a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Luglio/Agosto '08
Numero Luglio/Agosto '08
EDITORIALE
Nonostante il caldo e l’umidità (“Nuotando nell’aria”, per dirla con le parole dei
Marlene Kuntz), rieccoci per l’ultimo numero della versione telematica di “Fuori dal
Mucchio” prima delle tanto sospirate vacanze estive. Non è però con l’ombrellone (o
la montagna, o qualche capitale estera, fate voi) in testa che abbiamo redatto il
sommario di questo mese, ma con la consueta selettività, in modo da offrirvi
l’ennesima fotografia di quanto di meglio agita il brulicante sottobosco musicale
italiano.
Tra interviste, recensioni, “Dal basso”, e con un “Sul palco” particolarmente
interessante, vi lasciamo quindi alla lettura, dandovi appuntamento ai primi di
settembre, riposati e pronti per affrontare insieme a noi una nuova stagione
musicale che immaginiamo sarà fin troppo ricca di uscite. Ma di questo parleremo a
tempo debito.
Nel mentre, ricordando ad artisti, etichette e uffici stampa che le modalità per farci
pervenire le proprie produzioni si possono trovare seguendo il link “Per invio
materiale” qui a destra, vi (e ci) auguriamo di cuore buone ferie – sperando che tutti
quanti possiate almeno per qualche giorno staccare la spina. E, come sempre,
buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Donvito e i Veleno
Sulle rive dell’Idroscalo di Milano, teatro dell’edizione 2008 del “Miami”, intervistiamo
Emanuele Fusaroli alias Max Stirner, l’uomo a capo di Donvito e i Veleno ma anche
uno dei più attivi produttori italiani del momento. Oltre che padrone di casa del
Natural Head Quarter di Ferrara e co-fondatore di una realtà atipica e trasversale
come Infecta. Abbiamo cercato di indagare i molteplici aspetti del suo lavoro.
Partiamo dal nome, Donvito e i Veleno, che rimanda ad un immaginario che
definirei italo-pulp.
È un immaginario grottesco e ironico ma allo stesso tempo italiano. Chiamare
Donvito la drum-machine e noi stessi i Veleno, ragazzi che vomitano parole
“velenose”, è un gioco che sottolinea l’ironia della nostra italianità e l’attitudine a
trattare la musica da italiani, senza nasconderci dietro a mode d’importazione.
Il dato positivo di questo disco è la sua dimensione nazionalpopolare,
qualcosa che un po’ manca in un momento in cui, al di là della scelta
dell’inglese, ci si è un po’ adagiati su una visione derivativa dell’indie.
Sì, assolutamente, è nazionalpopolare nell’affermare la sua italianità, e forse anche
nell’approccio alla composizione, nella modalità scelta per veicolare il messaggio.
Un disco è prima di tutto costituito da messaggi, ovvero i testi Abbiamo scelto una
matrice di comunicazione di tipo pubblicitario, con slogan ripetuti da un lato e
dall’altra frasi che hanno significati nascosti dietro a parole che magari possono
sembrare veloci e immediate ma in realtà nascondono concetti più complessi.
Anche se sul vostro disco non compare il marchio di Infecta, la trasversalità
di quel progetto viene fuori anche qui, la grafica ad esempio l’ha curata Marco
dei Red Worms’ Farm, anche loro parte di quella che è una sorta di factory che
lavora a più livelli: in un momento di dispersione della scena, l’idea di mettere
insieme varie sinergie mi pare un bel segnale.
È l’unico modo per riuscire a fare cose che non hanno mercato, e che quindi
possono essere portate avanti solo dalla passione e dalla volontà. E per farle bene
occorre innanzitutto qualcuno che le faccia con lo spirito giusto. Infecta si è anche
occupata della produzione esecutiva del disco delle Luci della centrale elettrica, e
funziona a più livelli: ci può essere la produzione esecutiva di un disco, cioè la
possibilità di registrarlo, quella artistica, quella promozionale ovvero dell’etichetta
discografica in senso stretto.
Come mai ti sei scelto come alter ego Max Stirner?
Anche questo è un gioco. Me lo porto dietro dalle superiori per via di un libro di
filosofia che ho portato all’esame di maturità. Si riferisce a questa dimensione
stirneriana dell’unico, e volendo fa il verso al superomismo che c’è un po’ anche nel
disco, questa sensazione di guardare le cose dall’alto e di avere una verità unica
per tutti i concetti che vengono accarezzati nel disco, con questo stupido che li
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sbraita, che si crede di essere.
Produci dischi da anni, come mai hai deciso di metterti in campo
direttamente?
In realtà lo studio, il Natural Head Quarter, l’ho aperto perché avevo un gruppo e
quando giravamo per gli studi non c’era un posto del genere, che fosse un
baricentro di produzioni e non uno studio commerciale. Io mi sono poi concentrato
moltissimo sullo studio perché non mi sento né totalmente produttore né totalmente
musicista, ad esempio a me un disco piace farlo dall’inizio alla fine, anche comporlo,
registrarlo. Questa visione dell’artigianato del disco mi piace, mi piace anche essere
in grado di capire come far venir fuori in un disco qualcosa suonato in sala prove.
Per questo è importante essere sia un musicista, per poter far suonare bene il disco,
sia essere un bravo produttore e quindi essere in grado di comporre e arrangiare.
Anche quello della composizione è un gioco, una roba molto scarna che però
stilisticamente credo abbia un suo carattere, una cosa che forse in questo momento
è la più difficile per un gruppo. Credo che il nostro disco ce l’abbia, non sia
derivativo da altri gruppi se non dai mille ascolti che ci hanno influenzato. Non
segue una direzione precisa ed è il risultato di una ricerca. Essere riusciti a farlo con
pochi elementi, cercando di togliere più che di mettere, credo sia stata una scelta
fondamentale. Puoi arrangiare e comporre la canzone con un sacco di elementi,
oppure darle una “pacca” enorme: ho avuto anche dei gruppi hardcore a sedici anni.
Però adesso pensare di star li a sbraitare mi fa ridere. Sto bene, ho una vita
fortunata e a luglio io e la mia ragazza ci sposiamo. “Disilluso e leggero”, la
canzone, parla anche di questo, è una canzone jovanottiana come dicevi tu nella
recensione ma lo è solo musicalmente, proprio perché leggera, una cantilena; il
succo del discorso è: “nonostante il mondo io mi sento leggero”. È lo spirito del
disco, mandiamo affanculo questo mondo di merda e concentriamoci su noi stessi.
E qui torniamo a Max Stirner
Mi pare indicativo il fatto che gli ospiti siano tutti musicisti che sono passati
nel tuo studio.
