Dispensa redatta nell'ambito del "Piano Straordinario per il Lavoro in Sicilia: Opportunità Giovani" Priorità 3: Formazione Giovani "ARTHA S.R.L." REGIONE SICILIA PROGETTO COFINANZIATO DAL PIANO STRAORDINARIO PER IL LAVORO IN SICILIA: OPPORTUNITÀ GIOVANI - PRIORITÀ 3: FORMAZIONE GIOVANI Progetto “IUVARE - ID 535” TITOLO DEL CORSO “OPERATORE/TRICE DI LUDOTECA” A.F.2015 Sede di svolgimento: Milazzo (ME) N. CIP: 2012SIXXXPAC00/10001/PG/5003/FG/III-659 - CUP: G49J14001210001 AMBITO FORMATIVO FAS (Formazione Ambiti Speciali) MODULO DI "PRINCIPI E METODOLOGIE DI PSICO-PEDAGOGIA, PEDAGOGIA SOCIALE E CULTURA LUDICA" Dispensa redatta dal Formatore Costanzo Patrizia Contenuti estratti da testi propri e da siti Internet Ore modulo: 144 PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO Oggetto di studio della Psicologia dello Sviluppo riguarda l’intera vita umana, dal concepimento alla morte. Si pone, dunque, come disciplina che prende in considerazione l’intero ciclo di vita, poiché ritiene che le funzioni psichiche subiscano dei mutamenti evolutivi incessanti lungo il corso della vita. Oggi sappiamo, infatti, che lo sviluppo psicologico non riguarda soltanto l'infanzia, ma ogni età della vita e si occupa di tutti i tipi di cambiamento ovvero chiama in causa processi inerenti sia l'acquisizione che la perdita di capacità. Attualmente la psicologia dello sviluppo si interessa principalmente dei fattori che determinano lo sviluppo umano, dei processi che stanno alla base dei cambiamenti e dell'origine e della modificazione dei comportamenti. Essa è stata a lungo dominata da modelli di spiegazione che facevano risalire lo sviluppo e l'interpretazione del comportamento umano a cause da ricercare nell’ambiente e nei fattori biologici. QUAL È LA NATURA DEL CAMBIAMENTO CHE CARATTERIZZA LO SVILUPPO? Per sviluppo si intendere, in modo generale, il processo che sottolinea i complessi cambiamenti che si verificano nel corso della vita. Con il termine sviluppo, in Psicologia, ci si riferisce al processo attraverso il quale un organismo acquista la capacità di affrontare con sempre maggior successo il proprio ambiente modificandosi e differenziandosi nelle strutture, nelle funzioni e nei comportamenti, grazie alla maturazione biologica e all'influenza che gli stimoli esterni hanno sulla stessa crescita. (INTERAZIONE/SCAMBIO CON L'AMBIENTE) Il concetto di sviluppo si innesta sull'annosa polemica di concezioni contrapposte: l'innatismo e l'empirismo. Queste due posizioni attribuiscono rispettivamente ai fattori genetici e ai fattori ambientali la causa determinante dell'evoluzione dell’uomo. INNATISMO La concezione innatista sostiene che ogni aspetto della vita individuale, sia biologico che psichico, è già predisposto sin dall'inizio della vita individuale in quanto legato direttamente al patrimonio genetico che ciascuno riceve attraverso la trasmissione ereditaria; ogni sviluppo, ogni trasformazione evolutiva dell'essere umano dalla nascita sino alla maturità non sarebbe altro che lo svolgersi di potenzialità. L'innatismo attribuisce ai fattori genetici la causa determinante dell'evoluzione dell’uomo. EMPIRISMO si contrappone alla posizione precedente, ritenendo che lo sviluppo dell'individuo è strettamente legato alle esperienze, ai modi di vita, all'ambiente sociale e culturale che lo condizionano sin dalla nascita. Al momento attuale si può dire che il dibattito sia giunto a privilegiare una posizione di compromesso: lo sviluppo è dovuto sia a fattori congeniti sia a fattori acquisiti. A cominciare dagli anni Settata, emergono nuove visioni dei processi di crescita. Innanzi tutto, viene riconosciuta la limitatezza dell'enunciato che, con l'adolescenza, vedeva concludersi la fase di acquisizione e di trasformazione costruttiva del Sé e delle potenzialità psicologiche. Le scoperte dei neurofisiologi sulla elasticità del cervello, capace di fronteggiare le modificazioni ambientali e dotato di molte capacità “vicarianti” hanno supportato gli studi della psicologia e in parte modificato gli assunti di partenza. Infatti, significativi spazi di apprendimento e di ristrutturazione psicologica si sono osservati in età adulta, al punto di richiedere il passaggio dal concetto di "psicologia dell'età evolutiva" a quello di "Psicologia dello sviluppo". L'empirismo attribuisce ai dell'evoluzione dell’uomo. fattori ambientali la causa determinante Dal punto di vista psicologico, dunque, lo sviluppo viene definito in termini di interazioni tra l'individuo e l’ambiente. Inizialmente tali scambi sono finalizzati essenzialmente alla sopravvivenza, poi diventano sempre più complesse e consentono l’acquisizione di abilità via via sempre più complesse. Così, nell’ultimo periodo, si è gradualmente fatta strada l'idea che i processi di trasformazione siano complessi e molteplici, che seguano ritmi e modelli differenziati e possano coesistere in ogni istante dello sviluppo umano processi costruttivi ed altri distruttivi. Un'ulteriore questione che si apre quando si affronta il concetto di sviluppo, fa riferimento alle modalità attraverso le quali esso si manifesta, se cioè avviene per accrescimento e accumulazioni successive sviluppo quantitativo trasformazioni e modificazioni delle strutture pre-esistenti sviluppo qualitativo o come Anche in questo caso, come vedremo, è possibile ritrovare posizioni contrastanti. Alla base della prospettiva di sviluppo quantitativo si può cogliere la tendenza a ritenere il bambino, alla nascita, come una sorta di recipiente da riempire e da modellare per giungere, infine, ad un traguardo di compiutezza grazie agli stimoli del mondo circostante. Lo sviluppo visto in questi termini é un graduale accumulo di cambiamenti nel tempo. A queste modalità di sviluppo sono da ascriversi le teorie del comportamentismo che, come vedremo, considera il bambino come un organismo interamente plasmato dalle esperienze e dall’apprendimento. Nella prospettiva qualitativa i cambiamenti dovuti allo sviluppo dell'individuo e determinati da eventi specifici, come ci dice la stessa parola, portano l'organismo ad un livello di sviluppo qualitativamente superiore. Affinchè tali cambiamenti possano essere considerati sviluppo, però, devono essere in grado di articolare strutture e modalità interattive maggiori. Sono queste, le teorie organismiche come quelle di Piaget e Vygotskij, che considerano il bambino come un attivo costruttore delle proprie capacità e lo sviluppo è dovuto a influenze interne piuttosto che a fattori ambientali esterni. PER RIASSUMERE: Con il termine sviluppo ci si riferisce al processo attraverso il quale un organismo acquista la capacità di affrontare, con sempre maggior successo, il proprio ambiente modificandosi e differenziandosi nelle strutture, nelle funzioni e nei comportamenti, grazie alla maturazione biologica e all'influenza che gli stimoli esterni hanno sulla stessa crescita. Il concetto di sviluppo si innesta sull'annosa polemica di concezioni contrapposte: l'innatismo e l'empirismo. Queste due posizioni attribuiscono rispettivamente ai fattori genetici e ai fattori ambientali la causa determinante dell'evoluzione dell’uomo. PRINCIPALI FASI EVOLUTIVE Fase della prima infanzia Periodo che va dalla nascita sino al secondo anno di vita. Riguarda tutti gli aspetti dello sviluppo infantile dall'acquisizione delle prime competenze al raggiungimento di una prima autonomia rispetto al contesto di crescita: in particolare l'acquisizione del controllo sfinterico, la scoperta di sé, l'apprendimento della capacità di deambulazione in stazione eretta (il camminare), lo sviluppo del linguaggio e la costruzione di una relazione di attaccamento. La prima infanzia può essere suddivisa in periodi distinti: il periodo neonatale che viene, per convenzione, fissato entro il termine del primo mese di vita; il periodo, dell’allattamento e dello svezzamento e il periodo corrispondente alla conquista della prima autonomia (periodo sensomotorio), durante il quale il bambino conosce e scopre il mondo circostante (altro da sé) attraverso l'utilizzo dei sensi e della motricità. Sviluppa le sue capacità percettive e motorie, stabilisce i suoi primi rapporti oggettuali e inizia una prima attività rappresentativa. Fase della seconda infanzia va dalla fine del secondo anno sino a circa il compimento del sesto anno di età. Riguarda importanti acquisizioni soprattutto da un punto di vista verbale e rappresentativo. Caratterizzato da rapidità di apprendimento, pensiero intuitivo, scoperta dell'immaginario e della fantasia, raggiungimento di maggiore autonomia delle figure di accudimento. Fase della fanciullezza coincide con l'inizio della scolarizzazione. Vede il bambino consolidare le abilità psicomotorie, sviluppare le prime capacità di ragionamento logico, l'adattamento emotivo alla scuola e conquistare una buona socializzazione. Si sviluppano i comportamenti prosociali, la cooperazione e la capacità di accettare l'imposizione delle regole sociali. In questo periodo chiamato anche di “latenza” secondo la definizione psicoanalitica, il bambino vive una condizione di relativa quiescenza della pulsioni, pertanto le sue energie possono essere incanalate al servizio dell'apprendimento scolastico, nel gioco sociale e nelle attività di gruppo. Fase della preadolescenza periodo compreso tra gli 11 e i 13-14 anni caratterizzato da rapido accrescimento corporeo e dal pensiero che da operatorio-concreto si trasforma in astratto-formale. Il pensiero ancora ancorato a dati percettivi incide anche sulla rappresentazione di se stessi. Una rappresentazione negativa dell'aspetto fisico, se estremizzata, può determinare disturbi di adattamento o di personalità, mentre la piacevolezza fisica determina un maggior grado di accettazione da parte del gruppo dei pari e di conseguenza facilita le relazioni interpersonali. L'attenzione rivolta agli accessori (un particolare tipo di jeans, cellulari, i-pad, ecc..) comincia ad essere rilevante proprio perché il conformismo rispetto al gruppo dei pari costituisce per il ragazzo un importante meccanismo di difesa. Fase dell'adolescenza va da i 14 ai 18 anni circa. Lo sviluppo cognitivo è quasi completo, riprendendo le osservazioni piagetiane in questa fase il ragazzo diviene capace di riflettere sul pensiero proprio e altrui, formula ipotesi, fa deduzioni, costruisce teorie e sviluppa un pensiero critico, logico e analitico. Al decentramento cognitivo corrisponde però una forte autocentrazione affettiva che lo porta talvolta al narcisismo e ad un'instabilità affettiva che lo rende ancora molto vulnerabile. Questo spiega una sorta di delusione e a volte di angoscia che caratterizza la cosiddetta crisi adolescenziale. Crisi che determina, in senso positivo, la spinta verso una maggiore autonomia con l'indispensabile ridefinizione dei rapporti con le figure genitoriali. Fase della vita adulta a grandi linee possiamo dividere l'età adulta in giovinezza (dai 20 ai 30 anni circa), età matura (dai 30 ai 45 circa); mezz'età (dai 45 ai 65 anni circa). L'adulto è un individuo che continua a crescere e a cambiare (seppur in modo diverso rispetto al bambino o all'adolescente), ha una personalità sufficientemente strutturata ed equilibrata nelle sue varie dimensioni: fisica, intellettiva, affettiva, culturale. Fase della vecchiaia e della terza età le funzioni psichiche (ad esempio la memoria, la velocità di elaborazione della risposta, ecc), le abilità motorie accusano un decremento delle loro effettive potenzialità. Inoltre, connessi a cambiamenti di ordine sociale come la sospensione dell'attività lavorativa, la morte di coetanei o il sopraggiungere di malattie, si inseriscono problemi di isolamento socio-affettivo. PRIMA INFANZIA (0-2 anni) Lo sviluppo prenatale Sono i 9 mesi di vita del bambino passati nella pancia della madre. Il feto è esposto a una serie di fattori ambientali a causa dello stretto rapporto con l’organismo materno nella vita intrauterina, oltre che al patrimonio genetico dei genitori. Attraverso il sangue della madre passano nutrimento, ossigeno ma anche agenti che possono lasciate tracce sullo sviluppo successivo (sostante chimiche, virus). Oggi si sa molto sugli agenti teratogeni, quei fattori ambientali che causano un danno congenito nell’embrione e nel feto. Questa fase si divide in periodo embrionale e fetale. Periodo embrionale: dalla terza all’ottava settimana di vita intrauterina. È un periodo delicato, a rischio di aborti spontanei, nel bambino c’è la divisione e specializzazione cellulare che da origine a diverse regioni corporee e a tessuti specializzati. È il periodo di più rapida crescita nell’intera vita umana. Periodo fetale: dalla nona settimana alla fine della gestazione. Il corpo del bambino si proporziona. Fin al quarto mese la madre può avvertire i movimenti del bambino e, con l'ecografia, si può sentire il battito del cuore. Fino al V° mese non potrebbe vivere senza la connessione alla placenta, anche se è formato. Dopo i 5 mesi la pelle è formata anche con peli e unghie e il feto sa chiudere e aprire gli occhi. Il feto si posiziona con la testa verso il basso per occupare meglio lo spazio. Tra 26 e 28 settimane il feto oltrepassa la linea che separa la sopravvivenza e la morte in caso di nascita prematura. La nascita Il neonato ha una potenzialità di crescita, di adattamento alla realtà esterna e di apprendimento molto sviluppata. Inoltre, particolari riflessi e un apparato sensoriale relativamente sviluppato, gli consentono di agire e di prestare una rudimentale attenzione agli stimoli visivi ed acustici provenienti dall'ambiente esterno. D'altra parte, in questa fase neo-natale, il sistema sensoriale è già efficiente, per cui il neonato può espletare determinate sue funzioni primarie (respirazione nutrizione, deglutizione, digestione, evacuazione, sonno) nel contempo, la soddisfazione di tali bisogni primari, costituisce la condizione stessa del suo normale sviluppo fisico e della normale maturazione del suo sistema nervoso. Sul piano senso - percettivo il neonato riesce a mettere a fuoco e percepire visivamente gli oggetti posti a circa 25 cm di distanza dai suoi occhi, percepisce suoni e rumori, è dotato di elementari capacità gustative ed olfattive che gli consentono di discriminare, accettare o rifiutare, sapori ed odori. Al termine del secondo mese, comincia ad esercitarsi ad afferrare gli oggetti presenti nel suo spazio operatorio ed è attratto dalle parti del proprio corpo. Il repertorio motorio del neonato è limitato e si distingue in termini di postura (posizione del capo e degli arti) e movimenti riflessi che sono risposte specifiche a stimolazioni esterne. Ci sono poi tipi di risposta motori caratteristici del periodo neonatale, che sono molto importanti, durano fino ai 3/4 mesi di vita e poi scompaiono ma che, se non presenti alla nascita, o se non scompaiono, nel tempo dovuto sono sintomi di patologia. Questo sono movimenti riflessi di: Rotazione del capo: se il neonato viene toccato leggermente vicino ad un angolo della bocca o sulla guancia, girerà la testa prima verso il lato stimolato e subito dopo dall'altro lato; Suzione: quando la bocca è a contatto con qualcosa inizia a succhiare (importante per il nutrimento, la suzione del seno); Moro: con un rumore forte o se il neonato viene stimolato sull'addome gli arti inferiori e superiori si estendono ad arco, come in un abbraccio; Babinsky: se si stimola la pianta del piede di un neonato, le dita si estendono. A partire dal quarto mese, adottando la stessa stimolazione, le dita si flettono invece di stendersi; Presa: chiusura della mano quando gli viene toccato il palmo; Marcia automatica: quando viene posto verticalmente muove i piedi e le gambe in senso di cammino; Ammiccamento: se c’è una fonte luminosa chiudere gli occhi. Già nelle prime fasi di sviluppo il sistema nervoso è capace di produrre spontaneamente movimenti fisici, il neonato quindi reagisce agli stimoli ed è capace di produrre spontaneamente movimenti autogenerati. La concezione neurofisiologica moderna considera il neonato soggetto competente e attivo in quanto collabora sin dalla nascita e mostra di possedere una segnalazione sociale primaria (il pianto), è quindi “attrezzato” alla sua sopravvivenza. Il neonato è in grado di estrarre informazioni dall’ambiente che lo circonda tramite i suoi recettori sensoriali: vista, udito, odorato, gusto e tatto. La maggior parte di ciò che il neonato è capace di percepire dipende dal suo stato. Prechtl distingue 5 diversi stati di coscienza: sonno profondo, sonno attivo, veglia tranquilla, veglia attiva, pianto e irrequietezza (si ripetono ciclicamente). Il miglior stato per stabile uno scambio sociale con il bambino è quello di veglia tranquilla, dopo essere stato nutrito. Lo sviluppo posturale Si possono delineare delle tappe tramite le quali il bambino arriva ad ottenere una posizione eretta. Ci sono tappe comuni a tutti i bambini, ma anche alcune “individuali” o che possono essere “saltate” (gattonaggio). 1. sollevamento del mento (da sdraiato sul ventre) 2. sollevamento del torace “ “ 3. allungamento delle braccia tentativo invano di afferrare 4. capacità di stare seduto con l’aiuto 5. capacità di stare seduto in grembo e di afferrare gli oggetti 6. capacità di stare seduto sul seggiolone e fare cade gli oggetti (diventa un gioco) 7. capacità di stare seduto solo 8. inizio gattonaggio (non in tutti i bambini, ci sono anche varie modalità, come lo strisciare o muoversi da seduti con il sedere) il 9. capacità di gattonare bene 10. capacità di tirarsi in piedi e movimento a costiera (appoggiato su tavolini o mobiletti) 11. capacità di stare in piedi solo 12. capacità di camminare con aiuto 13. capacità di camminare solo. La conquista della deambulazione provoca una forte euforia nel bambino, seguita da una fase di scoraggiamento quando si accorge che camminando può anche cadere. Lo sviluppo della prensione Nel corso del primo anno di vita si sviluppa un’altra abilità motoria, la manipolazione. Circa al secondo mese di vita il bambino comincia a sviluppare la prensione, che si differenzia dal riflesso di presa perché è volontaria. Il bambino si tende verso un oggetto e lo afferra. Si possono distinguere 3 tipi di avvicinamento che corrispondono all’utilizzazione delle 3 articolazioni interessate: spalla, gomito e mano. A 5/6 mesi: All’inizio c’è solo l’articolazione della spalla, mentre la mano rimane fissa rispetto all’avambraccio A 7/8 mesi: l’articolazione del gomito consente lo spostamento dell’avambraccio e della mano avanti e indietro. Da 8 mesi in poi: le tre articolazioni sono coordinate tra loro e consentono alla mano di arrivare direttamente all’oggetto. Il gesto della prensione attraversa anche un processo di evoluzione: Prensione cubito-palmare: l’oggetto viene afferrato dalla parte cubitale della mano (sotto il mignolo) senza l’utilizzo del pollice; Prensione digito-palmare: l’oggetto viene condotto verso il palmo e afferrato utilizzando tre dita insieme, pollice, indice e medio; Prensione radio-digitale: l’oggetto viene posto sotto l’indice e la prensione implica l’opposizione fra pollice e indice. (pag 53). Lo sviluppo di afferrare le cose è motricità fine. Inizialmente non c’è differenziazione della funzione delle dita, poi inizia a differenziare l’uso del pollice, più in là dell’indice e del medio. Intorno al primo anno di vita i bambini si esercitano a prendere oggetti piccoli tra pollice e indice. Dopo che ha imparato ad afferrare l’oggetto e a trattenerlo in mano, il bambino deve imparare a lasciarlo andare. All’inizio perde semplicemente l’oggetto perché la mano si apre involontariamente. Già tra i 6 e 8 mesi il bambino impara a lasciar andare l’oggetto volontariamente. Durante il primo semestre di vita quando il bambino ancora non si muove autonomamente sono importanti la prensione e la manipolazione, perché queste gli permettono di entrare in contatto con l’ambiente circostante e il bambino può provocare trasformazioni e non limitarsi a contemplare visivamente gli oggetti senza intervenire su questi. Ogni bambino ha ovviamente il proprio ritmo e vengono a delinearsi molte differenze nel modo in cui avviene lo sviluppo motorio, per questo è andato in crisi il tradizionale modello maturativo secondo cui lo sviluppo motorio è un prodotto della maturazione del Sistema Nervoso, che avviene secondo una sequenza geneticamente determinata. Molto importanti sono anche le esperienze fatte dal bambino, le sue motivazioni e le sollecitazioni ambientali. lo sviluppo emotivo e relazionale Che cos’è un’ emozione? EMOZIONE Modificazione del normale stato di quiete dell’organismo che si esprime con l’impulso all’azione e specifiche reazioni fisiologiche interne, designando diverse risposte emotive. Un’emozione, dunque, può essere definita come una complessa catena di eventi che incomincia con la percezione di uno stimolo e finisce con un’interazione tra l’ organismo e lo stimolo che ha dato avvio alla catena di eventi. I neonati riescono ad esprimere le emozioni di base: rabbia, paura, felicità, tristezza, disgusto. Preferiscono guardare un volto felice rispetto da un volto con un’espressione di paura e, a 3 messi, l'espressione di felicità facilita il riconoscimento di un volto non familiare. Nei primi mesi di vita l’emozione del bambino sarà esternata dal sorriso che, però, in questo periodo viene detto SORRISO ENDOGENO A partire dai 3 mesi di vita: si può parlare di “emozioni”, anche se non ancora differenziate. Comparsa del SORRISO SOCIALE o ESOGENO che segnala un’emozione di piacere 4° mese: comparsa di un’emozione differenziata che può essere definita gioia. 8 mesi: é il significato dell’evento, non più l’evento in sé, a fungere da stimolo. Dunque, le prime manifestazioni della sfera emotivo - affettiva si basano sulla bipolarità piacere - dolore: il bambino prova gioia e un diffuso senso di benessere di fronte ad una persona "amica" o ad un oggetto desiderato; prova, invece, reazioni di paura, di ansia e di timore, di fronte a persone od oggetti che percepisce come una possibile "minaccia" alla sua sicurezza o che percepisce come un ostacolo alla soddisfazione dei suoi bisogni. Questa "pulsione", che spinge il bambino a soddisfare un suo bisogno primario primario, è stata denominata da Freud "libido" (energia di piacere) la quale ha una sua evoluzione dalla nascita fino alla maturità vera e propria dell'individuo. LO stesso Freud distingue degli "stadi" nell'evoluzione della libido: a) stadio orale: il bambino prova piacere nel succhiare il seno materno; b) stadio sadico - orale: il bambino prova piacere sia nel succhiare che nel "mordere" il seno materno; c) stadio anale: il bambino prova piacere e mostra un particolare interesse per quello che "elimina" e per le sensazioni che prova nell'espletare tale funzione fisiologica; d) stadio fallico: l'interesse del bambino si sposta dalla zona orale verso quella degli organi genitali. Comincia, così, la scoperta della propria identità sessuale; Nella prima infanzia, comunque, la "libido" interessa tutto il corpo del bambino, per cui tutte le parti del corpo possono essere considerate "zone erogene". sviluppo linguistico Per quanto riguarda lo sviluppo linguistico, dapprima il linguaggio del bambino è fortemente emotivo, spontaneo, a poco a poco il pianto diventa intenzionale, cioè il bambino vi ricorre per richiamare l'attenzione della madre o per rivolgere un determinato messaggio agli adulti. Dal linguaggio emotivo e spontaneo via via il bambino passa la "linguaggio ludico": gli piace emettere suoni, ripetere sequenze verbali, balbettare fonemi (ma - ma - ma/ pa - pa - pa...) imitare i suoni ascoltati. Verso la fine del primo anno il linguaggio ludico assume un'altra forma: i fonemi diventano "cantilene" sonore fatte di ripetizioni di sillabe; si ha, così, la cosiddetta "lallazione" ce costituisce il preludio alla fase imitativa del linguaggio, detta "ecolalia". L’apprendimento del linguaggio è una capacità estremamente complessa per il bambino che, per acquisirlo deve diventare competenti in 4 aspetti fondamentali: quello fonologico semantico / sintattico pragmatico Ecco dunque che lo sviluppo del linguaggio risulta essere un fenomeno complesso e di lunga durata. Infatti, continua sino ai primi anni di scuola, e per alcuni aspetti non si conclude mai. l primi mezzi di comunicazione non verbale sono: le espressioni emotive (vedi quanto detto sul sorriso); i suoni non linguistici Non c'è, ancora, nessuna intenzionalità comunicativa dal momento che essa si verifica quando l’emissione di un messaggio è finalizzato al raggiungimento di un obiettivo. lo sguardo e l’attenzione condivisa Dalla nascita e nei primi mesi di vita gli OCCHI sono la porzione del volto che attrae maggiormente l’attenzione dei bambini. l’indicazione e l’attenzione condivisa Successivamente (5 mesi) il gesto dell’indicazione (pointing) viene usato insieme allo sguardo per dirigere l’attenzione dell’interlocutore verso un oggetto di interesse comune. --> nascono le interazioni triadiche (adulto + bambino + oggetto): il focus dell’attenzione congiunta è il mondo esterno. NASCE L’INTENZIONALITÀ COMUNICATIVA I GESTI E L’EMERGERE DELL’INTENZIONALITÀ COMUNICATIVA Questi gesti sono sempre accompagnati dallo sguardo che viene rivolto alternativamente verso il bersaglio e verso il destinatario e manifestano un’intenzionalità comunicativa. Ne esistono di diversi tipi, di complessità crescente. I GESTI COMUNICATIVI (+ sguardo) Gesti DEITTICI, o performativi (dai 6-8 mesi) Esprimono un’intenzione comunicativa e si riferiscono ad un oggetto-evento che si può individuare osservando il contesto. (es: stendere le braccia in alto; aprire e chiudere ritmicamente il palmo della mano; indicare) Sono utilizzati con finalità comunicative di complessità crescente: Gesti RICHIESTIVI (8-9) mesi Il bambino chiede l'intervento dell’adulto per raggiungere uno scopo Gesti DICHIARATIVI 10-12 mesi Il b. chiede l’attenzione dell’adulto per condividere l’interesse per un aspetto della realtà (indicazione + vocalizzazione/ espressione facciale che fa da commento) Gesti REFERENZIALI, o rappresentativi. Esprimono un’intenzione comunicativa e rappresentano un referente specifico. Il loro significato cioè non varia in funzione del contesto. (es.: salutare con la mano, fare no con la testa, nominare un oggetto attraverso i gesti)" Hanno origine sociale, nascono all’interno di routine sociali o di giochi con l’adulto e vengono appresi per imitazione. QUANDO SI VERIFICA L'INTENZIONALITÀ COMUNICATIVA? L’intenzionalità comunicativa si verifica quando l’emissione di un messaggio è finalizzato e controllato. PROSEGUI DA PDF SVILUPPO LINGUAGGIO L’intenzionalità comunicativa è resa possibile da: Abilità cognitive (Piaget) Abilità sociali (Bates) Distinzione mezzi-fini (sviluppo sell’intelligenza sensomotoria, 8-12 mesi) Dalle forme richiestive alle forme dichiarative. Consapevolezza dell’efficacia dei propri segnali comunicativi. Ruolo dell’adulto che interpreta i segnali (“come se”) e attribuisce loro un significato condiviso. I gesti vengono progressivamente sostituiti dalle parole. 18-20 mesi, grande aumento della produzione Parole referenziali Utilizzo di funtori (parole che fungono per altre), aumento dei verbi e aggettivi olofrase Sviluppo di atti comunicativi Sul piano senso-percettivo-motorio, generalmente verso la fine del primo anno e l'inizio del secondo, superata la prima fase dei movimenti scarsamente coordinati e da una deambulazione incerta e barcollante, il bambino passa via vi a movimenti più coordinati ed associati, giungendo, così, al perfezionamento motorio. La deambulazione consente al bambino di stabilire un contatto diretto con gli oggetti del suo spazio operatorio permettendogli di entrare in un ciclo di conoscenze più ampie. Parallelamente alla costruzione della realtà esterna, il bambino elabora quella che è "l'immagine del proprio corpo". Anche il linguaggio evolve rapidamente e dalla frase ecolalica, come abbiamo visto, si passa alla frase olofrastica. Il gioco rappresenta l'attività fondamentale della prima infanzia. La manipolazione di oggetti di piccola dimensione costituisce, in questa fase, l'attività preferita. Già verso la fine del secondo anno il bambino è in grado di impugnare pennarelli e matite colorate; si diverte a rincorrere un pallone... Si tratta di giochi e di giocattoli che ne stimolano lo sviluppo in senso globale, permettendogli di apprendere nuovi "schemi di azione" (Piaget) cioè nuovi modi di fare e di rapportarsi alla realtà. SECONDA INFANZIA (3-6 anni) La seconda infanzia si caratterizza, fondamentalmente, come progressivo affinamento, consolidamento ed espansione del processo di sviluppo. Ciò che caratterizza questo periodo è: la formazione del linguaggio; l'acquisizione del pensiero simbolico; il conseguimento dell'autonomia e dell'iniziativa psico-motoria; la conquista della dimensione sociale con la conseguente possibilità, per il bambino, di interiorizzare le prime norme morali. La seconda infanzia coincide con l'ingresso nella scuola materna che segna il primo distacco dalla famiglia. sviluppo emotivo-affettivo La sfera dell'emotività-affettività condiziona il bambino nel profondo delle sue esigenze. Egli percepisce il mondo e il rapporto con le persone e con le cose mediante la componente dell'affettività, per cui all'egocentrismo iniziale del pensiero, corrisponde, a questa età, all'egocentrismo affettivo. In questa fase, nell'universo emotivo-affettivo del bambino entra, in modo significativo, la figura paterna suscitando in lui, un complesso di sentimenti oscuri e contraddittori. Per questo motivo gli psicologi di ispirazione freudiana, definiscono questo periodo di particolare rapporto ambivalente tra padre e figlio, "fase edipica" o complesso di Edipo. lo sviluppo della psico-motricità Già verso la fine del secondo anno le acquisizioni motorie da parte del bambino sono considerevoli. Questa sua evoluzione è particolarmente visibile se lo si osserva mentre gioca. Dal terzo al sesto anno, tutte le acquisizioni psicomotorie precedenti si evolvono rapidamente e il bambino giunge alla salda presa di coscienza della sua corporeità, acquisisce un maggior controllo delle mani e, la motricità, diventa "fine". Le sue azioni sono più coordinate rispetto alla prima infanzia. Riesce a spostare gli oggetti da un luogo all'altro ad allinearli o a disporli l'uno sull'altro. lo sviluppo morale e sociale Il bambino, nella prima infanzia, non è nè morale nè immorale ma è propriamente amorale, cioè indifferente ad ogni categoria etica. Hessen ha indicato le fasi attraverso le quali il bambino, gradualmente perviene all'acquisizione e all'interiorizzazione delle norme etiche. a) fase dell'anomia - il bambino è mosso soltanto dal desiderio ed è condizionato, delle sue esigenze fisiologiche, emotive ed affettive. b) fase dell'eteronomia - già nella scuola materna, il bambino è capace di comprendere i principi e le leggi morali che gli vengono proposti dagli adulti (genitori e insegnanti) in concrete situazioni sociali. c) fase dell'autonomia - quando i principi morali vengono liberamente accettati ed interiorizzati per cui il comportamento si fa intenzionale, libero e responsabile. Parallelo allo sviluppo morale e, strettamente intrecciato con esso, vi è lo sviluppo sociale Il termine sviluppo sociale ha preso il posto di socializzazione. Il termine usato rende chiaro che il neonato è un essere sociale fin da subito che diventa sempre più consapevole e competente grazie all’interazione. Dal terzo al sesto anno di vita, lo sviluppo sociale presenta alcune caratteristiche peculiari: identificazione con figure parentali - il bambino stabilisce un forte rapporto interattivo con i propri genitori e con gli altri adulti "significativi" (nonni, zii); interazione con gli insegnanti - nella scuola dell'infanzia il bambino accetta le regole sociali, è ubbidiente e cerca di adeguare il proprio comportamento alle dinamiche dell'ambiente scolastico che lo sottopone a degli "obblighi" per diventare grande; interazione con i coetanei - nella scuola dell'infanzia, il bambino deve tenere conto della presenza degli altri bambini con i quali collaborare e ai quali chiedere aiuto o prestare aiuto in caso si necessità. sviluppo del linguaggio Già verso il quarto anno, il bambino utilizza le parole per designare oggetti.. Il