BOLLETTINO U.C.F.I. (UNIONE CATTOLICA FARMACISTI ITALIANI) – SEZIONE DI VERONA LUNGADIGE SAMMICHELI, 3 C.A.P. 37129 VERONA TEL. 045/8034396 E-MAIL: ethical@brembenet .it SITO INTERNET: www.farmacieverona.it e www.ucfi.it N. 18/05 Questioni etiche in rapida evoluzione OSSERVAZIONI ETICHE IN MATERIA DI “TEST GENETICI” La decodificazione del genoma sta portando sempre più a scoprire numerose conformazioni genetiche che possono preludere all’instaurarsi di malattie o contribuire ad una predisposizione ad esse. Tale situazione comporta che l’analisi del patrimonio genetico di ciascun individuo contribuirà ad identificare una schiera innumerevole di non-pazienti, e nello stesso tempo a mutare il concetto di salute e di malattia, dato che predisposizioni genetiche ad una malattia piuttosto che ad un’altra sono presumibilmente ubiquitarie. Ne risulta la necessità di regolamentare secondo principi etici volta per volta l’uso dei tests genetici, e a limitarne l’applicazione indiscriminata; ne risulterebbe altrimenti un’utilizzazione eugenetica o comunque discriminante delle singole persone e/o nascituri. Prima di tutto, tramite le conoscenze che derivano dall’applicazione del “Progetto Genoma”, si sta creando un sempre crescente gap tra le capacità diagnostiche e i mezzi terapeutici. Sarà in futuro possibile conoscere ogni dato appartenente alla morfologia del nostro genoma e, in alcuni casi, ogni possibile alterazione, piccola o grande, potrà essere diagnosticata. Ma le conoscenze del progetto “HUGO”, che potremmo definire “l’anatomia del genoma”, non modificheranno a breve le informazioni riguardo la funzione di questi geni medesimi (“la fisiologia del genoma”), la cui conoscenza è destinata a rimanere per molto tempo ancora sconosciuta, a causa della complessità dei meccanismi biomolecolari. Così, in un futuro prossimo, avremo molti test genetici indicativi per l’anomalia, che tuttavia non saremo in grado di confrontare con validi strumenti terapeutici o preventivi: una moltitudine umana composta da non–pazienti si sta muovendo verso il confine medicina molecolare e genetica. Un esempio di questa categoria potrebbero essere i portatori di una tripletta di tre basi nucleotidiche (per la precisione CAG) ripetuta per più di 40 volte. Il gene responsabile della malattia di Huntington è stato identificato nel 1993 e si trova sul cromosoma 4. È stato chiamato IT-15 e contiene le informazioni per la produzione di una proteina, huntingtina, dalla funzione ancora ignota. Nelle persone normali il gene della huntingtina contiene corte ripetizioni della suddetta tripletta, da poche a un trentina. Nelle persone affette dalla malattia di Huntington la tripletta è ripetuta un numero maggiore di volte, da 40 a un centinaio. Queste espansioni alterano la funzione della proteina e la presenza di una sola copia Premessa L’incremento delle nuove conoscenze concernenti le strutture e le funzioni dei geni umani e delle nuove tecnologie laboratoristiche per l’analisi dei materiali genetici sta proponendo una serie di nuovi test genetici. Questi test non solo possono offrire nuove possibilità per la diagnosi delle materie esistenti, ma possono essere considerati mezzi innovativi per valutare i futuri rischi di malattia per un individuo al momento sano e per la sua stirpe e quando un effettivo intervento preventivo è possibile, per promuovere atti medici o comportamentali per ridurre quel determinato rischio. I progressi della genetica e della medicina molecolare stanno rivoluzionando l’approccio di base nella ricerca delle malattie, con la possibilità di fornire gli strumenti per attuare strategie diagnostiche e terapeutiche individuali, al fine di mantenere la salute, prevenendo la malattia e migliorando i trattamenti. Questo approccio potrà essere realistico non solo per i disordini recati dall’anomalia di un singolo gene, come per la corea di Huntington, ma pure per i malati delle più comuni malattie complesse come il diabete, le malattie cardiache, la schizofrenia e il cancro, dove le sottili differenze genetiche possono contribuire al rischio malattia e alla risposta a particolari terapie. Nonostante questa visione assai ottimistica delle nuove frontiere della genetica, molte obiezioni possono essere sollevate, soprattutto nell’ambito etico e deontologico e, dunque, di procedura comportamentale. Applicazioni pratiche dei test genetici 1 alterata del gene è sufficiente a far sì che la malattia si sviluppi, giacché si trasmette con modalità autosomica