Certo, è stato possibile proprio perché c’è questo studio che vuole essere anche un
po’ il centro di una scena, tutte le persone che ci hanno lavorato hanno avvertito
questa peculiarità. È un po’ l’idea che c’è dietro ad un centro sociale, il luogo che in
una città fa crescere la scena musicale, un luogo dove la gente si ritrova.
In Italia la figura del produttore è sempre stata poco considerata, o perlomeno
non quanto avviene all’estero.
In Italia c’è da dire che non ci sono mai stati molti produttori davvero bravi. Uno
bravo è Magistrali, ha una mano riconoscibile, come all’estero Steve Albini, sono
produttori legati all’idea di un suono molto deciso, definito. Giulio Favero è un altro
molto riconoscibile, io però mi sento di appartenere ad un approccio decisamente
diverso, mi piace l’idea che tutti i dischi che faccio suonino in maniera diversa, cerco
di rispettare l’identità del gruppo, scavando nelle sue idee. Altri produttori lavorano
con un approccio più live, ma i gruppi si affidano a loro anche perché vogliono quel
tipo di suono. Io preferisco muovermi dal punk al pop, perché arrivo da ascolti a 360
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gradi.
Lo stato di salute della scena italiana?
Mancano un po’ i gruppi che hanno voglia di mettere i concetti nella loro musica.
Spesso i gruppi italiani sanno suonare e non sfigurano di fronte agli americani, ma
manca gente che veicoli un messaggio. Mi piacerebbe sentire più dischi come
quelli de Le luci della centrale elettrica, che è pieno di parole, saturo di immaginario,
sono queste le cose che legano il pubblico all’artista. Se invece appartieni alla
scena del momento sei solo uno dei tanti.
Contatti: www.myspace.com/donvitoeiveleno
Alessandro Besselva Averame
Egokid
Anche chi credeva nelle loro potenzialità, ha avuto un attimo di gradevolissimo
smarrimento: giunti al terzo disco gli Egokid – “Minima storia curativa” (Aiuola/Self) –
passano all’italiano e incidono un album di pop musicalmente perfetto, liricamente
intelligente, ironico. Ne abbiamo parlato con i due frontman, Diego Palazzo e
Piergiorgio Pardo, persone che staresti ad ascoltare per ore, anche a intervista
finita.
“Minima storia curativa” risulta molto compiuto rispetto ai vostri lavori
precedenti. Il passaggio alla lingua italiana è coinciso con la maturità artistica
del gruppo?
P.: Credo sia stata una scelta coincisa più che altro con una necessità di
approfondimento del linguaggio pop. Per noi essere concisi significa andare più a
fondo rispetto alle idee che si hanno e in tal senso, il fatto di cantare in italiano,
conferisce un’ulteriore urgenza a tutto ciò. L’atmosfera generale del brano, la
corrispondenza tra le liriche e l’aspetto dell’arrangiamento e della composizione
della melodia e delle armonie corrisponde esattamente a quello che volevamo dire.
L’inglese, nel momento in cui non è la tua lingua, sei quasi portato a trattarlo come
una sequenza di fonemi; non ti pone in modo definito verso questo interrogativo e
tutto diventa più autoreferenziale. Scrivi e questa corrispondenza tra musica e testo
è realizzata per te che in qualche modo l’hai vissuta, però non hai l’immediata
restituzione di quanta efficacia possa avere rispetto al tuo progetto originale. Invece
con l’italiano hai un immediato ritorno nel caso una certa frase non è esattamente
nel mood musicale di quello che hai scritto. Prima ancora dell’esigenza di farsi
comprendere, c’è l’esigenza di comprendere te stesso come autore, cantando e
scrivendo con la stessa spontaneità con la quale esponi un discorso alla persona
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che ti ascolta. Alla fine l’inglese, per un gruppo non madrelingua, è un vestito
ulteriore, una specie di diaframma che metti tra te e le persone. Spesso è una difesa
necessaria. Poi sicuramente c’è anche l’affrancamento dai modelli. I nostri due
dischi precedenti non potevano essere ricondotti a dei modelli particolari, ma si
facevano forti di un discorso di stile. Con questo disco, invece, credo che siamo
riusciti a trovare un nostro stile. Non parlerei di maturità artistica, perché mi sembra
quasi di bloccare un entusiasmo che invece è nascente. Siamo già curiosi rispetto ai
passi successivi a cui potrà portare il cantato in italiano. Sicuramente rimane il fatto
di avere una serie di ascolti che non sono solo italiani. Cantiamo italiano con una
attitudine musicale che è varia e l’interazione con questa attitudine è un modo per
lasciarsi sorprendere. Poi sicuramente c’è anche l’esigenza di farsi capire rispetto ai
temi che trattiamo che comunque sono molto vissuti.
Se il processo è partito dalla lingua, immagino ci sia stata una sorta di
dittatura tra voi e gli altri componenti della band?
D.: Considera che questo disco arriva con un cambio strutturale della formazione
abbastanza grosso. Dopo il secondo disco (“The K Icon” del 2006, Ndi), abbiamo
vissuto un momento di grande crisi. In questi due anni, invece, abbiamo trovato un
chitarrista e un bassista che ci sono piaciuti molto fin da subito e ora, ogni volta che
presentiamo un brano, se da un lato subiamo un processo alle intenzioni, è anche
vero che alla fine i pezzi convincono. C’è una forma di dittatura artistica, ma che
tiene sempre presente le potenzialità degli altri.
P.: Aiuta il fatto che, finalmente, questa formazione sia anche un gruppo di amici,
cosa che prima non accadeva. C’è una situazione affettiva importante, dentro e fuori
dallo studio di registrazione e vediamo che proprio grazie a questa alchimia umana,
i pezzi prendono l’energia giusta. Quando in sede di arrangiamento ti ritrovi a
presentare i tuoi brani e a suonarli insieme a persone che hanno un vissuto diverso
rispetto al nostro, ricevi in cambio una forma di oggettività che per noi risulta in una
delle cose artisticamente più motivanti.
Sei vissuti differenti, ma passando in rassegna recensioni e interviste,
emerge spesso la definizione di Egokid come gruppo omo. Una descrizione
che è un po’ un limite.
D.: Non mi da fastidio la definizione di gruppo omo, ma è una cosa che va spiegata.
I testi sono gay perché scritti da due persone gay che portano il loro vissuto gay, ma
questo non significa che il testo non possa avere una fruizione o una valenza
universale. Io e Pier siamo due artisti con una coscienza profondamente gay del
proprio vissuto e di ciò che è l’amore, perché quando parliamo d’amore, parliamo di
determinate cose, eppure lo facciamo con finalità non gay. Il nostro obiettivo non è
parlare alla comunità omosessuale e tanto meno vogliamo porci come
rappresentanti di tale comunità. Troviamo più interessante che una persona di 15 o
80 anni che di omosessualità non sa nulla venga colpita dalle verità, che sono gay,
ma in quanto verità, accessibili da tutti.