linguaggio diventa uno strumento intenzionale e il vocabolario si arricchisce di nuovi termini. La seconda infanzia è anche l'età dei perché. FASE DELLA FANCIULLEZZA E DELLA PREADOLESCENZA Con il termine fanciullezza, generalmente si indica quella fase dello sviluppo compresa fra i 6-7 anni e gli 11-12 anni. Dal momento che essa coincide con la scolarizzazione del bambino può essere ulteriormente distinta in: prima fanciullezza e seconda fanciullezza. La fanciullezza si presenta come una fase di consolidamento e di elaborazione delle condotte di base precedentemente acquisite: le fondamentali funzioni psichiche conoscono un assestamento sostanziale, emerge una visione più oggettiva. Si perfezionano ulteriormente tutte le abilità ludiche ed operative, l'egocentrismo via via cede il posto alla capacità di decentramento e all'ethos sociale. Iniziano le esperienze scolastiche vere e proprie. sviluppo emotivo-affettivo Anche l'evoluzione dell'affettività si accompagna ai processi di sviluppo, del pensiero, del linguaggio, della socializzazione.... I caratteri peculiari dello sviluppo emotivo-affettivo nella fanciullezza si possono sintetizzare così: graduale controllo degli impulsi, dei sentimenti e delle reazioni emotive; crescente autonomia; evoluzione degli interessi e socializzazione della attività; maturazione emotiva-affettiva. Il fanciullo, frequentando l'ambiente scolastico e stabilendo una rete di comunicazione sia con gli insegnanti sia con il gruppo dei pari, impara ad uscire da se stesso. Se negli anni della scuola elementare il fanciullo è alla continua ricerca della propria specifica identità personale, verso i dieci undici anni le azioni del fanciullo sono finalizzate al conseguimento di uno stabile equilibrio tra il proprio io e la comunità scolastica. Tende a creare rapporti più duraturi. Le attività di socializzazione determinano in lui valori quali lealtà, altruismo e un conseguente interesse per le amicizie. Nelle dinamiche di gruppo il fanciullo sperimenta il desiderio di "essere accettato" dai coetanei e di ricevere una valutazione soddisfacente. L'accettazione del gruppo concorre ad accrescere la fiducia in sé stesso, il senso di sé, l'autostima e a rafforzare l'identità personale. L'ADOLESCENZA (14-18 anni) L'adolescenza é una fase della vita che non può essere definita e descritta come omogenea, bensì come una fase del processo di sviluppo diversificata da particolari connotazioni socio-ambientali e culturali. Malgrado tale diversificazione, comunque, esistono dei tratti, dei comportamenti, degli atteggiamenti e dei problemi comuni a tutti gli adolescenti: dipendenza dagli adulti costellazione di problemi specifici legati alla particolare fase evolutiva emancipazione e distacco dai modelli comportamentali parentali e la progressiva identificazione in modelli alternativi senso di coesione del gruppo evoluzione dell'affettività Graduale razionalizzazione delle pulsioni emozionali, per cui l'adolescente via via diventa più riflessivo, più consapevole di sé e soprattutto, più sensibile l mondo dei valori e degli ideali. evoluzione sociale Desiderio di una maggiore indipendenza lo rendono meno sensibile all'autorità dei genitori. Comincia a mettere in discussione le decisioni altrui, mostrando una prima autonomia di giudizio. Da qui la dimensione della conflittualità tra l'adolescente e il proprio contesto familiare da una parte, e il desiderio di sperimentare novi modi di essere, di apparire, di imporsi all'attenzione altrui, il bisogno di far parte di un gruppo per poter prendere iniziative e decisioni collettive, dall'altra. Gli amici funzionano da specchio, gli consentano di guardarsi dentro e di vedere, all'esterno, come gli altri percepiscono socialmente la sua persona. FASE DELLA VITA ADULTA Nell'età adulta possono essere distinte due fasi (Erikson): la giovinezza (dai 20-25 ai 40-45 anni circa), età adulta vera e propria (dai 40-45 ai 60-65 anni circa) anche se tale decisione, é molto approssimativa. Le fasi evolutive, non si fermano con il termine dell'adolescenza, ma interessano tutto l'arco dell'esistenza. La vita adulta é segnata dall'ingresso nel mondo del lavoro, dal matrimonio, dalla costruzione di una famiglia, dalla nascita dei figli.... Sul piano sociale, infatti, gli eventi più importanti della giovinezza e della maturità sono: l'amore centrato sulla famiglia e l'attività lavorativa. A tale fase di stabilità, però, seguirà una nuova fase di turbolenza ed instabilità nota come "crisi di mezza età" La giovinezza, dunque, é l'età della "realizzazione", il giovane adulto é chiamato a fare delle scelte di vita e a realizzarle immettendosi subito nel mondo del lavoro o proseguendo con gli studi. Il distacco dalla famiglia segna, generalmente, la fine dello scontro tra genitori e figli e subentrano sentimenti più delicati, come una maggiore attenzione sullo stato di salute dei propri genitori. Sul piano sociale, l'evento più significativo della giovinezza é l'attività lavorativa. Il passaggio dalla prima (40 anni circa) alla seconda fase (dai 45 in poi), come abbiamo detto, viene anche indicato come "crisi della mezza età" perché, oltre alla possibile effervescenza che caratterizzerebbe tale età, si effettuerebbero riflessioni sulla morte e sulla religione e si farebbe un bilancio della propria vita. É possibile, allora, fissarsi sulla propria immagine giovanile e avvertire un forte deiderio di rivivere le esperienze di quegli anni. É possibile rivivere quella rivoluzione emotiva tipica dell'adolescenza. Per quanto riguarda lo sviluppo fisico, dopo i 45 anni il corpo umano consce una trasformazione biologica e fisiologica che ne caratterizza un evidente cambiamento. Sul piano cognitivo, il discorso é molto più complesso dal momento che tali funzioni di base conoscono un progressivo deterioramento anche se non condizionano, in senso negativo, la cosiddetta "intelligenza cristallizzata" cioè quel complesso di informazioni mentali e di dati cognitivi immagazzinati lungo gli anni dell'attività professionale o con l'esperienza. Mentre l'intelligenza cristallizzata rimane costante o, in diversi casi, aumenta con l'avanzare dell'età, "l'intelligenza fluida" (creativa) diminuisce progressivamente. Ma anche questo principio, é molto relativo. FASE DELLA VECCHIAIA E DELLA TERZA ETÀ Il fenomeno dell'invecchiamento a livello biologico, fisiologico e psicologico, generalmente comincia vero i 65 - 70 anni e termina con la fine della vita. Una suddivisione abbastanza diffusa é questa: fase della terza età o dell'età anziana o (65-70/80 anni) fase della vecchiaia o della longevità (dopo i 75-80 anni) Sul piano biologico e fisiologico l'invecchiamento è causato dalla mancata riproduzione delle cellule per cui aumenta il rischio di malattie. L'organismo dell'anziano via via diventa sempre più debole. Tutto ciò cambia notevolmente il soggetto. Nella donna, l'invecchiamento é legato al cosiddetto "climaterio" o menopausa. Le trasformazioni che avvengono a livello psicologico cambiano, in modo deciso, da soggetto a soggetto. Generalmente, comunque, diminuisce la capacità di memorizzare, i riflessi si appannano, sono frequenti le amnesie... É la fase in cui l'anziano cerca di effettuare un bilancio della propria vita per continuare il progetto di realizzazione cominciato nel passato . Per questo motivo l'anziano é alla ricerca della comprensione globale del sé con la conseguente accettazione dei propri limiti e la voglia, ancora, di far parte della collettività. Se, però, l'anziano é incapace di definire questa sua integrità, allora cade in depressione Essendo consapevole del suo graduale decadimento, prova il timore di non sapersi adattare alla realtà o alle aspettative dei propri familiari e, in molti casi, ciò é fonte di disagio. Disagio che lo porta a sentirsi inutile. Si tratta, pertanto di una prospettiva psicologica da modificare recuperando, appunto, la cultura della terza età. l'anziano dovrebbe scoprire gli aspetti positivi e gratificanti del suo status e della sua età, avere degli interessi di vario genere, coltivare i rapporti sociali e non vivere solo di ricordi che, comunque, proprio perché del passato, sono pur sempre dolorosi e scarsamente funzionali ai fini della progettazione ottimistica e della propria esistenza. LO SVILUPPO COGNITIVO secondo Piaget, Vygotskij e Bruner 1) Piaget e la teoria dell’epistemologia genetica Negli anni '40 Jan Piaget (1896-1980) diviene il teorico della psicologia dello sviluppo cognitivo. L'intelletto, secondo la teoria piagetiana rende possibili, nei bambini, sequenze di adattamento tramite l'assimilazione e l'accomodamento di schemi mentali cognitivi. Piaget diviene il teorico della teoria stadiale dello sviluppo cognitivo. Lo sviluppo cognitivo è la modalità con cui il bambino conosce e percepisce il mondo e la realtà. Secondo lo studioso, l'intelligenza é un processo di adattamento alla realtà. L'organismo si adatta costruendo forme nuove; l'intelligenza costruisce nuove strutture mentali che servono a comprendere e spiegare l'ambiente. Pertanto, l'acquisizione della conoscenza é adattamento e si costruisce nella relazione individuo - ambiente. IL MODELLO DI PIAGET BAMBINO MONDO CONOSCENZA I bambini capiscono il mondo interagendo con gli oggetti e le persone. Lo sviluppo cognitivo si realizza in base a tre meccanismi universali: MECCANISMI PRINCIPALI assimilazione accomodamento adattamento assimilazione = processo per cui un elemento proveniente dall'ambiente esterno, viene inserito in schemi mentali già preesistenti senza che l'esperienza cambi tali schemi. accomodamento = processo in cui i dati della nuova esperienza, modificano gli schemi già posseduti. adattamento o equilibrio = secondo cui, l'adattamento continuo tra assimilazione e accomodamento, genera sempre nuovi equilibri. Per Piaget, lo sviluppo cognitivo passa attraverso una serie di stadi. Teoria stadiale dello sviluppo cognitivo secondo Piaget 1) Stadio senso-motorio: (dalla nascita ai 2 anni) é la fase in cui il bambino, dopo la nascita, fa le prime esperienze e conosce il mondo attraverso attività fisiche che può compiere. Questo stadio é caratterizzato dai soli riflessi motori e dai sapori e termina con l'acquisizione del pensiero e del linguaggio. Il bambino non riesce a distinguere tra se stesso e l’ambiente, né tra gli oggetti e le azioni che esercita su di essi. Egli conosce il mondo attraverso l’intelligenza sensomotoria che gli permette di percepire gli effetti dell’azione e tornare ad agire. Non appena il bambino verifica il successo di un’azione, tende a ripeterla. Il risultato ottenuto per caso, diventa uno schema d’azione che verrà riprodotto in seguito. Piaget chiama questo genere di comportamenti reazione circolari. La conoscenza senso-motoria, progredisce fino ai due anni attraverso il controllo delle reazioni circolari: Il bambino comincia a differenziare sé dall’ambiente, a migliorare le sue capacità di coordinare le azioni che ad un certo punto da causali diventano intenzionali. Solo alla fine di questo periodo il bambino acquisisce completamente il concetto di permanenza dell’oggetto. 2) Stadio pre - operatorio (pensiero intuitivo) : (2 - 7 anni) caratterizzato dalla comparsa dei simboli per la rappresentazione degli oggetti il bambino sa produrre immagini mentali, e indica come attività caratteristiche che lo accompagnano il gioco simbolico, l’imitazione differita e il linguaggio verbale (parole che evocano realtà non presenti). Mentre nel periodo senso-motorio l’intelligenza è legata al dato percettivo del momento, in questo periodo lo sviluppo intellettivo trae impulso dalla capacità da parte del bambino di interiorizzare l’azione e di conservarne traccia nella mente. 3) Stadio delle operazioni concrete (pensiero operatorio) (7-12 anni) Il bambino è capace non solo di produrre immagini mentali, ma anche di metterle in relazione tra loro. Comprende i meccanismi dell’addizione, della sottrazione, della moltiplicazione e della divisione. In questo stadio, il bambino acquisisce il concetto di conservazione, del numero (se si dispone in maniera diversa un insieme di oggetti, la loro quantità non cambia), della quantità di liquido (che resta uguale anche se si travasa in un recipiente più stretto), della massa e del volume. 4) Stadio delle operazioni formali (pensiero ipotetico- deduttivo) (12-16) Dai 12 anni, il pensiero diviene sempre più indipendente dalla percezione, può fare ipotesi. Il bambino giunge a questa età ad acquisire nozioni complesse, il ragionamento si fa progressivamente complesso. 2) Lev Semënovič Vygotskij In contrapposizione a Piaget, Lev Semënovič Vygotskij (1896-1934) ha fatto riferimento al contesto sociale e culturale e alle differenziazioni psicologiche emergenti in dipendenza dei fattori ambientali. Le sue prime ricerche di interesse psicologico, furono condotte su bambini ciechi e sordomuti. Per Vygotskij il problema fondamentale della ricerca psicologica era la coscienza come proprietà della mente umana di appropriarsi di contenuti di pensiero e forme di comunicazione di un determinato contesto sociale e culturale. I principali contributi della sua opera alla psicologia dello sviluppo possono essere individuati nei seguenti concetti di: stimolo-mezzo: Vygotskij vide nella relazione sociale tra il bambino e gli altri (in primis la madre), il presupposto essenziale per lo sviluppo normale dei processi psichici. Questo intreccioessiva di relazioni è veicolato dal linguaggio. La mente possiede strumenti interni, come il linguaggio interiore, ma ricorre sempre a strumenti esterni (stimoli-mezzo). La specie umana si è dotata di strumenti che le consentono di andare al di là del proprio patrimonio biologico. Gli strumenti più importanti sul piano dello sviluppo dei processi mentali sono gli artefatti cognitivi. zona di sviluppo prossimale: I sistemi mentali derivano dal cotesto socioculturale. Pensare, ricordare, percepire non sono il frutto dell'esperienza del singolo, ma il risultato della mediazione culturale. La zona di sviluppo prossimale é per Vygotskij la distanza fra sviluppo reale e sviluppo potenziale il bambino é in grado di imparare qualcosa della fase successiva a patto che qualcuno (adulto/pari) glielo insegni (mediazione sociale). Per lo psicologo, la prestazione cognitiva cresce spontaneamente in funzione della maturazione biologica dell’età del bambino, tuttavia, la prestazione migliora se il bambino viene inserito in un contesto sociale e culturale più ricco. Egli affermò che, le funzioni psichiche tipiche della specie umana, sono strettamente dipendenti dalla rete di fattori sociali e culturali entro cui cresce e si sviluppa il bambino. 3) Jerome Bruner Per Jerome Bruner (1915-), lo sviluppo della mente é reso possibile dallo sviluppo delle strategie adottate progressivamente dall'uomo per ordinare e semplificare i dati provenienti dall'ambiente. Le strategie, quindi, sono procedure utili per risolvere problemi. Lo sviluppo cognitivo é il passaggio da sistemi poveri a sistemi sempre più ricchi ed efficaci nell'elaborazione delle informazioni. Tale passaggio avviene attraverso 3 forme di rappresentazione: l'azione, l'immagine e il linguaggio. A differenza della sequenza stadiale di Piaget, le tre forme di rappresentazione di Bruner non costituiscono una sequenza fissa in cui l'una scompare e l'altra appare, ma tutte coesistono, conservando la propria autonomia. Egli afferma che l’attività umana è finalizzata e diretta ad uno scopo, quindi anticipatrice perché dotata di aspettative. L’attività umana è un processo di attribuzione di significati. Gli strumenti per realizzare questi scopi, andranno costruiti tramite il linguaggio e gli insegnamenti su come fare le cose. TEORIE DELL'APPRENDIMENTO I processi fondamentali dell'apprendimento Si definisce apprendimento, qualsiasi esperienza vissuta da un individuo, in grado di modificare il comportamento successivo. L'apprendimento è, dunque, la capacità degli esseri umani di modificare il proprio comportamento solitamente per raggiungere uno scopo. Condizione necessaria perché si verifichi un apprendimento è la ripetizione dell'esperienza. La situazione più tipica in cui si é studiato l'apprendimento é il condizionamento, cioè la formazione di abitudini che derivano dall'associazione di stimoli e specifiche risposte. Esistono diversi tipi di approcci nei confronti dello studio dell'apprendimento. Vediamone alcuni: 1) L'apprendimento secondo il comportamentismo Il comportamentalismo, o behaviorismo, può essere definito come il tentativo di chiarire il comportamento in termini di stimolo-risposta osservabile. Gli stimoli sono eventi che accadono nell'ambiente, e le risposte sono gli atti osservabili. L'apprendimento Stimolo-Risposta include due categorie principali di apprendimento: CONDIZIONAMENTO CLASSICO = Ivan Pavlov (1849-1936) fece un esperimento: prese un cane affamato, e lo mise in una stanza isolata acusticamente, gli fece sentire il suono di un campanello per attirare la sua attenzione e, successivamente, gli presentò del cibo (stimolo incondizionato) che provocò, nel cane, una maggiore salivazione (risposta incondizionata innata: cioè non appresa). Dunque, siamo di fronte ad un riflesso condizionato o appreso. Fasi del condizionamento classico Prima del condizionamento SI (cibo) RI - innata (salivazione) SC (suono) Nessuna risposta Dopo il condizionamento SI (cibo) RI - innata (salivazione)/ SC (suono) RC – appresa (salivazione) Il condizionamento classico implica la formazione di nuovi riflessi. Un riflesso è una sequenza stimolo-risposta, semplice e relativamente automatica, mediata dal sistema nervoso (un esempio è lo scatto della gamba quando si batte con un martelletto sul ginocchio). Il riflesso può quindi essere modificato dall'esperienza, si parla quindi di assuefazione, quando si ha una progressiva diminuzione della risposta allo stimolo. Ecco che qualunque evento percepibile in un ambiente, può diventare uno stimolo condizionato. Lo stimolo condizionato, a sua volta, richiama un comportamento. IL CONDIZIONAMENTO OPERANTE = Burrhus Skinner (1904-1990) parte dalla teoria di Pavlov e estende il condizionamento a quei comportamenti che non sono provocati in risposta ad uno stimolo ambientale, ma che si producono da soli, o che sono finalizzati a uno scopo che il soggetto, spontaneamente, vuole raggiungere. Per studiare i comportamenti operanti di un soggetto che cerca di agire sull’ambiente, Skinner osserva un ratto in una gabbia in cui c’è una leva. I movimenti casuali dell’animale lo portano, di tanto in tanto, a premere la leva. Queste risposte vengono registrate e determinano il livello operante di base, prima del condizionamento. Successivamente, per intervento dello sperimentatore, ogni volta che il ratto preme la leva, da un serbatoio si riversa nella gabbia un pò di cibo che ha la funzione di rinforzo facendo associare l’atto di premere la leva con il premio. Il tipo di condizionamento viene così definito operante, in quanto non viene rinforzata del bisogno, ma un una risposta comportamentale precedente la soddisfazione comportamento attivo, inizialmente spontaneo, che opera sull’ambiente. Anche nel condizionamento operante, se ad un certo punto il rinforzo non viene più dato, la frequenza del comportamento rinforzato cala progressivamente estinguendosi. Ma dopo l’estinzione, come nel condizionamento classico, esiste il recupero spontaneo. Comportamento operante viene emesso spontaneamente dall’organismo: aumenta e diminuisce attraverso i rinforzi. Il condizionamento operante si ha quando un dato comportamento è reso più probabile dopo aver fatto ricorso all’uso di ciò che Skinner chiama RINFORZO. Fasi del condizionamento operante Prima del condizionamento S (leva) CO comportamento operante compiuto casualmente (premere) SI rinforzante non presentato (cibo) RI assente (mangiare) Dopo il condizionamento SC (leva) CO condizionato (premere) SI rinforzante (cibo) RI (mangiare) In questa successione, la risposta incondizionata è alla fine del processo che è messo in atto dal comportamento attivo del soggetto: il comportamento condizionato precede la risposta incondizionata. I rinforzi, possono essere: rinforzi positivi : (sono conseguenze gradite e piacevoli) = stimoli in grado di soddisfare un bisogno. Il rinforzo è positivo se fa ripetere il comportamento che lo produce; Talvolta certe azioni funzionano inaspettatamente da rinforzo. rinforzi negativi : (che riducono o allontanano uno stimolo spiacevole) = stimoli in grado di eliminare altri stimoli di tipo avversivo. Il rinforzo è negativo se fa ripetere il comportamento che lo riduce o lo fa cessare. A Skinner si deve, inoltre, l’introduzione della tecnica del modellamento (o “shaping) È un procedimento attraverso il quale si guida il soggetto verso un comportamento desiderato, utilizzando rinforzi. In quest'operazione, si premiano tutte le risposte che si avvicinano a quella desiderata, aumentando la ricompensa al progressivo avvicinamento alla risposta completa. Modellare il comportamento per mezzo di approssimazioni successive è una tecnica adottata ampiamente per modificare il comportamento umano. ES: Per la acquisizione della parola, è noto che i genitori adottano frequentemente la tecnica delle approssimazioni successive. Dapprima rinforzando i loro bambini per ogni forma di vocalizzazione (mediante l'attenzione, il sorriso e altre forme di rinforzo sociale): poi, più selettivamente, rinforzando quei balbettii che si avvicinano alle parole, in seguito rinforzano solo la corretta pronuncia e così via. 2) L'apprendimento per “prove ed errori” Ben presto, ci si rese conto che lo schema pavloviano non riusciva a dar ragione di come l’organismo concretamente operi, di come agisca nel e sul mondo, insomma di quelle sue attività spontanee e indipendenti da una specifica situazione-stimolo: tale schema, dunque, deve venir completato da un altro paradigma d'indagine dei comportamenti adattivi di un organismo, per quanto riguarda gli aspetti più propriamente attivi. Edward Lee Thorndike, (1874-1949) studiò l’apprendimento nell’animale utilizzando gabbie dotate di vari strumenti che potessero consentire all’animale di uscirne. Dopo alcuni tentativi, l’animale imparava quale strumento utilizzare per uscire. L’interpretazione di questo tipo di apprendimento è che l’animale non arriva alla soluzione utilizzando il ragionamento, ma dopo un processo per prove ed errori. Egli notò, inoltre, che le risposte non corrette tendevano ad essere abbandonate “legge dell’effetto”; viceversa quelle corrette ad essere ripetute “legge dell’esercizio”. Pertanto, un comportamento può essere appreso più facilmente se vengono applicate le due leggi, ovvero: ripetendo risposte che ricevono ricompense si ottiene il massimo dell’apprendimento. PER RIASSUMERE: COMPORTAMENTISTI CONSIDERANO L’APPRENDIMENTO COME LA CONNESSIONE FRA UNO STIMOLO FORNITO DALL’AMBIENTE E UNA RISPOSTA FORNITA DALL’INDIVIDUO; O FRA QUESTA RISPOSTA E IL RINFORZO (RUOLO DEL RINFORZO E DELL’AMBIENTE NEL PRODURRE APPRENDIMENTO). 3) L'apprendimento "osservativo” (o per imitazione) Albert Bandura (1925-) sostiene che bambini e adulti imparano molti comportamenti sociali osservando le azioni degli altri nelle diverse situazioni. Con questo tipo di apprendimento, chiamato apprendimento vicario, i soggetti acquisiscono nuove forme di comportamento solo osservando e imitando le azioni altrui e i relativi risultati. Bandura arrivò ad enunciare questa tesi dopo aver condotto, negli anni ’70, un esperimento. Prese un gruppo di bambini di una scuola materna, li divise in due gruppi: a) alcuni bambini assistettero a questa scena: un adulto che picchiava un bambolotto b) alcuni bambini (nella stanza sperimentale) assistevano ad un’atra scena: adulti che non prestavano attenzione al bambolotto Tutti i bambini, poi, venivano collocati nella stanza sperimentale con il bambolotto di gomma e si constatò che: i bambini che avevano assistito alla scena violenta, proponevano un comportamento aggressivo con una frequenza maggiore rispetto agli altri. Poi, propose una variante: i bambini che avevano assistito alla scena violenta, furono suddivisi in due gruppi. a) Il primo osservò una scena in cui l’adulto violento veniva ricompensato; b) il secondo osservò una scena in cui l’adulto violento veniva punito. Conclusione: i bambini che avevano assistito alla prima scena risultarono avere più comportamenti aggressivi i bambini riproponevano il comportamento degli adulti sulla base delle ricompense o punizioni che questi ultimi ottenevano Tutto ciò portò Bandura ad enunciare quanto segue: si apprende anche osservando un modello e cercando di imitarlo. Dunque, l’apprendimento osservativo é un tipo di comportamento mai rinforzato precedentemente che scaturisce dall’osservazione del comportamento di altre persone e che genera un tipo di rinforzo detto vicario dal momento che viene dato dall’osservazione del comportamento prodotto dalla persona presa a modello. Altri tipi di rinforzo per questo tipo di apprendimento sono: l’auto-rinforzo che deriva dal riuscire a imitare l’azione con successo, e il rinforzo esterno in cui il soggetto è spinto a imitare un’azione perché ne ottiene una ricompensa. 4) L'apprendimento per "insight” (o intuizione) Wolfgang Köhler (1887-1967) procedette allo studiò dell'apprendimento con il classico esperimento sugli apparentemente irrisolvibile. scimpanzé. Egli pose l’animale in una situazione Uno scimpanzé venne messo in gabbia e fuori, ma non raggiungibile, venne posto un casco di banane. Unici oggetti a loro disposizione erano bastoni. Lo scimpanzé, dopo un pò, ha un insight prese i due bastoni e li unì per ottenerne uno più lungo con il quale raggiungere le banane. Dunque, l’animale, tramite una rapida ristrutturazione percepita della realtà circostante, era stato in grado di risolvere il problema. Questo processo chiamato insight (intuizione) fissa nella memoria, in modo definitivo, quanto viene appreso. Per Köhler i tentativi degli animali non erano casuali ma intelligenti. Dopo la prima intuizione, gli scimpanzé erano in grado di ripetere l’azione. (apprendimento per insight). La ristrutturazione cognitiva rende diverso l’insight dall’apprendimento per prove ed errori teorizzato da Thorndike. Köhler non nega un apprendimento per prove ed errori, ma riconosce l’importanza del momento in cui l’animale ristruttura la situazione e percepisce improvvisamente un oggetto esterno come soluzione ad un suo problema (Einsicht). I tentativi diventano, da quel momento, “produttivi” fino al raggiungimento dell’obiettivo. 5) apprendimento significativo Per Carl Rogers (1902-1987) "L’apprendimento è veramente significativo quando il “contenuto” è vissuto dallo studente come rilevante per la soddisfazione dei suoi bisogni e la realizzazione delle sue finalità personali. L’apprendimento significativo nasce dall’esperienza e dal fare quando lo studente è parte attiva del processo di insegnamento-apprendimento. L'apprendimento auto-promosso e auto-gestito, quello che coinvolge il sentimento oltre che l'intelletto, è il più duraturo e pervasivo". CARL ROGERS L’apprendimento significativo è quel tipo di apprendimento che consente di dare un senso alle conoscenze, permettendo l’integrazione delle nuove informazioni con quelle già possedute e l’utilizzo delle stesse in contesti e situazioni differenti, sviluppando la capacità di problem solving, di pensiero critico, di metariflessione e trasformando le conoscenze in vere e proprie competenze. Secondo la pedagogia contemporanea l'apprendimento significativo, basato su teorie costruttiviste, ha come obiettivo principale quello di rendere autonomo il soggetto nei propri percorsi conoscitivi. Esso è diametralmente opposto all'apprendimento meccanico che utilizza la memorizzazione per produrre conoscenza “inerte”. Nell'apprendimento meccanico, basato su teorie comportamentiste, la ricezione delle informazioni è veicolata dal docente, le informazioni sono definitive, astratte e generiche e non possono essere modificate dal discente per integrarle ad informazioni precedenti o per negoziarne socialmente il significato. Per avere un apprendimento significativo è, quindi, necessario che la conoscenza: sia il prodotto di una costruzione attiva da parte del soggetto; sia strettamente collegata alla situazione concreta in cui avviene l’apprendimento; nasca dalla collaborazione sociale e dalla comunicazione interpersonale. Carl Rogers pone al centro dell'apprendimento significativo la motivazione ad apprendere e l’esigenza che l’insegnante riconsideri il proprio ruolo preoccupandosi di facilitare l’apprendimento attraverso il coinvolgimento e la motivazione dell’alunno; "è necessario” infatti “che lo studente venga posto di fronte a un problema da lui sentito come reale". L’autentico apprendimento, quello più efficace, scaturisce all’interno di una relazione fondata sulla libertà dei soggetti coinvolti, libertà resa possibile da sentimenti quali la stima e il rispetto reciproco. Un clima educativo in cui l’insegnante possa mettersi in gioco come persona, essere e manifestarsi per ciò che è, e proprio per questo l’allievo possa sentirsi accolto, accettato e amato in tutte le sue caratteristiche. All’interno di questo clima di libertà, autenticità e accettazione, è poi possibile lavorare per acquisire l’atteggiamento che dovrebbe essere alla base di ogni apprendimento: non tanto la tendenza a trasmettere o assorbire un determinato contenuto culturale, quanto un’attitudine alla ricerca, definita come la capacità di “imparare ad imparare”, costituita dall’integrazione di diverse abilità (dall’osservazione e acquisizione di dati, alla loro comparazione etc).L’apprendimento, a livello individuale, deve essere significativo e il suo collocarsi in una cornice di senso e funzionale ai propri scopi garantisce la sua efficacia e maggiore incisività. Al contrario, se l’apprendimento è percepito come una costrizione o una minaccia, ecco che si dovrà fare i conti con delle resistenze che rallenteranno, ostacoleranno o addirittura interromperanno il percorso. Trasferiamo questi principi generali al mondo della scuola: ecco che l’apprendimento non va inculcato ma semplicemente facilitato e, la facilitazione dell’apprendimento finalità principale dell’educazione, è possibile solo all’interno di un contesto scolastico improntato alla collaborazione tra i suoi membri, uniti da uno spirito di gruppo e di crescita comune e non divisi da spinte competitive e individualistiche. L’insegnante è innanzitutto un facilitatore, forte di una capacità empatica nei confronti dei propri alunni, con cui riesce a stabilire un efficace rapporto interpersonale entro cui possa prodursi un libero apprendimento. La stessa capacità di ascolto e comprensione esercitata dal docente può, secondo lo psicologo americano, maturare all’interno del gruppo degli allievi, grazie all’esercizio di determinati strumenti. LA VALUTAZIONE PSICOPEDAGOGICHE E LE NEI TEORIE DISTRUBI SENSOMOTORI Il Disturbo di Sviluppo della Coordinazione Motoria si manifesta quando le prestazioni in compiti di coordinazione motoria, fini o grosso motori, sono significativamente al di sotto del livello atteso rispetto all’età e allo sviluppo intellettivo. La valutazione va condotta con esame individuale utilizzando uno strumento che misura la coordinazione fine e grosso motoria (tutto il corpo). Le difficoltà di coordinazione dovrebbero essere presenti sin dall’inizio dello sviluppo e non dipendono da deficit acquisiti (DSM –IV). La diagnosi viene fatta solo se questa compromissione interferisce in modo significativo con l'apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana e se le difficoltà nella coordinazione non sono dovute ad una condizione medica generale o disturbi neurologici (paralisi cerebrale, emiplegia, o distrofia muscolare ecc.). Se è presente Ritardo Mentale, le difficoltà motorie vanno al di là di quelle di solito associate con esso. La prevalenza del disturbo è stimata intorno al 6% della popolazione infantile tra i 5 e gli 11 anni. Come si manifesta Le principali difficoltà che incontrano i bambini con Disturbo della Coordinazione Motoria non sono solo relative all’incapacità nell’uso del movimento, ma anche nell'imparare ad usare strategie per risolvere i problemi legati alle attività motorie. Poiché le capacità motorie