2011 anno dell'Italia in Brasile (Riv.it. com pubblica 41/2010) Riflessioni a margine di un congresso dedicato alla comunicazione pubblica in Brasile Si apre una grande stagione comunicativa: quest’anno le elezioni presidenziali, iI 2011 anno dell’Italia in Brasile, nel 2014 i Mondiali di calcio, nel 2016 le Olimpiadi Stefano Rolando Porto Alegre – Giovani ricercatori, dottorandi, quadri impegnati nella comunicazione istituzionale e sociale nel “Brasile continente”, grande e profondo, hanno animato a fine maggio 2010 la sessione finale del 4° congresso di Abrapcorp, l’associazione fino ad oggi guidata da Margarida Krohilig Kunsch (decana di comunicazione e R.P. all’Università di San Paolo) poi presieduta da Ivone de Lourdes Oliveira (Università di Minas Gerais). Il congresso si è svolto alla Pontificia Università di Rio Grande do Sul a Porto Alegre. Anche il Brasile è alle prese con la codificazione di una carriera – quella della comunicazione pubblica – che ha anche qui molti risvolti. L’interesse di questo sistema appare meno rivolto alle legittimazioni formali nelle pubbliche amministrazioni (tema che pure Jorge Antonio Menna Duarte, che lavora a Planalto, nel team di comunicazione pubblica del presidente Lula, mi ha detto essere un tema all’attenzione del governo), ma più rivolto ai contenuti, all’approccio efficace, a qualcosa che potremmo chiamare un “patto” tra dinamiche istituzionali e gestione delle comunità. Una percezione forse influenzata dal contesto di questa città, che è ha ormai un “brand mondiale” grazie alla decennale storia del World Social Forum, creato qui nel 2001 nel clima del laburismo brasiliano, che poco dopo doveva portare alla presidenza della Repubblica l’ex-sindacalista Luiz Inacio Lula da Silva. Un città a lungo governata dal PT (non più nei due ultimi anni) e una regione che espresse uno storico presidente del Brasile, Getulio Vargas, populista ma con caratteri di governo sociale più concreti di Peròn in Argentina e di Mussolini in Italia. E tuttavia oggi si coglie una generazione di operatori che si dedicano a temi connessi a ciò che lo slogan stesso del WSF ha affermato mondialmente “Un altro mondo è possibile”. Gli stessi tre precedenti congressi di Abracoporp – che ha il suo cuore nella moderna, industriale e finanziaria San Paolo – sono stati dedicati alla sostenibilità, alla umanizzazione dei processi organizzativi, alla comunicazione organizzativa e, quest’anno, alla comunicazione pubblica in una chiave molto attenta al sociale. Ciò suona come un segnale piuttosto forte per l’Italia in cui la pur utile normativa della comunicazione pubblica ha in un certo senso rinchiuso gli operatori della PA dentro le questioni (e a volte anche dentro i vincoli culturali) della funzione pubblica. Cioè non ha sempre favorito l’integrazione, lo scambio, la sinergia con due ambiti che possono chiarificare meglio gli obiettivi strategici di un segmento della comunicazione che si chiama “pubblica” proprio perché deve essere al servizio della società e non solo sentirsi portavoce dei “governi”, siano essi nazionali o territoriali. Gli ambiti cioè – che per loro natura cercano i confronti con le istituzioni - della comunicazione sociale (presidiata da molte associazioni) e della comunicazione orientata alla competizione, al mercato e allo sviluppo (anch’essa rappresentata da associazioni ma anche gestita da singole imprese). Letta attraverso gli interventi di docenti e operatori intervenuti ad Abrapcorp, l’attenzione è molto rivolta al decentramento, alle condizioni sociali più esposte alla povertà. Il Brasile sta esprimendo un livello di crescita tra i più alti al mondo (+5,8% del PIL è la stima per il 2010), ha raddoppiato il salario minimo negli ultimi cinque anni (creando condizioni di ampliamento dell’inclusione) e ha pagato il suo debito pubblico internazionale. Ha le carte in regola insomma per essere credibile nel recupero della marginalità interna che il paese ancora esprime largamente. L’età di Lula ha fatto il miracolo di investire sul miglioramento delle fasce deboli senza minacciare interessi che, in Europa, chiamiamo borghesi. La socialità, così, è un punto di incontro di culture “trabalhiste”, cattoliche e in senso ampio riformiste che animano politicamente un paese che ha dimostrato – già durante la presidenza di centro-destra di Fernando Henrique Cardoso - che l’alternativa tra “laburismo” e “liberalismo” ha una logica democratica pacifica che lascia aperte ipotesi di sviluppo, a destra come a sinistra, avendo ormai al centro il ruolo di un paese