Accessibili o condivise?
D.: Cerchiamo un terreno comune, non facciamo proseliti e non facciamo nemmeno
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una pro loco dell’immaginario gay. Le due persone che compongono sono gay e poi
c’è una realtà all’interno del gruppo, per cui, per i fini e gli scopi del gruppo, non
siamo un gruppo omo. Lo siamo per la fonte, l’ispirazione e l’immaginario a cui si
attinge per poi raccontare qualcosa che sia valido per tutti. In fondo, se scrivi un
brano come “Arbasino” si deve capire che scrivi Arbasino e non lo fai a caso.
P.: Il nostro immaginario è probabilmente riconoscibile in tal senso. È molto più
spiazzante scrivere un pezzo su Arbasino che non su Genet, perché non è
riconducibile all’immaginario gay, ma all’immagine dell’omosessualità che
generalmente ha il mondo eterosessuale: eccessiva, baraccona, radical-chic. Pezzi
come “Arbasino”, “L’orso”, “La condizione esistenziale”, sono omosessuali più
nell’essenza dell’immaginario che non nel lato più esplicito; sono immediatamente
riconoscibili, ma anche spiazzanti, perché tutti si aspettano che da un momento
all’altro tu ti metta ad agitare bandiere, a provocare e invece esprimono un
immaginario riconoscibile, ma in nessun modo anestetizzato.
Anche perché questo è un album molto autobiografico, che parla di voi e a
voi prima che agli altri.
D.: Prima facevamo dei testi in cui usavamo argomenti forti come scusa per criticare
gli omosessuali. Si trattava di un discorso molto distante e usare l’inglese aiutava in
tal senso. Adesso il discorso politico passa per le singole esperienze. Anche quando
parlo delle coppie di fatto (“La nostra via”, Ndi), lo faccio non perché voglio parlare
delle coppie di fatto, se sia giusto o meno che esistano, ma perché voglio portare un
mio vissuto personale rispetto a questo argomento. Ne nasce quindi un discorso
politico, una sorta di critica su quale sia l’altra faccia dell’affettività gay e
dell’affettività in toto. Tu ci conosci, sai chi siamo, sai esattamente di cosa parliamo.
Per chi non ci conosce e legge il testo, potrebbe parlare di chiunque, di un uomo e
una donna. Credo che con questo album il discorso politico graviti intorno al
fallimento dell’amore più che all’amore inteso come energia positiva. Ecco perché il
titolo. Un prendere atto di qualcosa che è finito, sta finendo, è entrato in crisi, quindi
cercare di superarlo.
P.: D’altro canto questa crisi dei sentimenti, questa necessità di cura è anche un
prodotto sociale. È il prodotto di una crisi collettiva che sperimenti in un ambito
molto privato; come diceva Diego, i gesti più politici sono sempre dei gesti privati. Ci
sono ancora i Gay Pride, le manifestazioni in piazza, però non viviamo in un’epoca
in cui queste manifestazioni hanno un grande valore al di là di quello di dare un
bilancio emotivo alle persone che vi partecipano e che poi devono fare la loro
battaglia quotidiana. Questa battaglia quotidiana vissuta nel privato, questa cura che
uno si autoprescrive, è il tema del disco.
Una cura che funziona?
P.: È presto per dirlo. Sicuramente siamo nella fase successiva, quella in cui si
vuole costruire un’identità che faccia tesoro delle esperienze passate e degli effetti
di questa cura.
Contatti: www.myspace.com/egokidit
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Giovanni Linke
OJM
La voce autorevole è quella degli OJM, istituzione oramai decennale dello stoner
rock, oserei dire mondiale. Qui si parla di rock desertico, di fumo di qualità, di una
Parigi ad alto voltaggio e di un disco – “Live In France” (Go Down) – che non è un
disco, ma molto, molto di più…
Avete da poco superato i dieci anni di attività. Un traguardo notevole,
considerando le difficoltà nelle quali sono costrette a muoversi le rock band in
Italia. é tempo di fare un primo bilancio del vostro percorso.
Fare un po’ di bilanci è anche giusto dopo circa dieci anni. Sono stati duri anni di
gavetta e lo saranno ancora se vogliamo rimanere coerenti, penso che se in questi
anni abbiamo ottenuto qualcosa con gli OJM è solo frutto del nostro sudore, senza
regali di nessuno. Dallo stoner al garage rock’n’roll, al vero rock, al desert rock, al
doom e alla psichedelia, nessuno mai potrà dire che gli OJM abbiano fatto un disco
uguale all’altro, almeno lo speriamo. Comunque siamo pienamente soddisfatti del
nostro percorso musicale. Il live che abbiamo fatto uscire in download gratuito in
aprile è un regalo che abbiamo voluto fare a tutte le persone che ci seguono da tanti
anni e che crede veramente in noi. Uscirà in luglio la versione in vinile del “Live In
France”, che potete prenotare sul sito dell’etichetta www.godownrecords.com.
Siete partiti come una sorta di band che seguiva l'onda dello stoner. Oggi che
il classic rock è tornato in tutte le sue forme, gran parte del merito va proprio
allo stoner che ha avuto il merito di restituire un ruolo di primo piano alle
chitarre. Perché quattro ragazzi di Treviso, mentre la critica spingeva per
l'elettronica, decidono di suonare stoner rock?
Io me lo sento dentro questo tipo di musica e anche gli altri OJM per noi e difficile
produrre della musica di moda o di tendenza perché non abbiamo seguito la
massa.
La vostra discografia, oltre ad album classici, si è arricchita di slip e
collaborazioni varie. Puoi raccontarci qualcosa di più.
Abbiamo lavorato con lo storico Paolo Catena, con i Gorilla con Brant Bjork e in
questi ultimi anni con lo storico Michael Davis degli MC5, Tutti questi personaggi
hanno cosa in comune sanno vivere la musica con umiltà e passione e ci hanno
trasmesso i veri valori del rock che forse nel nostro paese non sono mai arrivati,
forse per colpa della politica, del sistema, della Chiesa… non saprei. Ognuno a la
sua spiegazione su questo argomento. Comunque lavorare con delle persone di
alto livello ti da sempre degli stimoli nuovi, c'e' sempre da imparare qualcosa di
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nuovo.
Avete suonato in compagnia di band del calibro di Hardcore Superstar,
Nebula, Motorpsycho e molti altri. Qualche aneddoto da portarci in dote?
I Nebula direi che hanno l'erba più buona. Ci trovato molto bene con Brant Bjork e
con i Lords Of Altamont, siamo nella stessa lunghezza d'onda . Ci sono una marea
di storie da raccontare, ma forse è meglio non scriverle sulla carta stampata,
potrebbero essere compromettenti per la nostra vita privata.