dominante. Nelle persone che hanno un numero di triplette intermedio (30-35 ripetizioni) si ha una condizione genetica definita pre-mutazione. Questi individui non sviluppano la malattia, ma rischiano di trasmetterla ai figli, poiché durante la formazione dei gameti è possibile l’ulteriore espandersi delle triplette. Si è altresì osservato che questo fenomeno è assai più probabile durante la formazione degli spermatozoi rispetto agli ovuli, sicché se è la madre ad aver la premutazione è molto più difficile che i figli si ammalino. Da quanto detto è possibile che una persona sviluppi la malattia anche se i genitori non si sono mai ammalati. La diagnosi della malattia di Huntington si basa innanzitutto sulla presenza di sintomi neurologici, ed è rinforzata dalla presenza di altri casi nella storia familiare. Tuttavia i primi segni sono tanto vaghi da render impossibile valutare quanto siano specifici o quanto condizionati dall’ambiente familiare e dalla paura di aver la malattia. Per una corretta diagnosi il medico deve prima escludere altre malattie quali la schizofrenia, l’alcolismo, la depressione, il morbo di Parkinson e altre patologie che causano problemi del movimento e demenza. Oggi, però, è soprattutto l’analisi genetica che permette l’identificazione di possibili malati quantificando il numero di triplette presenti del gene responsabile. L’introduzione dell’esame del DNA permette di far previsioni sulla possibilità di sviluppare la malattia ed a richiederlo sono i figli e i fratelli sani o ancora asintomatici di persone affette. Il confronto dell’esame genetico di una persona con quello del parente malato indica con certezza se questa abbia ereditato o no l’alterazione, altrimenti il test prende in considerazione solo la lunghezza delle triplette e dà un risultato affidale al 95-99%. Nell’individuo asintomatico (il non-paziente) è impossibile prevedere se e quando manifesterà la malattia, essendo molto variabile l’età di esordio (anche in vecchiaia). Ciò vale pure per la diagnosi prenatale: si può determinare se il feto presenta espansioni delle triplette, ma non si possono fare previsioni sull’evolversi della malattia. Solo per espansioni maggiori di 50 si stabiliscono correlazioni: più elevato si presenta il numero di ripetizioni, più grave e precoce è la malattia. In una malattia tanto devastante, per cui non vi è terapia specifica né preventiva e in cui l’età d’esordio è assai variabile, effettuare o meno il test per i figli e i fratelli delle persona malate è una scelta che condiziona la vita futura ed è una decisione che ognuno deve prendere solo dopo aver avuto almeno un’informazione adeguata. Nella prassi comune avviene che alcuni decidono comunque di effettuare il test, altri non lo fanno, sapendo ugualmente di avere il 50% delle probabilità di non esser portatori dell’alterazione genetica. Ci sembra opportuno in ogni caso un iter obbligatorio, che ha lo scopo di informare la persona interessata affinché comprenda appieno tutte le implicazioni del caso, il tutto assieme ad un sostegno psicologico adeguato. Riflessioni etiche Come accade spesso in questi casi la riflessione degli eticisti si divide in due nette categorie. Gli strenui oppositori dell’introduzione nella routine di questi test diagnostici sostengono che la conoscenza di un alto rischio di sviluppare la malattia, soprattutto se non esistono mezzi di prevenzione adeguati, raggiunge solo l’obiettivo di condurre ad una “ discriminazione genetica” circa la copertura assicurativa di questi nonpazienti. Ne risulterebbe una posizione che tende e bloccare, frenare se non addirittura ad abolire queste tecniche diagnostiche. D’altro canto, i favorevoli a questa nuova attitudine affermano che le prove di una tale predisposizione aiuteranno il non-paziente a implementare la sua attenzione riguardo alla prevenzione e a pianificare più coscientemente il suo avvenire. Questi teorizzano inoltre che “la conoscenza per la conoscenza” è da considerarsi uno dei pilastri della cura della salute e del consenso informato stesso, così che lo status genetico di un individuo debba considerarsi uno step obbligato nel processo della sua cura. Di qui risulta una tendenza ad utilizzare e produrre i suddetti test in modo indiscriminato. E’ vero che queste modificazioni culturali, che migliorano la condizione della cultura umana, forzano la revisione di precedenti principi legali atti ad assicurare la protezione dell’individuo, così come per altre migliorie scientifiche, la coscienza