non diventano automatiche per questi bambini, essi devono dedicare uno sforzo e un'attenzione supplementari per portare a termine le attività motorie, anche quelle già acquisite in precedenza. Spesso i bambini affetti da DCD non riconoscono le somiglianze tra determinate attività motorie e ciò comporta una difficoltà a trasferire le proprie capacità motorie da un'attività all'altra (ad es. prendere una palla grande e prendere una palla piccola). Presentano inoltre difficoltà a generalizzare le proprie capacità motorie nelle diverse situazioni (ad es. un bambino che si avvicina al bordo di un marciapiede deve capire che salire sul marciapiede è un'attività simile a salire le scale). La necessità di reagire ad un ambiente mutevole (ad es. colpire una palla in movimento, o evitare gli altri bambini nei giochi di squadra) comporta un'ulteriore difficoltà per i bambini affetti da DCD, in quanto per loro è difficile rilevare le informazioni derivanti dall'ambiente e far reagire il proprio corpo in modo tempestivo. Le caratteristiche principali del bambino con DCD sono le seguenti: Il bambino può essere goffo o impacciato nei movimenti. Può urtare, rovesciare o far cadere le cose. Il bambino può avere difficoltà con le abilità grosso-motorie (tutto il corpo), le abilità fino motorie (uso delle mani) o entrambe. Il bambino può sviluppare in ritardo alcune capacità motorie quali andare in triciclo/bicicletta, afferrare una palla, saltare una corda, allacciare i bottoni e i lacci delle scarpe. Il bambino può mostrare una discrepanza tra le proprie capacità motorie e le capacità in altre aree. Ad esempio, le capacità intellettuali e linguistiche possono essere piuttosto sviluppate, mentre le capacità motorie possono risultare in ritardo. Il bambino può avere difficoltà ad acquisire nuove capacità motorie. Una volta acquisite, alcune capacità motorie possono essere eseguite abbastanza bene, mentre altre possono continuare ad essere svolte con scarsi risultati. Il bambino può avere più difficoltà a svolgere attività che richiedono un cambiamento continuo della posizione del corpo oppure quando deve reagire a cambiamenti dell'ambiente. Il bambino può avere difficoltà a svolgere attività che richiedono l'uso coordinato di entrambi i lati del corpo (ad es. tagliare con le forbici). Il bambino può mostrare uno scarso controllo della postura e uno scarso equilibrio, soprattutto in attività che richiedono equilibrio (ad es. salire le scale, stare in piedi mentre ci si veste). Il bambino può avere difficoltà a scrivere in stampatello o a mano libera. Questa capacità implica una continua interpretazione del feedback in merito ai movimenti della mano e la contemporanea pianificazione di nuovi movimenti, ed è un'attività molto difficile per la maggior parte dei bambini affetti da DCD. Disturbi associati I problemi comunemente associati con il Disturbo di Sviluppo della Coordinazione includono il ritardo nel raggiungimento di altre tappe fondamentali non motorie. I disturbi associati possono includere il Disturbo della Espressione del Linguaggio, il Disturbo della Fonazione ed il Disturbo Misto della Espressione e della Ricezione del Linguaggio. Difficoltà Scolastiche e problemi comportamentali socio-emotivi. La Disprassia Evolutiva La Disprassia viene generalmente inclusa nella definizione di disturbi della Coordinazione Motoria DCD (Developmental Coordination Desorder). La Disprassia Evolutiva è infatti riconosciuta come un disturbo congenito o acquisito precocemente che, pur non alterando nella sua globalità lo sviluppo motorio, comporta difficoltà nella gestione dei movimenti comunemente utilizzati nelle attività quotidiane (ad es. vestirsi, svestirsi, allacciarsi le scarpe) e nel compiere gesti espressivi (che servono a comunicare emozioni, stati d’animo); inoltre è deficitaria la capacità di compiere sia gesti transitivi (che comportano l’uso di un oggetto, abilità manuali) che intransitivi (non rivolti ad un oggetto, a contenuto prevalentemente simbolico). Per comprendere meglio il significato implicito nel termine è necessario distinguere due termini: Disturbo del Movimento e Disprassia. Infatti mentre il disturbo del Movimento può essere incluso nella definizione di DCD, la definizione di Disprassia implica “il deficit di esecuzione di un gesto intenzionale” e difficoltà soprattutto rispetto alla capacità di pianificazione, programmazione ed esecuzione deputate al raggiungimento di uno scopo od obiettivo. Il bambino disprattico, in genere, non si sa "organizzare" nelle "azioni" che compie: il gioco risulta povero e ripetitivo; non si sa spogliare e vestire da solo; è difficile che attivi spontaneamente la capacità di disegnare; il linguaggio fatica a decollare. Spesso alcuni suoni della lingua sono di difficile acquisizione e quando sono acquisiti, la loro posizione all’interno delle parole, risulta non corretta. Trattamento Le abilità di coordinazione motoria sono influenzate da condizioni neurologiche, ambientali e psicologiche, da qui la necessità di offrire al bambino tutti gli stimoli necessari affinché si verifichi un buon funzionamento del sistema nervoso e in particolare dell’apparato senso motorio e un’adeguata integrazione delle informazioni dei diversi sistemi percettivi (sistema visivo, cinestesico, acustico, tattile e dell’equilibrio). Ciò si traduce attraverso un’educazione motoria del bambino che tenga conto di un ottimale sviluppo delle capacità di apprendimento motorio che consiste nell’assimilazione e nell’acquisizione di movimenti precedentemente non posseduti, che devono essere stabilizzati ed automatizzati. Miglioramento della capacità di controllo motorio secondo lo scopo previsto. La riabilitazione neuro-motoria è volta a promuovere, attraverso esperienze concrete e il controllo cosciente del movimento e dell’azione, uno sviluppo adeguato e una congrua comunicazione del bambino con l’ambiente circostante tenendo conto delle potenzialità dello stesso. Ciò si traduce con una buona conoscenza del bambino da parte dell’adulto e dell’educatore finalizzata a favorire uno sviluppo funzionale che tende alla motivazione e alla valorizzazione del bambino nel rispetto dei suoi tempi e dell’interazione con l’ambiente circostante. Questo significa che l’esercizio fisico non va inteso semplicemente come un atto imitativo e ripetuto ma come un atto intenzionale in cui il corpo non è solo uno strumento ma un modo di conoscere e comunicare. IL PROCESSO EDUCATIVO La psicologia dell'educazione, detta anche Psicopedagogia, è quell'area della psicologia che studia le implicazioni psicologiche dei processi educativi (scolastici e non solo). Chi si occupa di Psicopedagogia quindi, forte dei metodi e dei dati offerti dalla psicologia generale, dalla psicologia dell'età evolutiva e dalla psicologia differenziale (che comprende settori quali: differenze/somiglianze tra individui di diversa età, sesso, classe sociale, caratteristiche fisiche, ecc.), si interessa: delle modalità psicologiche con cui impartire una certa educazione, in vista di un apprendimento, riservando particolare attenzione, nel mondo della scuola, ai problemi di didattica, alle modalità d'insegnamento, alle problematiche connesse alla formazione scolastica (ad es. la motivazione allo studio), alle tematiche relative all'orientamento; delle risonanze psichiche che il processo educativo, a scuola ma anche in ogni contesto educativo comporta, non trascurando, oltre allo sviluppo cognitivo, anche quello affettivo ed emozionale di ciascun individuo. Nel nostro secolo, gli studi scientifici intorno alla psicologia dell’età evolutiva, si sono molto sviluppati. Oggi la pedagogia non può più prescindere dagli studi psicologici, che hanno approfondito la conoscenza sia dei processi dell’apprendimento sia delle reazioni emotive e comportamentali; soprattutto non può fare a meno delle scoperte relative alle motivazioni (in psicologia si chiama motivazione la spinta interiore che porta all’azione) che sollecitano il bambino alla conoscenza del mondo che lo circonda, che lo stimolano al gioco, che ne formano e orientano il carattere, l’affettività e l’agire. Ecco, dunque che, grazie all’opera di comportamentisti come Thorndike (operante negli Stati Uniti) e Claperade pedagogista belga di matrice funzionalista, nasce, agli inizi del XX secolo, la Psicopedagogia. Sulla scia delle prime ricerche effettuate da questi pionieri della psicologia, sono andate a svilupparsi nuove e interessanti teorie psicologiche finalizzate all'apprendimento, come l'epistemologia genetica di Jean Piaget, interessato in modo specifico allo sviluppo psichico del bambino e la cosiddetta "zona di sviluppo prossimale" attribuita a Vygotskj. Di recente alcuni psicopedagogisti si sono specializzati nella gestione della classe, aiutando gli insegnanti a sviluppare abilità sia psicologiche che sociali che permettono di creare un ambiente scolastico sereno e produttivo. Altri studiosi (fra i quali, Andrea Canevaro) hanno posto particolare attenzione all'organizzazione del contesto educativo, elaborando anche specifici strumenti per la sua organizzazione fra i quali lo sfondo integratore ¹, che si è diffuso in Italia, soprattutto, nell'ambito dei nidi e delle scuole d'infanzia. ¹Con "sfondo integratore" si intende sia una metodologia di progettazione educativa, sia uno strumento didattico, utilizzato nell'ambito dell'integrazione scolastica di alunni con disabilità. Pone accento sul contesto educativo L’apprendimento è inteso come attività costruttiva del soggetto collegata ad un contesto . L’organizzazione del contesto educativo può favorire od ostacolare, fino ad inibire, tale capacità. Di qui l'importanza, soprattutto in presenza di situazioni di disabilità, che gli educatori progettino l'organizzazione dello sfondo educativo, con un lavoro di “regia” mirato a sostenere i processi di autonomia e di autoorganizzazione cognitiva dei bambini. Questa progettazione può essere facilitata dall'utilizzo di una serie di strumenti organizzatori del contesto educativo, fra i quali rientra lo "sfondo integratore". Recentemente la Psicopedagogia ha anche sviluppato una dimensione clinica esplicitata della Metodologia della Diagnosi Funzionale: una procedura psicodiagnostica mirata alla valutazione delle componenti psichiche e comportamentali generalmente impiegata nella Scuola per indagare sulle influenze dei contesti famigliari sulle prestazioni scolastiche, e per misurare le gravità delle situazioni di grave disabilità e disagio sociorelazionale. l’educazione come processo di crescita É il processo di integrazione sociale e di trasmissione culturale mediante la quale, nell'ambito di concrete situazioni storiche, ambientali e familiari, si struttura la personalità umana. É il susseguirsi non predeterminato e non predeterminabile di eventi di per sé significativi, espressivi di un bisogno personale (il sé) e sociale (gli altri) e in attesa di una narrazione. Il concetto di educazione coinvolge tutti gli stimoli che ci provengono dal mondo esterno, dalle cure familiari ai contatti con il mondo della scuola, dall’incontro occasionale all’apporto dei mezzi di comunicazione. Interessa la crescita fisica e spirituale di ciascuno di noi. Il bambino che nasce porta in sé infinite possibilità, alcune sono comuni a tutti gli uomini, altre sono proprie e specifiche d’ogni individuo. L’educazione è lo sviluppo di tutti gli aspetti della personalità umana, fisici, intellettuali, affettivi e del carattere. Tutti siamo in un certo modo responsabili, con le parole, con gli atti, con gli atteggiamenti, dell’educazione delle persone che ci vivono accanto. L’educazione impegna tutta la vita e tutti noi, anche se non ne prendiamo coscienza. Possiamo sempre “crescere”, perfezionarci in qualche aspetto della nostra personalità. Ognuno di noi può essere educatore, col suo comportamento, con una parola, un gesto, la sola presenza. fattori dell’educazione L’educazione ha due aspetti, uno interno ed uno esterno. L’aspetto più appariscente è quello esteriore, cioè quell’insieme di azioni, atteggiamenti, parole accorgimenti che una persona mette in opera per educarne un'altra. Si chiama etero-educazione tutto quel complesso di atti e di circostanze ambientali esterne che costituiscono il contributo indispensabile alla nostra formazione. Cultura è pure il complesso delle abitudini sociali, delle tradizioni di un popolo. La persona non è plasmabile a nostro piacimento: ciascuno, come ha la propria struttura fisica, così ha il proprio temperamento ereditario; possiede un certo quoziente intellettuale e una propria forma specifica di intelligenza (più teorica o più pratica, più intuitiva o più logica). Ha delle particolari attitudini e un proprio modo di sentire e di reagire alle situazioni più diverse. L’educazione non può prescindere da tutto questo, anzi deve porsi al servizio di queste doti naturali, offrendo loro la possibilità di esprimersi. Ciascuno collabora alla sua personale formazione e tale contributo viene chiamato auto-educazione. L’educazione è non soltanto un fattore indispensabile, ma é il frutto più importante di un rapporto tra persone, oltre che tra soggetto e ambiente. L’educazione nasce dal concorso di tanti fattori, ambientali, ereditari, voluti ed occasionali; cresce nella convivenza di adulti e bambini, nell’incontro di certi stimoli (etero-educazione) con l’attiva ricezione degli stessi da parte di un individuo dotato di una sua insostituibile personalità (auto-educazione). principali istituzioni educative Esistono delle istituzioni educative specifiche e universalmente riconosciute come tali: la famiglia: sotto protezione e con l’appoggio dei genitori, il processo educativo ha la possibilità di svolgersi naturalmente e di portare i suoi frutti a tempo debito. Quando la famiglia viene a mancare, l’intero sviluppo del bambino è compromesso: persino la crescita fisica, la deambulazione e lo sviluppo del linguaggio vengono ritardati; la scuola: oggi viene vista non soltanto come organo di trasmissione del sapere ma come organo di educazione nel senso più ampio del termine. È attraverso la scuola che il bambino si educa alla socialità; la chiesa: le è affidata la formazione morale e religiosa, a completamento di quella iniziata nella famiglia. Un tempo ebbe anche il compito dell’istruzione quando mancavano le scuole municipali o statali. Oggi continua l’opera educativa anche attraverso istituzioni ricreative che offrono la possibilità di gioco o di attività agonistica e occasioni per l’educazione nel significato più proprio. Tuttavia, oggi ci si può accorge di come l’educazione, l’istruzione e la formazione non avvengono più nel solo sistema formale (scuola famiglia, lavoro), ma anche in quello informale (internet, mass media) EDUCAZIONE…. La parola educazione ha un’etimologia incerta tra educare (forse da "edere" = alimentare) e "educere" (tirar fuori, sviluppare), termine che sembra porre l’attenzione su ciò che il soggetto umano possiede, ha già e può sviluppare Nel corso del tempo ha prevalso la derivazione etimologica da ex-ducere, che è stata utilizzata allo scopo di evidenziare o rafforzare una visione teorica dell’educazione come processo in cui si sviluppano potenzialità che sono già “dentro” l’educando. L’educazione sarebbe cioè l’intervento con cui le potenzialità del soggetto vengono “tirate fuori”, aiutate ad esprimersi, portate in atto e l’intervento serve solo a permettere alla “natura” dell’educando di esprimersi. Educazione indica anche il processo di formazione dell’individuo in cui vengono passati da una generazione più anziana ad una più giovane non solo saperi tecnici, ma più in generale regole di comportamento e principi morali che mirano a far crescere bene i giovani, costituendo i presupposti per il loro buon inserimento nella società. Con educazione ci riferiamo dunque non solo alla crescita intellettuale di un individuo, ma anche alla sua capacità di adeguarsi a determinate regole e modelli sanzionati socialmente. Per questo definiamo beneducato chi sa comportarsi a modo; mentre è maleducato o addirittura ineducato chi non conosce le buone maniere e agisce di conseguenza. L’educazione riguarda, dunque, le modalità utilizzate dal soggetto nella costruzione della propria esperienza, i “pattern prospettici”, le forme nelle quali si dà l’interpretazione del mondo e, quindi, le condizioni di possibilità dell’esperienza stessa. L’educazione, pertanto, pone l’accento sui presupposti sui quali è fondata la propria personale visione del mondo, la grammatica profonda della percezione e della cognizione umana. ….E FORMAZIONE Il termine formazione viene frequentemente utilizzato come sinonimo di educazione, ma viene anche utilizzato specificamente per indicare la formazione professionale, stabilendo l’equivalenza tra formazione e formazione professionale. Essa sottintende lo sviluppo professionale personale e designa la volontà di dare forma. Nel processo educativo troviamo implicati fattori esterni o esogeni (quali l'ambiente, l'insegnamento, ecc.), mentre, nello sviluppo troviamo implicati fattori interni o endogeni (quali la costituzione, il temperamento, certi tratti innati della personalità e la stessa maturazione dell'età evolutiva). Per concludere, la distinzione che oggi si compie tra educazione e formazione ci dice che: la prima sarebbe generale, la seconda più specificamente orientata verso la professione. Ad ogni modo, sia nell’educazione che nella formazione possiamo ravvisare l’acquisizione di atteggiamenti e di capacità. POSSIBILI INTERVENTI NELLE SITUAZIONI EDUCATIVE COMPLESSE I bambini che creano più difficoltà agli educatori per la gestione della classe, degli asili o delle ludoteche, sono solitamente quelli che non rispettano le regole, non danno retta agli adulti e pretendono di fare come pare a loro. Inoltre, se si cerca di porre dei limiti al loro comportamento, reagiscono malamente. Disturbano il lavoro della classe, provocano i compagni e creano situazioni di scontro fisico e, a volte, di rischio per l'incolumità loro dei compagni e anche degli adulti. Si tratta essenzialmente di tre tipi di situazioni: 1) bambini/ragazzi con handicap psichico e relazionale. Parliamo, per lo più, di bambini diagnosticati come autistici, con ritardo mentale più o meno complicato, di cui parleremo in seguito alla voce i disturbi dello sviluppo. 2) bambini/ragazzi con normale intelligenza e sviluppo ma con comportamento refrattario a regole e limiti alla loro volontà, incapaci o indisposti a frenare i loro impulsi. (AGGRESSIVITÀ - BULLISMO) 3) l'ultima situazione comprende i cosiddetti "ragazzi difficili" 1) Handicap psichici e relazionali: VEDI i disturbi dello sviluppo. 2) Disturbi del comportamneto: I comportamenti aggressivi Le relazioni tra coetanei possono spesso assumere la forma di interazioni aggressive. Esistono diverse tipologie di comportamento aggressivo che si differenziano dalla modalità di attacco, dall’intenzione che determina l’azione e dalla presenza o assenza di attivazione emotiva. Tra i bambini sono più frequenti aggressioni di tipi diretto, che colpiscono direttamente il bersaglio attraverso attacchi fisici e verbali, ma sono anche presente aggressioni indirette che danneggiano l’immagine sociale per causarne l’esclusione (più diffuse tra le femmine). Il comportamento aggressivo ostile si ha quando si vuole infliggere un dolore fisico o psicologico su una persona, senza necessariamente volere in cambio qualcosa. Il comportamento aggressivo strumentale si ha quando si infligge un danno per ottenere in cambio qualcosa. L’aggressività è reattiva quando, appunto, c’è una reazione, una risposta a un comportamento percepito come ostile. Essa é un impulso spesso causato da una forte emozione come la rabbia. L’aggressività è proattiva quando non c’è uno stimolo, ma la persona aggredisce qualcosa o qualcuno con lo scopo, oltre che di "danneggiare la vittima", di causarne l'esclusione. É un tipo di aggressività razionale e calcolata. In seguito a vari studi effettuati da alcuni studiosi, la messa in atto di condotte aggressive è risultata associata a carenze nei processi empatici di condivisione affettiva degli stati emotivi e a una maggiore ricerca di dominanza e affermazione di sé. Spesso i comportamenti aggressivi possono derivare dal rifiuto dei pari, ma non sempre bambini o ragazzi aggressivi sono rifiutati. Quando si tratta di aggressività proattiva, spesso i ragazzi ricevono indici di preferenza sociale elevati, mentre quando si tratta di aggressività reattiva sono poco graditi dai compagni. Nella pratica educativa, è abbastanza frequente incorrere in situazioni relazioni e sociali alla cui compromissione è connessa una incapacità di gestione dovuta a Disturbi del Comportamento. La situazione-problema che si viene a creare, infatti, è fonte di ansie - e in alcuni di casi di paura - per tutti coloro che ne sono coinvolti a causa dell'imprevedibilità dei comportamenti messi in atto e alla loro intensità; inoltre, può indurre le figure educative a commettere l'errore di adottare strategie estemporanee. Questa modalità operativa, anche se animata da propositi educativi corretti, di fatto rinforza le condotte disfunzionali e ingenera un clima di disorientamento e di provvisorietà. Al contrario, ogni disturbo del comportamento è aperto a specifiche tecniche di trattamento, a condizione però che queste vengano progettate e predisposte sulla persona reale, e siano applicate con la coerenza che lo strumento di intervento e la situazione richiedono. Vediamo insieme alcuni disturbi del comportamento con le relative tecniche di trattamento, allo scopo di fornire consigli utili alla strutturazione di un intervento pedagogico ed educativo efficace. DISTURBI DEL COMPORTAMENTO = DEFINIZIONE Per disturbo del comportamento si intende ogni manifestazione comportamentale o emotivo-affettiva che devia dalla norma, o che è inaccettabile nel contesto sociale di riferimento; In altri termini, si tratta di una alterazione di segno negativo della "capacità di conformare il proprio comportamento alle richieste dell’ambiente" per cui i soggetti faticano «a prendere in considerazione il punto di vista altrui e pretendono che i loro desideri e necessità abbiano la priorità su tutto e tutti. Frequentemente è riscontrabile aggressività, rabbia, provocazione e trasgressione di norme sociali e morali. Nell'area dei disturbi del comportamento rientrano: il Disturbo Oppositivo Provocatorio, contraddistinto da comportamento negativistico, provocazione, ostilità, collericità; il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività connotato da disattenzione e/o iperattività, impulsività; Disturbo oppositivo provocatorio Il Disturbo Oppositivo Provocatorio – o DOP – si inserisce nella categoria dei Disturbi da Comportamento Dirompente e costituisce una patologia neuropsichiatrica nella quale è presente una modalità comportamentale ricorrente e che risponde a dei criteri ben precisi di tipo "negativistico, provocatorio, disubbidiente ed ostile nei confronti delle figure dotate di autorità che persiste per almeno 6 mesi (Criterio A) ed è caratterizzato da frequente insorgenza di almeno uno dei seguenti comportamenti: perdita di controllo, litigi con adulti, opposizione attiva o rifiuto di rispettare richieste o regole degli adulti, azioni deliberate che danno fastidio agli altri, accusare gli altri dei propri sbagli o del proprio cattivo comportamento, essere suscettibile o facilmente infastidito dagli altri, essere collerico e risentirsi, o essere dispettoso o vendicativo. Per definire il Disturbo Oppositivo Provocatorio, i comportamenti devono manifestarsi più frequentemente rispetto a quanto si osserva tipicamente nei soggetti di età e di livello di sviluppo paragonabili e devono comportare una significativa compromissione del funzionamento sociale, scolastico, o. Si è dunque in presenza di un'aggressività non di tipo reattivo, ma proattivo, persistente e duratura, al punto da diventare scarsamente modificabile, e dunque invalidante per la persona che ne è affetta. Il soggetto con Disturbo Oppositivo Provocatorio non ha consapevolezza circa la disfunzionalità del proprio comportamento che, al contrario, viene percepito dal soggetto stesso, come una risposta per poter fronteggiare un ambiente frustrante. In altri termini, sarebbe l'altro a indurre la risposta comportamentale ecco perché assistiamo all'allargamento costante della cerchia dei destinatari del comportamento stesso. Ne deriva che il rapporto interpersonale, sia con le figure adulte sia con i pari, risulta compromesso. La scarsa competenza relazionale porta il soggetto con DOP a sperimentare un'idea sfavorevole di sé e a formulare – sulla base dei giudizi espressi dall'altro – auto asserzioni negative, che divengono la base sulla quale si fonda la strutturazione di una bassa autostima. La relazione interpersonale assume caratteristiche forzate; la convinzione di non essere meritevole di affetto – unitamente a una visione di sé e dell'altro svalutante – induce la persona a verificare, nel tempo, la durevolezza del rapporto con il proprio interlocutore mettendo in atto il proprio repertorio comportamentale disfunzionale. La relazione messa in atto dal ragazzo DOP sembra, dunque, essere animata da due sentimenti: da una parte c'é la paura che l'altro possa mettere in atto comportamenti di allontanamento; dall'altra c'é la convinzione, per sè stessi, dell'impossibilità di essere il destinatario dell'affetto. Generalmente, la sintomatologia caratterizzante il Disturbo Oppositivo Provocatorio compare, in modo graduale, prima degli 8 anni di età e non oltre il periodo adolescenziale. ATTENZIONE: si può parlare di DOP, infatti, solo quando le manifestazioni sintomatologiche assumono forme frequenti e gravi. La costruzione di un intervento pedagogico Nella costruzione di un intervento pedagogico che produca delle modificazioni concrete nel repertorio comportamentale di una persona con Disturbo Oppositivo Provocatorio occorre procedere all'individuazione delle condotte-problema, definendo, per ciascuna, se si intende intervenire sulla frequenza – incrementandola o diminuendola – o sulla modificazione dell'intensità e della durata. In altri termini, la funzionalità dell'intervento risiede nella possibilità di lavorare in maniera differenziata sulle varie aree di interesse; ne consegue che su ogni area comportamentale è possibile agire con specifiche tecniche di rinforzo. Le due macro-aree su cui è necessario intervenire sono: la relazione sociale/interpersonale: occorre procedere alla sostituzione dei comportamenti disadattivi mediante la diminuzione della loro frequenza e introdurre condotte sociali funzionali. In linea generale, nella pianificazione e nell'attuazione di un intervento centrato sull'area relazionale e sociale di una persona con DOP, è di fondamentale importanza considerare due elementi caratterizzanti il Disturbo stesso, quali: bassi livelli autostima, percezione frustrante e svalutante della relazione interpersonale. il rispetto delle regole/consegne. Disturbo da deficit di attenzione/iparattività Persistente modalità di disattenzione/iperattività Peculiarità Disattenzione che manifesta spesso nelle attività sociali, scolastiche o lavorative, manifesta spesso sbadataggine Non porta a termine i compiti assegnati Passano da un’attività all’altra senza completarne una Non amano essere coinvolti in compiti dove sia presente l’organizzazione Si distraggono facilmente Sul piano sociale riescono con difficoltà ad avere rapporti interpersonali e di gruppo significativi Non riescono a stare fermi Stare seduto sulla sedia diventa una sofferenza Sono molto impazienti e fanno fatica a rispettare gli altri se hanno necessità di intervenire in qualche questione Non riescono a rispettare le direttive Questi soggetti preoccupano non poco gli Educatori dal momento che i loro atteggiamenti non sono facilmente gestibili. Disattenzione, irrequietezza provocano difficoltà di gestione all'interno di una classe e suscitano atteggiamenti negativi nel gruppo classe in quanto spesso, le loro difficoltà attentive e la loro iperattività sono scambiate per maleducazione, devianza, delinquenza. Raramente si riesce a capire che questi soggetti hanno dei precisi deficit. Questi soggetti vivono con sofferenza l’esperienza scolastica in quanto per apprendere in modo significativo occorrono impegno ed attenzione costanti, mentre essi riescono a mantenere l’attenzione solo per brevi momenti. A scuola devono stare seduti rispondere quando sono interpellati, raramente hanno relazioni interpersonali adeguate poiché gli altri compagni non accettano i loro atteggiamenti eccessivi, non capiscono le loro difficoltà e tendono ad isolarli. Operare per soddisfare i loro bisogni e garantire un clima di classe positivo non è semplice e non è impossibile. Diversi gli approcci pedagogici. Due su tutti. MARY FOWLER suggerisce di adottare le seguenti linee guida: Organizzare per l’allievo un ambiente educativo adatto: regole chiare consegnare liste di attività e compiti da svolgere specificare il tempo a disposizione per ogni attività prevedere molti momenti di pausa proporre attività interessanti utilizzare frequentemente il PC per attività di apprendimento utilizzare materiali visivi per le istruzioni verbali Tutte le ricerche mettono il luce l’importanza di organizzare l’ambiente in modo che l’attenzione di questi allievi venga aiutata a soffermarsi su cose importanti. SUZANNE STEVENS suggerisce posto primo banco di fronte alla lavagna o alla cattedra in quanto ridurrebbe di molto lo spazio visivo dell’intera classe. Però, se l’allievo presenta seri problemi di iperattività il posto migliore potrebbe essere un posto dove possa muoversi liberamente senza compromettere le attività. La Stevens precisa, inoltre, che al ragazzo dovrebbe essere specificato il limite entro cui può muoversi. Con questi soggetti la regola importante non è reprimere il comportamento inadeguato, quanto incoraggiare un atteggiamento che dia loro appagamento e che, nello stesso tempo, non comprometta il lavoro dei compagni. A tale proposito, per gratificare un comportamento corretto o un compito ben eseguito risultano utili oltre alle lodi verbali o ai riconoscimenti scritti, anche le attività impiegate come premi. Es permettere al soggetto iperattivo di fare un giro lungo il corridoio, andare in cortile, pulire la lavagna, sistemare i banchi della classe… Pensare frequenti pause e adottare modalità didattiche innovative ed interessanti. Utilizzare materiale audio-visivo. Questi ragazzi hanno bisogno di più attenzione da parte del docente il quale è bene che utilizzi frequentemente il “controllo prossimale” la presenza fisica dell’educatore che calma o riduce il comportamento inadeguato. Utilizzare block notes per segnare passaggi importanti, offrire fotocopie che sintetizzano la lezione. Il bullismo Il bullismo é un fenomeno che si sviluppa in maniera graduale nel corso del tempo ed é spesso il risultato dell'accumularsi di numerosi fattori a rischio. Ecco quindi che diventa fondamentale individuare precocemente tutti quei segnali che possono precedere l'atto di bullismo vero e proprio. Generalmente i bulli scelgono come vittima i bambini più timidi e privi di amici; una volta individuati, cominciano a tormentarli senza sosta. Quando si verifica un episodio di bullismo, non limitiamoci a punire l'aggressore. Piuttosto, cerchiamo di trasmettere alla vittima quelle abilità che le permetteranno di difendersi in futuro da fenomeni simili. Il potenziale bullo, non agisce quasi mai in maniera improvvisa. I bambini, oggetto dell'aggressività altrui, tacciono e non richiamano l'attenzione dell'Educatore, perché sperano che, subendo passivamente, prima o poi il bullo si stanchi e li lasci in pace. E i compagni non "vedono nulla" per timore di attirare l'attenzione del bullo. Ma se l'adulto (Educatore/Insegnante) o i compagni intervenissero prontamente, la situazione non potrebbe evolvere verso il bullismo. POTENZIALI" VITTIME: vittime attive: bambini/ragazzi iperattivi infrangono le regole del gioco, toccano le cose dei compagni, si sovrappongono agli altri mentre parlano e, spesso, vengono isolati dal resto della classe. vittime passive: bambini/ragazzi eccessivamente timidi che non riescono a stabilire facilmente delle amicizie o, ad esempio, evitano