Il vostro nuovo album "Live In France", inaugura una nuova frontiera della
produzione discografica. La possibilità di scaricarlo gratuitamente in formato
MP3 e la vendita destinata solo al vinile. Un'idea bella, ma che sembra quasi
una resa di fronte alla scaricamento selvaggio di musica da internet, per
rivolgersi solo al popolo dei collezionisti. Ed ora le domande: è una via che
seguirete anche in futuro e, secondo voi, Internet ha portato più vantaggi o
svantaggi, per quanto riguardo il mercato discografico?
Secondo noi Internet ha portato molti più vantaggi dal punto di vista promozionale
tanta gente riesce ad ascoltare la nostra musica prima di acquistare un nostro
disco o magari viene incuriosita e capita per caso ad un concerto, e un buon canale
promozionale ripeto. Lo svantaggio e che circola molta musica e la qualità si e'
abbassata notevolmente, non ci sono più i veri gruppi di un tempo che sudavano
per avere un pubblico che li ascoltasse, basta un click e tutti possono ascoltare la
tua musica. Forse questo fa perdere il valore e il culto di una band. Per quello che
riguarda il mondo discografico forse si sono perse delle vendite ma nel nostro
genere il vero fan si compra sempre il disco originale in ogni caso.
Vi definite, giustamente una live band. Quanto spazio dedicate alle
improvvisazioni? La scaletta è sempre programmata o vi concedete
divagazioni? Siete tra quelli che alla fine del concerto si lamentano sempre
che hanno suonato male, che i suoni erano pessimi? Una cosa, sinceramente
insopportabile, ma che accade spesso.
La nostra scaletta di solito non esiste, viene fatta a voce in base alle nostre
condizioni fisiche nei minuti prima del concerto, le improvvisazioni fanno parte del
nostro show ogni nostro concerto è diverso , dipende tanto dalle sensazione che ci
trasmette il club il pubblico. A volte suoniamo chiudendo gli occhi e nascono
delle improvvisazioni veramente toste. Se hai ascoltato “Live In France” avrai avuto
modo di verificarlo. Il bello di tutto questo e che nessuno si ricorda più niente alla
fine del concerto. Per concludere vorrei risponderti alla domanda se ci lamentiamo
alla fine del concerto, di solito nella maggior parte dei casi comincia la festa alla
fine del nostro concerto al bar e nei camerini. Ci sono stati pochissimi casi di
lamentele con la nuova formazione dal 2004 ad oggi.
Tutti gli amanti del rock hanno nel cuore qualche band, che ritengono grande,
ma che è rimasta nel limbo dei perdenti. Quali sono le vostre? E potendo
scegliere, a qualche album tributo vorreste contribuire?
Nel cuore sicuramente ci sono i Grand Funk, i Blue Cheer, gli MC5, i Kyuss, i
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7zuma7 e molti altri sicuramente. Se dovessimo scegliere di fare un tributo, in
questo momento non avremmo dubbi, Doors e Pink Floyd d’annata.
Contatti: www.ojm.it
Gianni Della Cioppa
So!
I quattro toscani So! conquistano la tappa del primo album “Stolen Time”, nel marzo
di quest’anno grazie alla Seahorse/Goodfellas che li aveva notati (come molti altri)
in occasione del precedente EP “All Words And No Feelings, Make Jack A Dull
Boy”, prodotto dallo stesso gruppo due anni fa. Un disco per niente ingenuo che
scarnifica i contorni del post rock con sogni inconsapevoli di dilatazioni melodiche
alla Jane’s Addiction.
Siamo qui per presentare il vostro album d’esordio però prima facciamo un
passo indietro, perché vi chiedo con quale musica siete cresciuti e con quali
strumenti avete imparato a suonare.
Francesco (chitarra): La musica con cui sono cresciuto e credo di poter parlare
anche per Lorenzo è quella degli anni 90 quindi grunge per poi arrivare a quelle che
sono state le sonorità post-rock strumentali e passare agli ascolti più attuali che
sono gli Ex o sonorità più jazz.
Lorenzo (batteria): Hai beccato le due persone che hanno gli ascolti più vicini anche
se io ho avuto un’adolescenza metallara. Ho suonato in molti gruppi “picchianti” da
ragazzo poi è arrivato il post rock e ho iniziato a scoprire i generi che si muovono da
quell’orbita in là che vanno dal free-jazz al jazz- core post-hardcore. Comunque gli
ascolti sono molto vari e tutto entra nel calderone.
Cosa significa per voi oggi – in quanto giovane band – iniziare un progetto
musicale e pensare ad un futuro nella musica?
L.: La domanda è pesa. Inizialmente significa trovare un gruppo con cui suonare in
una stanza e si inizia per divertimento. Dopodichè, se si passa, ci si trova di fronte
ad un contratto discografico da firmare ed esce un disco. Dopo l’uscita iniziano però
tutti i problemi: suonare fuori, andare in giro, promuovere il disco, cercare di vendere
il disco e di farsi conoscere. Quindi si passa dal piacere di suonare al dover
affrontare difficoltà più ampie e più grosse.
F.: Questo però è solo un lato della medaglia dall’altra parte c’è la voglia di suonare
in sé, il bisogno di seguire l’istinto, creare qualcosa che parte dal didentro e
racconta a chi ascolta tutto quello che ogni giorno sentiamo e cerchiamo di
riprodurre a modo nostro.
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Com’ è iniziata la storia dei So!?
F.: Inizia dallo scioglimento di altri due gruppi. Il batterista Riccardo ed io
suonavamo in un altro progetto prima e, Lorenzo e Marco suonavano in un altro
gruppo ancora. Ci siamo cercati e ci siamo trovati fortunatamente. Abbiamo iniziato
a fare le prove e a suonare in una stanza e una volta composte le prime canzoni
carine (almeno per noi) ci siamo decisi ad autoprodurci il primo promo che ci ha
portati a farci conoscere da Paolo della Seahorse.
Il primo promo di cui parli è stato molto apprezzato. Pensate di ristamparlo,
magari tramite Seahorse, oppure ormai pensate solo alle canzoni nuove?
L.: No, quello è il nostro primo passo e ci ha fatto piacere registrarlo perchè ci ha
dato la possibilità di andare avanti. Siamo però dell’idea che questo sia un percorso
fatto di tappe, via via che si va avanti se ne trovano di nuove. Certo, ci si guarda
indietro, però per ora cerchiamo e speriamo di registrare cose nuove e non rimanere
fermi su quelle che sono le basi ma cercare delle evoluzioni.