politica e sociale dell’applicazione di nuove tecnologie si sviluppa più tardi rispetto alla loro introduzione nella vita di tutti i giorni. Ne deriva che, in considerazione degli aspetti legali, molti paesi, ad esempio gli USA, affrontano in un secondo momento, ma comunque in modo serio , le problematiche nascenti dai test genetici, come la discriminazione e la riservatezza, promuovendo fondi per la protezione sociale e legale. Altri paesi, come Francia e Italia, invece, sono ancora orientati ad applicare le legislazioni esistenti, partendo dall’assunto che i principi vigenti possono essere indipendenti dalle nuove tecnologie. In altre parole, prima di intraprendere nuove pratiche scientifiche, vi è la necessità di modificare i principi e le leggi vigenti. Del resto la rivoluzione genetica e molecolare nella cura della salute, sta causando una profonda riconsiderazione dei molti principi centrali propri della medicina ippocratica. Il primo tra questi è la nozione di persona sana. L’acquisizione della completa sequenza genica di ognuno offrirà ai ricercatori una tale varietà tra gli individui che lo stesso concetto di normalità non potrà essere applicato ad ognuno di noi. Noi appariamo unici da un punto di vista di sequenze biomolecolari e in ognuno di noi parecchi geni predisponenti o patologici possono essere identificati. Sicché ognuno può, senza alcuna manifestazione patologica, essere eventualmente classificato sia come malato che come non-paziente. Ciò comporterebbe una nuova concezione filosofica e antropologica di malattia e 2 di salute che ancora non è completamente identificata, pur essendo da tempo allo studio. Il secondo aspetto etico, come menzionato dal French Ad Hoc Committee, riguarda l’informazione, che può portare con sé preoccupanti aspetti e risvolti sociali e psicologici sull’individuo e la sua famiglia a causa del gap tra le conoscenze scientifiche e la loro utilità nella pratica clinica. Inoltre, al contrario del passato, la diagnosi di malattia deducibile dal DNA non resta confinata al solo individuo, ma comprende ascendenti e discendenti (la cosiddetta “famiglia genetica”). Il concetto o il principio di autonomia, del medico e del paziente, che pare facilmente raggiunto nella maggior parte delle procedure mediche, viene drammaticamente sfidato dalla prassi dei test genetici, in special modo in quelli che riguardano la suscettibilità al cancro o a malattie quali la Corea, dove massimo è il dilemma etico tra il diritto di sapere e quello di non sapere, per la scelta che ne deriva se intraprendere o no una maternità/paternità. Per il genetista la definizione di un corretto “pedigree” è essenziale per valutare il rischio e la suscettibilità a un dato test genetico. Per questo motivo la diagnosi genetica non può essere considerata un’attività meramente collegata all’individuo, ma a tutti coloro che condividono la stessa stirpe. Così, sebbene paia assai ragionevole e moralmente corretto che un individuo desideri conoscere se stesso nella maniera più profonda (a livello del DNA), in quanto detentore di tale diritto, d’altra parte la stessa dignità e gli stessi diritti e motivazioni devono accordarsi con quelli degli elementi della stessa famiglia, che desiderano eventualmente non venire a conoscenza. La meta di questa investigazione non appare come la volontà di acquisire informazioni private riguardanti un’altra persona, ma il desiderio e l’intenzione di evidenziare il più chiaro scenario dell’eredità propria di un individuo. Tuttavia, in una situazione di conflitto di interessi, il rispetto dell’autonomia pare imperativo, al punto che il genetista dovrà fornire tutte le informazioni mediche e genetiche utili a chi si sottopone al prelievo del sangue, ma mantenere il rispetto della privacy per che non desidera essere informato sui risultati del test genetico. Il principio di beneficialità a sua volta condurrà a sciogliere eventuali reticenze per il bene comune della persona stessa o della prole. La mancanza delle adeguate terapie porterà comunque alla necessaria prudenza nell’utilizzo dei test stessi, per evitare conflitti di coscienza nell’intraprendere le relative paternità o maternità, e per evitare odiose discriminazioni. Un soggetto con eventuali anomalie genetiche non è infatti per questo sminuito nella sua identità personale. Né tutto può o deve essere tradotto in termini economici od assicurativi; ciò rivelerebbe ancora una volta una visione utilitaristica ed una sottomissione della persona all’imperativo