di partecipare a situazioni sociali (feste...) Spesso l'eccessiva timidezza o la presenza di un comportamento irrequieto possono esporre il bambino/ragazzo al rischio di diventare vittima di bullismo. Pertanto, se vogliamo evitare questa evoluzione preoccupante, é opportuno: aiutare i bambini più irrequieti a controllare il proprio comportamento affiancare ai bambini più timidi un amico socialmente estroverso evitare che i bambini più inibiti rimangano da soli in situazioni sociali (in classe, al parco giochi...) ! Il vero e principale fattore di rischio da considerare è il grado di isolamento sociale della vittima. "ASPIRANTI" BULLI ragazzi con temperamento "incendiario" sono sempre in stato di allerta, ogni piccolo inconveniente scatena la loro collera e l'aggressività. I bulli incendiari, o reattivi, interpretano spesso i comportamenti degli altri come una possibile minaccia nei loro confronti e attribuiscono la responsabilità dell'accaduto a chi li circonda. In altre parole, i bulli reattivi mancano di adeguate abilità di autocontrollo. ragazzi intelligenti, emotivamente controllati che cercano spesso di assumere un ruolo di dominanza nel gruppo e che amano stare al centro dell'attenzione, sono competitivi e se ritengono che qualcuno li voglia mettere in ombra, decidono di passare all'azione. É questo il tipo di bullo pianificatore o proattivo che sceglie la vittima più indifesa e anche il momento della giornata più adatto, cioè quel momento in cui la supervisione dell'adulto é ridotta. Questi bulli non agiscono in preda alla rabbia, ma progettano a freddo il loro comportamento aggressivo. I bulli calcolatori non hanno freni inibitori e sono in grado, grazie all'elevato livello di autocontrollo emozionale, di ricorrere a qualsiasi tipo di bullismo scegliendo, di volta in volta, l'atto aggressivo utile per i propri scopi. Generalmente, la vittima attiva tende ad incrociarsi con il bullo reattivo, il bullo calcolatore, pianificando le sue azioni, sceglie la vittima passiva. Le 5 dimensioni che ci fanno parlare di atti di bullismo e non di "ragazzate": 1. pianificazione - il bullismo è un comportamento aggressivo pianificato. come abbiamo già detto, il bullo sceglie attentamente la sua vittima, aspetta che la supervisione dell'adulto sia ridotta e agisce nei luoghi meno controllati; 2. potere - il bullo è più "forte" della vittima, ma non fisicamente (questa evenienza si verifica solo in alcuni casi), il bullo ha più potere sul piano sociale. In altre parole, ha un gruppo di amici-complici con cui agisce; 3. rigidità - i ruoli di "bullo" e di "vittima" sono assegnati rigidamente. Capita, spesso, che passino parecchi anni prima che l'adulto si accorga di quanto accade; 4. gruppo - sempre più spesso gli atti di bullismo vengono compiuti da piccole "gang"; 5. paura - della vittima, di andare incontro a possibili ritorsioni da parte del bullo, nel caso in cui si decidesse a parlarne con un adulto. FORME DI BULLISMO Il bullismo può assumere sfumature diverse. Può essere: FISICO atti aggressivi diretti (calci, pugni..) danneggiamento della proprietà altrui VERBALE forme preferite dal bullo reattivo manifesto (deridere, umiliare) nascosto (diffondere voci false e offensive su un compagno) RELAZIONALE sociale (escludere il compagno dalle attività di gruppo) manipolativo (rompere i rapporti di amicizia di cui gode la vittima) Mentre la forma di bullismo fisico, per ovvi motivi, é facilmente rilevabile, per le altre due forme si evidenziano due difficoltà di rilevamento: 1. queste forme non lasciano segni esteriori. Pertanto, l'adulto deve essere in grado di cogliere i segnali di sofferenza emozionale che esse provocano 2. possono essere facilmente interpretate come semplici scherzi tra ragazzi. CAMPANELLI DI ALLARME PER I GENITORI il bambino mostra segni di ansia e lamenta sintomi fisici soprattutto di mattina, al momento di andare a scuola regredisce a fenomeni tipici delle età precedenti (es: bagnare il letto) presenta un umore depresso che nei bambini, a differenza degli adulti, si manifesta con un incremento dell'irrequietezza motoria lamenta difficoltà nel sonno manifesta alterazioni dell'appetito (aumento o diminuzione) non partecipa ad alcuna situazione sociale (feste, gite...) non si concentra sui compiti evita di rispondere se interrogato dal genitore compie strani percorsi per andare o tornare da scuola SEGNALI DI BULLISMO PER INSEGNANTI ED EDUCATORI viene continuamente schernito dai compagni e, soprattutto, mostra segni di imbarazzo o disagio viene attivamente escluso dai compagni durante le attività di gruppo nei momenti di gioco o di ricreazione rimane continuamente vicino alla figura dell'educatore COSA FARE insegnare ai bambini a valorizzare le differenze individuali. La vittima, arriva spesso a sentirsi responsabile di quanto gli sta capitando. L'autostima crolla. tutto ciò viene favorito dal bullo con affermazioni quali: "non veste alla moda come noi..." QUINDI: incoraggiare il ragazzo a parlare. É importante che l'adulto mostri disponibilità all'ascolto senza aver fretta di raccogliere immediatamente tutte le informazioni. Inoltre, far capire che non è responsabile di quanto sta accadendo. PASSO: costruire, attorno al bambino aggredito, una "cintura protettiva"(es: creare, durante la ricreazione, piccoli gruppi entro cui inserire la vittima; durante il tragitto da scuola a casa, fare alternare qualcuno, ad esempio i genitori, nella funzione di accompagnatori. PRIMO SECONDO PASSO: dire alla vittima cosa fare. Evitare posti isolati e poco supervisionati dall'adulto. Allontanarsi più rapidamente possibile dal luogo in cui si trovano i bulli. Se si incontrano cercare di non mostrarsi agitati. Cercare di non restare soli ma accompagnarsi sempre ad un amico. Ma cosa più importante di tutte é capire che tra la passività e l'aggressività, esiste una terza strada: l'assertività. Con questo termine si indica un comportamento relazionale teso a difendere i propri diritti, senza tuttavia calpestare quelli altrui. La risposta assertiva da parte della vittima é importante per due motivi: ! 1. mostra al bullo che a vittima non é emotivamente in difficoltà, ma rimane tranquilla; 2. pone il bullo in una posizione di debolezza in quanto é in grado di capovolge i ruoli. L'aggressore rischia, dunque di rimanere senza parole. Questa strategia, comunque, deve essere adottata solo per fronteggiare le forme di bullismo verbale e non fisico. Ricordiamo, comunque, che non é sufficiente insegnare ai ragazzi ad utilizzare le risposte assertive, in quanto dobbiamo anche supportare la loro autostima. I "ragazzi difficili" chi sono i “ragazzi difficili”? Sono ragazzi i cui comportamenti vengono percepiti come dissonanti rispetto a certi modelli condivisi di competenza sociale che marcano la diversità di chi li compie rispetto agli altri. Vengono definiti “difficili” perché il loro comportamento viene visto come dissonante rispetto all'immagine-norma. Questi ragazzi vengono considerati “a rischio”, “disadattati” e “delinquenti”. Quindi, chi sono i ragazzi difficili? Sono ragazzi portatori di disagi esistenziali o comportamenti antisociali che vengono percepiti come dissonanti rispetto all’immagine-norma, a certi modelli condivisi: quindi sono considerati DIVERSI. Ciò che accomuna questi ragazzi è una strutturazione debole o disadattiva di una visione del mondo e di sé nel mondo con gli altri, una difficoltà a riconoscersi come “soggetto”. In base ai comportamenti messi in atto da questi ragazzi possiamo parlare di: ragazzi a rischio vivono in condizioni di carenze di tipo materiale o affettivo-relazionale (povertà, disagio sociale e affettivo, abbandono più o meno inconsapevole da parte dei genitori). ragazzi disadattati La difficoltà non è materiale (cioè individuabile nel contesto), ma nell’assunzione di atteggiamenti o moduli relazionali più o meno sistematicamente disadattivi. Difficoltà a percepirsi come soggetto. INTERVENTO EDUCATIVO Costruire intorno al ragazzo un contesto adeguato. L’Educatore deve intervenire sulle disfunzioni affettive e relazionali del presente per rendere improbabile uno sviluppo deviante e un disagio sociale futuro. INTERVENTO EDUCATIVO Rovesciare il loro punto di vista. ragazzi delinquenti Hanno avuto a che fare con la giustizia e spesso fanno parte di forme di criminalità organizzata. Essi cercano, attraverso il reato, la soddisfazione di bisogni di appartenenza, partecipazione, indipendenza, sicurezza, autostima tipici dell’adolescenza. Il loro comportamento nasce da un eccesso di IO nel rapporto IO-MONDO. INTERVENTO EDUCATIVO Far nascere nel soggetto il sospetto di aver sbagliato strada e fare nascere il desiderio di cambiamento. Nell’ambito delle Scienze Pedagogiche, il concetto e i comportamenti devianti, vengono considerati delle vere e proprie patologie sociali. L’intervento pedagogico non può prescindere da un contributo attivo del soggetto alla costruzione del proprio modello di interpretazione del mondo e di azione nel mondo. IL RAGAZZO DEVE ESSERE CO-PROTAGONISTA DEL SUO CAMBIAMENTO! Nasce, così, l’esigenza di cercare le cause del comportamento deviante. I PARADIGMA: “paradigma causale” che, però, non fa altro che rimarcare il ruolo passivo del soggetto. L’AZIONE ANTISOCIALE NON È UN FATTO INDIVIDUALE, MA SOCIALE La validità di tali teorie risulta, però, debole dal momento che non è stato riscontrato un legame lineare tra fattori biologici, tratti di personalità, fattori sociali e il comportamento deviante. Non sono le condizioni di vita difficili, le relazioni sociali distorte a produrre disagio, disadattamento o comportamenti antisociali, se così fosse, tutti i ragazzi nelle stesse condizioni dovrebbero adottare lo stesso comportamento deviante. II PARADIGMA il soggetto ha un ruolo attivo: Secondo Matza, occorre studiare il comportamento antisociale dall’interno della realtà quotidiana dell’attore sociale. Infatti, secondo lui, i soggetti devianti non commettono reati così facilmente come si crede. Spesso avvertono colpa e vergogna per il loro comportamento, però, il deviante, dispone di diverse strategie psicologiche per “neutralizzare” la gravità del suo comportamento. Quindi, l’interesse si sposta dalla semplice descrizione del comportamento, all’interpretazione di quest’ultimo come insieme di processi di elaborazione cognitive (interazioni simboliche) in base alle quali il soggetto, costruendosi una certa immagine del mondo, interpreta la realtà e agisce, di conseguenza, in essa. IL COMPORTAMENTO NON VIENE PIÙ DESCRITTO, MA INTERPRETATO. Interazionismo il comportamento viene visto come insieme di interazioni simboliche simbolico processo di elaborazione cognitiva in base al quale il soggetto costruisce una certa immagine del mondo, ne interpreta la realtà e si comporta di conseguenza. III PARADIGMA: paradigma fenomenologico Con il Paradigma Fenomenologico, si parte dal soggetto: è il ragazzo difficile a fornire gli indizi che aiutano a cogliere i significati del suo comportamento (senso soggettivo). I soggetti assegnano un significato ai vari eventi della vita quotidiana e, in base a questi, costruiscono la loro personale visione del mondo. Dunque, nell’intervento educativo è importante il senso che quei fatti assumono per i soggetti deviati. Con il paradigma fenomenologico il comportamento deviante viene individuato come parte del soggetto, appunto. Quindi, è lo stesso ragazzo difficile a fornire gli indizi che aiutano a cogliere i significati del suo comportamento. Per comprendere il fenomeno della devianza, secondo il paradigma fenomenologico, dobbiamo immergere quel comportamento particolare nel contesto, nella situazione, nel tutto di cui fa parte. Il comportamento deviante viene visto come facente parte di un tutto: il ragazzo difficile deve essere visto nella sua globalità. Ogni soggetto dà alle varie esperienze della vita quotidiana un significato e, in base a questo, si costruisce la propria personale visione del mondo. Anche questi soggetti assegnano un significato ai vari eventi della vita quotidiana e, in base a questi, costruiscono la loro personale visione del mondo. Ma il soggetto non è solo nel mondo: è nel mondo con gli altri. Quindi, deve riconoscere altri soggetti che, come lui, sono dotati di capacità intenzionale. Perché ciò avvenga, è necessario accettare i diversi modi di pensare e di vedere le cose. Il problema è proprio questo dal momento che, questi ragazzi difficili, non riescono a mettere in comune con gli altri la loro diversa visione del mondo. Leggere l’esperienza educativa attraverso il Paradigma Fenomenologico significa: cercare di capire la visione del mondo del ragazzo difficile ENTROPATIA L’intervento educativo si fonda su una relazione intersoggettiva caratterizzata da un continuo scambio di punti di vista sul mondo. L’Educatore per poter modificare la visione personale che del mondo ha il ragazzo difficile, deve intervenire: sul corpo e quindi modulare l’immagine che il ragazzo ha del mondo e di sé nel mondo; sulla capacità di intenzionare il mondo che legano il soggetto all’incontro con l’altro; sul mondo dato per scontato per portare il soggetto ad avere un ruolo attivo nella costruzione del proprio discorso sul mondo. Il ragazzo deve, dunque, essere co-protagonista del proprio cambiamento. Da quanto detto finora, si evince che il disagio non deriva da condizioni di vita difficili o da relazioni sociali distorte, ma dalla rielaborazione e dall’interpretazione delle esperienze compiute dal singolo e, quindi, dal suo modo errato di significare il mondo. La devianza, invece, è la conseguenza di un insieme di processi e di elaborazioni cognitive in base alle quali il soggetto, costruendosi una determinata immagine del mondo, interpreta la realtà e agisce, di conseguenza, in essa. In entrambi i casi, il comportamento antisociale è il frutto di una rappresentazione distorta del rapporto fra sé, gli altri e il mondo. All’origine del comportamento antisociale c’è una 1) assenza di intenzionalità che porta ad un “eccesso di mondo” EFFETTI il ragazzo rinuncia a percepirsi come responsabile del proprio comportamento. Con l’affermazione “assenza di intenzionalità”, ci si riferisce alla eccessiva presenza, nella visione del ragazzo difficile, dell’oggetto. Si parla, infatti, di “eccesso di mondo” che si traduce nell’incapacità del ragazzo di cogliere il suo contributo soggettivo e, di conseguenza, egli ritiene di non poter intervenire in maniera significativa nel mondo. Di fronte a questo eccesso di mondo è possibile riscontrare diversi atteggiamenti: a) ricerca esclusiva della soddisfazione immediata: il soggetto non riconosce il suo ruolo nel sistema. “Non posso cambiare il mondo ma posso servirmene e sfruttarlo a mio piacimento”; b) fuga da sé: il ragazzo elabora una sfiducia in se stesso, una non accettazione dei propri limiti che non sono bilanciati dalla consapevolezza di poter modificare questo scenario. Queste difficoltà si traducono, per il ragazzo deviante, in una devastante svalutazione di sé. c) svalorizzazione consapevole di sé: fondamentalmente si tratta di un ripiegamento in se stessi. Rispetto agli altri due atteggiamenti, il soggetto è in grado di comprendere se stesso, cogliendo la propria insufficienza, tuttavia non riesce a proiettarsi in un futuro valido per lui e per gli altri. Inoltre, questi ragazzi tendono, generalmente, ad unirsi ad altri mettendosi a loro completa disposizione: questi “altri” sono ragazzi che hanno sviluppato anch’essi forme di disadattamento. Gli esiti di questi gruppi non possono essere se non di antisocialità. Eccesso di mondo il senso di abbattimento e di autosvalorizzazione scaturiscono da una visione del sé come incapace di qualsiasi azione significativa. 2) distorsione dell’intenzionalità che comporta un “eccesso di IO” EFFETTI disobbedienza, ribellione, aggressività, altro non riconosciuto come soggetto, incapacità di comunicare (il mondo appare contro) Abbiamo qui una eccessiva capacità del soggetto di rapportarsi al mondo. Anche l’altro non esiste più, non ci sono limiti né vincoli e dunque il soggetto ritiene di poter disporre e fare di tutto. Di fronte a questo eccesso dell’io, i ragazzi producono comportamenti centrati, in particolar modo, su manifestazioni di disobbedienza fino alla ribellione e alla violenza. Tutto ciò si traduce in una incapacità di comunicare con altri soggetti dotati di coscienza intenzionale. Le difficoltà cui vanno incontro questi ragazzi sono: 1) stato di profondo disorientamento e di grave abbattimento soprattutto quando la realtà si oppone, si mette contro quel senso di sicurezza e di onnipotenza di cui il soggetto si sente investito. 2) stato di paralisi dell’agire causato da mete troppo alte rispetto alle reali capacità. Anche in questo caso, i ragazzi si rifugiano nella compagnia, ma l’incontro diviene un modo come un altro per imporsi e dimostrare di essere capaci di dominare gli altri. Dunque, è la motivazione che sta all’origine del comportamento deviante, ad essere differente, malgrado il comportamento finale sia lo stesso. È proprio da qui che deve partire l’intervento educativo nei confronti di questi ragazzi. L’Educatore, di fronte ad un comportamento deviante centrato sullo “sfruttamento del mondo” dovrà capire se esso NASCE DA UN SENSO DI ONNIPOTENZA NASCE DA UN SENSO DI NULLITÀ DEL SÈ L’Educatore dovrà fornire occasioni in cui il ragazzo può sperimentare il suo valore personale nella trasformazione del mondo. L’Educatore dovrà prevedere occasioni in cui emerga la necessità di riconoscere l’alterità e i vincoli che nascono dallo stare con gli altri. Da quanto detto finora, possiamo parlare di una vera e propria necessità che, in questo contesto, si evidenzia. La necessità è quella di proporre un vero e proprio intervento “RIEDUCATIVO” a questi soggetti. MA COSA VUOL DIRE RIEDUCARE? Rieducare significa modificare il comportamento irregolare del ragazzo difficile, vuol dire procedere ad una profonda trasformazione della visione del mondo del ragazzo e del suo modo di intendere se stesso e gli altri. OBIETTIVO della rieducazione è: portare il soggetto a dare un nuovo significato al mondo con la consapevolezza che ciò necessita di una negoziazione interpersonale. La rieducazione é un tipo di intervento proiettato verso il futuro. Nella rieducazione non si può mai partire dal passato del ragazzo pretendendo che egli ne prenda immediatamente le distanze; questo, semmai, è il punto di arrivo. Solo dopo che il ragazzo avrà modificato la sua visione del mondo, potrà capire cosa c’era di sbagliato nel suo stile di vita. Solo dopo una progressiva ed autonoma trasformazione del suo modo di percepire il sé, il mondo e gli altri, il ragazzo sarà in grado di rivisitare il suo passato e procedere ad una nuova attribuzione di senso al suo vissuto. Ma la rieducazione è tanto più difficile quanto più il ragazzo ha raggiunto una certa stabilità interiore dal momento che, nella sua vita, il ragazzo difficile ha avuto modo di elaborare e consolidare alcuni schemi che egli sente propri e per nulla disadattavi. A tale proposito, rispetto all’intervento educativo, quello rieducativo assume un diverso ritmo: non graduale e progressivo (intervento educativo), ma immediato e drastico (intervento rieducativo). Ma quali sono i momenti di un intervento rieducativo? L’Educatore deve essere in grado di assumere il punto di vista del ragazzo per cogliere la sua personale visione del mondo, la sua capacità di intenzionare la realtà e di rapportarsi con esse per giungere alla comprensione più autentica possibile del ragazzo stesso; in poche parole deve mettere in pratica l’ENTROPATIA. Per far questo, deve: osservare e comprendere. I PASSO=CONOSCENZA Pre-requisito essenziale e indispensabile dell’Educatore è la consapevolezza del senso di vulnerabilità da parte del ragazzo il quale avrà un atteggiamento più di difesa che di fiducia, consapevole che, in questa relazione asimmetrica, lui ha una posizione down, di inferiorità. Il disagio che nasce dal sentirsi vulnerabile, dipende dal fatto che il ragazzo sa che l’incontro con l’Educatore è pregiudicato da un pregiudizio: lui è un ragazzo difficile dunque, l’Educatore non sarà mai del tutto immune dal giudicare questa sua condizione. PERTANTO EMPATIA E ASSENZA DI GIUDIZIO SONO FONDAMENTALI Così facendo, l’Educatore comunica, in maniera implicita, il suo desiderio di comprenderlo. Bisogna, perciò, adottare uno STILE EDUCATIVO FONDATO SULL’ENTROPATIA che, richiede un lavoro di equipe in quanto richiede una convergenza di competenze distinte.Si evidenzia, dunque, una continua negoziazione del punto di vista dell’Educatore con quello proprio di altre figure professionali. OBIETTIVO: portare il ragazzo a superare la sua attuale visione del mondo e del sé. Concludendo, il primo momento dell’intervento educativo (osservazione e conoscenza) fornisce all’Educatore un quadro passivo (visione del mondo e insieme di esperienze vissute dal ragazzo) e un quadro attivo (insieme delle interpretazioni soggettive di quelle stesse esperienze). Dopo aver osservato e compreso la visione del mondo del ragazzo e dunque l’insieme di esperienze da lui vissute e l’interpretazione soggettiva ad esse date, e dopo aver compreso in che misura esse abbiano influito nel distorcere l’attività intenzionale del ragazzo, si passa alla destrutturazione di quegli atteggiamenti. Lo scopo delle strategie di destrutturazione, sarà quello di preparare il terreno all’intervento educativo vero e proprio, cioè: II PASSO = DESTRUTTURAZIONE COMPORTAMENTO FORNIRE AL RAGAZZO I MEZZI PER POTER COMPIERE NUOVE ESPERIENZE Il primo momento di un possibile cambiamento può essere trasformare la propria immagine; un secondo aspetto sul quale occorrerà lavorare è stare con gli altri. III PASSO = DILATAZIONE DEL CAMPO DI ESPERIENZA Sarà di fondamentale importanza fornire al ragazzo una “dilatazione del campo di esperienza” per allargarne gli interessi e dargli modo di condurre una vita di gruppo in modo da sviluppare un senso di appartenenza. Bisogna dunque condurli all’OTTIMISMO ESISTENZIALE. Questo tipo di proposta metodologica non è altro che una provocazione che porta il ragazzo deviante a pensare che il mondo è o può essere significato in molti altri modi. Perché ciò avvenga l’Educatore deve: colmare i bisogni affettivi; dare gratificazioni al ragazzo durante il percorso rieducativo. STRATEGIE PER RAGGIUNGERE L’OTTIMISMO ESISTENZIALE: 1) EDUCAZIONE AL BELLO Lo scopo è quello di costruire, nel ragazzo, un vero e proprio senso estetico attraverso esperienze centrate sul bello. Mediante l'educazione al bello: il ragazzo sperimenta la possibilità di attribuire significato al reale, emettendo un giudizio. In questo modo, comincia a sentirsi all’origine del processo di significazione; sa che il mondo può essere bello grazie al punto di vista con cui lo si guarda; nasce la consapevolezza della necessità di un impegno personale per contribuire alla trasformazione del mondo in cui vive, dal momento che esso attende solo di essere significato. 2) EDUCAZIONE AL DIFFICILE finalizzata al raggiungimento dell’impegno personale e della responsabilità sociale e, dunque, volta ad offrire al ragazzo la possibilità di sentirsi produttore di un progetto e attore della sua realizzazione. Il percorso più efficace è quello centrato sulle difficoltà e ostacoli da superare per poter raggiungere lo scopo significativo, esperienze all’insegna della scoperta e della conquista (competizioni, giochi di squadra, gite avventurose…), durante le quali il ragazzo può sperimentare il valore finale dell’impegno e della responsabilità. In tutte queste occasioni il ragazzo potrà sperimentare non solo la sua capacità a non arrendersi di fronte alle prime difficoltà, ma anche e soprattutto forme di aiuto reciproco e di collaborazione interpersonale. Se ci troviamo do fronte ad un ragazzo caratterizzato da assenza di intenzionalità, le difficoltà devono essere, inizialmente, facilmente superabili proprio per non rischiare di acuire il senso di fallimento; per un ragazzo con distorsione dell’intenzionalità, occorrerà prevedere delle occasioni da cui emerga l’esigenza di fare i conti con le costrizioni della realtà, con la consapevolezza che queste siano superabili solo attraverso una collaborazione interpersonale. Con l’educazione al bello, anche l’educazione al difficile risulta una strategia dinamica di formazione della capacità intenzionale. 3) ESPERIENZA DELL’ALTRO Predisporre delle situazioni in cui il ragazzo possa sperimentare il valore dell’essere con l’altro, é una delle strategie centrali nella rieducazione dei ragazzi difficili in quanto si traduce in una progressiva ridefinizione dell’identità personale. Una forma di esperienza con l’altro, è rappresentata anche dall’incontro del ragazzo con il gruppo dei pari, momento molto importante per fare maturare quel senso di “appartenenza a…” Il compito dell’Educatore è quello di guidare la formazione di questi gruppi e lavorare insieme per costruire progressivamente un “mondo comune”. A questo punto risulta evidente che la funzione dell’Educatore deve essere quella di “contenitore” del gruppo e di sostegno e riferimento per il ragazzo. GESTIRE L'OPPOSIZIONE E IL CONFLITTO NELLE SITUAZIONI EDUCATIVE Cos’è un conflitto? Deriva dal latino confligere: discutere, litigare, lottare. Un conflitto interpersonale è una situazione in cui: due o più persone si offendono l'un l’altro, allo stesso tempo, attraverso pensieri, sentimenti o valutazioni. L’atteggiamento di una persona verso il conflitto è di grande importanza e dipende delle esperienze di conflitto avute. L'atteggiamento influisce sulla percezione, i sentimenti e l'approccio. La percezione, i sentimenti e l'approccio contribuiscono al successo o al fallimento di risoluzione dei conflitti. TENSIONI E CONFLITTI Sono dovuti al fatto che le persone hanno punti di vista diversi su ciò che sta accadendo Ognuno dà una sua interpretazione dei fatti e non sempre le interpretazioni coincidono. Cause del conflitto Le cause dei conflitti sono molto varie. Queste possono includere, tra l’altro: cattiva comunicazione; sensazione di essere trattati ingiustamente attitudini e personalità incompatibili diffidenza, risentimento, irritazione, suscettibilità e competizione.... Tipi di conflitto Dal punto di vista delle cause e circostanze, ci sono diversi tipi di conflitto: quelli che coinvolgono valori (disaccordo su obiettivi, principi, morale e valori) sono conflitti di decisione/percezione (disaccordo su metodi, opinioni diverse differenze di atteggiamento nei confronti di una situazione vissuta insieme) di distribuzione (disaccordo sulla ripartizione delle risorse) che coinvolgono ruoli (aspettative di ruolo diverso) che riguardano le relazioni (disaccordo su relazioni personali/sociali) interni (che coinvolgono decisioni o ruoli) o Inoltre, occorre distinguere tra: conflitti intrapersonali (che sono presenti nella persona stessa) conflitti interpersonali (che sono presenti tra persone) conflitti di gruppo (che sono presenti all'interno di un gruppo) conflitti tra gruppi, (che sono presenti tra diversi gruppi) La degenerazione del conflitto può essere chiarita spiegando i seguenti passaggi: 1) Tensione - I conflitti cominciano con la tensione, ovvero occasionali divergenze di opinioni. Ciò è comune e non è percepito come inizio di un conflitto. Se un conflitto tuttavia nasce, le opinioni diventano più importanti. A questo punto le parti in conflitto considerano strategie con cui convincere l’altro. Ciascuno cerca di mettere l’altro sotto pressione. 2) Azioni non parole - Le parti aumentano la pressione reciproca per far prevalere la propria posizione. La comunicazione potrebbe interrompersi e il conflitto presto diventa molto intenso. 3) Coalizioni - Il conflitto si intensifica se le parti cercano il supporto altrui. Si pensa di essere nel giusto e si denuncia il rivale. Il punto ora non è la faccenda in questione, ma vincere il conflitto in modo che l’altro perda. 4) Umiliazione - L’obiettivo è distruggere l’identità dell’altro con accuse e simili. Vi è una completa perdita di fiducia. Perdere la faccia significa perdere la credibilità morale 5) Strategie della minaccia - Le parti cercano di prendere il controllo della situazione con le minacce, di proiettare il loro stesso potere. La credibilità della minaccia dipende dalle proporzioni. 6) Distruzione limitata - Adesso l’avversario è da colpire con ogni mezzo. Ormai non è più visto come un essere umano. Danni limitati a sé stessi sono visti come una vittoria se il danno altrui è più grande. 7) Disintegrazione - Il nemico va distrutto completamente. 