F.: L’attuale disco presenta dei pezzi ri-arrangiati dall’EP però dall’ascolto della
prima versione a quella attuale si possono notare le evoluzioni dei So! che vanno
dal suono alla struttura stessa dei brani rispetto a com’erano stati concepiti. Dunque
magari un giorno sarebbe bello poter ristampare l’EP, però riprendere i pezzi di
prima mi sembra difficile.
Qual è il vostro modo di comporre. Voi avete una struttura di base post rock
molto presente e poi delle improvvisazioni attorno però come venite a capo
del singolo brano?
L.: È strano perchè noi ci troviamo a La Stanza e improvvisiamo e tutto nasce da lì,
dai quattro strumenti. Iniziamo a suonare poi vengono fuori i pezzi che ovviamente
come si può sentire dall’album vengono tutti strutturati però nascono dalle
improvvisazioni degli strumenti chitarre, basso e batteria.
Dove avete registrato il disco?
L.: Il disco l’abbiamo registrato vicino Napoli ad Arco Felice dove si trova lo studio
della Seahorse: il vecchio studio in realtà perché adesso si sono trasferiti in
Toscana. Siamo stati due settimane a registrare assieme a Paolo Messere che ci ha
permesso di misurarci con lo studio e provare la nostra capacità di costruire i brani
dall’improvvisazione e come questa potesse modellarsi al momento della
registrazione. Speriamo sia andata bene.
Ma voi preferite registrare le canzoni o suonare per la gente che vi ascolta
live?
F.: La cosa più bella è suonare sinceramente. Certo, quando ci siamo chiusi due
settimane a suonare ad Arco Felice si è creata una grande empatia tra di noi e si è
rafforzato il rapporto umano, però quando si suona live hai tutta la carica che ti può
dare un pubblico e un palco.
L.: Penso che “Stonen Time” risenta dell’ingabbiamento del supporto disco. Nel live
invece pensiamo che la nostra musica possa rendere il doppio rispetto a quanto
rende su CD, quindi fateci suonare.
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Finora qual è stata la vostra esperienza dal vivo più bella?
F.: Ce n’è una buffa. Eravamo a Pistoia. Quella sera è stata particolare, anche se
c’era poca gente chi ascoltava lo faceva coinvolto. Ad un certo punto, si è
presentato un personaggio abbastanza strano di una certa età sulla sessantina che
pretendeva di cantare con noi perché notandoci strumentali voleva “aiutarci”.
Insomma piano piano la serata è andata degenerando e ha cominciato a cantare
davvero. Poi abbiamo scoperto che era un vecchio bluesman solo che era arrivato
un po’ alla frutta, però la gente esplose e la serata fu bella.
Visto che siete strumentali pensate che un giorno aggiungerete una voce o va
bene così?
F.: I nuovi brani che stiamo preparando in questo periodo prevedono l’aggiunta di
una voce e anche di nuovi strumenti. Come si può ascoltare dal quinto brano c’è
l’ingresso di un sassofonista. Da lì c’è venuta l’idea d’inserire lo strumento in
maniera più stabile ad esempio, però si parla sempre di registrazioni e di
collaborazioni live perché noi So! vogliamo rimanere quattro.
Ma voi avete una sala prove che si chiama La Stanza o suonate proprio in una
stanza?
L.: È venuto fuori l’inghippo. Da noi in Toscana la sala prove si chiama “stanza” e
ognuno se le ricava come può. Noi abbiamo un garage e l’abbiamo adibito a Stanza
dove viviamo la maggior parte delle giornate.
Voi siete per i concerti brevi 40/45 minuti o vi piace spaziare?
F.: 40/45 minuti: hai azzeccato il tempo dei nostri concerti. Noi cerchiamo di mettere
insieme tutta la carica che i nostri live possono dare in un tempo abbastanza ridotto
e per la nostra musica vanno più che bene tre quarti d’ora. Poi quando saremo al
settimo disco magari cambieremo idea.
Contatti: www.myspace.com/sogroup
Francesca Ognibene
Wah Companion
“Io francamente non mi aspetto più nulla da niente e da nessuno…”: c’è per certi
versi tutto il senso della Wah Companion e tutto il carattere del suo leader, Ru
Catania, in questa franse che apre la nostra chiacchierata.
Conosciamo Ru da molto tempo, prima per un casuale incontro a Roma (si parla di
una decina d’anni fa, o più) e poi via via sempre meglio per i frequenti incontri in
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quella che è per lui la sua veste più abituale e conosciuta: essere il chitarrista degli
Africa Unite (colui che ha preso il posto di Max Casacci… mica poco…).
“Ne ho discusso con Madaski più volte: è assodato che nel momento in cui la Wah
Companion dovesse prendere una piega diversa, diventando una cosa seria
davvero, la mia scelta sarebbe chiara. Nella Wah assieme a Rudy e Kasko suono i
miei pezzi e canto i miei testi, è qui che sta il mio cuore, è questo il tipo di chitarra
che mi piace suonare. Dopo dodici anni di Africa Unite, ancora ci sono dei momenti
in cui devo mettere su una concentrazione pazzesca per suonare bene la chitarra in
levare, per sentirla com’è giusto che sia; mentre il tipo di chitarra che senti nelle
cose della Wah mi viene subito al cento percento naturale. Però il punto è che come
Wah Companion non abbiamo più voglia di svenderci. Non perché siamo altezzosi;
le prime date le abbiamo fatte ancora nel 2000, nel 2001, ci siamo fatti le nostre
migliaia di chilometri in furgone, abbiamo dormito nei posti più assurdi… non ci è
certo mancata la gavetta. Oggi però penso alla Wah come ad un progetto di qualità.
Se qualcuno si accorge che è una figata, bene; sennò, amen. Siamo molto sereni su
questo punto. Siamo prontissimi a tornare a fare cose da gavetta se convinti che ne
valga la pena, sia chiaro, ad esempio per fare qualche altro concerto all’estero. Per
ora va bene così. Tanto più che comunque io negli Africa non mi sento un semplice
turnista, questo ci tengo a dirlo”.
