crea doni con le parole », che è teso alla condivisione del ringraziamento, si apre come un discorso‐ azione, diretto agli ascoltatori, che genera in questa tensione il racconto‐testimonianza. Il passaggio dall’inno di ringraziamento alla testimonianza è stato esplicitato in modo magnifico dal metropolita Antonij di Surož: « Il frutto della vita è la gratitudine, ma la stessa gratitudine deve portare frutto... La gratitudine – e solo essa – può spingerci all’impresa 111 Ibi, p. 142. 112 Ibi, p. 148. 113 Ibi, p. 124. 114 Ibi, p. 122. 24 estrema dell’amore verso Dio e verso gli uomini. Il senso del dovere, degli impegni, probabilmente non troverà in sé la forza di compiere il gesto ultimo della vita, del sacrificio, dell’amore. Ma la gratitudine la troverà »115. Proprio in questo passaggio si può rilevare, inoltre, una pluralità di forme: ci soffermiamo qui sulla forma del pianto, e su quella della predicazione. Nel 1926, il suo ultimo anno di vita, Rilke, nell’elegia dedicata a Marina Cvetaeva‐Efron, portando a compimento la svolta verso la forma dell’inno, ne ravvisa la affinità con il pianto: « Che tutto sia un gioco, uguale che muta, rinvio, mai un nome, né mai forse un segreto frutto? Onde, Marina, noi mare! Abissi, Marina, noi cielo. Terra, Marina, noi terra, noi mille primavere che, come allodole, il sorgere di un canto lancia nell’invisibile. S’inizia qual giubilo e già completamente ci soverchia; d’un tratto il peso nostro piega in lamento il canto. E pure: lamento? Non forse – più nuovo giubilo, che volge in basso? »116 Il pianto è in grado di condurci fuori dal mutismo in cui siamo finiti dopo le catastrofi del XX secolo. Il pianto è quella forma del discorso di lode, la cui acquisizione costituisce l’arte di parlare sottovoce e di porgere l’orecchio per distinguere il sussurro nel grido. E’ importante aver acquisito nel XX secolo, grazie a Bachtin, una teoria articolata della cultura comica; posto questo però, sappiamo incommensurabilmente poco della cultura del pianto, e del rapporto di quest’ultima con la cultura della commemorazione. Anche l’inno, che era commemorazione di sé, nella poesia di Chlebnikov e di Rilke, e il pianto, a cui l’Achmatova dava voce nel Requiem, devono entrare a far parte del centro dell’ermeneutica eucaristica, e, nel legame con essa, delle scienze umane che si volgono alla « produzione della presenza ». Per la teologia, la comprensione di queste forme determina una svolta verso il liturgico come teologia prima, dalla quale nascono l’estetica e la dogmatica. Dopo il pianto, la seconda forma che deriva dall’inno è la predicazione, la cui crisi contemporanea, secondo quanto osservato da Ol’ga Sedakova, è dovuta al fatto che, una volta 115 Antonij, mitropolit Surožkij, O blagodarnosti, cit., p. 120. 116 Marina Cvetaev, Reiner Maria Rilke. Lettere, SE, Milano 2010. 25 ‘uscita’ dalla culla dell’inno117, essa ha perduto il legame con l’inno e si è trasformata, per usare la definizione di Averincev, « in un prodotto didattico di tipo oratorio, contenente prescrizioni etiche »118. Lo sviluppo della teologia eucaristica è legato senza dubbio ad un rinnovamento dell’omiletica, della quale hanno lasciato esempi impressionanti Antonij, metropolita di Surož, padre Aleksandr Šmeman, Sergej Sergeevič Averincev, padre Aleksandr Men’, padre Georgij Čistjakov. Fin dalle origini, la predica come testimonianza è il vero e primo frutto dell’inno. La predica, come genere che porta l’inno fuori dalla chiesa verso il mondo, è la seconda forma di pratica discorsiva che riveste un interesse particolare per l’ermeneutica eucaristica. E infine, dalla predica nasce la terza pratica discorsiva, che conduce verso la cultura contemporanea e verso le scienze umane rinate che le sono legate, è cioè proprio il racconto, che commisura l’inno alla vita attraverso la testimonianza. Per Leskov era chiaro che l’autorità del racconto si fonda sui giusti, la cui testimonianza vivente costituisce la trama della tradizione ecclesiastica, che trova la sua realizzazione proprio nel racconto. Il narratore ritorna in quella cultura che concepisce se stessa come risposta ad un richiamo secondo tre ipostasi: quella dell’innografo, quella del predicatore e quella del testimone. (Trad. it. di Vera Pozzi) BIBLIOGRAFIA: Agamben G., Il testimone, in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998. Ankersmit F.R., Istorija i tropologija: vzlet i nadenie metafory, Moskva, Kanon+, 2009 (History and Tropology: The Rise and Fall of Metaphore, University of California press, 1994). Id., Narrativnaja logika. Semantičeskij analiz jazyka istorikov, Moskva, Ideja‐Press, 2003 (Narrative logic. A semantic analysis of the historian’s language, Martinus Nijhoff Publishers 1983). 117 O. Sedakova, Jazyk propovedi, jazyk propovednika (Lingua della predica, lingua del predicatore), in Duchovnoe nasledie mitropolita Antonija Surožkogo, Moskva, Fond “Russkoe Zarubež’e”, 2008, p. 335. 118 S.S. Averincev, Sofija – Logos. Slovar’ (Sofia­logos. 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