8) Distruzione reciproca! Distruzione del nemico, anche a costo dell’autodistruzione Il metodo Gordon Una forma di risoluzione dei conflitti che si focalizza sulla "cooperazione" è descritta nella teoria di Thomas Gordon come risoluzione dei conflitti attraverso la ricerca di una soluzione "no-lose", equa, che tende al miglioramento delle relazioni. Egli mostra quanto possa essere significativo questo tipo di metodo. LOGICA COMPETITIVA E LOGICA NEGOZIALE Logica competitiva: io vinco, tu perdi. (obiettivo é sconfiggere l’avversario, massimizzando i propri vantaggi) Logica negoziale: io vinco, tu vinci. (obiettivo é sconfiggere il problema ricercando soluzioni vantaggiose per entrambe le parti) TIPOLOGIA DI COMPORTAMENTI RELAZIONALI: AGGRESSIVO: IO SONO OK, TU NON SEI OK. PASSIVO: IO NON SONO OK, TU SEI OK ASSERTIVO. IO SONO OK, TU SEI OK LA NEGOZIAZIONE È LA STRATEGIA PIÙ EFFICACE DI RISOLUZIONE DEI PROBLEMI. Essa richiede: un clima di cooperazione (e non di competizione); la comprensione reciproca (e non una soluzione individualistica ed egoistica); la capacità di manifestare i propri bisogni profondi, di rispettarsi a vicenda, senza etichettarsi o giudicarsi; la capacità di cogliere i sentimenti dell’altro (empatia) Per Mario Comoglio i conflitti che si risolvono con un vincente e un perdente lasciano insoddisfatti. Prima o poi chi ha perso desidera la rivincita. Azioni che possono trasformare il conflitto in una soluzione arricchita del problema: Accettare positivamente le divergenze entro il gruppo (il conflitto è una componente fisiologica della comunicazione; senza conflitto non vi è relazione o cambiamento); Praticare l’ascolto empatico e non quello critico (ascoltare con comprensione invece di valutare e giudicare per entrare in sintonia con l’altro e sentire e provare ciò che sente e prova l'altro) I DISTURBI DELLO SVILUPPO I DISTURBI DELL'APPRENDIMENTO Come abbiamo già avuto modo di parlare, L’APPRENDIMENTO DESIGNA IL PROCESSO MEDIANTE IL QUALE UN CERTO COMPORTAMENTO VIENE ACQUISITO O MODIFICATO; NELL'USO CORRENTE APPRENDERE È SINONIMO DI IMPARARE. I Disturbi di Apprendimento (D.A.) costituiscono un gruppo disomogeneo di patologie dello sviluppo interessanti classicamente l'età scolare. Il DSM IV indica che "... i problemi di apprendimento interferiscono in modo significativo con i risultati scolastici o con le attività di vita quotidiana che richiedono capacità di calcolo, lettura o scrittura ... I Disturbi dell’Apprendimento, quindi, si manifestano con significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di capacità quali: Disturbo di Lettura (Dislessia): il livello raggiunto dalla lettura, come misurato da test standardizzati somministrati individualmente sulla precisione o sulla comprensione della lettura, è sostanzialmente al di sotto di quanto previsto dall'età cronologica del soggetto. L'anomalia descritta interferisce in modo significativo con l'apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana che richiedono la lettura. Disturbo del Calcolo (Discalculia): la capacità di calcolo, misurata da test standardizzati somministrati individualmente, è sostanzialmente al di sotto di quanto previsto in base all'età cronologica del soggetto, alla valutazione psicometrica dell'intelligenza e a una istruzione adeguata all'età. L'anomalia descritta interferisce in modo significativo con l'apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana che richiedono la capacità di calcolo. Disturbo dell'espressione scritta (Disgrafia): le capacità di scrittura misurate con test standardizzati somministrati individualmente (o con valutazione funzionale delle capacità di scrittura) sono sostanzialmente inferiori rispetto a quanto previsto in base all'età cronologica del soggetto, alla valutazione psicometrica dell'intelligenza e all'istruzione adeguata all'età. L'anomalia descritta interferisce notevolmente con l'apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana che richiedono la composizione di testi scritti (per es. scrivere frasi grammaticalmente corrette e paragrafi organizzati). ALLIEVO CON DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO Il termine “disturbo dell’apprendimento” è un’espressione che raccoglie una gamma diversificata di problematiche persistenti nello sviluppo cognitivo e nell’apprendimento scolastico non imputabili primariamente a fattori sociali o di handicap grave, e definibili in base al mancato raggiungimento di taluni obiettivi di apprendimento. Peculiarità L’allievo con disturbi di apprendimento presenta: carenze nelle attività di lettura, scrittura e calcolo, a queste possono sovrapporsi altre difficoltà quali: nei processi mnemonici; nei processi percettivi, uditivi o visivi; nel passare con difficoltà fra i diversi approcci; nell’organizzazione personale; nel coordinare le strategie necessarie per apprendere efficacemente. L’allievo in classe Vi sono ragazzi, che pur interagendo con gli altri pur non presentando, all’apparenza, le caratteristiche tipiche dei disabili mentali (rigidità del pensiero, lentezza nell’apprendimento, ragionamenti infantili, stereotipie…) evidenziano difficoltà nei processi di apprendimento che richiedono capacità di lettura, calcolo e scrittura. Queste difficoltà difficilmente emergono durante gli anni che precedono quelli scolastici, quindi l’impatto con la realtà scolastica è molto duro e di conseguenza, i problemi cominciano ad evidenziarsi. La serenità che questi allievi hanno, può mutare con il passare del tempo e dell’esperienza scolastica. Gli insuccessi in cui incorrono possono incidere sul loro umore e possono compromettere la loro autostima dal momento che questi soggetti capiscono la loro difficoltà (SI DEMORALIZZANO!!!) Il ruolo dell’Educatore è quindi molto importante in quanto non solo deve cercare di comprendere immediatamente le difficoltà dell’allievo, ma deve anche agire con delicatezza nei suoi confronti. MELTZER propone alcuni indicatori che l’insegnante può cogliere in classe e che lo aiutano ad individuare il problema: discrepanza tra le performance in classe e i test di ingresso; scarsa volontà; fatica a restare nei tempi dati; difficoltà a seguire le direttive; inattività; debolezza nel ricordare i contenuti matematici, i giorni della settimana, i mesi dell’anno; disagio nell’adattarsi ai nuovi insegnanti e a nuove situazioni; incapacità di sintetizzare e sottolineare gli argomenti importanti; incapacità di organizzare il proprio tempo. Tutelare il soggetto diversamente abile non significa eliminare gli ostacoli, ma significa aiutarlo ad affrontare con competenza e responsabilità i problemi, offrendogli tutti gli aiuti possibili in un cammino che deve essere percorso in maniera autonoma. DEVE PERCEPIRSI COME PERSONA!!! La Scuola lo può aiutare in tal senso, ma la scuola può diventare anche un ambiente molto pericoloso soprattutto se l’esperienza didattico-formativa è impostata male in quanto rischia di comunicare al soggetto la sua inefficacia. Tutto ciò può avvenire quando: l’allievo si accorge che i suoi compagni capiscono immediatamente le direttive dell’insegnante e lui no; quando nota che i suoi tempi di esecuzione rispetto ad un compito sono più lunghi rispetto a quelli dei suoi compagni; quando l’insegnante si siede accanto e cerca di aiutarlo; quando l’impegno profuso è privo di successo; quando l’insegnante rivolge ai suoi compagni domande importanti e a lui, invece, domande banali; quando i compagni non lo invitano a partecipare ai giochi o peggio ancora lo prendono in giro. Occorre, dunque che l'Educatore stia molto attento e che basi la sua competenza didattica su un rapporto relazionale intenso e significativo. Dunque, proporre all’allievo impegni didattici che è in grado di affrontare, introdurre e presentare il lavoro richiesto dal momento che l’allievo anche se si trova davanti ad un compito che è in grado di svolgere, potrebbe farsi prendere dall’angoscia e dalla preoccupazione e quindi potrebbe preferire di non eseguirlo piuttosto che incorrere in un fallimento. Per evitare tutto ciò, l'Educatore deve: introdurre con entusiasmo il compito; far comprendere l’utilità dell’impegno richiesto; offrire indicazioni su come eseguire correttamente il compito assegnato; ricordare le competenze già apprese utili ad affrontare la nuova attività. Inoltre, occorre condurre la vita di classe con una metodologia basata sulla GENERALIZZAZIONE DELLA DIFFERENZIAZIONE. Spesso, il bisogno di competenza di questi ragazzi a scuola viene frustrato e si nota una forte demotivazione nel ragazzo con deficit, non perché proporre programmi differenziati sia sbagliato, ma perché è sbagliato differenziarli per un solo studente. Spesso, questa mancanza di motivazione può non assumere caratteri palesi, ma si evidenzia con una scarsa partecipazione “mentale” al compito dovuta al fatto il soggetto vive come un’ingiustizia l’individuazione della proposta formativa. Occorre dunque una generalizzazione dell’individuazione, dove l’individuazione della proposta didattica unitamente ai vari percorsi, vengano proposti a tutti gli allievi, per giungere poi, a livello di classe, ad una sintesi dei lavori eseguiti come conclusione produttiva del compito svolto. In questo modo, il lavoro differenziato diventa consuetudine e ogni soggetto,dunque anche quello diversamente abile, può trovare il suo spazio all’interno di un impegno comunitario in piccolo gruppo, dove le differenze personali diventano ricchezza e motivo di crescita personale per tutti. Infine è necessario promuovere un clima relazionale molto intenso sul piano affettivo. L’allievo deve percepire negli insegnanti una fiducia di fondo capace di entusiasmarlo ad agire a corrispondere alle attese di un educatore che desidera il suo bene. Il rapporto con l’insegnante, il clima positivo e privo di giudizi e pregiudizi, sono dunque indispensabili per far sì che l’allievo affronti quotidianamente le difficoltà dell’impegno scolastico. Solo così egli sarà in grado di avere una visione positiva di sé contemporaneamente alla serena consapevolezza dei propri limiti. I DISTURBI PERVASIVI DELLO SVILUPPO AUTISMO O SINDROME DI KANNER Il disturbo Autistico, così come la Sindrome di Asperger, la Sindrome di Rett (sindrome di origine genetica: si manifesta solo nelle femmine) e il Disturbo Disintegrativo dell’Infanzia, fa parte di un insieme di disturbi raggruppati, nei manuali diagnostici, tra i cosiddetti Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (DPS) e rappresenta una delle più gravi manifestazioni che colpiscono il bambino nella sua capacità di comunicare e di instaurare relazioni con il mondo esterno. Kanner riteneva che i bambini autistici: fossero dotati di un QI superiore alla norma e provenissero da famiglie di livello socio-culturale alto. Ma questa tesi é stata smentita dai fatti, in quanto nel 70 -80% dei casi di autismo il QI è inferiore alla media e l’appartenenza alla classe sociale è ininfluente. Pertanto, l’eziologia della sindrome autistica è a tutt’oggi sconosciuta, ma si sa per certo che, diversamente da quanto veniva affermato da alcune tesi sostenute dai primi studiosi del caso, non è un disturbo derivante da problematiche relazionali infantili (teoria della mamma frigorifero) dal momento che vi sono differenti forme di autismo. Quindi probabilmente, non esiste un’unica causa che determina la sindrome. Sinteticamente le caratteristiche salienti possono essere raggruppabili nella triade: 1) difficoltà nell’interazione sociale 2) difficoltà nella comunicazione 3) interessi ed attività limitate. Tale quadro psicologico sembra frutto di un alterato sviluppo del bambino a partire da una deficitaria capacità di attenzione congiunta nonché di un deficit della teoria della mente ovvero la capacità di comprendere le intenzioni altrui ed evidentemente non comprendendo tali intenzioni i bambini autistici sono incapaci di un corretto apprendimento per osservazione. L’Autismo è un disturbo dello sviluppo (sviluppo anormale o blocco dello sviluppo) che si manifesta prima dei 3 anni in almeno una delle seguenti aree: linguaggio recettivo o espressivo sviluppo di relazioni sociali o di interazioni sociali reciproche gioco funzionale o simbolico. TRIADE DEI DISTURBI 1) Anomalie di carattere qualitativo della comunicazione (DISTURBI DI LINGUAGGIO): ritardo o assenza del linguaggio e della gestualità. Mancanza di reciprocità nelle comunicazioni verbali: stereotipie ed ecolalie. 2) Anomalie di carattere qualitativo nelle interazioni reciproche (DISTURBI SOCIALI): uso dello sguardo, dell’espressione facciale, della postura e della gestualità. Assenza di reciprocità socio-affettiva (emozioni, adattamento al comportamento altrui; integrazione). Assenza di condivisione di giochi, interessi. 3) Insieme limitato, ripetitivo e stereotipato di comportamenti, interessi e attività (DISTURBI DI COMPORTAMENTO): uno o più interessi stereotipati ed esclusivi. Rituali specifici e stereotipie. Attenzione per parti di oggetti o per elementi non funzionali di materiali di gioco. “gioco funzionale” o “d’esercizio” (2-3 mesi) consistente nel manipolare il mondo circostante, ad esempio, nello scuotere aritmicamente un oggetto, o nel battere un oggetto contro l’altro. Nel bambino, tutto questo, assolve anche alla funzione di controllo della realtà. Gestendo i propri movimenti muscolari egli si sente padrone del suo corpo ma anche, in qualche modo, del mondo. Questo tipo di gioco, usato anche da un adulto che batte aritmicamente la mano sul tavolo o che scuote un mazzo di chiavi, ha la funzione di compiere attività muscolare e di scaricare energia superflua. SVILUPPO PSICOLOGICO DEL BAMBINO AUTISTICO SVILUPPO SOCIALE: difficoltà iniziale nell’interazione madre-bambino (disfunzione degli scambi emotivi e cognitivi). Disturbo nella relazione di attaccamento. Successive difficoltà nelle relazioni affettive e amicali. SVILUPPO COMUNICATIVO E LINGUISTICO: difficoltà nell’uso della gestualità convenzionale e nell’imitazione verbale (a livello preverbale). Carenza di attenzione condivisa. Successivamente: linguaggio verbale assente o ecolalico o stereotipato e pedante; uso scorretto di pronomi, grammatica e sintassi. SVILUPPO COGNITIVO: variabile. QI < norma. Spesso deficit cognitivi con QI normale. Carenze nella teoria della mente Inoltre, le persone affette da autismo non sono in grado di comprendere sarcasmo, barzellette o doppi sensi; dunque, non vanno oltre il senso letterale non riescono a fare previsioni, a comprendere l’astratto soffrono di sovraccarico sensoriale, alti livelli di ansia e difficoltà rispetto ai cambiamenti. STRATEGIE COMUNICATIVE E AUTISMO Strategie comunicative utili possono essere: verbalizzare, per esempio spiegare come facciamo a comprendere lo stato d’animo di una persona dall’espressione o da segnali del linguaggio del corpo (“sembri contento perché sorridi”, “…ansioso perché non stai fermo”); non fornire più di due o tre opzioni/scelte/cose da fare; formare un programma/agenda/orario settimanale; dargli la possibilità di valutare la situazione prima di coinvolgerlo e infine permettergli dei momenti in cui possa essere se stesso verbalizzare fornire un numero ristretto di opzioni STRATEGIE COMUNICATIVE formare un programma settimanale dargli la possibilità di valutare permettere momenti in cui possa essere se stesso Le persone affette da autismo hanno interessi, bisogni e personalità molto individuali. Essere consapevoli delle difficoltà è un buon punto di inizio per poterli aiutare. Il miglior modo per conoscere una persona affetta da autismo è quello di parlargli e parlare con le persone che già lo conoscono, con genitori, fratelli, amici, ma soprattutto è necessario starci insieme. COMUNICAZIONE AUMENTATIVA ALTERNATIVA Per C.C.A. si intende l’insieme di conoscenze, di tecniche, di strategie e di tecnologie che è possibile attivare per facilitare la comunicazione con persone che presentano una carenza/assenza temporanea o permanente nella comunicazione verbale. L’aggettivo “Aumentativa” sta ad indicare come le modalità di comunicazione utilizzate siano tese non a sostituire ma ad accrescere la comunicazione naturale. Il termine “Alternativa” intende tutto ciò che è alternativo alla parola, cioè codici sostitutivi al sistema alfabetico quali: figure, disegni, fotografie, simboli… DISTURBO DI ASPERGER Le caratteristiche principali del Disturbo di Asperger sono una grave e perdurante compromissione dell’integrazione sociale e lo sviluppo di modalità di comportamento, interessi, e attività ristretti e ripetitivi. L’anomalia deve causare una compromissione clinicamente significativa nell’area sociale, lavorativa, o in altre aree importanti del funzionamento. Contrariamente al Disturbo Autistico non vi sono ritardi o devianze clinicamente significativi nell’acquisizione del linguaggio (per es. singole parole spontanee sono usate per comunicare all’età di 2 anni e frasi comunicative spontanee sono usate all’età di 3 anni), sebbene aspetti più sottili della comunicazione sociale (per es. il tipico va e vieni della conversazione) possono essere alterati. Inoltre, durante i primi 3 anni di vita non vi sono ritardi clinicamente significativi nello sviluppo cognitivo, così come si manifesta nella normale curiosità riguardo all’ambiente o nell’acquisizione delle capacità di apprendimento e nel comportamento adattivo appropriati all’età (tranne che nell’interazione sociale). L’alterazione dell’interazione sociale reciproca è grossolana e costante. Vi può essere una marcata compromissione nell’uso di parecchi comportamenti non verbali (per es., sguardo reciproco, espressione facciale e postura) per regolare l’interazione sociale e la comunicazione. Vi può essere incapacità di sviluppare relazioni con i coetanei appropriate al livello di sviluppo, relazioni che possono essere diverse per le differenti età. Gli individui più piccoli possono avere poco o nessuno interesse nello stabilire rapporti di amicizia. I più grandi possono essere interessati all’amicizia, ma non comprendere le convenzioni dell’interazione sociale. Vi può essere mancanza di tentativi spontanei di partecipare alla gioia, agli interessi o alle mete raggiunte con gli altri (per es., non mostrando, portando o indicando oggetti che trovano interessanti). Può essere presente anche una mancanza di reciprocità sociale o emotiva (per es., non partecipando attivamente a giochi o divertimenti sociali semplici, preferendo attività solitarie o coinvolgendo gli altri nelle attività soltanto come strumenti o supporti “meccanici”). Sebbene il deficit sociale nel Disturbo di Asperger sia grave e venga definito come nel disturbo autistico, la mancanza di reciprocità viene più clinicamente manifestata attraverso un approccio sociale agli altri eccentrico e unilaterale (per es., insistendo su un argomento di conversazione senza tener conto delle reazioni degli altri), piuttosto che attraverso l’indifferenza sociale ed emotiva. Come nel Disturbo Autistico, sono presenti schemi di comportamento, interessi ed attività ristretti e ripetitivi. Spesso questi si manifestano primariamente con lo sviluppo di un’attenzione globale riguardo un argomento o un interesse circoscritto, sul quale l’individuo può raccogliere una grande quantità di fatti o informazioni. Questi interessi ed attività vengono perseguiti con grande intensità fino all’esclusione di altre attività DECORSO DEL DISTURBO sintomatologia a seconda dell’età 0-6 mesi 6-12 mesi 12-30 mesi Genitori Bambino quieto che non piange mai, non attira l’attenzione, ipotonia, assenza di dialogo tonico, senza gestualità anticipatoria, tono posturale aumentata, insonnia tranquilla. Alterazione interazione md-b/no, non tende le braccia, scarsa espressione mimica, ipotonico ma anche ipertonico con rifiuto del contatto, comportamento stereotipato, evitamento dello sguardo, indifferenza alla separazione Assenza del linguaggio e di pointig protodichiarativo, assenza o rifiuto dell’attenzione congiunta, disturbi del sonno ed alimentari, si accentuano le stereotipie, l’interesse per oggetti insoliti Non è un bambino come gli altri Sensazione di non essere “riconosciuti” Malessere nella relazione I DISTURBI....... Non si può definire la patologia senza definire la normalità dal momento che i due concetti sono strettamente legati lungo un continuum in cui é difficile trovare confini netti. La si può definire come norma statistica, come un processo, come assenza di malattia (salute) “NORMALI” individui liberi da malattia. Ma normalità non sempre significa salute. Alcune malattie si verificano con elevata frequenza nelle popolazioni che potrebbero essere considerate normali. (es. le carie dentali) Dal canto suo il termine "salute" non designa una semplice "assenza di malattia ma é uno stato di completo benessere fisico psichico e sociale". La patologia va definita non solo in base ai sintomi manifesti, ma anche in relazione al disagio che producono nella vita dell'individuo. I confini tra patologia e normalità sono piuttosto labili e difficilmente delimitabili una volta per tutti. Lo sviluppo é determinato dall'interazione complessa dell'individuo (patrimonio genetico) ed esperienze all'ambiente (al contesto). tra maturazione genetica di apprendimento legate INTERVENTI vedi fogli PSICOPATOLOGIA Gli interventi psicologici sono volti principalmente a migliorare le capacità e la qualità di vita dei ragazzi. Si tratta di osservare il comportamento del bambino per poi intervenire ponendosi degli obiettivi di miglioramento. Tra le tecniche più utilizzate ricordiamo lo La psicoterapia La psicoterapia é un metodo per trattare le condizioni di disagio psicologico ed i disturbi mentali. Si fonda sulla relazione interpersonale tra terapeuta e paziente e usa la parola e le tecniche psicologiche per aiutare il soggetto a produrre un cambiamento duraturo negli atteggiamenti e nei comportamenti. Con la psicoterapia possono essere affrontati efficacemente numerosi problemi e disturbi psichici: disturbi dell'umore (depressione e disturbo bipolare) disturbi d'ansia (fobie, attacchi di panico e disturbi ossessivo-comulsivi) disturbi dell'alimentazione (anoressia bulimia) problemi che scaturiscono da eventi fortementi stressanti e traumatici disturbi del sonno disturbi della personalità Nel caso dei disturbi mentali più gravi, come la schizofrenia e altre forme di psicosi, la psicoterapia può essere associata alla terapia farmacologica dell'intervento. Esistono vari tipi di psicoterapia, tutti riconducibili a due modelli teorici fondamentali: la psicanalisi e la teoria dell'apprendimento. Tra le psicoterapie, quelle più diffuse e studiate sono: la terapia psicodinamica che derivata dalla psicanalisi ed é basata sulla premessa che, la salute mentale di ciascun individuo, é influenzata da conflitti inconsci, da importanti esperienze fatte durante l'infanzia e da sensazioni dolorose che non sono immediatamente percepibili perché tenute nascoste dai cosiddetti meccanismi di difesa. Questo tipo di terapia prevede che, da una parte siano identificati i conflitti inconsci e, dall'altra, venga fornito un sostegno al paziente perché prenda coscienza che certe esperienze negative del passato, condizionano il suo modo di agire attuale. L'esperienza psicoterapeutica, consente al paziente di acquisire padronanza sui meccanismo di difesa inconsci, oltre che sui sintomi e sui comportamenti che causano malessere. la terapia interpersonale che ha come scopo il miglioramento delle relazioni interpersonali del paziente. Il terapeuta aiuta a valutare quali sono le situazioni critiche che hanno fatto scaturire o contribuiscono a mantenere il disturbo e a modificare, di conseguenza, il modo di interagire con gli altri. la terapia comportamentale é basata sul presupposto che, i disturbi mentali, derivano da apprendimenti sbagliati. In quanto appresi, perciò, sono modificabili o sostituibili con altri apprendimenti che consentano un migliore adattamento. Questo tipo di terapia, é particolarmente indicato per problemi ben circoscritti come le fobie. la terapia cognitiva attribuisce un ruolo centrale ai pensieri ed agli schemi mentali nel mantenimento dei disturbi psichici. Questo tipo di terapia, ha la finalità di aiutare il paziente ad identificare e modificare proprio quei pensieri e quegli schemi mentali che determinano i comportamenti disturbati. La terapia comportamentale e quella cognitiva, col tempo, sono diventate un'unica terapia che prende il nome di cognitivo - comportamentale. L terapia cognitivo - comportamentale e quella interpersonale sono di breve durata, mentre la terapia psicodinamica é solitamente di lunga durata. disturbo dell'umore Cominciamo con il definirne il termine: oggi esso viene utilizzato nel linguaggio comune per indicare una disposizione d’animo o un atteggiamento interiore. Una antica teoria di Galeno (medico di orine greca) ipotizzava che il temperamento potesse dipendere da un miscuglio d’umori. Proponeva, di conseguenza, quattro temperamenti: collerico, sanguigno, flemmatico e melanconico. Per capire il significato che del concetto se ne dà oggi, è utile partire da alcune constatazioni di base. Un aspetto rilevante nella definizione di disturbo dell'umore, è la distinzione tra normalità e patologia, dal momento che cambiamenti e alterazioni nello stato dell'umore, sono propri di tutti gli esseri umani, con una gradualità che varia. L’umore è la disposizione affettiva di base oscillante tra i due estremi del piacere e del dolore. Le caratteristiche principali che distinguono le alterazioni patologiche dell'umore dalla "normalità" sono: sono quantitativamente eccessive; insorgono in maniera indipendente da una causa ambientale evidente o sono chiaramente sproporzionate; decorrono in maniera indipendente rispetto agli eventi esterni; hanno durata eccessiva rispetto a qualunque altro stato "normale". I principali quadri di alterazione patologica dell'umore, sono costituiti dalla: depressione - nella depressione, l'umore é caratterizzato da tristezza profonda) per la presenza della perdita di piacere in tutte le attività, inoltre presenta un rallentamento dei processi di apprendimento e della memoria, di autosvalutazione e colpa alle quali si associano facilmente idee di morte e di suicidio. Nelle forme più gravi, la percezione può divenire psicotica con sviluppo di deliri e allucinazioni. Le funzioni del sonno, il peso e l'appetito, sono alterate. mania - le manifestazioni, sono di segno opposto. L'umore é euforico ed esaltato ma, con la tendenza, ad essere labile e passare facilmente verso l'irritabilità o l'aggressività. I contenuti delle idee sono orientati alla grandiosità e, talvolta , possono esserci aspetti persecutori. L'attività psicomotoria é orientata all'irrequietezza. A livello somatico, vi é un senso di aumentata energia con possibile tendenza all'abuso di alcol o sostanze. disforia - termine usato in Psicopatologia con accezioni diverse: malumore caratterizzato da un sentimento spiacevole con umore tendenzialmente depresso; irritabilità tendenza a reagire esageratamente agli stimoli interni o esterni con scarsa capacità di controllo che si manifesta in rabbia o aggressività. Nel bambino, la depressione é piuttosto rara e, comunque, differente da quella degli adulti. In genere, il bambino può sviluppare un disturbo depressivo in seguito ad eventi traumatici significativi, come esperienze di lutto, perdita o separazione. Generalmente, la depressione insorge a seguito di uno stato d'ansia e si manifesta con sintomi prevalentemente somatici quali: rallentamento e inibizione motoria, volto poco espressivo, eccessiva docilità con accettazione passiva di ciò che succede intorno. A volte l'abulia (eccessiva passività) e l'agitazione si alternano. L'instabilità dell'umore é maggiore che nell'adulto. La mancanza di interesse per il mondo, si manifesta nelle frequenti interruzioni sia durante attività spiacevoli sia durante attività piacevoli. Sembra non ci sia una grande correlazione tra depressione infantile e depressione in età adulta, mentre la correlazione con il disturbo in età adulta, é elevata nel caso di una depressione in età adolescenziale. La Depressione anaclitica di Spitz é un forma infantile di depressione che colpisce i bambini che non ricevono alcuna attenzione o cura nei primo 6 mesi di vita. Si tratta,però, di situazione estreme che può colpire bambini ospedalizzati o figli di psicotici. Sono bambini che non hanno alcuna attenzione o non hanno fatto nessuna esperienza d'amore perché in situazioni di odio marcato o di abbandono totale e che possono diventare ritardati mentali profondi o nani (le coccole stimolano l'ormone delle crescita GH) e sono soggetti a morte precoce. disturbo dell'ansia Cominciamo col dire che l'ansia é parte integrante della vita stessa, anzi, essa rappresenta sia un meccanismo di stimolo utile che un sistema di allarme necessario alla vita. L'ansia diviene patologica quando non svolge più questo ruolo di stimolo o di protezione, ma diventa marcatamente disturbante a livello soggettivo e causa disfunzionalità significative nella vita mentale e relazionale. DISTURBO DA ANSIA DI SEPARAZIONE Il bambino con ansia di separazione ha paura di allontanarsi dai genitori anche per tempi brevi e anche in situazioni insolite e non solo per andare a scuola (se l'ansia é presente solo in questa situazione, siamo di fronte ad una fobia scolastica) Si tratta di un disturbo frequente nelle famiglie con figli unici, colpisce leggermente più femmine che maschi e, se i figli sono più d'uno, leggermente più i primogeniti dei minori. I sintomi dell'ansia di separazione sono vari e costituiscono delle vere crisi d'ansia che colpiscono i bambini: ci sono sintomi somatici (mal di testa, nausee), pianto intenso, comportamenti bizzarri (bambini che dormono davanti alla stanza dei genitori, che li seguono dappertutto) Questi bambini sentono che potrebbero essere abbandonati dai genitori o avvertono dei pericoli per la loro incolumità (pensano che i genitori avranno incidenti...). Viene definito come disturbo del nucleo familiare, nel senso che compare in genere, in famiglie dove ci sono pochi figli e dove le madri pensano di dover tare sempre con il bambino, per essere delle buone madri. É una patologia legata a forme di attaccamento insicuro e conflittuale. L'idea di base é: "stiamo vicini così non ci succede nulla di male", per cui se ci si allontana, l'allontanamento viene vissuto con grande ansia. Le madri, a loro volta sono preoccupate se il bambino si allontana, e quest'ansia viene trasmessa al bambino stesso che la fa propria. Il bambino con ansia di separazione ha un atteggiamento ambivalente verso i genitori: sa che sono necessari, ma li sente come un peso. La presenza costante della madre é per loro un po' come la medicina cattiva: serve, ma non é buona; il bambino vorrebbe crescere ed essere più autonomo, ma ha paura. C'é, quindi, un conflitto emotivo. IL SISTEMA DELL’ATTACCAMENTO E IL SUO SVILUPPO - Quanto più l’ambiente diventa pericoloso o viene percepito come tale dal bambino, tanto più verranno messi in atto comportamenti di attaccamento, cioè risposte di pianto, e tentativi di aggrapparsi alla madre. Il sistema dell’attaccamento si basa su processi di elaborazione delle informazioni che provengono dall’ambiente esterno. Alcuni bambini piangono anche in presenza di situazioni apparentemente tranquille, perché loro percepiscono quella situazione, comunque, come pericolosa. É sufficiente che il bambino anticipi mentalmente il fatto che la madre, in caso di bisogno, non gli presterà aiuto, affinché si attivi l’ansia da separazione. Lo sviluppo del legame di attaccamento attraversa 4 fasi che possono essere ricondotte alle tappe dello sviluppo cognitivo: 1) 0-2 mesi: il bambino piange, sorride, si aggrappa, ma si tratta di segnali che non sono prodotti in maniera intenzionale. 2) 2-6/8 mesi: il bambino si orienta e produce segnali verso una o più persone ma ancora non compare, in questa fase, la protesta alla separazione. 3) 6/8 mesi - 2anni: in questo periodo compare l’ansia da separazione. É intorno agli 8 mesi che ha luogo l’imprinting filiale ossia quella maggiore prontezza del piccolo ad apprendere, e a mantenere in memoria le caratteristiche della figura allevante. 