“Quasi tutto liscio” (Lady Lovely/Venus) lo abbiamo recensito nello scorso numero
di “Fuori dal Mucchio” con parole entusiastiche, un esplosivo, sapido e intelligente
congegno rock’n’roll; del resto, basta ascoltarlo il disco, e la cosa risulta evidente. Il
dubbio è che non tutti lo facciano. O se lo fanno, lo fanno distrattamente, armati di
qualche pregiudizio di troppo. Il punto di vista di Ru sulla questione è chiaro e
piuttosto affilato: “Mi chiedi se esiste in Italia una precisa scena, di taglio
indie-alternativo? Certo che esiste. E sono decisamente orgoglioso di non farne
parte. La Wah da questa scena è sempre stata snobbata ed esclusa, e francamente
la cosa non mi toglie certo il sonno. Ho cercato più volte di capirne il motivo, ma ad
una vera risposta non sono mai arrivato. Immagino però che il fatto che io sia noto
come il chitarrista degli Africa Unite abbia giocato a nostro sfavore, ci avranno visto
limitandosi sulla carta ad immaginarci come un gruppo di fighetti con la puzza sotto
il naso. Prendiamo il ‘Miami’: è quella la scena, no?, eccola tutta lì. Non solo non ci
hanno chiamati a suonare, ma quando qualcuno al posto nostro ha provato a
proporci le risposte sono state le classiche frasi elusive tipo forse è tardi, ci sa che il
cast è già completo, non c’è più spazio… Ho visto la scaletta del festival: chiedo
scusa, ma per me in una buona parte dei casi il paragone con la Wah non comincia
nemmeno. Detto questo, sia chiaro che a nostro modo di vedere in quella scena ci
sono comunque persone simpatiche e gente che lavora bene”.
E per quanto riguarda non in generale le scene musicali ma proprio una sua
categoria specifica, ecco il sarcastico inno-invettiva “Critico musicale”… “Non avevo
in testa una persona specifica. Diciamo che fra i giornalisti musicali riscontro spesso
situazioni che mi lasciano allibito. C’è tutt’ora una grande esterofilia, ancora oggi
viene dato poco spazio alle cose che ci sono in casa nostra; e fra questo, spesso le
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scelte sono… beh… diciamo che speravo che certi atteggiamenti fossero ormai
sorpassati. Ho visto esponenti importanti ed autorevoli del giornalismo musicale
italiano alzare cori di meraviglia perché in un tal gruppo c’era uno che suonava la
tastiera col naso. Il problema non è suonare la tastiera col naso, nessuna
pregiudiziale contro questo, figurati poi che io sono il contrario dell’ipertecnicista; il
problema è che ti spacciano come nuova, incredibile e rivoluzionaria una cosa che
già si faceva trent’anni fa. Questo è grave, da parte di chi invece dovrebbe tirare le
fila sullo stato artistico e creativo della scena musicale odierna”.
Contatti: www.wah.it
Damir Ivic
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‘A67
Suburb
Polosud/Edel
Legati a doppio filo a Scampia: di sicuro è il momento giusto per uscire
discograficamente, approfittando del clamore mediatico attorno a “Gomorra”, libro e
film. E infatti, non a caso, nella bonus track di “Suburb”, appare Saviano in persona
che legge un passo di “Gomorra” (il libro). Bando ai cinismi però: ci sembra
comunque che tutta l’operazione sia assolutamente sincera e sentita, e del resto gli
‘A67 non nascono ieri. La loro storia inizia quattro anni fa, prendendo la prima spinta
da “Demo”, programma radio Rai meritorio ma con, a nostro modesto parere,
un’impostazione un po’ vecchia, più pacificamente onnicomprensiva che selettiva.
Nel 2005 il loro album d’esordio “‘A camorra song’io” miete riconoscimenti, tre anni
dopo il suo seguito colleziona ospiti importanti come Mauro Pagani, Francesco Di
Bella e ‘O Zulu (ex 99), più l’apporto del già citato Saviano e di un’altra voce molto
importante della letteratura napoletana, Valeria Parrella. Tutto DOC. Ad aggiungere
il tocco di multietnicità, per mettere in campo i vari sud del mondo, ospiti da India,
Brasile, Marsiglia e Istanbul. Tutto quadra insomma. Tutto però non prende mai
veramente il volo. È solido, è suonato e cantato con fiera convinzione, è rock, è
talora intenso per quanto riguarda i testi; ma non arriva ad entusiasmare davvero.
Manca quel passo in più, mancano soprattutto trovate sorprendenti (o di classe
vera) nella scrittura musicale. Non escludiamo possano arrivare in futuro, il
potenziale c’è. Ma c’è ancora strada da fare, per uscire dalla medietà del rock (
www.a67.it).
Damir Ivic
Alix
Good1
TrebleLabel
Un curriculum di tutto rispetto alle spalle (un tour con gli scandinavi Pawnshop e
Dozer e gli americani Hidden Hand del leggendario Scott “Wino” Weinrich) e quattro
CD all’attivo: “Alix” (1997), “Cuore in bocca” (1999), “Nessun brivido” (2001) e
“Ground” (2004). Sono gli Alix, quartetto bolognese formatosi nel 1997 e guidato
dalla personalità forte e carismatica di Alice Albertazzi. Il loro stile, definito
“psychedelic groove rock”, è al confine tra hard rock, psichedelia, stoner e blues.
Questo è il loro quinto lavoro, registrato e mixato da sua maestà Steve Albini al Red
House Recordings di Senigallia e masterizzato a Chicago da Bob Weston. Un
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album che vive dell’alternanza tra cavalcate psichedeliche e parti più rilassate
(“Bianco e nero”, unico brano in italiano). Elementi trainanti del loro sound sono la
chitarra fuzzata e ipnotica di Pippo De Palma, con i suoi dilatati riff
kyuss/sabbathiani, la magnetica voce soul-blues di Alice (un incrocio tra PJ Harvey
e Janis Joplin) e la granitica sezione ritmica di Gianfranco Romanelli – artefice
anche dei deraglianti slide-blues di chitarra – e Andrea Insulla. Tra mantra
psichedelici (“Don’t Run Ahead”), atmosfere desertiche e visionarie che sembrano
ispirate dal sole rovente della California, momenti più incalzanti e rock’n’roll (su tutti,
“Emotion”, “Solid As A Stone” e la trascinante “Without You”), gli Alix conquistano
per la loro carica di emotività e raffinatezza sonora. In edizione limitata a 500 copie
numerate, il disco è reperibile ai loro concerti estivi e uscirà in autunno sulla loro
etichetta TrebleLabel. Una menzione a parte merita l’artwork di copertina realizzato
dalla fumettista di fama internazionale Francesca Ghermandi (
www.myspace.com/alixband).
Gabriele Barone
Ance
Lavoretto a catena
Snowdonia/Audioglobe
Si aggiunge un nuovo frammento al “mistero snowdoniano” di Cinzia La Fauci e
Alberto Scotti. La ragione sociale è Ance ma l'insolito pseudonimo altro non è se
non una scusa per dare spazio ai pensieri piacevolmente scardinati dell'empolese
Andrea Lovito. Uno che è nello stesso tempo musicista di strada e artista di
spessore, narratore ironico e notevole arrangiatore e che arriva all'esordio
discografico – dopo una lunghissima serie di autoproduzioni - confezionando una
proposta che unisce ragtime, musica d'autore, suoni bandistici e testi impegnati.