economico. Situazioni anche più complesse e delicate possono poi intuitivamente verificarsi alla presenza di un figlio adottivo, il quale cerchi do coinvolgere i genitori naturali nel processo di consulenza genetico, in cui il genitore naturale dovrà essere lasciato opportunamente libero di contribuire senza obblighi o coercizioni morali e legali, né interferire con i genitori legittimi. Il problema del consenso Una recente sentenza italiana dell’Autorità della Privacy ha deciso che il bene salute è da privilegiarsi rispetto alla privacy.1 Così, membri di una “famiglia genetica” possono essere informati dei risultati di laboratorio anche senza il consenso o contro la volontà dell’individuo che s’è sottoposto al test per una determinata malattia o predisposizione ad essa. Questa decisione si capisce subito dimostrarsi eccessivamente tranchante, e rivelare la cosiddetta e ben nota “tirannia dei principi”. In questo caso, infatti, la privacy, o meglio la conoscenza subordinata agli altri valori della persona, relativizzano il senso del valore “salute”, il quale non può essere inteso in senso astratto ed assoluto. Per un corretto consenso informativo è opportuna, invece, una chiara descrizione dei benefici e dei rischi attesi dalla procedura, la sensibilità e specificità e il valore della predizione. Solo dopo di ciò il paziente potrà liberamente decidere se sottoporsi o no a determinati test ed accertamenti. Dopodiché ulteriori informazioni circa il test devono essere prodotte in modo chiaro e consono al livello culturale e di comprensione del paziente: informazioni formali, come la logistica del test, come e dove ricevere i risultati, chi li comunicherà, se i campioni verranno conservati e per quanto; teoretiche come le implicazioni e le limitazioni dei risultati; legali, come la potenziale perdita di copertura assicurativa. Il proliferare di questi test porterà, secondo alcuni studiosi, ad un aumento delle diagnosi prenatali per stabilire lo status genetico del feto. Se positivo, il test potrebbe addirittura portare ad un largo uso delle procedure di aborto, giustificato anche solo dalla convinzione che lo stato di portatore sia equiparabile a quello di malato. Il problema assume dunque un peso di gravità enorme e dimostra una pericolosa mentalità eugenetica: ci sentiamo il dovere di diffondere un forte segnale di allarme a questo riguardo. Come precedentemente evidenziato, la diagnosi genetica ha scaturito numerosi scontri e conflitti tra il bene salute individuale e il bene privacy (inteso nella complessità di cui sopra si diceva) dei restanti componenti della famiglia e il fatto che i risultati di una consulenza genetica possano considerarsi non più come una proprietà dell’individuo, ma della famiglia e, ancora, il rispetto sia di chi vuole sapere, sia di chi non lo desidera. Nei riguardi dei minori e persone prive della capacità di dare il consenso la preservazione della privacy del paziente dipende dal suo status e dal suo sviluppo mentale: il campo come al solito si complica ulteriormente: In ogni caso resta tale il diritto di essere informati e di scegliere, sicché una valutazione caso per caso va fatta, sforzandosi di ottenere sempre un 1 TROIANI F., La tutela della privacy in ambito sociosanitario, Rimini: Maggioli, 2001. 3 vero coinvolgimento cosciente del soggetto nelle decisioni che riguarderanno lui e la vita dei suoi congiunti. L’ambito soggettivo ha sempre il suo innegabile rilievo. Qualora nessuna reale prevenzione o cura sia possibile, è necessario sforzarsi di evitare la diagnosi fine a se stessa per preservare il diritto del soggetto, specie se minore, di sapere o non sapere, ma sempre in relazione a possibili terapie attuabili, e non solo come conoscenza di un dato pur vero e scientifico, ma che porterebbe solo a penalizzarlo (lui e suoi congiunti) anziché aiutarlo nel vivere. anonima, considerando tale procedura una condizione sufficiente per mantenere la riservatezza. Sebbene la tutela della riservatezza e della privacy sia una situazione determinante per il paziente e la sua famiglia, altri problemi possono insorgere dal “possesso” di dati genetici, soprattutto quando da questi si ricavano brevetti relativi a scoperte nel campo della genetica che divengono poi fonte di considerevoli guadagni, come già di fatto sta accadendo in Europa. Si introduce così un’altra controversia sulla responsabilità professionale riguardo l’accesso alle informazioni e ai nuovi ritrovati nel campo della genetica, che dovrebbero essere