che ha i numeri per essere collocato nelle prime cinque potenze economiche mondiali. Lula non ha forzato l’alternativa, anzi ha segnalato continuità strutturali con gli obiettivi economici della presidenza Cardoso. Ma ha aperto una strategia sociale (che coinvolge anche la cultura e l’educazione) molto marcata. Nel l’autunno 2010 le elezioni presidenziali in Brasile metteranno a prova tutta l’influenza che il segmento della “comunicazione politica” ha assunto in un pese vasto, in cui il sistema televisivo decide molto circa il voto e in cui la candidata ancora “sconosciuta” del presidente Lula – Dilma Rousseff, ministro del suo governo in un ruolo che in Italia sarebbe quello di sottosegretario alla Presidenza, espressione dell’immigrazione bulgara, contende il voto allo sperimentato ex sindaco ed ex governatore di San Paolo e già ministro della Sanità Josè Serra, espressione dell’immigrazione italiana. La forza significante dei partiti (la Roussef del PT sulla carta più a sinistra, Serra socialdemocratico sulla carta più a destra) è ormai cosa meno importante del profilo di immagine personale che i candidati vanno assumendo in relazione da un lato al peso di vere e proprie campagne “costruite” e dall’altro in relazione a una certa idea del Brasile che intendono promuovere. Ho fatto questa breve premessa per segnalare come non mi sia parso superficiale o di circostanza l’accoglienza che ho percepito nei confronti della mia proposta, svolta con una ampia relazione di apertura al congresso, a questa comunità scientifica e professionale (quattromila aderenti in tutto il Brasile), di un orientamento della comunicazione pubblica verso strategie non solo connesse al front-line di funzionamento dei servizi. Ma anche verso il contributo alla democrazia partecipativa, attraverso lo svolgimento di ruoli nelle condizioni ordinate e trasparenti del “dibattito pubblico”. Un dibattito che investe grandi questioni nazionali, di cui quella della stessa “immagine nazionale” confrontata con la crescita del ruolo geopolitico che le due ultime presidenze della Repubblica hanno promosso, ad una crescita di autostima in generale della popolazione, ad un miglioramento effettivo delle condizioni economiche e del potere di acquisto anche di ceti più popolari, è entrata nel cuore del rapporto tra politica, imprese e società civile. L’accoglienza di un principio estensivo della comunicazione pubblica è radicata nella comprensione del bisogno di creare dialogo non casuale tra istituzioni e società soprattutto quando la posta è rappresentata dalla ridefinizione di parametri riguardanti lo sviluppo dei servizi e delle prestazioni pubbliche. Se si pensa, ad esempio, al campo della sanità, si coglie molto bene l’importanza oggi di ambiti permanenti di trasferimento di conoscenze e di verifica dei bisogni in cui le strutture sanitarie non possono prescindere da confronti seri con l’associazionismo scientifico, da un lato, e con le rappresentanze sociali dall’altro per una continua verifica di condizioni operative che non possono essere imposte solo attraverso “protocolli” stabiliti da burocrazie e interessi aziendali (pubblici e privati). Sono questi territori di esperienza naturalmente ben diffusi in Europa. Ma si ha la sensazione che in Italia si sia molto affievolito il clima civile e culturale entro cui tali esperienze possono venir condotte, al riparo da demagogie ma anche non come formalità marginali ai processi decisionali. Ed è a quel clima che riferisco la condizione di dibattito sugli orientamenti della comunicazione pubblica che avverto in questo complesso Brasile come meno puntellato da normative legittimanti ma più sospinto da volontà sociali di carattere “interpretativo”. Noi in verità esprimiamo contesti differenziati, anche territorialmente. Talvolta con punte di sperimentazione civile interessanti. Altre volte con una doppia marginalità: amministrazioni ridotte a “burocrazie” e società civile troppo silente. Naturalmente nessuna mitologia attorno a questo lontano contesto, anche perché percepito in modo superficiale. Ma l’ascolto attento di relazioni e testimonianze credo segnali un clima culturale degno di nota. Un ambito di ricercatori e di operatori che stanno in modo determinato orientati alla prospettiva sociale anche perché politiche pubbliche e progetti di ricerca legittimano strategie in questo senso. E mediologi e comunicatori cercano così – anche da noi in verità – il complemento disciplinare nelle scienze politiche, nella sociologia, nell’antropologia e, per fortuna, un po’ anche