Storie di strada che diventano biografie, come nel caso dell'iniziale “Rompicollo”
dedicata al compianto Buster Keaton o che in “Media vita” affrontano la mediocrità
culturale diffusa, che si trasformano in ritratti surreali (“Vampiro” e “Clone”) o che
annegano in nonsense funkeggianti dai risvolti inaspettati (“Schuper”). A dar man
forte al Nostro, un nutrito gruppo di collaboratori, impegnato a far risuonare una
sezione strumentale che comprende, tra gli altri, il clarinetto di Nico Gori, il
pianoforte e la fisarmonica di Emiliano Benassai, la tromba di Moris Malarico, la
chitarra di Joris Visquesnel, la batteria di Stefano Tamborrino, il contrabbasso di
Claudia Natili. Una formazione in grado di creare musica diretta e senza fronzoli per
un progetto che ha tutto l'aspetto di una boccata d'aria fresca in un duemilaotto già
afoso oltre ogni limite (www.myspace.com/ancemusic).
Fabrizio Zampighi
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Carlo Muratori
La padrona del giardino
Odd Times
Dopo sette anni di silenzio, ecco il seguito di “Plica colonica”, e anche in questo
caso la reinterpretazione del dialetto siciliano in chiave folk è alla base del modo di
concepire la musica di Carlo Muratori. “La padrona del giardino” è un album pieno di
storie vive, raccontate con la tenerezza di un nonno al nipotino. “Il tamburo” che
apre le danze attraverso il battere e il levare contrapposti alle pulsazioni lievi e
profonde, coglie il concetto di passione. “Assah riri” ovvero “Lasciali dire” in dialetto
siciliano, attraverso cori e sonorità ricolme di sole svuota intrecci
folk-arabebeggianti. Da segnalare la bellezza infinita di “Stranu amuri”, tra violini e
boccate vive di dolcezza degna di un Joe Giovanardi. Il cantante alza i toni con la
trascinante “Fabbrico”, che vuole essere autoironica riferendosi al proprio cognome,
ma parafrasandolo vuole costruire una nuova Sicilia e renderla non mitica ed
eccezionale ma solo più libera e normale. Torna soffuso grazie al bansuri in primo
piano su “L’amore che beve” – testo tratto dal racconto “Il treno di cartone” di
Veronica Tomassini –, sognante racconto di una sofferenza senza fine e per questo
profonda e forte. “M’pare”, rivisitazione della già edita “Ciccio”, fa anche parte della
colonna sonora del film “L’uomo di vetro”di Stefano Incerti. Una canzone che ne
critica un’altra più antica e cerca di svecchiarla come anche quella sorta di gospel
moderno che può essere “Cantari cantari”. Il finale infine, non poteva che essere
commovente con una ballata “Il sipario” da piano bar nel cuore della notte, magari
per la cameriera che sbarazza i tavoli e quell’unica ragazza che non aspetta altro
che un’emozione (www.carlomuratori.it).
Francesca Ognibene
Carneìgra
Santinsaldo
autoprodotto
Nell’epoca che utilizza le religioni per la vendetta e per l’odio, i santi sono in saldo,
“buste di plastica vuote perdute nel vento”. La capacità è quella di cogliere e fissare
l’attimo, gli attimi, come in un obiettivo. È forse per questo che molti episodi, nel
secondo lavoro dei Carneìgra, sono di stampo situazionista: le swinganti “Scusi
mister” e “Pazza e palese”, l’ironica allegoria de “La nave” che traballa su malsicuri
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tempi dispari alternati al dondolio dei 6/4. Sarà anche per questo, se il gruppo si
affida a volte alla parola dei poeti: Pablo Neruda, musicato in un pop-rock alla basca
nel brano “Esplico algunas cosas”, e poi un pezzo che ha per titolo, direttamente,
“Giorgio Caproni”.
Tambureggianti, titolari di un progetto che vanta onestà artistica, anche se novità
non molta, i Carneìgra. A metà scaletta c’è il momento migliore del disco,
“12.08.1944”, che rievoca maestosamente la strage di S. Anna di Stazzema. Più
prescindibili “Filastrocca” e “Nss”, che declina in un miscuglio di linguaggi il
guazzabuglio multietnico; interessante invece la traccia conclusiva
“Cinquantunperme”, con il sax baritono di Alessandro Riccucci che stende le sue
note sarcastiche sotto una ballata allucinata alla Tom Waits. Quanto più la bussola
si scosta dalla retorica del folk-neo-popolare-combattente, tanto migliore è il risultato
per la band livornese. Il gruppo si muove attorno alla voce di Emiliano Nigi, ma non
mancano le qualità individuali nel sestetto. Tra le altre, l’ex chitarrista degli
Snaporaz Matteo Pastorelli e il batterista Simone Padovani, già Ottavo Padiglione.
L’album si acquista in packaging elegante ai concerti del gruppo, oppure è
scaricabile gratuitamente, nella sua nuda versione, sul sito www.carneigra.it.
Gianluca Veltri
Dargen D’Amico
Di vizi di forma virtù
Talking Cat/Universal
Assolutamente e insolitamente monumentale, trentacinque tracce spalmate su un
doppio cd, ed in effetti molto coraggioso: questo è “Di vizi di forma virtù” di Dargen
D’Amico, che gli affezionati dell’hip hop italiano ricorderanno già dai tempi delle
Sacre Scuole, parliamo di un decennio fa e di una crew da cui sono usciti fuori i
Club Dogo, e che fin dagli esordi ha sempre dimostrato notevole personalità. Non
solo, perché col passare del tempo ha dimostrato anche di saper lavorare su se
stesso, da semplice ed ipertecnico battle MC che bada al sodo e alla sfida in rime
ad evoluto e concettuoso autore. Con questa ultima incarnazione ha già diviso la
scena hip hop nostrana, Dargen, e non c’è da sorprendersi: il suo rap è spessissimo
oltre il limite e soprattutto oltre la metrica, con una cadenza insistente che si spinge
fino ai territori percorsi da gente tipo Anti Pop Consortium; roba che può essere
ammirevole e detestabile al tempo stesso. Dal canto nostro, vogliamo senz’altro
riconoscere dei meriti a “Di vizi di forma virtù”. Ad esempio, quello di sforzarsi di
andare decisamente oltre ai luoghi comuni contenutistici del rap, inseguendo la
realtà e non formule prestabilite, con una introspezione talora morbosa (e quindi
coraggiosa). Musicalmente poi ci sono molte cose buone (in primis il lavoro di Phra
dei Crookers, vedi “Alì il thailandese”) e la varietà di stili e produttori delle basi è ben
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gestita ed amalgamata. Le riserve stanno le fatto che questo LP è un magma, un
monumentale magma che andava comunque ridotto, asciugato, messo meglio a
fuoco. Per dire dei testi, in ogni pezzo ci sono sempre parecchie strofe ottime,
alcune memorabili, ma altre trascurabili e sforzate. Bisognava sfrondare. Per intanto
accontentiamoci: Dargen si staglia decisamente al di sopra della media e di alcune
medietà del rap italiano, ed è già un bel risultato (www.myspace.com/dargendamico
).