4) 18 mesi in poi: tra il piccolo e la madre si forma una relazione reciproca. É in questa fase che il piccolo si forma dei Modelli Operativi Interni (MOI) di sé stesso e della madre che riflettono la storia della sua relazione con la figura materna. Saranno queste rappresentazioni interne, a indirizzare poi l’individuo nell’interpretazione delle informazioni che provengono dal mondo esterno. TIPOLOGIE ATTACCAMENTO: Mary Ainsworth ha condotto un lungo studio basato su osservazioni delle interazioni madre - figlio durante tutto il primo anno di vita e ha misurato, tramite una metodica da lei messa a punto la Strange Situation, l’impatto della storia della loro relazione affettiva sulla successiva capacità del piccolo di provare e regolare certe emozioni, di usare la madre come base sicura e di sentirsi confortato dalla sua figura di attaccamento. Madre sensibile Bambini sicuri B Madre che rifiuta Bambini evitanti A Madre imprevedibile Bambini coercitivi ambivalenti C Bimbo con mamma che giocano insieme, poi entra l’estraneo, poi esce la mamma etc. Legame sicuro B – Bambino se ha pianto, si lascia consolare Legame insicuro di tipo ambivalente C – inconsolabile, anche se la madre si avvicina per consolarlo non si calma. Legame insicuro di tipo ansioso evitante A- il bambino non si avvicina alla madre o si allontana da lei. Il bambino che piange quando si stacca dalla madre per andare all’asilo prova l’ansia da separazione. Il bambino sicuro utilizza la madre come fonte di conforto, come base sicura, ovvero come punto di partenza per esplorare senza paura l’ambiente. I genitori per lo più realizzano quei modelli di comportamento che hanno sperimentato da bambini. Il modello operativo interno che ciascun genitore ha della propria figura di attaccamento regola il modo in cui lui/lei si comporterà con il proprio figlio. Quindi, l'intervento é volto a sostenere e istruire i genitori sulle tappe di sviluppo del bambino sulla separazione, a identificare e risolvere gli eventi scatenanti la reazione d'ansia, a ridurre la preoccupazione come atteggiamento emotivo e cognitivo verso l'autonomia, a garantire la presenza scolastica costante del bambino, a risolvere i conflitti emotivi e alla collaborazione tre famiglia e scuola. SI interviene sui genitori per insegnare loro a controllare la propria ansia, istruendoli anche sui momenti più opportuni per accordare più libertà ai propri figli. Il disturbo, se non viene debitamente curato, evolve spesso in disturbi da attacchi da panico. disturbo dell'alimentazione I disturbi alimentari sono comportamenti inadeguati che riguardano l'assunzione del cibo. Un normale atteggiamento é costituito dal mangiare per soddisfare le proprie esigenze nutrizionali, attraverso la soddisfazione dello stimolo della fame. Le persone affette da disturbo alimentare, al contrario, possono continuare a mangiare anche se si sentono sazie, o smettere di mangiare nonostante siano sottonutrite. Spesso non avvertono questi normali stimoli (fame e sazietà), e nel caso in cui li avvertano, sentono la necessità di soddisfare altri bisogni attraverso il loro comportamento alimentare. Principali disturbi del comportamento alimentare sono: anoressia nervosa: disturbo nella percezione del perso e dell'immagine corporea. Intenso timore di ingrassare. La persona tende a mangiare poco o nulla, dicendosi sazia e cercando di dimagrire di molto oltre la soglia della normalità; bulimia nervosa: episodi ricorrenti di abbuffate compulsive. La persona mangia grosse quantità di cibo, per poi indurre il vomito; obesità: una persona viene definita obesa quando il tessuto adiposo é in eccesso e diviene causa di malattie, oppure quando il sovrappeso aumenta la possibilità dell'insorgere di malattie o ne aggrava la situazione. L'esordio dell'anoressia e della bulimia é in entrambe le forme tra i 14 e i 18 anni con una netta prevalenza nel sesso femminile. I dati indicano che poi, col tempo e col crescere dell'età, l'anoressia può trasformarsi spesso in bulimia. Il disturbo di tipo anoressico, nella maggior parte dei casi viene accettato ed anche esibito. Richard Gordon suggerisce che ogni tentativo di comprensione dell'anoressia-bulimia si debba collocare in una prospettiva culturale considerandola come uno di quei disturbi che Devereux definisce "etnici" cioè caratterizzati da un modello cognitivo - comportamentale deviante. Il comportamento anoressico - bulimico é un sintomo ambivalente, da interpretare come un tentativo disperato di ottenere ammirazione e conferma, non importa se poi finisce per essere un modo per ricevere danno; un tentativo di attacco alle eccessive aspettative genitoriali (se i genitori tendono a prendersi cura del bambino in funzione dei propri bisogni, piuttosto che di quelli del figlio, il bambino sviluppa, allora nella prima infanzia, un falso Sé per far piacere ai genitori, ma cova le matrici di futuri comportamenti testardi e negativisti che, in adolescenza, userà per aggredirli); un tentativo narcisistico - onnipotente di sviluppare, attraverso il controllo del cibo, un senso di autonomia e di individualità. La preoccupazione del cibo é, dunque, una manifestazione emblematica di un disturbo più fondamentale del concetto di Sé. Spesso, questa patologia si accompagna a vissuti depressivi. Tutti questi fattori sono anche accompagnati da certi tratti cognitivi caratteristici quali, come abbiamo detto, un'errata percezione della propria immagine corporea Comportamenti alimentari devianti potomania ( bisogno irrefrenabile di bere); pica (ingestione di sostanze non commestibili) coprofagia (rara, in bambini psicotici) disturbo del controllo degli impulsi L'Impulso é stato definito come "un bisogno di origine psichica, un istinto, che spinge un essere vivente ad agire per la realizzazione di un particolare obiettivo, mediante schemi d'azione innati ed istintivi. L'impulso è una spinta automatica, non è frutto di apprendimento né di scelta personale. L'impulso ha un rapporto piuttosto rigido con ciò che desidera e a cui mira, ottenendo difficilmente soddisfazione da un oggetto diverso". I comportamenti compulsivi sono infatti contraddistinti da una “tendenza continuativa, irrefrenabile a compiere azioni apparentemente irragionevoli”. L'impulso, in questo tipo di disturbo, viene frequentemente avvertito come egosintonico con la conseguenza di poter essere più facilmente tradotto in azione. I disturbi del controllo degli Impulsi secondo l’inquadramento del DSM-IV sono 1) 2) 3) 4) 5) DISTURBO ESPLOSIVO INTERMITTENTE; CLEPTOMANIA; GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO; PIROMANIA; TRICOTILLOMANIA. IPOTESI GENETICA - La possibilità di una trasmissione ereditaria sarebbe comprovata da studi su gemelli. IPOTESI E CORRELATI BIOLOGICI - In portatori di lesioni frontali è stata riscontrata difficoltà nel controllo degli IMPULSI nell’esecuzione di test psicologici. IPOTESI COMPORTAMENTALE - I soggetti IMPULSIVI, in risposta alle frustrazioni ed alle punizioni, risponderebbero con l’azione, senza riflettere. Tale modalità reattiva interferisce con l’apprendimento e conduce ad un comportamento compulsivo. IPOTESI PSICODINAMICHE - Un impulso è una disposizione ad agire in modo da ridurre una tensione accresciuta. Otto Fenichel collegava il COMPORTAMENTO IMPULSIVO a tentativi di controllare, per mezzo dell’azione, l’ansia, la colpa, la depressione ed altri sentimenti dolorosi. Hinz Kohut riteneva che molte forme di problemi del controllo degli impulsi fossero correlati ad un incompleto senso del sé. FATTORI PSICOSOCIALI - Alcuni ricercatori hanno messo in rilievo l’importanza degli aspetti psicosociali di questi disturbi, come gli eventi precoci di vita. Inoltre, si ritiene che abbiano un ruolo significativo anche fattori parentali, come la violenza in famiglia, l’abuso di alcool, promiscuità e tendenza antisociali. Le manifestazioni principali dei Disturbi del Controllo degli Impulsi, secondo il DSM-IV, sono: 1) Incapacità di resistere ad un impulso, ad un desiderio impellente o alla tentazione di compiere un’azione pericolosa per sé o per gli altri; vi può essere, o meno, una persistenza conscia all’impulso, l’atto può essere o meno premeditato o programmato; 2) Un comune senso di tensione o di eccitazione crescenti prima di commettere l’atto; 3) Un esperienza frequente di piacere, di gratificazione o sollievo al momento in cui viene commesso l’atto; 4) Dopo l’azione vi può essere o meno rimorso, autoriprovazione o senso di colpa. DISTURBO ESPLOSIVO INTERMITTENTE Tipico dell’età giovanile e più comune nel sesso maschile, è caratterizzato da attacchi episodici brevi, molto distanziati nel tempo e sostanzialmente incongrui rispetto alla motivazione che lo ha scatenato, che portano a manifestazioni aggressive nei confronti degli altri e distruttive verso le cose. Il soggetto avverte abitualmente sentimenti di colpa. FATTORI EZIOPATOGENETICI - Sarebbe più comune in appartenenti a nuclei familiari i cui componenti hanno già manifestato sintomi simili. In tali famiglie sono presenti disoccupazione, instabilità emotiva, alcolismo, violenze. Tale sindrome può ritrovarsi in soggetti con epilessia, o psicopatia. Privazioni di sonno e abuso di sostanze, sarebbero determinanti nello scatenare l’insorgenza dell’episodio. Dal punto di vista psicoanalitico, l'eziopatogenesi é da ricercare nell’identificazione con figure genitoriali aggressive o nel significato simbolico dell’oggetto verso cui è diretta la violenza. L'esordio in giovinezza e le crisi sono spesso innescate da motivi futili. Questi soggetti esprimono la loro violenza in risposta a sentimenti di inutilità o impotenza e sarebbero caratterizzati, per lo più, da instabilità emotiva e da tratti dipendenti di personalità. Gli episodi di collera possono essere seguiti da pentimento o autorimprovero per non essere stati in grado di impedire l’accaduto. Il soggetto può arrivare, dopo un attacco e spinto dal senso di colpa, a tentare il suicidio. TERAPIA: Trattamento combinato che associ la psicoterapia alla farmaco-terapia CLEPTOMANIA Disturbo poco frequente che prevale nel sesso femminile nell’infanzia e nell’adolescenza. Si caratterizza per il ripetersi di episodi di sottrazione non premeditata di oggetti privi di valore economico o non necessari per il soggetto. L’esecuzione del furto è gratificante per il soggetto, che tende, di solito a negare le responsabilità. FATTORI EZIOPATOGENETICI - È stata indagata soprattutto in campo psicoanalitico. Le caratteristiche del cleptomane: non ha ricevuto da bambino concrete prove d’amore o ne è stata compromessa la gratificazione libidica (Steked) con la conseguenza che egli si procura, ricorrendo al furto, sia un piacere sostitutivo che una vendetta verso che ha determinato questa sofferenza (Abrahm). La cleptomania inizia a manifestarsi per lo più nella tarda adolescenza, privilegia il sesso femminile. Contraddistinguono la cleptomania il piacere del proibito, il gusto del pericolo e l’azzardo di fronte al rischio delle possibili conseguenze penali. Il quadro clinico può manifestarsi in forma sporadica, episodica o cronica. Nella maggior parte dei casi il disturbo tende ad esaurirsi nell’adulto giovane. TERAPIA: Trattamento psicoanalitico + farmaco GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO Gioco d’azzardo (intendendo per azzardo una situazione di rischio nella quale non è possibile, individuare l’esistenza di possibilità a favore o contro). Quando praticato con modalità compulsive tale comportamento configura con un vero e proprio disturbo psichico. FATTORI EZIOPATOGENETICI - Gravi stress o crisi esistenziali sembrano favorire l’insorgenza del comportamento. Alterazioni del sistema che controlla le funzioni cerebrali connesse con l'emotività negativa, implicato nei comportamenti tesi alla ricerca di sensazioni di particolare intensità. Questa patologia avrebbe una prevalenza dell’1-3% nella popolazione adulta. Rapporto maschi-femmine 3:1. I soggetti sono dotati spesso di un intelligenza superiore alla media, competitivi, insofferenti alla noia, estroversi. Appartengono ad una classe sociale media o medio-alta, hanno un età compresa fra 40 e 60 anni. Affermano che i loro problemi sono conseguenti alla mancanza di denaro e che quest’ultimo possa risolverli. Il disturbo si stabilirebbe dopo che si sono verificate alcune fasi predisponenti. Dapprima il soggetto vince a più riprese, acquisisce un alto concetto di sé, in seguito un irragionevole ottimismo spinge al gioco in maniera sempre maggiore con gravi perdite economiche. Il soggetto non mostra di preoccuparsene. La posizione lavorativa ed i rapporti familiari vengono compromessi. Alla fine, frenetico e dominato dal panico legato alla necessità di “sistemare tutto”, il soggetto può tentare di procurarsi ulteriore denaro in modo illecito, diviene irritabile, irrequieto, depresso e non infrequente è l’ideazione suicidaria. Questa patologia evolve verso la cronicizzazione. TERAPIA - Psicoterapia PIROMANIA L’impulso ad appiccare il fuoco agli oggetti costituisce un fenomeno di portata apparentemente limitata anche se caratterizzata da evidente pericolosità. Fattori predisponenti risulterebbero l’alcolismo, l’enuresi, il periodo mestruale nelle donne. Gli incendi avvengono soprattutto in zone rurali, di notte, in coincidenza con il fine settimana. Il piromane spesso si reca ad osservare gli incendi e può anche lanciare falsi allarmi d’incendio; collabora alle azioni di spegnimento del fuoco, può essere interessato all’attività di pompiere o addirittura diventarlo. Esistono differenze tra i comportamenti incendiari del bambino e dell’adolescente, il primo accende il fuoco da sé, in casa propria, prova ansia per il gesto compiuto e tenta poi di spegnere il fuoco; il secondo agisce più frequentemente in accordo con un’altra persona, non nella propria abitazione, programma l’atto e ne trae una particolare eccitazione. Gli incendiari sono per lo più di sesso maschile, età compresa fra 10 e 26 anni, basso livello sociale, non coniugati e vivono da soli. Due terzi di loro sono stati allevati in un ambiente istituzionale, con anamnesi familiare per alcolismo, per disturbi psichici. L’adattamento sociale scarso, ritardo scolastico, enuresi e disturbi dello sviluppo, basso livello di istruzione. Atti incendiari, enuresi e crudeltà verso gli animali, nei bambini e negli adolescenti possono a loro volta precedere comportamenti aggressivi dell’età adulta. L’atto incendiario può essere sovente il primo segno di una malattia mentale (schizofrenia) Più recentemente è stata rilevata la comorbidità per Disturbo della Condotta, Disturbo da Deficit dell’Attenzione, Iperattività, Disturbo dell’adattamento. L’andamento sarebbe, di tipo episodico oppure cronico. TERAPIA - Psicoterapia e farmacoterapia. TRICOTILLOMANIA Si tratta di un disturbo contraddistinto dallo strapparsi i capelli con conseguenti zone di alopecia. FATTORI EZIOPATOGENETICI - Secondo alcuni autori strapparsi o inghiottire i capelli simbolizza una regressione orale. Alterazione del metabolismo della serotonina. L’incidenza è valutata intorno al 4% della popolazione generale. Maggiore nel sesso femminile. Esordio nella prima infanzia. Rapporto bambini-adulti oscilla fra 2:1. Una tensione interna precede l’evidenziarsi del comportamento vero e proprio mentre, nel momento in cui vengono strappati i capelli, subentra un senso di liberazione o gratificazione e manca il dolore all’estirpazione. La zona più interessata dal fenomeno è il cuoio capelluto, soprattutto ciglia sopracciglia e barba; più raramente sono coinvolti i peli del tronco e delle ascelle. Il soggetto può masticare ed inghiottire i capelli. Non si verifica in presenza di estranei. Può evolvere in modo intermittente, oppure cronico. La forma adolescenziale è più sfavorevole, quella infantile tende a risolversi nel giro di mesi. TERAPIA - Psicoterapia, farmacoterapia disturbo della personalità Cominciamo col definire il termine PERSONALITÀ. Con questo termine si intende l'insieme delle caratteristiche psichiche e delle modalità comportamentali (inclinazioni, interessi, passioni) che definiscono le differenze individuali, nella molteplicità dei contesti in cui la condotta umana si sviluppa. I Disturbi di Personalità costituiscono delle modalità, relativamente inflessibili, di percepire, reagire e relazionarsi alle altre persone e agli eventi; tali modalità riducono pesantemente le possibilità del soggetto di avere rapporti sociali efficaci e soddisfacenti per sé e per gli altri. Ognuno di noi ha particolari modalità di relazionarsi agli altri e agli eventi che costituiscono i tratti di personalità. Per esempio, alcune persone reagiscono a situazioni problematiche cercando aiuto e supporto; altri preferiscono fronteggiare le stessi situazioni difficoltose in totale autonomia. Alcuni individui minimizzano i problemi mentre altri li esagerano. Le persone in grado di adattarsi efficacemente alle diverse situazioni della vita tendono ad assumere una modalità alternativa quando lo stile abituale risulta inefficace. Al contrario, gli individui con un Disturbo di Personalità sono rigidi e tendono a rispondere in modo inappropriato ai problemi della vita fino al punto che le relazioni con i propri familiari, gli amici e i colleghi di lavoro divengono difficoltosi, insoddisfacenti conflittuali o vengono sistematicamente evitati. Tali modalità disadattive appaiono generalmente in adolescenza o nella prima età adulta e tendono a rimanere stabili nel tempo. I Disturbi di Personalità si differenziano rispetto alla gravità: sono generalmente lievi e raramente molto severi. La maggior parte delle persone con un Disturbo di Personalità risulta insoddisfatta e sofferente rispetto alla propria esistenza, inoltre, presenta numerosi problemi interpersonali sul lavoro o nelle situazioni sociali. Sono molto frequenti sintomi depressivi, ansia, abuso di sostanze o disturbi alimentari. I soggetti con un Disturbo di Personalità sono ignari che il loro pensiero o i propri modelli di comportamento sono inappropriati e disfunzionali: quindi, tendono a non cercare l’aiuto di uno specialista. Quando cercano aiuto autonomamente generalmente questo avviene a causa dei problemi quotidiani generati dal loro disturbo o a causa di sintomi disturbanti quali ad esempio: ansia, depressione o abuso di sostanze; in questi casi, comunque, tendono a ritenere che i loro problemi siano causati dalle altre persone o dalle circostanze della vita sulle quali non ritengono di avere controllo. Fino a poco tempo fa, si riteneva comunemente che il trattamento psicoterapico non risultasse efficace per il trattamento dei disturbi di personalità. Tuttavia, alcune tipologie di psicoterapia, prima fra tutte quella cognitivo-comportamentale, sono risultate efficaci nell’aiutare le persone affette da questi disturbi. I Disturbi di Personalità vengono raggruppati in tre Cluster: 1) Cluster A: disturbo psicotico di personalità (caratterizzato da condotte strane o eccentriche); 2) Cluster B: disturbo borderline di personalità (comportamenti drammatici o eccentrici); 3) Cluster C: disturbo nevrotico di personalità (condotte ansiose o inibite) . Cluster A: DISTURBO PARANOIDE DI PERSONALITÀ Diffidenza e sospettosità pervasive nei confronti degli altri (tanto che le loro intenzioni vengono interpretate come malevole), che iniziano nella prima età adulta e sono presenti in una varietà di contesti. Il soggetto 1) sospetta, senza una base sufficiente, di essere sfruttato, danneggiato o ingannato 2) dubita senza giustificazione della lealtà o affidabilità di amici o colleghi 3) è riluttante a confidarsi con gli altri a causa di un timore ingiustificato che le informazioni possano essere usate contro di lui 4) scorge significati nascosti umilianti o minacciosi in rimproveri o altri eventi benevoli 5) porta costantemente rancore, cioè, non perdona gli insulti, le ingiurie o le offese 6) percepisce attacchi al proprio ruolo o reputazione non evidenti agli altri, ed è pronto a reagire con rabbia o contrattaccare 7) sospetta in modo ricorrente, senza giustificazione, della fedeltà del coniuge o del partner sessuale. DISTURBO SCHIZOIDE DI PERSONALITÀ Una modalità pervasiva di distacco dalle relazioni sociali ed una gamma ristretta di espressioni emotive, in contesti interpersonali, che iniziano nella prima età adulta e sono presenti in una varietà di contesti. Il soggetto 1) non desidera né prova piacere nelle relazioni strette, incluso il far parte di una famiglia 2) quasi sempre sceglie attività solitarie 3) dimostra poco o nessun interesse per le esperienze sessuali con un'altra persona 4) prova piacere in poche o nessuna attività 5) non ha amici stretti o confidenti, eccetto i parenti di primo grado 6) sembra indifferente alle lodi o alle critiche degli altri 7) mostra freddezza emotiva, distacco o affettività appiattita. DISTURBO SCHIZOTIPICO DI PERSONALITÀ Il quadro clinico di questa patologia, é simile al Disturbo Schizoide. Presenta una modalità pervasiva di relazioni sociali ed interpersonali deficitarie, ridotta capacità riguardanti le relazioni strette, e da distorsioni cognitive e percettive ed eccentricità del comportamento. 1) nessun amico stretto o confidente, eccetto i parenti di primo grado 2) eccessiva ansia sociale, che tende ad essere associata con preoccupazioni paranoidi piuttosto che con un giudizio negativo di sé. 3) sospettosità o ideazione paranoide Cluster B: DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ Questo disturbo é caratterizzato da una escalation di comportamenti negativi. Durante l'infanzia si può cominciare con piccoli episodi di furti; nell'adolescenza ci sono episodi di alcol, droghe, scontri con chi rappresenta l'autorità; nell'età adulta, infine, non si assumono le proprie responsabilità. Il soggetto non manifesta rimorso a causa di un mancato senso morale. Il suo comportamento rappresenta un quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta fin dall'età di 15 anni. Elenchiamo alcuni comportamenti: 1) incapacità di conformarsi alle norme sociali per ciò che concerne il comportamento legale, come indicato dal ripetersi di condotte suscettibili di arresto 2) disonestà, mentire, usare falsi nomi, o truffare gli altri ripetutamente, per profitto o per piacere personale; impulsività o incapacità di pianificare 3) irritabilità e aggressività caratterizzata da scontri o assalti fisici ripetuti 4) inosservanza spericolata della sicurezza propria e degli altri 5) irresponsabilità abituale e ripetuta incapacità di sostenere una attività lavorativa continuativa, o di far fronte ad obblighi finanziari 6) mancanza di rimorso, come indicato dall'essere indifferenti o dal razionalizzare dopo avere danneggiato, maltrattato o derubato un altro. DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ Caratteristica di questa patologia é una spiccata instabilità nelle relazioni interpersonali, comportamento suicidario, pervasiva instabilità delle relazioni interpersonali unito al vedere gli altri come la causa del suo problema; mancanza o alterazione del sentimento di identità e marcata impulsività che porta il soggetto a mettere in atto comportamenti che sono potenzialmente dannosi per sé e per gli altri come guida spericolata, abuso di sostanze... DISTURBO ISTRIONICO DI PERSONALITÀ Chi é affetto da questa patologia, é caratterizzato da una costante ricerca di attenzione che compare entro la prima età adulta ed è presente in una varietà di contesti. Inoltre presenta un forte disagio quando non é al centro dell'attenzione e, per attirare l'attenzione su di sé, utilizza l'aspetto fisico. Mostra teatralità, ed espressione esagerata delle emozioni. È suggestionabile, cioè, facilmente influenzato dagli altri e dalle circostanze e considera le relazioni più intime di quanto non siano realmente. DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITÀ Il soggetto che ne soffre ha una idea grandiosa di Sé (per es. esagera risultati e talenti, si aspetta di essere notato come superiore senza una adeguata motivazione), necessita di ammirazione e presenta una mancanza di empatia cioè é incapace di riconoscere o di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri. Crede di essere "speciale" e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata. Richiede eccessiva ammirazione ed ha la sensazione che tutto gli sia dovuto. Mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti e presuntuosi. Cluster C: DISTURBO EVITANTE I soggetti affetti da questa patologia evitano rapporti sociali perché temono umiliazioni e rifiuto da parte dell'altro. A differenza del disturbo schizoide, gli evitanti desiderano il rapporto interpersonale. Essi soffrono di una profonda ansia e timidezza patologica, provano sentimenti di inadeguatezza, e ipersensibilità al giudizio negativo, per questo evita attività lavorative che implicano un significativo contatto interpersonale, poiché teme di essere criticato, disapprovato, o rifiutato. Si vede come socialmente inetto, personalmente non attraente, o inferiore agli altri. DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITÀ I soggetti affetti da questa patologia, non riescono a prendere decisioni da soli, soffrono di una situazione pervasiva ed eccessiva di necessità di essere accuditi, sono sottomessi, hanno bisogno di rassicurazioni e sono terrorizzati dall'idea di essere abbandonati da parte di persone significative; ha difficoltà ad iniziare progetti o a fare cose autonomamente (per una mancanza di fiducia nel proprio giudizio o nelle proprie capacità piuttosto che per mancanza di motivazione o di energia) DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO DI PERSONALITÀ Questa patologia presenta un quadro pervasivo di preoccupazione per l'ordine, il perfezionismo e il controllo mentale e interpersonale a spese di flessibilità, apertura ed efficienza. Il soggetto che ne é affetto, pone attenzione per i dettagli, le regole, le liste, l'ordine, l'organizzazione o gli schemi, al punto che va perduto lo scopo principale dell'attività; mostra un perfezionismo che interferisce con il completamento dei compiti (per es., è incapace di completare un progetto perché non risultano soddisfatti i suoi standard oltremodo rigidi); è incapace di gettare via oggetti consumati o di nessun valore, anche quando non hanno alcun significato affettivo; manifesta rigidità e testardaggine. disturbi somatoformi Nei disturbi somatoformi i problemi psicologici si manifestano in forma fisica, ovvero la persona prova dei sintomi fisici per i quali non è individuabile alcuna causa organica. Questi disturbi non sono soggetti a controllo volontario e non sono prodotti intenzionalmente. Tutti i disturbi somatoformi sono accomunati da: attenzione focalizzata su uno o più sintomi di natura somatica i sintomi non sono suffragati da indagini di laboratorio o dall’esame medico La natura del problema è collocata nel corpo, raramente queste persone cercano aiuto psicologico! Per somatizzazione (Stekel, 1908) si intende la tendenza a sperimentare e comunicare una sofferenza personale o sociale attraverso disturbi somatici per i quali non è individuabile una chiara causa organica e la conseguente persistente richiesta di intervento medico. Disturbo algico Detto anche "dolore psicogeno". Intenso dolore localizzato in uno o più distretti anatomici, il quale causa disagio e menomazione significativi nella vita della persona, compromettendone intere aree, come quella lavorativa, e rendendo il soggetto dipendente da analgesici o tranquillanti. In questo disturbo i fattori psicologici giocano un ruolo importante nell’esordio, nel mantenimento e nella gravità del dolore fisico. Ipocondria Eccessiva ed inappropriata paura di avere o sviluppare una malattia fisica. Tale paura deve persistere per almeno 6 mesi, nonostante le rassicurazioni mediche che non vi sono gravi patologie in atto. In primo piano non sono i sintomi ma la preoccupazione di avere una grave malattia che persiste al di là di esami e visite. Il soggetto effettua frequentemente una serie di riti, come per esempio lavarsi le mani o altro, necessari come mezzi strategici difensivi per proteggersi dalle insidie provenienti dall'ambiente che lo circonda. Invalidante se coinvolge tutte le sfere di vita del malato. Il soggetto mostra, inoltre, forti resistenze verso i tentativi di rassicurazione. Disturbo di dismorfismo corporeo Intensa preoccupazione per un supposto difetto nell’aspetto fisico. Insorge spesso in adolescenza. Il soggetto prova vergogna, ci pensa continuamente e persegue una ricerca attiva di interventi chirurgici. Disturbo di conversione Noto anche come "isteria" o "nevrosi isterica". In questo disturbo il manifestarsi di sintomi sensoriali o motori, come un’improvvisa cecità o paralisi, pare indicare un danno neurologico, ma gli accertamenti e i test clinici non evidenziano alcuna alterazione a livello di organi o sistema nervoso (le vie sensitive o motorie sono integre). I sintomi/deficit si accentuano se si presta loro attenzione. La persona affetta da questo disturbo presenta sintomi pseudoneurologici come alterazione dell'equilibrio, paralisi, difficoltà a deglutire, sensazione di nodo alla gola e incapacità di parlare o di urinare. A livello sensitivo possono esserci sordità, cecità ed allucinazioni, perdita della sensibilità tattile e del senso del dolore, insensibilità alla temperatura. Nei casi più gravi possono esservi convulsioni o attacchi simili all'epilessia. Disturbo di somatizzazione caratterizzato da molteplici e ricorrenti problemi fisici, privi di una spiegazione organica apparente e che, tuttavia, portano il soggetto a cercare le cure dei medici. Pseudociesi Chiamata anche gravidanza isterica, si parla di pseudociesi quando una donna presenta i sintomi fisici e psicologici della gravidanza, senza che questa ci sia. I sintomi più comuni, oltre alla ferma convinzione di essere incinta sono: irregolarità mestruali – aumento del peso - sensazione che il feto si muova – ingrossamento e secrezione del seno. PRINCIPALI DISABILITÀ PSICOMOTORIE Cominciamo col definire il termine psicomotricità. La psicomotricità vuole designare il complesso delle interazioni tra funzioni di ordine motorio, sensoriale e cognitivo, nell'età evolutiva. Pertanto, esso é breve e nasce con la storia del corpo. Il primo a coniare questo termine nei primi anni del Novecento, fu il neurologo francese Dupré. Maine de Biran fu il primo a fare del movimento una componente essenziale della struttura psicologica dell'io. L'io si afferma attraverso e nello sforzo; lo sforzo muscolare é il fondamento della vita psichica, esso permette che si affermi il sentimento dell'io. É nell'azione che l'io prende coscienza di Sé e del mondo. Ecco che la psicomotricità conosce una notevole evoluzione e una diffusa applicazione in vari campi che possiamo suddividere in: rieducativi, terapeutici, educativi. La rieducazione psicomotoria - Il primo indirizzo psicomotorio è quello rieducativo, che ha per obiettivo il recupero delle lacune psicomotorie accumulate nelle diverse fasce di età, dall’infanzia alla terza età. La terapia psicomotoria - Un secondo orientamento è quello terapeutico che, rivolto in particolare a tutti i soggetti con problematiche di tipo affettivo relazionale, mira a ristrutturare, tramite l’attività motoria, il comportamento in rapporto al mondo degli altri. Per tale terapia si usano sovente le tecniche di rilassamento o il training autogeno. L’educazione psicomotoria - Può essere definita come un insieme di teorie e metodi operativi che svolgono un’azione educativa attraverso la mediazione del corpo. Parte fondamentale della psicomotricità sarà, dunque, lo schema corporeo che verrà affidato all'educazione psicomotoria le cui tappe, secondo il francese Pierre Vayer, prevedono: la scoperta del proprio io; la relazione tra il proprio io e il mondo delle cose; la relazione tra il proprio io e le altre persone L'iter evolutivo dello schema corporeo inizia dalla nascita fino ai 12 anni circa, quando cioè il ragazzo conosce tutte le parti del proprio corpo, le sa utilizzare, le sa immaginare anche in movimento. La presenza di una disabilità, può influire sulla formazione dell'immagine del Sé che, partire dalla dimensione corporea risente delle limitazioni fisiche e dei deficit sensoriali che provocano un ritardo nello sviluppo motorio e sensoriale. Il vissuto e le frustrazioni, derivanti dall’incapacità fisica e dall’impossibilità di esplorare lo spazio in libertà, ostacolano la costruzione dell’immagine di sé che è chiamata a fare i conti con gli aspetti deficitari legati alla disabilità. Le difficoltà psicomotorie unitamente a quelle visuospaziali, spesso definite "sindrome non verbale" (SNV), sono poco conosciute, ma non per questo meno influenti, in senso negativo, sullo sviluppo del bambino. Generalmente, si manifestano attraverso una goffaggine accentuata, deficit nelle abilità sociali, problemi con l'orientamento spaziale, accanto ai quali sono spesso presenti un'intelligenza brillante e un linguaggio eccezionalmente ricco e articolato. La Psicomotricità è una scienza che riguarda tutti e che considera l'uomo nella sua "globalità" psico-corporea, é quindi volta alla comprensione dell'uomo nel suo rapporto vissuto ed agito - con se stesso e l'ambiente e si pone come: base dello sviluppo dell'identità, espressione della vita emozionale fondamento dei processi cognitivi organizzatore della motricità funzionale e relazionale. I disturbi psicomotori Il grande maestro della Psicomotricità, Jean de Ajuriaguerra, sottolineava che i disturbi psicomotori non necessariamente hanno un'origine organica. Nello specifico, essi esprimono, sul piano corporeo, un disordine psicologico che coinvolge la totalità della persona in tutte le sue manifestazioni. I Disturbi psicomotori evidenziano prevalentemente una difficoltà di relazione e di comunicazione. De Ajuriaguerra dimostrò che lo sviluppo del tono e della motricità è intimamente fuso con lo sviluppo emozionale, dell'orientamento, del gesto e del linguaggio. Egli definì pertanto una nuova categoria tra le patologie delle condotte motorie dovute ad una alterazione io-mondo che si manifestano con: stato tensionale, insonnia, enuresi; impaccio motorio - Per impaccio motorio si intende una serie di gesti goffi e pesanti o un’impossibilità a ottenere un rilassamento muscolare che può arrivare a un irrigidimento degli arti tipici della catalessia. La goffaggine e le difficoltà a realizzare l'azione sono correlate con sentimenti di disagio del bambino nel suo stare al mondo; disordini della realizzazione motoria, consistenti in disprassie contraddistinte da una seria mancanza di abilità nel compiere le azioni quotidiane, nel regolare le sequenze ritmiche e nell'organizzare lo spazio. Le disprassie motorie sono delle perturbazioni nell’organizzazione dello schema corporeo e della rappresentazione spazio-temporale. In questi casi il movimento appare scoordinato e maldestro, tanto da rendere deficitarie azioni come vestirsi, allacciarsi le scarpe, battere le mani, ecc. Nella disprassia gli esami neurologici sono quasi sempre normali, per cui le disabilità motorie sono spesso attribuite a consistenti problematiche psicologiche; disgrafia, disortografia, dislessia disarmonie toniche tra cui tic e balbuzie. I tic consistono nell’esecuzione improvvisa ed imperiosa, involontaria ed assurda, di movimenti ripetuti. Tra i più frequenti vi sono quelli a carico del viso come l’aggrottamento delle sopracciglia, smorfie, sbattere le palpebre, movimenti del mento, senza dimenticare il sollevamento delle spalle o i tic respiratori come il tossicchiare, lo storcere o il soffiare il naso. Normalmente l’esecuzione del tic nervoso rappresenta il raggiungimento di un sollievo subito dopo un forte vissuto di disagio o ansia. I tic nervosi di per sé non sono una patologia inabilitante fatta eccezione per alcuni casi. Tra questi ricordiamo la malattia di Gilles de la Tourrette disturbo neurocomportamentale caratterizzato dalla presenza di molteplici tic motori localizzati più spesso al viso e agli arti superiori e vocali sotto forma di coprolalia (linguaggio scurrile), ecolalia (ripetizione a eco di ciò che dice l’interlocutore), grugniti, tirate