nell’economia. Dalle conversazioni avute ritengo che siano piuttosto i contesti universitari maggiori – quelli delle grandi aree metropolitane – a percepire come strategico l’altro “corno” dell’evoluzione disciplinare che ho proposto: quello riguardante una comunicazione pubblica capace di presidiare lo spazio del patrimonio simbolico che profila storia, identità e appartenenza. Ciò che va ormai sotto il nome di branding pubblico. Ma, in generale, mentre la comunicazione di impresa è in tutto il mondo largamente correlata al marketing (che è un vasto ambito disciplinare dell’area economico-gestionale), questa correlazione – appunto disciplinare – si fa strada più a fatica nel settore della comunicazione pubblica e qui ancora non si sono posti robusti presupposti di ricerca e quindi di sviluppo del lavoro di posizionamento scientifico che poi da anche i suoi frutti nella formazione e nella delineazione di chiari percorsi didattici. Mi dice un ricercatore dell’Università federale di Rio Grande do Sul, Rudimar Baldissera (di famiglia originaria italiana e cittadino della città largamente italiana che prende il nome di Garibaldi) che la contaminazione economica della comunicazione pubblica è poco frequente. Le facoltà di comunicazione hanno ormai una certa consistenza e si muovono nell’ambito dei media, della pubblicità e delle relazioni pubbliche. Il nuovo approccio alla comunicazione pubblica interessa piuttosto chi ha orientamenti verso la comunicazione politica e, qualcuno, più orientato alla comunicazione sociale. Sottolineo che neppure da noi la correlazione è forte, incentivata e premiata. Anche se vi è chi la presidia e vi è chi comincia a dare risposte operative radicandosi, in generale, nell’area del marketing territoriale che per propria natura non ha sviluppo se privato della componente comunicativa. Ma l’adeguata liberazione di energie professionali e la formazione di modelli organizzativi del lavoro comunicativo negli enti pubblici devono fare i conti con il profilo di leggi che – pensate e varate negli anni ’90 – rispondevano ad una fase di legittimazione generica delle funzioni della comunicazione pubblica. Leggi che conducono agevolmente allo sviluppo del “relazionale operativo”, assistendo per esempio all’ampliamento dei call-center, ma che faticano a contenere sviluppi in aree oggi strategiche di accompagnamento alle politiche della competitività e della gestione dei patti per lo sviluppo. Si capisce bene che senza spiegazione non vi è marketing territoriale. E che senza racconto ogni promozione è pura vendita. Ben più complesse sono le ragioni di presidio alla dinamica di un brand pubblico. A cominciare dalla gestione dei processi di coesione sociale e culturale che le grandi dinamiche demografiche oggi rendono imprescindibile. Viste qui tali dinamiche hanno una lettura storica e, più che legate all’attuale moderata immigrazione, si riferiscono piuttosto alla composizione di un grande paese che oggi sfiora i 190 milioni di abitanti e in cui il rapporto tra aree indigene e aree di varia immigrazione (di cui quella italiana ha carattere fondamentale in molti degli Stati) porta fondamentali questioni di radici e di appartenenze che regolano ancora molta parte della vita collettiva. Parlando di comunicazione pubblica - in un territorio come è quello di Rio Grande do Sul – il passo è breve per toccare questioni di formazione della lingua, di conservazione delle tradizioni religiose, familiare e alimentari. Ed il passo è breve per toccare con mano l’inevitabilità per i poteri pubblici (ma in fondo anche per quelli economici più avvertiti, a cominciare dalla grandi banche che sostengono quasi tutto il quadro degli eventi culturali) di raccontare storia e storie. Di cui qui quelle dell’emigrazione italiana – nella regione, in particolare, dal Veneto, e poi dal Friuli e dalla Lombardia – hanno grande rilievo e sono in più tuttora intessute da mitologie (quella più rilevante riguarda la considerazione per la figura di Giuseppe Garibaldi, di cui, come accennato, una intera città porta il nome e di cui i musei parlano come eroe della loro stessa storia di emancipazione).Insomma nella contaminazione disciplinare della comunicazione pubblica è venuto il momento - in tutti i paesi che vogliono creare le condizioni per dare contenuto tecnico e relazionale alla comunicazione nella gestione permanente e nella profondità dei territori – per ampliare seriamente la funzione di “messaggio” che per sua natura svolge legittimamente il potere politico. Per questo accanto alla visibile alleanza