forniti ai soggetti interessati. Questo aspetto potrebbe dipendere da come si interpreta il concetto di “nuovi ritrovati”, ritenendoli quelle scoperte prive di una ricaduta nella cura del paziente e che, quindi, egli non ha titoli per ricevere; è invece chiaro che ogni nuovo ritrovato in grado di apportare migliorie nello status del paziente o di accrescere le sue conoscenze riguardo la malattia dovrebbe essergli reso disponibile. Circa la scoperta incidentale, un tale evento dovrebbe esser preventivato e pianificato col soggetto, soprattutto quando questo non sia legato direttamente alla patologia per cui si è richiesta la consulenza o il test. Ipotesi di responsabilità professionale Da un punto di vista generale, i principi di una corretta pratica clinica e gli standards di cura sono universalmente accettati. Devono conformarsi alle conoscenze scientifiche attuali e farsi carico del massimo interesse del paziente. E’ palese che l’errata interpretazione di un test o la sua omissione o l’effettuazione di una procedura medica che crei danno a un paziente è sempre una fonte di responsabilità legale; soprattutto quando è disponibile un provato rapporto rischi/benefici e/o un valido protocollo di follow-up per la prevenzione. Anche se la validità di questi standards non è assoluta e la condizione dello status di portatore è la sola informazione attesa, l’errata interpretazione di un test o di segni clinici può avere rilevanza penale, nella misura in cui ciò venga a incidere sulla scelta di generare figli del paziente o sulla previsione della qualità e durata della propria esistenza. A partire da ciò, è chiaro quali peculiari aspetti legali derivino dalla consulenza e dai test genetici: prima di tutto dobbiamo considerare che molti test di laboratorio sono ancora “in limite” tra sperimentazione e routine, sicché è facile si creino conflitti nella definizione delle linee guida corrette per una buona pratica clinica e, conseguentemente, gli strumenti per una valutazione giuridica dell’erronea interpretazione di test e conduzione di terapie e follow-up. Se dal punto di vista etico e deontologico, pur sommariamente, posiamo però ritenere che la responsabilità professionale esista solo se sia effettivamente mancata una consulenza genetica per quei test e per quelle malattie già sicuramente diagnosticabili e inserite nelle linee guida, nessuna responsabilità professionale potrà essere invece invocata a proposito di un soggetto già concepito, se pur con anomalie genetiche impreviste e imprevedibili, o anche prevedibili, ma tuttavia accadute e presenti, pur nella regolarità dello screening genetico pre-natale previsto. E’ importante evidenziare, inoltre, che in tali situazioni il comportamento del consulente può diventare determinante a tal punto da indirizzare il paziente e condizionarne le sue decisioni. L’uso di una banca del DNA è universalmente considerato della massima importanza nel promuovere nuove ricerche e la conoscenza circa i disordini genetici. La maggior parte dei laboratori registrano i dati in loro possesso in forma Conclusione Da questa pur breve disamina risulta evidente come il problema sia tra i più aperti e discussi, anche perché la materia scientifica è già di per se stessa in rapida evoluzione, così come le problematiche etiche ad essa collegate. Come si sarà notato le nostre valutazioni sono animate da una visione antropologica che denota un’attenzione alla centralità della persona umana, anche e soprattutto nella sua eventuale realtà di presenza di anomalie genetiche; una ricerca fine e appassionata di tutte le metodologie scientifiche e soprattutto terapeutiche che veramente possano essere ritenute a servizio della persona stessa; un richiamo al senso della paternità/maternità responsabile alla luce delle conoscenze che la scienza mette e disposizione e sotto l’egida di un rapporto medico-paziente in cui il “consenso informato” sia solo la ratifica di un dialogo profondo e costruttivo tra le due parti. Non è mancato un segnale avveduto a proposito delle “tentazioni” eugenetiche che nulla hanno a che fare con un impegno serio, avvertito e appassionato per la ricerca diagnostica e terapeutica, che sicuramente in questo campo come in moltissimi altri ha il diritto e il dovere di progredire. L.M. Bucci, M. Paganelli, A. Ventura, F. Ventura, R. Celesti Dipartimento di Medicina Legale, del Lavoro, Psicologia Medica e Criminologia Università di Genova – Sezione di Medicina Legale (tratto da Medicina e Morale, 2005/4) 4 5