su con il naso, latrati, ecc. Tale sindrome comporta importanti implicazioni a carattere sociale. difficoltà attentive e sensoriali ritardi del linguaggio e della comunicazione disturbi del comportamento difficoltà di apprendimento scolastico difficoltà legate al processo di autonomia e di personalità Il ritardo psicomotorio rallenta e/o altera il passaggio da SCHEMA a PROGETTAZIONE MOTORIA. I bambini con ritardo psicomotorio evidenziano atipie molto specifiche nei passaggi dalla fase presimbolica alla fase simbolica Esempio: il bambino non è in grado di utilizzare in modo intelligente gli schemi motori che ha appreso per costruire un piano di azione più complesso.I problemi psicomotori presentano, inoltre, i seguenti tratti distintivi: come abbiamo detto, non derivano da un danno organico evidente; nello stesso soggetto si manifestano variabili nella forma, intensità e durata, perché sono legati alle sollecitazioni ambientali e relazionali; mostrano un carattere espressivo quasi caricaturale e una somiglianza con le reazioni primitive di contatto, rifiuto, aggressività, passività. La psicomotricità riconosce alcune categorie del vissuto corporeo su cui agire, quali il tono muscolare, la postura, il movimento, le relazioni con lo spazio e il tempo, la percezione di sé e il rapporto con gli oggetti esterni. I bambini con RPM tendono ad utilizzare l’imitazione come forma principale di apprendimento ma imitano con lentezza ed imprecisione, spesso con modalità stereotipe; Inoltre, anche quando è piccolo tende a far fare agli altri le azioni che direttamente in prima persona non sa fare. LE FUNZIONI COGNITIVE E I LORO DISTURBI Vengono definiti disturbi cognitivi tutte le alterazioni o disfunzioni nelle funzioni cognitive. Sono determinati da cause organiche che danneggiano l’armonico funzionamento delle funzioni cosiddette “razionali” della psiche. Le cause organiche possono essere: un trauma cerebrale, una lesione cerebrale, l’abuso di farmaci, droghe o alcol, un infarto cardiaco. Vediamo brevemente le funzioni cognitive di base. Esse sono: attenzione è la funzione che permette di isolare le informazioni pertinenti e rilevanti rispetto a un problema da risolvere o a un contesto, considerando le infinite informazioni in arrivo sia da dentro sia da fuori di noi; memoria è la funzione che riceve dai sistemi di apprendimento, ordina e archivia, recupera, ogni tipologia di informazione; percezione è la funzione che elabora gli stimoli interni e esterni che arrivano dai canali sensoriali; ragionamento è la funzione responsabile dei processi logici, tra cui importantissimo è il linguaggio. Da queste funzioni basiche derivano le funzioni cognitive complesse: orientamento nello spazio, nel tempo, nelle relazioni con sè e con gli altri; linguaggio come competenza di gestire sistemi logici e simbolici; abilità prassiche sia come pianificazione, sia come esecuzione di prodotti finiti; funzioni esecutive che supervisionano tutte le funzioni cognitive dei livelli inferiori, e che, qualora danneggiate, causano gravi disturbi della intenzionalità; intelligenza che, in realtà, sono molte intelligenze. Ovvero molte funzioni che risolvono problemi complessi. Se guardiamo il DSM-IV-TR risulta innanzitutto opportuno distinguere i disturbi in due categorie: 1) i disturbi che di norma emergono nei primi 18 anni di vita e 2) quelli che di norma non sono legati a questo periodo. Vediamo i primi. Fra di essi, sono rinvenibili quattro diversi ampi gruppi di disabilità cognitive. Essi sono: a. b. c. d. Ritardo mentale Disturbi di apprendimento Disturbi pervasivi dello sviluppo Disturbi da deficit di attenzione e da comportamento dirompente Come abbiamo già detto, le disabilità cognitive che possono essere originate da disabilità fisiche o psichiche di varia natura: genetiche (ad esempio sindrome di Down) malattie (tumori o altre malattie che interessano il cervello) incidenti Due degli aspetti più seri delle disabilità cognitive riguardano le disabilità dello sviluppo come l'autismo che, come abbiamo già avuto modo di edere, incidono sulle capacità di relazione e interazione con gli altri e su comunicazione e linguaggio; e le disabilità nell'apprendimento che possono riguardare la memoria, la percezione, la capacità di comprensione dei concetti e di risoluzione di problemi. Avendo già trattato questi argomenti, parleremo in questa sezione dei "Ritardi Mentali". INSUFFICIENZE MENTALI Definizione: Il ritardo mentale è un deficit dello sviluppo delle funzioni intellettive. Perché la patologia sia diagnostica, deve verificarsi una carenza di tali funzioni prima del diciottesimo anno di età. La quarta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali ha sostituito con il termine Ritardo Mentale i precedenti termini in uso per indicare questa malattia, e che erano quelli di oligofrenia, frenastenia, insufficienza mentale e imbecillità. Infatti, oggi si preferisce usare la definizione di "ritardo mentale" piuttosto che di "insufficienza mentale" (definizione che comunque compare ancora nelle diagnosi) poiché quest'ultima dà l'idea di un punto di arrivo , di qualcosa di definitivo, di una "insufficienza" appunto, mentre nel termine "ritardo" è implicita l'idea di una "recuperabilità". Perché si possa fare una diagnosi di ritardo mentale è necessario riscontrare almeno tre elementi, a prescindere dalla coesistenza di disturbi fisici o altri disturbi mentali: 1) Funzionamento intellettivo generale significativamente sotto la media (quindi presenza di un Quoziente Intellettivo (Q.I.) di 70 o inferiore a 70, ottenuto con un test somministrato individualmente. Per i bambini molto piccoli il ritardo viene espresso in termini di Quoziente di Sviluppo (Q.S.). 2) Deficit significativi o inadeguatezza nel funzionamento adattivo (cioè incapacità del soggetto di adattarsi all'ambiente) 3) Esordio della patologia prima dell'età di 18 anni Classificazioni Della Insufficienza Mentale La più antica definizione distingueva i frenastenici in "idioti" (suddivisi in tre gradi a seconda dell'assenza più o meno completa della parola) e "imbecilli" (senza capacità di scrittura). In seguito fu introdotta la debolezza mentale. Binet e Simon elaborarono una scala per misurare l'intelligenza e, attraverso un esame consistente nella somministrazione di batterie di test di livello di sviluppo intellettivo e di efficienza, si stabiliva l'età mentale del soggetto in funzione del superamento delle prove differenziate a seconda dell'età cronologica e sulla base del numero di risposte valide e non. Poi si scoprì che confrontando due pazienti con una uguale età mentale il ritardo aveva effetti più gravi nel paziente con età cronologica minore. Quindi, più il paziente è piccolo, più il suo ritardo dal punto di vista diagnostico è grave. (Per esempio il ritardo di 2 anni sui 12 anni è ben più lieve che lo stesso ritardo sui 4 anni) Misurazione del Quoziente Intellettivo Età Mentale (E.M.) Q.I. = ---------------------------- x 100 Età Cronologica (E.C.) Oltre a un deficit nel funzionamento intellettivo, il quadro clinico di ritardo mentale coinvolge anche un deficit del funzionamento adattivo che concerne l'efficienza del soggetto in aree come le attività sociali, la comunicazione e le attività della vita quotidiana. Esistono delle scale per quantificare il funzionamento o il comportamento adattivo (per esempio le Scale Vineland per il comportamento adattivo). I GRADI DI GRAVITÀ DEL RITARDO MENTALE In rapporto al Q.I. del soggetto si considerano 4 gradi di gravità: GRADO DI GRAVITÀ Lieve.................. Moderato............... Grave.................. Gravissimo............ Q.I. da 50-55 da 35-40 da 25-20 inferiore a circa 70 a 50-55 a 35-50 a 20-25 Ritardo mentale lieve In questo gruppo rientra la maggior parte dei soggetti con ritardo mentale, cioè circa l'85%. Il ritardo è difficilmente evidenziabile nei primi anni di vita, in quanto, essi hanno menomazioni minime nelle aree senso-motorie e quindi, spesso fino ad una certa età non si distinguono dai bambini normodotati. In questi soggetti lo sviluppo di capacità sociali e di comunicazione è possibile negli anni pre-scolari (0 a 5 anni). Il periodo iniziale in cui si nota il problema è quello dell'inserimento nella frequenza scolastica, quando possono sopraggiungere difficoltà nell'apprendimento. Fino all'età di circa vent'anni i soggetti affetti dalla patologia necessitano di un sostegno nell'adattamento scolastico e sociale. Durante la vita adulta possono arrivare ad avere capacità sociali e professionali adeguate per un minimo di autosostentamento necessitando talvolta di guida e assistenza, specie se sottoposti a situazioni di stress. Ritardo mentale moderato A questo gruppo appartiene il 10% dei soggetti con ritardo mentale. I soggetti con questo livello di ritardo mentale possono imparare a comunicare negli anni pre-scolari, e sono in grado di prendersi cura di se stessi. Possono essere addestrati alle attività professionali e sociali, ma è improbabile che progrediscano oltre il livello della terza elementare nelle materie scolastiche non essendo in grado di seguire corsi completi di apprendimento scolastico. A scuola, inoltre, viene evidenziato lo sviluppo disarmonico delle discipline (possono per esempio acquisire maggiori competenze in campo matematico che in quello linguistico). Possono imparare a spostarsi autonomamente in luoghi familiari. Durante l'adolescenza la loro difficoltà nel rispettare le convenzioni sociali può interferire nella relazione tra coetanei. Nell'età adulta possono essere in grado di contribuire al proprio sostentamento eseguendo lavori semplici sotto stretta supervisione. Ritardo Mentale Grave Questo gruppo è costituito dal 3-4% dei soggetti con ritardo mentale. Durante il periodo pre-scolare mostrano uno sviluppo motorio deficitario e acquisiscono poche o nulle capacità comunicative. I livelli del linguaggio sono minimi o assenti, presenta l'olofrase tipica del periodo sensomotorio. Possono usufruire solo limitatamente dell'istruzione nelle materie pre-scolastiche; le capacità di apprendimento scolastico infatti si limitano a qualche sporadica nozione elementare come la conoscenza dell'alfabeto, qualche semplice operazione o la lettura a vista di alcune parole fondamentali. Nella vita adulta possono riuscire a svolgere semplici compiti se assistiti. Ritardo Mentale Gravissimo Di questo gruppo fa parte l' 1-2% dei soggetti con ritardo mentale. Durante i primi anni di vita questi bambini mostrano minime capacità di funzionamento senso-motorio. L'unica azione educativa possibile è l'addestramento inteso come "ripetizione di atteggiamenti e di situazioni imposti da altri in vista dell'acquisto di automatismi di comportamento nell'ordine fisico, sociale, scolastico, professionale" (Mathis). L'addestramento e la precoce e costante assistenza individualizzata di un terapeuta è indispensabile per il miglioramento dello sviluppo motorio e per l'acquisizione della capacità di auto-accudimento e di comunicazione. La necessità di sostegno è, dunque, pervasiva e occupa tutta la durata della vita e deve essere continua. CAUSE DEL RITARDO MENTALE All'esame clinico (TAC o Risonanza Magnetica Nucleare) può non apparire nessuna lesione organica evidente. Il ritardo mentale non è necessariamente associato a disfunzioni motorie; a volte coesistono deficit motori e psichici nello stesso soggetto, ma in molti altri casi si riscontrano solo disfunzioni di natura psichica o viceversa solo motorie. Tali disfunzioni però inevitabilmente influenzano anche la crescita psichica. I principali fattori causali sono: fattori ereditari (in circa il 5% dei casi) come errori congeniti di metabolismo, alterazioni di singoli geni o aberrazioni cromosomiche; alterazioni precoci dello sviluppo embrionale come mutazioni cromosomiche, danno prenatale dovuto a tossine (ad esempio alcoolismo materno, infezioni) o a cause sconosciute; problemi gravidici e perinatali (in circa il 10% dei casi) come la malnutrizione fetale, la prematurità, l'ipossia o traumi; disturbi fisici acquisiti nella fanciullezza (in circa il 5% ) come infezioni, traumi…; influenze ambientali e disturbi mentali (in circa il 15-20% dei casi) come deprivazioni nutritive e di stimoli sociali e verbali; disturbi del comportamento (aggressività) dovuti all'incapacità di recepire certi stimoli ed elaborare risposte adeguate; o come complicanze di disturbi mentali gravi. ALLIEVO CON RITARDO MENTALE Il ritardo mentale è una condizione di incompleto o interrotto sviluppo psichico caratterizzato dalla compromissione delle abilità cognitive, linguistiche motorie e sociali. Peculiarità Ragionamenti infantili Ragionamento che si arena e non evolve. Inhelder ha illustrato questa caratteristica che possiede una modalità di ragionamento che si fonda su un rallentamento dei passaggi mentali, in una stagnazione ed oscillazione tra il pensiero superiore ed inferiore Comportamento immaturo Limitate abilità sociali Necessità di essere supportato da una presenza educativa costante Mostra stereotipie e perseverazioni È lento nell’apprendimento Attenzione molto labile Il ritardo mentale è una caratteristica comune a molte sindromi quali: sindrome Down. L’allievo in classe Gli Educatori si trovano impreparati di fronte ad un allievo con ritardo mentale perché questi soggetti presentano insufficienze sul piano del funzionamento adattivo, non riescono, cioè, a far fronte alle esigenze comuni della vita. Problemi di adattamento È difficile impostare un progetto educativo-didattico con un allievo rigido sul piano cognitivo che non comprende il proprio ruolo all’interno di un gruppo di pari. L’errore che commette l'Educatore, è quello di pensare che questi soggetti hanno sempre difficoltà di linguaggio e di autonomia personale. Non per tutti è così. L’allievo con ritardo mentale per poter dare il meglio di sé deve vivere esperienze scolastiche impostate sulla serenità e sul benessere personale, deve sentirsi a proprio agio all’interno del gruppo classe. Chiunque si sente giudicato negativamente è meno disponibile ad accettare le proposte didattiche e sente il bisogno di definire la propria persona adottando atteggiamenti che le consentono di far fronte ai pericoli, evitando l’impegno scolastico o facendo finta di parteciparvi attivamente. RUBENZER afferma che i fattori che possono compromettere il benessere dell’allievo con problemi nella realtà scolastica sono: l’insensibilità dei compagni che trattano il soggetto come persona incapace di raggiungere i risultati; il disorientamento personale nell’autopercezione di sé l’allievo con ritardo mentale, in alcune attività può raggiungere risultati positivi (sport attività manuali…), in altre soprattutto quelle cognitive (lettura, scrittura…) può non riuscire ad ottenere risultati positivi. Queste prestazioni differenti possono negativamente sulla sua ricerca di identità; confondere l’allievo ed incidere la dipendenza dall’insegnante di sostegno per i compiti più difficili; il fatto che per alcune attività sia costretto a seguire piani formativi individualizzati; titubanza nel chiedere spiegazioni all’insegnante per paura di andare incontro a nuove frustrazioni. Bisogna, dunque stare molto attenti, in quanto l’allievo con problemi, avendo meno strumenti per comprendere il mondo, rischia di assumere un atteggiamento di “difesa” che può precludere l’apertura nei confronti degli altri. Quindi è importante CREARE UN CLIMA DI CLASSE POSITIVO. Adottare compiti differenziati per tutta la classe, non solo per l’allievo diversabile. Importante che l’insegnante di sostegno diventi insegnante di tutti e che l’insegnante titolare diventi insegnante del soggetto certificato. OCCORRE CREDERE NELLE SUE POTENZIALITÀ ALLIEVO CON RITARDO MENTALE LIEVE Peculiarità Se ben guidato può raggiungere livello di autonomia avanzato Le abilità intellettive non gli precludono di acquisire importanti competenze scolastiche Comportamento rimane spesso immaturo rispetto alla sua età Pensiero astratto debole Se introdotto in un ambiente accogliente e attento ai suoi bisogni relazionali, riesce ad attivarsi con tutte le energie disponibili L’allievo in classe Richiede un’attenzione costante. È necessario incrementare il bisogno di competenza, per incrementare il livello di autostima. L’allievo con ritardo mentale lieve si rende conto di non essere all’altezza della situazione, sa che è meno abile nell’affrontare le attività didattiche, occorre perciò evitare ulteriori frustrazioni, dandogli fiducia in se stesso. ATKINSON afferma che l’individuo se non può lottare per il successo perché al di là delle forze a disposizione, tenderà a combattere per evitare il fallimento. Egli pur possedendo le potenzialità per conseguire gli obiettivi prefissati, è condizionato dalla scarsa fiducia in se stesso e cerca di “difendersi” cercando di evitare l’eventuale esito negativo dell’attività proposta, attraverso atteggiamenti rinunciatari, distratti, assenti. Altri fattori possono essere: Atteggiamento ostile dei compagni Vergogna di sentirsi “diverso” Incapacità o insensibilità degli insegnanti di capire i suoi bisogni Il non avere come obiettivo prioritario l’autonomia personale, comportamentale dell’allievo, perché si predilige quello didattico È importante, quindi, creare un clima di classe ed un ambiente educativo positivo in cui il soggetto si senta accolto e valorizzato. A tale proposito sono molto importanti il LAVORO COOPERATIVO e la metodologia della PEER EDUCATION (Educazione tra pari). È utile chiarire sempre gli obiettivi di un’attività, è inoltre di fondamentale importanza trasmettere al diversabile e a tutti che esistono tra gli uomini differenze e specificità che rappresentano la vera ricchezza dell’umanità. I compiti differenziati fanno dunque, parte di un progetto che riguarda le differenze individuali ed i bisogni di ognuno. LO SCHEMA CORPOREO Il concetto di schema corporeo è un concetto importante nello sviluppo di un individuo e nell'organizzarsi del suo agire, ma è anche un concetto ambiguo che, nel corso del tempo, ha dato il via a vari significati fino al punto che oggi con difficoltà riesce ad essere racchiuso in un'unica definizione. Alla fine dell'ottocento alcuni autori propongono la teoria che lo schema unitario del nostro corpo si genera a partire da varie sensazioni cenestesiche e di altro genere. Ma questo schema può essere alterato in particolari condizioni patologiche come l'arto fantasma. I neurologi tentarono di individuare quale delle sensazioni, tattile, visiva o cenestesica fosse maggiormente implicata nella costruzione di questa immagine; ma i tentativi di spiegare le patologie erano tutti falliti, dando ragione a chi sosteneva che nei disturbi esistevano anche problematiche di natura psicologica. Si consolidarono, allora, due schieramenti: uno che sottolineava l'importanza delle sensazioni cenestesiche e propriocettive, l'altro invece delle funzioni visive. Nel primo caso si arrivò alla formulazione di schema corporeo; nel secondo, a quella più complessa di immagine corporea. Lo schema corporeo risulta, dunque, una costruzione dinamica che si basa su acquisizioni di ordine sensomotorio, spaziale e temporale. Una ulteriore elaborazione del concetto di schema corporeo avvenne con la teorizzazione di Paul Ferdinand Shilder che tentò di superare la divisione soma-psiche offrendo una visione più globale secondo la quale lo schema corporeo è rappresentazione, percezione, sensazione e anche altro. Dunque, lo schema corporeo non è solo il risultato di sensazioni e percezioni, ma anche una costruzione che il soggetto si fa attraverso la rappresentazione che ha del proprio corpo. È un concetto che precorre i tempi e preannuncia cambiamenti nelle teorie della conoscenza scientifica, come si può osservare da quanto accade negli anni 60- 70. In questo periodo il concetto di schema corporeo entra a far parte come asse portante di una nuova disciplina: la psicomotricità. Attraverso di essa entrerà nel sapere e nel linguaggio universale. Tutti gli autori che si sono posti come fondatori di questa disciplina, sia nei suoi aspetti educativi che riabilitativi, hanno posto lo schema corporeo come punto fondamentale della loro teoria e della loro prassi, accompagnando le loro definizioni con esercizi, metodologie e pratiche. Julian de Ajuriaguerra (1973), definisce lo schema corporeo come: “Rappresentazione costante e più o meno chiara del proprio corpo fermo in una posizione spaziale o in movimento… lo schema corporeo non è una nozione, ma una pratica che si evolve mediante l'esplorazione e l'imitazione”. Per questo autore lo schema corporeo si costruisce attraverso un processo cognitivoaffettivo-esperienziale che deriva dalla integrazione dei dati sensoriali ed affettivi e dalla localizzazione delle posture e degli spostamenti nello spazio. J. Piaget (1945), affrontò il problema dal punto di vista psicogenetico: il bambino alla nascita possiede dei meccanismi riflessi automatici che determinano un comportamento istintivo ed innato. Il movimento scatenato è inizialmente afinalistico, poi, col ripetersi di questi meccanismi riflessi si iniziano ad impostare i primi schemi motori che il bambino assimila e tende a ripetere al fine di ottenere le sensazioni già provate. Ma già in questa seconda tappa il bambino comincia a rispondere agli stimoli secondo un suo peculiare modo di essere; così inizia a formarsi una rappresentazione corporea personale. Per J. Le Boulch (1983), lo schema corporeo non è solo una percezione del proprio corpo, ma una rappresentazione costante che si costruisce attraverso esperienze, passate o presenti, di tipo posturale, visivo, cinestesico che è perennemente condizionata da esperienze affettive. Evoluzione dello Schema Corporeo Dal lato psicologico lo schema corporeo si va strutturando nella mente del bambino come il più arcaico fondamento del Sé e si acquisisce lentamente, per tramite della mediazione materna. Tutte le principali teorie, ad orientamento psicoanalitico e non, riconoscono come fatto inconfutabile che il Sé, all'origine, è fatto esclusivamente di esperienze corporee. Ma come si giunge, a partire da investimenti emotivi elementari su singole parti del corpo, dapprima spezzettate e poi sempre più unite e articolate, alla coscienza del Sé? Ester Bick sostiene che "quando il bambino riesce ad individuare la propria pelle indipendente da quella della madre, comincia a poco a poco ad individuare pure un proprio corpo distinto dal materno ed un proprio Sé dentro a una sua pelle psichica”. I PREREQUISITI FUNZIONALI che incidono sull'evoluzione dello schema corporeo sono: * equilibrio e controllo posturale; * strutturazione e controllo della lateralità dominante; * educazione e controllo della respirazione; * educazione al rilassamento globale ed intersegmentario; * coordinazione dinamica generale ed intersegmentaria. L'iter evolutivo dello schema corporeo inizia dalla nascita fino ai 12 anni circa, quando cioè il ragazzo conosce tutte le parti del proprio corpo, le sa utilizzare, le sa immaginare anche in movimento. Solo attraverso il movimento il bambino riesce, gradualmente, ad arricchire e ad affinare lo schema corporeo. Le fasi della strutturazione dello schema corporeo L'organizzazione dello schema corporeo inizia a partire dal corpo della madre e dal proprio corpo che uniti nel periodo della gravidanza, alla nascita si presentano separati e saranno percepiti così dal bambino non subito ma dopo un periodo di iniziale indifferenziazione. Gli stimoli ambientali sono colti inizialmente per mezzo dello stretto contatto con l'adulto e la madre in particolare, e in seguito tramite l'adulto in movimento nello spazio. La possibilità di sentirsi come entità corporea, la coscienza delle percezioni, la possibilità di agire intenzionalmente è imprescindibile dal potersi percepire differenziato dall'ambiente. Secondo le teorie di J. Ajuriaguerra (1973), e H. Wallon (1931), la strutturazione dello schema corporeo avviene nei tre stadi di: corpo vissuto, corpo percepito corpo rappresentato. J. Le Boulch (1983), vi aggiunge lo stadio di corpo subìto che pone nei primissimi mesi di vita a partire dalla nascita. Gli stadi della strutturazione dello schema corporeo STADI ETÀ SCHEMA CORPOREO Corpo Subìto ATTIVITÀ Automatismi innati: 1° 0-3 mesi 2° 3-36 mesi Corpo Vissuto Motricità volontaria 3-6 anni Strutturazione percettiva Coscienza del proprio corpo 3° 4° 1. riflessi arcaici (Narcisismo Primario) 2. automatismi relativi ai bisogni Corpo Percepito 1) Immagine sintetica del corpo 2) Rappresentazione decentrata 6-14 anni Corpo Rappresentato 3) Rappresentazione mentale Corpo subìto (0-3 mesi) Il bambino dipende totalmente dalla madre, il suo “Io” non si differenzia ancora dal “non Io”. Ogni sua attività è dovuta agli automatismi primitivi innati, quelli legati ai bisogni primari della respirazione e della suzione, e ai riflessi arcaici. Corpo vissuto (3 mesi-3 anni) Ricopre un aspetto SENSOMOTORIO dello schema corporeo. É la coscienza del proprio corpo in quanto strumento di esplorazione e conoscenza del mondo e per l'acquisizione delle prassie elementari. Attraverso l'esplorazione del proprio corpo e di quello della madre inizia il processo di differenziazione tra sé e l'altro. I riflessi arcaici dal secondo al sesto mese sono tutti scomparsi. Prima con il lancio degli oggetti nello spazio (8 mesi), poi con l'uso strumentale dell'adulto (10-12 mesi), poi con la deambulazione autonoma (12-15 mesi), si forma la coscienza del proprio corpo come strumento di esplorazione e conoscenza del mondo. Vi è un impegno globale della motricità e una percezione del corpo legata all'azione. In questo periodo il bambino acquisisce le posture fondamentali (supina, prona, seduta, carponi, in ginocchio, eretta); ha una conoscenza del corpo relativa alle parti più elementari (testa, occhi, naso, bocca, orecchie, capelli, braccia, pancia, glutei, gambe). Comincia a configurarsi un “Io” attraverso l'imitazione dell'adulto. Corpo percepito (3-6/7 anni) Ricopre un aspetto PRE-OPERATORIO dello schema corporeo. Comincia l'organizzazione delle percezioni, cioè di tutti quei processi mediante i quali il bambino trae informazioni dal mondo circostante e ne prende coscienza. Nel periodo precedente la percezione era rivolta principalmente verso il mondo esterno (guardare, toccare, sentire); in questo periodo la percezione si rivolge verso il proprio corpo, il bambino è capace di portare la propria attenzione sulle singole parti del proprio corpo oltre che sulla totalità di esso e ciò dipende dalla interiorizzazione che è un momento di presa di coscienza dell' Io. Nell'attività motoria emerge un maggior controllo posturale e tonico e un affinamento della attività prassica. Grazie poi all'affermarsi della dominanza, lo spazio viene organizzato in modo migliore. In questo periodo il bambino acquisisce una conoscenza di parti del corpo più complesse (articolazioni, organi interni); una coscienza dell'orientamento del corpo nello spazio; un più preciso apprezzamento delle durate temporali. Corpo rappresentato (6/7-11/12 anni) Ricopre l'aspetto OPERATORIO dello schema corporeo. Lo schema corporeo è completo dal punto di vista statico. Il bambino ha la percezione della tridimensionalità del corpo, della successione dei suoi gesti, movimenti, spostamenti. Il corpo è punto di riferimento per l'orientamento e la strutturazione spaziale. Percezione tridimensionale: all'altezza e alla larghezza si aggiunge la percezione della profondità. Il bambino passa ad una rappresentazione mentale di tipo dinamico del suo corpo. Compare lo schema d‘azione, che rappresenta l‘aspetto dinamico dello schema corporeo, e dovrà tenere conto delle coordinate spazio-temporali. Mentre finora la motricità era stata pre-operazionale, ora la capacità di rappresentare il corpo in movimento consente al bambino di pensare l'azione prima di eseguirla. Grazie ad una maggiore percezione e memorizzazione dei dati temporali è consapevole della successione dei gesti, movimenti e spostamenti, ed è proprio la consapevolezza della successione che permette la rappresentazione mentale del corpo in movimento. Interiorizza questa immagine e i movimenti diventano più coordinati e fini. È in grado di staccarsi dall'azione concreta e di rappresentarla anche attraverso la rappresentazione grafica e verbalmente. In questo periodo il bambino giunge ad individuare la destra e la sinistra sull'altro e a proiettare questi rapporti di destra e sinistra rispetto agli oggetti e nell'orientamento spaziale in genere (lateralizzazione). Come abbiamo detto, l’acquisizione di tale schema corporeo, quando non intervengono ostacoli, avviene durante la crescita in una età che va dagli zero ai 12-14 anni. Tale processo avviene naturalmente attraverso l'acquisizione di alcun fattori "di strutturazione dello schema corporeo”. Essi sono: strutturazione spazio temporale; equilibrio (statico, statico-dinamico e dinamico); definizione e coordinazione della lateralità; educazione e controllo della respirazione; controllo del tono e rilassamento psicosomatico; la coordinazione senso – motoria. La strutturazione spazio temporale Le nozioni di dentro e fuori; sopra e sotto; destra e sinistra; avanti e dietro; la distanza; la profondità; la lunghezza… Sono dati che non sono pre-esistenti nel cervello del bambino. Tutte queste nozioni spaziali vengono dapprima apprese dal bambino sul proprio corpo, poi vengono riferite allo spazio circostante per poi essere proiettate sugli altri. Al pari delle nozioni spaziali, espressioni come: “Il tempo impiegato a….. “ , il tempo necessario per….”, “quanto tempo ci vuole per …”, domani , dopodomani, ieri , l’altro ieri …., sono nozioni temporali che devono essere apprese dal bambino rispettando i tempi di maturazione fisiologica del suo sistema nervoso. Equilibrio L’equilibrio, a scopo didattico, va diviso in: 1) EQUILIBRIO STATICO: in esso non vi è uno spostamento del baricentro. Esso è frutto di un intenso lavoro degli apparati muscolari e di una miriade di informazioni sensoriali: visive, tattili, uditive e propriocettive (sensibilità che ci permette di sentire il movimento di un braccio o di una gamba, anche quando gli occhi sono chiusi) che giungendo al cervello e agendo sui muscoli posturali danno luogo ad un ottimale ricerca della verticalità. Nella fascia d’età dai 5 ai 6 anni i bambini mancano di un buon tono di postura per cui gli riesce difficile questa forma di equilibrio. 