tra diritto e sociologia che ha dominato la fase costitutiva della comunicazione pubblica è venuto il momento di inquadrare in modo più robusto l’apporto dell’economia (e del marketing), della statistica, delle scienze storicosociali (con rilievo per l’antropologia e la psicologia sociale), dell’urbanistica e naturalmente del più avanzato approccio alla tecnologia dell’informazione. Si tratta di vedere se i contesti istituzionali sono disponibili a sperimentare modelli di iniziativa basati in modo legittimante su questo genere di contaminazioni. Che è poi quello che – a margine del congresso di Porto Alegre – mi hanno chiesto ricercatori realmente impegnati in contesti territoriali difficili e preoccupati per una relazione vaga e non bene orientata con i poteri pubblici. In senso lato la domanda da rivolgere ai decisori nell’ambito delle istituzioni è proprio questa: la strada della comunicazione pubblica che presidia le funzioni giuridico-amministrative dell’accesso è sperimentata e quella che consente di tamponare il disagio sociale con formule di front-line è oggi ampliabile a costi limitati grazie alle opportunità della rete. Ma alzare il livello di impegno di questa area professionale negli ambiti che abbiamo prima accennato comporta una scelta innovativa oggi per nulla scontata. E’ proprio il contesto di una città di dimensioni “globali” come è San Paolo (l’area metropolitana va verso i 20 milioni di abitanti e “l’insieme della sua economia – come mi dice Margarida Krohilig Kunsch – continua a fare l’andatura dello sviluppo dell’insieme del Paese”) ad esprimere una attenzione più precisa nei confronti di due questioni poste nel corso dei contributi che ho potuto esprimere sia al congresso sia nei seminari collaterali: la crescita della domanda sociale rispetto agli orientamenti della comunicazione pubblica (l’altra parte della medaglia rispetto all’idea che la fonte generativa sia solo l’impulso governativo) e la capacità di sostenere obiettivi di nuova internazionalizzazione del paese. “Tra il 2014 e il 2016 – mi ricorda Massimo Di Felice – professore italiano di ruolo all’Università di San Paolo – il Brasile ospiterà i Mondiali di calcio e poi le Olimpiadi. Parte già oggi un’onda comunicativa complessa e decisiva per ricollocare l’immagine del Brasile nel mondo e parallelamente il presidente della Repubblica sta scegliendo spazi di iniziativa internazionale, prima esclusi, per segnalare un ruolo del tutto inedito del Brasile nella politica internazionale, politica che ha avuto un primo banco di prova ad Haiti quando il Brasile ha ottenuto di gestire la crisi politica interna con metodi che hanno deconflittuazzato il contesto, così come in America latina gli Stati Uniti non sono mai riusciti a fare”. Due oceani affiancano tuttavia questo lembo di terra che con queste riflessioni stiamo percorrendo: l’oceano della missione propagandistica della comunicazione istituzionale e l’oceano delle omissioni in una operatività in cui politica, media e soggetti della rappresentanza di interessi (categorie) hanno robuste deleghe. Italia e Brasile sono due paesi che Freedom House colloca in questi anni nell’area della semi-libertà di informazione non solo per ragioni “politiche” ma anche per riduzione degli spazi di libertà di azione dei giornalisti a causa di condizionamenti di vario genere (di cui quello malavitoso conta molto in Italia). Tra i tanti passaggi culturali necessari per recuperare il famoso “colore verde” nella mappa di questo istituto internazionale di ricognizione, su cui sarebbe bene non fare troppe ironie, vi è quello attorno al concetto di “pubblico”. Che i soggetti pubblici siano fondamentali per reggere contro le crisi e per cercare soluzioni sostenibili in cui l’economia, anche quella privata, possa crescere libera non vuol dire che poi tutto il sistema che essi innervano sia “pubblico”. E soprattutto il fatto che vi sia un sistema della “rappresentazione” di queste dinamiche che si chiama “pubblico” non vuol dire che in esso hanno diritto di cittadinanza solo i soggetti “governativi”. Altrimenti sarebbe bene fare chiarezza e chiamare appunto “comunicazione governativa” quella che continuiamo a chiamare “comunicazione pubblica”. Un territorio in cui non è stato difficile intendersi con la comunità scientifica incontrata qui in Brasile e in cui le persone meno giovani – oggi pacificate con le istituzioni - hanno un ricordo ancora bruciante dei lunghi venti anni trascorsi sotto la dittatura dei militari, che ha visto la conclusione solo a alla fine degli anni ottanta