2) EQUILIBRIO DINAMICO: vi è spostamento del baricentro. Ecco perché quando si è bambini si è particolarmente predisposti ad apprendere gli esercizi di equilibrio dinamico (sciare, pattinare ecc.) 3) EQUILIBRIO STATICO/DINAMICO si richiede quando il bambino deve affrontare situazioni che richiedono entrambi gli aspetti dell'equilibrio per esempio camminare con un bicchiere d’acqua sulla testa o andare in bicicletta. L’equilibrio va sviluppato e consolidato precocemente soprattutto per due motivi: gli esercizi di equilibrio statico e statico-dinamico consentono una migliore ricerca dell’aggiustamento posturale prevenendo e correggendo eventuali atteggiamenti posturali; fra tutti i fattori psicomotori, questo é l'aspetto che più si può allenare in questo arco di età. Le capacità di "equilibramento" migliorano rapidamente già a partire dai primi anni dell’età scolare per raggiungere il tetto verso gli 11-12 anni e registrare in seguito solo limitatissimi progressi. Lateralità e lateralizzazione Nell'evoluzione dello schema corporeo è integrata la lateralità che è anche connessa con l'organizzazione spazio-temporale. Con il termine LATERALITÀ, secondo diversi autori, ci si riferisce sia alla conoscenza dei lati destro e sinistro del corpo che all'uso abituale e privilegiato di un emicorpo rispetto all'altro. Il termine lateralità comprende anche l'aspetto della DOMINANZA emisferica corticale che riguarda l'organizzazione emisferica cerebrale: uno dei due emisferi risulterebbe dominante rispetto all'altro e in esso si organizzerebbero prevalentemente funzioni gnosiche, prassiche e del linguaggio. Ma più che di dominanza si preferisce parlare di prevalenza funzionale di un emisfero. Per lateralità dunque, intendiamo l'uso abituale di un occhio, una mano, un piede posti su uno stesso lato del corpo. La lateralità si organizza fin dai primi mesi di vita e si conclude intorno ai 6-8 anni. La coscienza da parte del bambino di essere costituito da due parti simmetriche e di preferire una di esse è parte fondamentale dello schema corporeo. Per LATERALIZZAZIONE s'intende sia il processo attraverso cui si sviluppa la lateralità sia la capacità di individuare la destra e la sinistra sul corpo dell'altro e di proiettare questi rapporti rispetto agli oggetti e allo spazio in generale. E questo è imprescindibile per un completo e corretto sviluppo psicomotorio. Qualora questo sviluppo risulti distorto o incompleto, ne risente l'orientamento e il movimento nello spazio, il linguaggio, la scrittura, la lettura, il disegno. Non si può concludere senza un accenno all' organizzazione spazio-temporale poiché questa dipende dalla conoscenza del proprio corpo, dalla capacità di rappresentazione mentale, dall'organizzazione della senso-motricità, dalla evoluzione psicomotoria ed affettiva del bambino. Il movimento è sempre in uno spazio e in un tempo, ed è in relazione con le leggi fisiche del nostro pianeta, in special modo con la forza di gravità. Per arrivare a rappresentare situazioni spaziali, il bambino deve aver concluso il processo di lateralizzazione ed essere capace di proiettare destra e sinistra sull'altro e nello spazio in genere. Lo spazio esterno dal punto di vista dello schema corporeo e del vissuto sarà visto come distanza e direzione tra sé e gli oggetti del mondo. Infatti il bambino struttura un primissimo abbozzo di schema corporeo nei primi mesi di vita quando si apre al mondo esterno nella relazione con la madre. Sempre in questo periodo sperimenterà che tra desideri e soddisfazione intercorre un tempo (intervalli, ritmi di tempo) che viene percepito come successione di esperienze. Il grafico che segue, offre un quadro riassuntivo della conquista dello schema corporeo col crescere dell'età. Come si può notare, è solo intorno ai cinque anni che la conoscenza delle varie parti e la loro composizione in struttura unitaria rappresentante un corpo si consolida nella mente. Educazione e controllo della respirazione A 5-6 anni il bambino ancora non ha una buona presa di coscienza dell'atto respiratorio, non è quindi in grado di eseguire correttamente sia volontariamente o naturalmente una buona esecuzione della respirazione. Respirazione che noi, didatticamente dividiamo in 4 fasi: inspirazione, pausa o apnea inspiratoria, espirazione, pausa o apnea espiratoria. A questa età assumono , molta importanza le fasi dell’espirazione legata alla fonazione e la pausa inspiratoria cui è legata l’attenzione. La coordinazione senso- motoria La coordinazione senso-motoria rappresenta la risposta motoria volontaria ad uno stimolo sensoriale. Essa può riguardare: gli arti superiori ed è, quindi, detta OCULO MANUALE che a sua volta può essere: 1) ideo- motoria cioè il lanciare un oggetto verso un bersaglio, come per esempio nel tiro libero; 2) senso- motoria quando nella ricezione l’occhio percepisce la traiettoria e le mani si spostano per anticipare la ricezione; 3) senso-ideo-motoria quando nel colpire, la ricezione ed il lancio coincidono (come nel tennis, pallavolo ecc) gli arti inferiori ed è, quindi, detta OCULO PODALICA e si ha quando c’è sincronia tra gli occhi e i piedi in una azione motoria come per esempio nello stop del corpo su una linea o anche nell’approccio ad un ostacolo, che può essere sia uno scalino, nella vita di tutti in giorni, o un ostacolo nello sport nella corsa dei 100 m ostacoli o nel salto in alto. il corpo nel suo insieme può riguardare, quindi, gli spostamenti globali del corpo ed in questo caso prende il nome di: COORDINAZIONE SENSO MOTORIA DINAMICA che si ha quando nel ricevere, nel colpire o in entrambi i casi si ha uno spostamento globale del corpo. I DISTURBI DELLO SCHEMA CORPOREO Russo individua diversi disturbi dello schema corporeo ponendoli all'interno di tre gruppi principali: 1) disturbi dello schema corporeo propriamente detto; 2) disturbi della coscienza corporea; 3) disturbi del vissuto corporeo. 1) Nel primo gruppo una causa è la CARENZA DI AFFERENZE (carenza degli impulsi che giungono dalla periferia i centri nervosi superiori), che si riscontra nelle Paralisi Cerebrali Infantili, per esempio, o anche nei non vedenti. Un'altra causa è rappresentata dai DEFICIT MOTORI. Poi vi troviamo i disturbi da DEFICIT DI ELABORAZIONE DELLE INFORMAZIONI che si riscontrano nelle insufficienze mentali o nei gravi ritardi psicomotori. Infine, i DISTURBI SOMATOGNOSICI SPECIFICI quali: l'agnosia digitale, che è un disturbo specifico di riconoscimento, identificazione e denominazione delle dita della mano (dopo i 7-8 anni); il disorientamento destra-sinistra (DDS) , incapacità a discriminare la destra dalla sinistra (dopo i 7-8 anni); la prosopagnosia, che è l'agnosia di fisionomie che si rivela nell'incapacità di riconoscere persone note e, nei casi più gravi, anche la propria immagine allo specchio (U.Galimberti 2003). 2) Il secondo gruppo contiene forme nelle quali vi è una percezione distorta del corpo. Sono incluse: l'arto fantasma, sensazione di possedere ancora l'arto dopo la sua amputazione o menomazione (U. Galimberti 2003); l'alloestesia, incapacità di localizzare gli stimoli cutanei che vengono percepiti (U. Galimberti 2003); le allucinazioni cenestesiche, impressioni di trasformazioni e cambiamento di volume, lunghezza e peso del proprio corpo (U. Galimberti 2003). 3) Nel terzo gruppo vi sono disturbi la cui causa è la dissociazione tra livello neuromotorio e il vissuto corporeo che comporta l'impossibilità di una reale espressione delle proprie potenzialità corporee in presenza di una normale maturità neuromotoria. Il quadro clinico può essere caratterizzato da goffaggine, disorganizzazione spazio-temporale, lateralità non acquisita, deficit di coordinazione, disprassia. Bisogna sottolineare che i disturbi dello schema corporeo sono estremamente rari da trovare isolati e che per i disturbi della coscienza, il più delle volte occorre un trattamento psicoterapeutico. CHE COSA COMPORTANO TALI DISTURBI Possono determinarsi difficoltà percettive, motorie e relazionali: un soggetto che percepisce in maniera distorta il proprio corpo sarà anche incapace di percepire correttamente gli oggetti; e se non è capace di usare i rapporti spazio-temporali correttamente su di sé, sarà anche incapace di stabilire corrette relazioni spaziali e temporali tra sé e il mondo. Ne risente il piano dell'apprendimento. Infatti, la lettura e la scrittura esigono oltre ad una buona coordinazione occhio-mano e capacità di comprensione, anche un preciso orientamento del tempo e dello spazio: le parole si distribuiscono sul rigo con una successione precisa, con orientamento sinistra-destra, e con un certo ritmo. Anche i processi di apprendimento di numero e di calcolo sono condizionati dai disturbi dello schema corporeo dal momento che i primissimi concetti di numero sono legati proprio al corpo: un bambino apprende che ha due occhi, due mani, molte dita, etc. Sul piano motorio si manifestano goffaggine, disturbi della coordinazione e imprecisione dei movimenti che condizionano la formazione degli schemi motori. Tutto ciò produce in un soggetto frustrazione ed insicurezza che possono dar luogo ad inibizione, sentimenti di scarsa autostima o anche ad aggressività. E non è raro trovare bambini che negano la malattia divenendo oppositivi e mal disposti a qualsiasi forma di manipolazione della parte malata o all'uso di quella parte, tanto nelle attività della vita quotidiana, quanto nelle consegne date in ambito terapeutico. I disegni delle figure 3-1 e 3-2, eseguiti da un paziente di 7 anni con emiplegia dx, in cura presso il Centro di Riabilitazione “Antoniano” di Ercolano (Na), dimostrano chiaramente quanto detto in precedenza: nel disegno 3-1 il bambino nel rappresentare se stesso nell'atto di arrampicarsi tra due alberi, omette completamente di disegnare gli arti dell'emicorpo plegico; nel disegno 3-2, eseguito alcuni mesi più tardi, gli arti dell'emicorpo malato sono rappresentati ma persiste una significativa sproporzione con l'emilato sano. Figura 3-1 Omissione degli arti dell'emicorpo plegico. Figura 3-2 Sproporzione degli arti nei due emicorpi LA FUNZIONE DEL GIOCO NELLA VITA PSICOFISICA Il gioco rappresenta un esercizio fondamentale nella strutturazione della personalità, specialmente di quella in età evolutiva. Nel linguaggio corrente la parola "gioco" indica un'attività, gratuita più o meno fittizia che procura un piacere di tipo particolare. Il gioco, in una forma molto semplice, compare verso la fine del primo anno e accompagna l’individuo per tutta la vita. Durante l’infanzia, il gioco svolge molteplici ruoli: gioia, libertà, riposo, fantasia e attraverso di esso, il bambino si rapporta con la realtà. Dal punto di vista psicologico, il gioco impegna la memoria, l’attenzione e aiuta il bambino a comprendere e a fare proprio l’ambiente che lo circonda attraverso le esperienze; aiuta a scaricare le emozioni, le tensioni e a porsi in una posizione attiva in quelle situazioni della realtà, in cui non lo è. Una carenza di attività ludica denuncia, nel bambino, gravi carenze a livello cognitivo. J. Piaget (1937-1945) mette in correlazione lo sviluppo del gioco con quello mentale, affermando che il gioco è lo strumento primario per lo studio del processo cognitivo del bambino. Piaget, infatti, parte dalla convinzione che il gioco sia la "più spontanea abitudine del pensiero infantile". Egli, come abbiamo avuto modo d parlare, afferma che lo sviluppo intellettivo del fanciullo passa attraverso due processi: uno detto assimilazione e l'altro accomodamento. Processo di assimilazione = L'assimilazione è un processo per cui un elemento proveniente dall'ambiente esterno viene inserito in schemi mentali già preesistenti, senza che l'esperienza cambi tali schemi. Ad esempio un bambino piccolo avrà imparato a battere un bastoncino sul tavolo o su altre superfici, batterà allo stesso modo qualsiasi oggetto che si troverà in mano. Ogni oggetto viene inserito nello schema "battere ritmicamente". Processo di accomodameno = L'accomodamento è un processo in cui i dati della nuova esperienza modificano gli schemi già posseduti. Il bambino che ha imparato a battere ritmicamente un oggetto, avendo a disposizione una pallina può inserirla nello schema "battere ritmicamente", poi scoprirà che può rotolare, creando una nuova categoria "oggetti che rotolano". Secondo Piaget si possono individuare tre stadi di sviluppo del comportamento ludico: 1) giochi di esercizio = I giochi di esercizio prevalgono nel primo anno di vita, nella fase cosiddetta "senso-motoria": il bambino, attraverso l'afferrare, il dondolare, il portare alla bocca gli oggetti, l'aprire e chiudere le mani o gli occhi, impara a controllare i movimenti e a coordinare i gesti. Il piacere che deriva da questi giochi, prevalentemente legato alle esperienze sensoriali e motorie che il bambino stesso può provocare, spinge il bambino a ripeterli più volte. La fase di assimilazione, in questo periodo, prevale su quella di accomodamento: le nuove esperienze, infatti, vengono adeguate agli schemi mentali del bambino. Ecco che si parla quindi di "gioco sensomotorio". 2) giochi simbolici = È il comportamento ludico infantile caratterizzato da finzione: il gioco di finzione è un’esperienza di crescita autentica e imprescindibile. Viene chiamato "simbolico" perché è caratterizzato da un processo di significazione indiretta, tipico di tutte le manifestazioni simboliche: qualcosa viene utilizzato per significare, rappresentare qualcos'altro. In particolare, nel gioco simbolico un elemento fisicamente presente viene utilizzato per rappresentare un elemento assente ma evocato mentalmente. Ciò che è importante sottolineare è il fatto che il bambino è consapevole di fingere, di mettere in scena una realtà immaginata: è il suo modo, naturale e spontaneo, di "possedere" le regole del mondo. 3) giochi con regole = I giochi con regole li troviamo nel periodo dai sette agli undici anni, nella fase detta "sociale", in cui il bambino comincia a vivere il rapporto con gli altri. Questa fase è caratterizzata da una maggiore aderenza alla realtà, anche se continua a prevalere l'assimilazione sull'accomodamento. Il bambino, sperimentando la vita di gruppo, si trova di fronte a determinate "regole" che è tenuto a rispettare. Lo spirito di competizione o di cooperazione che derivano dalle relazioni interpersonali, soprattutto in ambienti quali la scuola, la palestra ecc., portano il bambino a preferire giochi che rispecchiano tale realtà, in cui, cioè, le regole vengono viste non più come imposizioni da accettare, seppur malvolentieri, ma come mezzi necessari per il buon andamento del gioco stesso. La comparsa delle regole determinano la fine del gioco infantile propriamente detto e inaugurano una fase di crescita, altamente educativa, in cui viene stimolato l'autocontrollo del bambino, la sua capacità di concentrazione, di memoria ecc. Inoltre, il gioco favorisce: lo sviluppo affettivo = Le varie modalità di gioco sono legate allo sviluppo emotivo del bambino e vanno via via modificandosi con l'età, per questo sono rivelatrici del suo equilibrio psichico. Il gioco comincia fin dai primi mesi di vita. Esso è fondamentalmente fonte di sensazioni piacevoli ed è finalizzato alla ricerca di una serie di sensazioni che gratificano e arricchiscono il SÉ che si sta strutturando mano a mano. Con l'inizio del secondo anno il bambino si trova di fronte al problema della separazione dalla madre e le conseguenti ansie d'abbandono. Il gioco può diventare espressione di questi problemi. Nell'età della fanciullezza i giochi diventano di gruppo e con regole, questo permette al bambino di sperimentare lo stare con gli altri attraverso giochi strutturati, le regole diventano funzionali ad un miglior funzionamento del gioco. lo sviluppo cognitivo = vedi processo di assimilazione e accomodamento lo sviluppo sociale = Dal punto di vista sociale il gioco passa attraverso vari stadi: gioco solitario: tipico dei bambini più piccoli (pochi mesi di vita) che non si pongono in una condizione di reciprocità con gli altri. Non c'è interazione sociale. gioco parallelo: si verifica tra il primo e il terzo anno di vita: i bambini si aiutano reciprocamente ma si tratta essenzialmente ancora di un gioco individuale. gioco sociale: tipico dei bambini intorno ai quattro-cinque anni, età in cui comincia la fase scolastica, anche se nelle famiglie con più figli si può verificare già tra i bambini di circa due anni. C'è l'interazione sociale. COME RILEVARE LE DIFFICOLTÀ ATTRAVERSO IL GIOCO Il bambino esprime attraverso il gioco e il movimento il suo funzionamento globale. Il gioco e movimento, dunque, sono la chiave di lettura delle modalità del corpo e del suo movimento in relazione con l’altro e con gli oggetti e, pertanto, diventano validi strumenti per poter diagnosticare la presenza di problemi di vario genere. COSA OSSERVARE cosa vedo L’attenzione è orientata verso l’esterno e permette di osservare i dati oggettivi del bambino in relazione con se stesso con l’altro gli oggetti lo spazio il tempo cosa sento L’attenzione è orientata verso l’interno con l’intenzione di portare alla consapevolezza le proprie sensazioni percezioni emozioni L’OSSERVAZIONE DEL GIOCO Focalizziamo alcuni punti importanti da tenere presente e da mettere in atto, che possono esserci di aiuto: Osservare significa non soltanto registrare dei fenomeni, ma anche prendere atto delle situazioni, dei contesti, delle condizioni in cui tali fenomeni hanno luogo. Osservare con distensione, sospendere il giudizio, cercare di comprendere. Sospendere le aspettative e il giudizio: se ci mettiamo ad osservare con la mente facendo prevalere le nostre aspettative e i nostri giudizi, rischiamo di interpretare in modo distorto i comportamenti dell’altro; ad es. da un bambino generalmente aggressivo potremmo aspettarci sempre comportamenti inadeguati. Osservare quanto accade: raccogliere gli elementi per le azioni successive. Astenersi da forme immediate d’intervento: intervenire rapidamente sulla base solo di sensazioni e di movimenti istintivi, può essere rischioso e fuorviante. Ascoltare l’emozioni attivate da quanto osservato. Questo significa: a) entrare in contatto con le proprie emozioni riguardo quanto si sta osservando (es: rabbia perché il bambino sta distruggendo la classe); b) entrare in contatto con le emozioni del bambino (es: ansia) cercando di contenere e mantenere distinti i due aspetti. Evitare di essere presi da emozioni sgradevoli che bloccherebbero l’offerta di aiuto al bambino. Il gioco, offre all’osservatore una serie di conoscenze in merito a diversi aspetti, quali: L’attitudine del bambino a rapportarsi ai giochi (inibizione, eccitazione) e le modalità con cui li usa (tutti insieme, uno dopo l’altro, ecc.) La capacità di organizzare il gioco, che indica la maturazione affettiva del bambino ed il tipo di funzionamento mentale; La tematica del gioco (stereotipie, scene di aggressione, ecc.) per il suo alto valore proiettivo; La verbalizzazione che accompagna il gioco; L’abilità psicomotoria (armonia dei gesti, abilità di prensione, stabilità motoria); La tolleranza alle frustrazioni, che si può rilevare nel momento di interrompere il gioco. Nel complesso, dunque, il gioco rappresenta una modalità privilegiata per valutare il livello di sviluppo del bambino, per conoscere le caratteristiche del suo pensiero e, soprattutto, per accedere al suo mondo interno. Sul piano clinico Guillemant suggerisce quattro possibili situazioni abnormi: 1) 2) 3) 4) Riduzione o assenza del gioco (inibizione o depressione). Eccesso del gioco (nevrosi di comportamento, ipercinesia) Insufficienza o cattiva organizzazione del gioco (deficit cognitivo, ADHD) Bizzarria: cose e persone vengono utilizzate secondo un simbolismo inabituale (anomalie psicopatologiche). Una certa modalità di gioco è da assumere come indicatore di patologia solo a condizione che essa sia la più frequente e tale da escludere altre forme alternative, supponendo la mancanza di interesse e di piacere per qualsiasi altro gioco. RILEVARE LE DIFFICOLTÀ I DISORDINI DEL LINGUAGGIO Segnali di rischio per il disturbo del linguaggio: 1) Mancata acquisizione di schemi d’azione con oggetti a 12 mesi; 2) Assenza o ridotta Vocabolario ridotto: meno di 20 parole a 18 mesi e meno di 50 parole a 24 mesi; 3) Ritardo nella comparsa della combinazione tra gesto e parola; 4) Persistere presenza di gioco simbolico da 24 a 30 mesi; 5) di espressioni verbali incomprensibili dopo i 2-3 anni. GIOCO E DISORDINI DEL LINGUAGGIO DISTURBO SEMANTICO-PRAGMATICO DEL LINGUAGGIO Alcuni bambini possono avere un linguaggio sintatticamente ben formato e fonologicamente corretto, ma hanno difficoltà a seguire una conversazione o ad impegnarsi in un discorso a scopo comunicativo. Memorizzano frasi ma non le costruiscono, hanno difficoltà a comprendere i discorsi, ripetono meccanicamente ciò che sentono. Non usano frasi per relazionarsi con gli altri. Preferiscono i giochi solitari e prestabiliti, talvolta i giochi sono sempre gli stessi, possono non fare giochi di finzione anche se sono in grado di giocare come gli altri gli hanno insegnato o recitare scene dei libri. Possono recitare numeri e lettere dell’alfabeto. È un deficit linguistico e non sociale (sindrome di Asperger). Che fare: 3-5 anni: giochi di alternanza, giochi di ruolo che tengano conto di alcune regole comunicative: 1) 2) 3) 4) 5) 6) scambiarsi i turni nel dare e ascoltare istruzioni; chiedere e ascoltare le richieste; ottenere l’attenzione di qualcuno; fare domande dare risposte; dare informazioni; dire Si e No. 6-8 anni: se il bambino ha imparato modi più appropriati di comunicare con gli altri, è utile, successivamente, imparare a usare queste abilità per interagire con maggiore efficacia con gli altri bambini: 1) interpretare la comunicazione verbale e non verbale; 2) consapevolezza delle regole della conversazione; 3) abilità di inferenza e di linguaggio logico sequenziale e temporale, ecc. I DISTURBI DELLA COORDINAZIONE MOTORIA È un disordine della pianificazione ed esecuzione di azioni intenzionali, in assenza di patologie neurologiche. È un disturbo dello sviluppo. Sinonimi: goffaggine, disprassia evolutiva, disordini percetivo-motori, disordini della coordinazione, ecc. Il disordine interferisce con l’apprendimento e con le attività della vita quotidiana. La disprassia può manifestarsi come disordine delle performance di: gesti rappresentazionali (esprimono azioni significative, es: ciao); gesti non rappresentazionali (es: imitazioni di posture); sequenze gestuali (es: imburrare un pezzo di pane). Esistono due tipi di disprassia: 1) Ideativa o di pianificazione: il bambino non sa cosa fare, non è in grado di pianificare le azioni per svolgere un compito; 2) ideomotoria o esecutiva: il bambino non sa come fare, il piano generale è conservato ma sono compromesse le singole sequenze motorie, non sa come eseguirlo. Cosa è consigliato fare: Apprendere una routine con guida verbale (imparare a memoria le istruzioni); Scomporre le sequenze di un compito, fornendo al bambino dimostrazioni e guidandolo nel feedback per la valutazione degli errori; Inefficaci le attività motorie globali che oltre a non migliorare le prestazioni motorie, inducono frustrazione e ansia. LE "EMOZIONI IN GIOCO" Il bambino ansioso In situazione nuove si tiene in disparte, ritirato, apparentemente poco interessato e poco disponibile alle proposte avanzate, talora sospettoso. L’eloquio: il tono di voce può essere basso, piatto, eloquio lento, povero di contenuti, spesso costituito da risposte brevi alle domande rivolte. Qualità del rapporto: cerca continue rassicurazioni. Il gioco: presenta contenuti adeguati ma modalità di svolgimento spesso ripetitive al fine di evitare l’imprevedibile, il cambiamento. Quest’ultimo, quando proposto, ingenera timore e inibizione, aumento delle richieste di conferma e di rassicurazione. Il bambino depresso: Caratteristiche: alterazione del tono dell’umore, espressione di tristezza caratterizzata da povertà della mimica, sguardo inespressivo, rarità del sorriso, pianto per motivi futili, povertà espressiva della postura. L’eloquio: scarsa iniziativa verbale, alterazioni della prosodia. Il tono di voce può essere piatto, basso, l’eloquio lento e povero di contenuti o al contrario tono di voce alto, eloquio rapido, contenuti confusi. Il comportamento: riduzione dei livelli di attività, scarsa iniziativa, inibizione, rallentamento psicomotorio. Molto spesso le alterazioni delle attività sono caratterizzate da comportamenti ipercinetici e condotte aggressive. L’interazione sociale: tendono ad evitare le occasioni d’incontro con gli altri e, quando inseriti nell’ambito del gruppo, assumono atteggiamenti passivi o tendono ad isolarsi. Il gioco: i contenuti sono poveri di creatività e si collocano spesso ad un livello inferiore rispetto a quanto atteso per età; le proposte di cambiamento vengono accettate passivamente senza generare alcuna apparente reazione emotiva; è spesso necessario sollecitarlo perché svolga quanto avviato. In genere c’è scarso interesse per l’oggetto, ridotta partecipazione, impoverimento della creatività. Il bambino con DDAI Il DDAI è una sindrome comportamentale caratterizzata da impulsività, iperattività e inattenzione (facile distraibilità). La semplice osservazione del bambino permette di rilevare facilmente gli elementi caratterizzanti il disturbo: entra nella stanza (irruente) investe lo spazio (caotico) si rapporta all’oggetto (frenetico) aderisce alle proposte dell’adulto (superficiale) si impegna nel compito (discontinuo) resiste alle distrazioni (inadeguato) È stata sottolineata l’esistenza, nel bambino iperattivo, di un disturbo nella formazione del Sé corporeo e dei suoi confini che permette di controllare l’azione. Il DDAI comincia in genere a manifestarsi con l’inizio della deambulazione autonoma, i livelli di attività possono presentare un picco intorno ai tre anni. In età prescolare però è difficile formulare una diagnosi differenziale con altri disturbi, ciò rende necessario la formulazione di una diagnosi spesso provvisoria. Il bambino con DDAI L’eloquio: tono e velocità passano da livelli vicini a quelli normali a livelli elevati, soprattutto in concomitanza con il divieto e la frustrazione. La qualità del rapporto: la relazione si caratterizza per la sua frammentarietà: egli infatti la mantiene e la interrompe a seconda che la sua attenzione venga attratta da altri stimoli. É comunque sempre mantenuto l’interesse per la relazione. Il gioco: nelle situazioni di gioco libero, in cui c’è ampia possibilità di movimento, egli non mostra particolari difficoltà, mentre in contesti in cui si richiede il rispetto di determinate regole il bambino viene etichettato come “problematico e difficile da gestire”. Il gioco è più semplice, stereotipato, povero di significato, caratterizzato da semplici atti motori e continui cambi di interessi (Alessandri, 1992). Il corpo del bambino ipercinetico è sprovvisto di parola, la motricità sostituisce il linguaggio, è ciò che si chiama passaggio all’atto. Il sistema dell’attenzione e le funzioni esecutive La capacità di inibire alcune risposte motorie ed emotive a stimoli esterni, al fine di permettere la prosecuzione delle attività (autocontrollo), è fondamentale per l’esecuzione di qualsiasi compito. Per raggiungere un obiettivo nello studio o nel gioco, occorre essere in grado di ricordare lo scopo (retrospezione), di definire ciò che serve per raggiungere quell’obiettivo (previsione), di tenere a freno l’emozioni e di motivarsi. Nei primi sei anni di vita, le funzioni esecutive sono svolte in modo esterno: i bambini spesso parlano tra sé ad alta voce, richiamando alla mente un compito (memoria di lavoro), che inizialmente verbale, diviene ben presto non verbale. Durante la scuola primaria, i bambini imparano ad interiorizzarle, a rendere private le funzioni esecutive, tenendo per sé i propri pensieri (interiorizzazione del discorso autodiretto). Imparano a darsi istruzioni, a costruire sistemi mentali per capire le regole e adoperarle. Imparano a regolare i propri processi attentivi. Probabile disturbo prefrontale che regola l’inibizione delle risposte impulsive. Una lettura psicomotoria che viene data ai problemi di attenzione riguarda la difficoltà di investire “che io sono presente in quello che dico” J. Berges CHE FARE Le linee guida per il DDAI (2006) suggeriscono interventi di tipo psicoeducativo: modificare l’ambiente fisico e sociale al fine di modificarne il comportamento. Gli interventi sono focalizzati a garantire al bambino una maggiore struttura, maggiore attenzione e minori distrazioni. Parent training e consulenza agli insegnanti. Riassunto delle linee guida: 1) Regole chiare, 2) Istruzioni concise 3) Conseguenze positive o negative immediatamente dopo il comportamento avvenuto, 4) Strategie positive prima di utilizzare tecniche di punizione. L’intervento psicomotorio, viceversa, centra l’attenzione sul corpo, sull’investimento positivo del sé corporeo per cercare di favorire il passaggio dall’azione alla rappresentazione dell’atto, cioè al pensiero. L’aggressività nel bambino (B. Aucouturier) L’aggressione, per il bambino è il mezzo per segnalarci il suo rifiuto, è un richiamo per essere sentito, ascoltato, riconosciuto, amato, per uno stare meglio esistenziale; in fondo è una richiesta di comunicazione. L’autore individua tre forme di manifestazioni aggressive nel bambino: 1) Una forma estravertita: il bambino iper investe il mondo esterno. Lo spazio, gli oggetti, le persone sono luoghi dei suoi eccessi violenti; 2) Una forma intravertita: l’inibizione, nella quale il bambino non investe il mondo esterno. La sua motilità tonica-emozionale rimane potenziale ma è bloccata nel suo esternarsi; 3) Una forma ancora più introvertita: l’autoaggressione, durante la quale il bambino non investe il mondo esterno. 4) Aucouturier intravede, nel bambino inferiore a 8 anni, un’evoluzione delle modalità d’investimento delle manifestazioni aggressive: a) Le manifestazioni aggressive senza mediazione: riguardano il passaggio all’atto puro, il bambino ignora la specificità degli spazi, il senso di utilizzazione degli oggetti, dei materiali e delle parole. Le scariche aggressive sono violente e di breve durata, e si alternano a momenti di comunicazione tollerabili. b) Le manifestazioni aggressive mediate: produzioni gestuali e vocali ritualizzate che evitano il passaggio all’atto (forma presimbolica); c) Manifestazioni aggressive derivate: possono operare sia sullo spazio, sia sugli oggetti. 5) La tecnica è quella di far evolvere l’aggressione del bambino verso forme d’investimento simbolico accettabili, riconosciute sul piano sociale. ELEMENTI DI AIUTO La prima fondamentale condizione per impostare un’azione di aiuto con questi bambini è quella di riconoscere il loro comportamento come una manifestazione di disagio e non come una provocazione per lo più vissuta sul piano personale. Questi bambini colpiscono prima che sul piano didattico, sul piano emotivo. Utilizzare le caratteristiche del gioco del bambino senza interpretarle, aiutandolo a dotare di senso il suo fare o non fare. Assumere un atteggiamento recettivo consapevole, empatico. Ciò richiede capacità di ascoltarsi, di riconoscere l’emozioni e di esserne consapevoli. Solo in questo modo possiamo cogliere i vissuti dell’altro. Accettazione, comprensione, condivisione, limite facilitano nel bambino il sentimento di sentirsi apprezzato e considerato. Uno dei risultati dell’empatia è il sentire che il bambino diventa oggetto di considerazione e di sentimenti positivi per l’adulto che si prenderà cura di lui. L’assenza di giudizio, l’iniziativa lasciata al bambino, la positività del clima emotivo, l’ascolto di se stessi, l’attenzione alla globalità e non al sintomo facilitano uno sguardo verso l’altro. LA RELAZIONE EDUCATIVA Una relazione buona e significativa è la cornice indispensabile di ogni attività di sviluppo e apprendimento. Se la relazione è carente o disturbata, il disagio che si crea può portare allo sviluppo di problematiche o accentuarle. Una relazione è buona quando desideriamo arricchirci di essa. Una buona relazione di aiuto ha bisogno di tempo, di occasioni e di incontri ripetuti. (Canevaro, 1999). È essenziale sfuggire a due rischi: 1) La manipolazione e il controllo dell’altro per i propri bisogni(approvazione, sentirsi efficaci,ecc.) 2) Il non sentirsi responsabili delle proprie emozioni, dubbi, difficoltà. Come facilitarla: 1) Accettazione incondizionata e attribuzione di valore positivo. 2) Ascolto attivo, conoscenza, comprensione. 3) Proattività, stimolo, aiuto, decisione, accompagnamento, azione orientata, guida, attese. ACCETTAZIONE INCONDIZIONATA E ATTRIBUZIONE DI VALORE POSITIVO Ci si accetta profondamente per quello che si è, quando l’altro mi va bene, al di là delle sue capacità e del suo comportamento. L’altro vale in sé, non produce per me valore solo se cambia, se apprende, se procede verso i miei obiettivi attraverso i miei interventi. Suggerimenti: dedicarsi del tempo allo stare insieme, non vincolato ad un’attività finalizzata dal docente. Riflessione: che valore attribuisco all’alunno in difficoltà e quanto lo accetto senza condizionare questa mia benevolenza al suo fare qualcosa che io desidero? PROATTIVITÀ, STIMOLO, AIUTO, AZIONE ORIENTATE Una relazione si avvia a diventare buona quando qualcuno che ci valorizza e ci comprende, ci guida per mano, anche decisamente ed energicamente, quando sentiamo che questa guida sa dove andare e come andarci. L’azione deve essere regolare nel tempo, costante e frequente. Deve essere negoziata, condivisa, co-decisa, rispettosa. LA RELAZIONE EDUCATIVE Canevaro ci invita a lavorare pedagogicamente sulla resistenza dell’altro, perché lì si trova il punto di inizio di una relazione educativa. LO SGUARDO VALORIZZANTE Il bambino in difficoltà ha bisogno di uno “sguardo che lo valorizzi” che gli riconosca delle opportunità, che possa progettare, desiderare e sognare “su di lui” e “con lui” e, insieme, far sì che questo progetto possa diventare realtà! Non basta guardarsi allo specchio per sapere come siamo, gli occhi di chi ci sta di fronte sono lo specchio migliore.