Damir Ivic
Dedalogica
Dedalogica
Zeit Interference/Eventyr/BTF
Anni, decenni trascorsi a suonare, a dare un senso ad una passione, per ritrovarsi
alle soglie del mezze secolo di vita e scoprire, che di tanta energia, nulla è stato
fissato su CD. Arriva però l’occasione, offerta dalla Lizard, che con la sua filiale Zeit
Interference, permette a questo quartetto campano (di Avellino per la precisione), di
dare sfogo alla scelta di non omologarsi – come spesso accade – sui sentieri della
nostalgia, ma di guardare oltre, di cercare una possibile nuova soluzione. Perché il
rock – rock? – progressivo una volta aveva l’ambizione di progredire davvero, di
offrire una prospettiva se non nuova, almeno diversa, alla moltitudine di suoni che
ovunque ci piovono addosso. Diciassette tracce, diciassette improvvisazioni, che
danzano cupe come la colonna sonora di un film di David Lynch, incubi quotidiani
frastagliate di sperimentazioni sonore ora jazz, ora rock, ora elettroniche ora… nulla.
Niente da consumare a colazione, perché si attraversano i due minuti di
“Transumanze parallele”, i quattro “L’insetticida acustico” e “Duartetto”, ma anche gli
oltre otto di “Il topo grafico” e “Nuovo alfabeto”, per dare vita alla volontà di non
fermarsi alla superficie, perché tutto è possibile dove c’è la tenacia di evitare
l’evitabile. “Dedalogica”, l’album e la band, sono il risultato di chi si scaglia contro il
conformismo e tra tastiere inquiete, campionature, fiati (sax vari, trombe e flauti) e
occasionali chitarre e basso, risvegliano antichi demoni di Soft Machine e certe
evoluzioni di scuola Trans Am e Servotron, che sembra ieri, ma è roba che ha già
più di dieci anni. Due medici, un architetto e un insegnante, che invece di litigare per
un pallone disegnano e suonano allucinazioni e incubi, coraggiosamente, contro
l’apatia musicale. Perché, come dicono loro stessi, sono una ricerca di idee
connesse e coerenti in un intrico di vie e passaggi. Ostici e affascinanti (
www.lizardrecords.it).
Gianni Della Cioppa
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Diva Scarlet
Non + silenzio
autoprodotto
Quattro anni separano questa seconda prova delle bolognesi Diva Scarlet
dall’esordio “Apparenze”; quattro anni in cui la loro etichetta, la Mescal, di fatto ha
chiuso i battenti, ma anche quattro anni di concerti, viaggi ed esperienze, che ora
confluiscono in “Non + silenzio” mettendo in luce una innegabile maturazione e una
maggiore consapevolezza dei propri mezzi. Grazie anche alla produzione di Giulio
“Ragno” Favero (One Dimensional Man, Il Teatro degli Orrori, Putiferio), la band
sfoggia una compattezza invidiabile: la batteria pesta duro, il basso la sostiene con
note rotonde e rocciose, le chitarre disegnano geometrie sfuggenti e spigolose e la
voce di Sarah Fornito canta di rabbia e dolore senza però perdere mai di vista la
sua intrinseca propensione alla melodia. Ciò che ne scaturisce sono quindi canzoni
potenti e dal notevole impatto urticante, oltretutto ricche di sfumature e finezze in
sede di arrangiamento, alternate a un pugno di ballate altrettanto efficaci,
dall’acustico-orchestrale title track incentrata sul tema della violenza domestica alla
pianistica “La stanza dei giochi” fino alla conclusiva e raffinata “La giusta distanza”,
realizzata in collaborazione con Moltheni. Se l’alternativa era l’oblio, bene ha fatto la
band ad autoprodursi, ché canzoni come queste – pur con qualche alto e basso in
fase di scrittura – meritavano di essere date in pasto al pubblico, e soprattutto
meritano di essere ascoltate dal vivo: se tanto ci dà tanto, deve essere
un’esperienza notevole (http://www.divascarlet.it/).
Aurelio Pasini
Drunken Butterfly
Maggio giardinaio
Seahorse/Goodfellas
C’è qualcosa che ancora non ci convince del tutto nella produzione musicale di
questa formazione marchigiana giunta ora al secondo album. Non la consueta cura
con cui Paolo Messere ha messo su nastro le canzoni, firmando con il marchio
Seahorse l’uscita. E neppure l’idea di fondo che ha prodotto questa musica, una
canzone in italiano vagamente decadente, sporcata di coloriture noise e sbavature
soniche assortite, con il pianoforte a contendere la scena alle chitarre. Il fatto è che
mancano, a queste canzoni, le canzoni stesse. Troppo esangui e indistinte, a tratti,
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le melodie, troppo poco convincente la voce in più di una occasione, non sempre
memorabili i testi, a tratti un poco ingenuo. I momenti migliori sono senz’altro lo
strumentale “Marcia dell’Europa”, solenne partitura tra classicismo misurato e sapori
krautrock, come dei Kraftwerk a mollo nell’indolenza indietronica, che perdono in
rigore formale ma non la malinconia di fondo, e “Come d’inverno”, con un pregevole
incrociarsi di ritmi spezzati, organi marmorei e arpeggi di chitarra dalle minime
variazioni, con un finale in accumulo che avvince e avvolge, e un cantato
vagamente monotono, debitore di certe litanie dei CSI, che per una volta non incide
sulla riuscita del pezzo, ma anzi ne valorizza per contrasto le dinamiche. Ma come
abbiamo detto, non sempre le cose vanno in questo modo. Ci auguriamo che il
gruppo riesca a superare quelli che alle nostre orecchie appaiono come gli ultimi
ostacoli per la messa in pratica di una musica più compatta e solida, con meno
dispersioni. (www.myspace.com/drunkenbutterflyband).
Alessandro Besselva Averame
E.Drunks
Con tutto l’amore del mondo
Hotfarm/Jestrai
Non sappiamo quanto lunga sia stata la gavetta di questi quattro ragazzi vicentini,
ma una cosa è sicura: sono arrivati al debutto discografico con le idee
maledettamente chiare. “Con tutto l’amore del mondo” possiede tutto quello che si
può volere da un album di indie rock nel 2008. Testi che catalogano miserie umane,
miscelati con potenti suoni white funk, citazionismo new wave anni 80 e qualche
concessione al sarcasmo. Diretto come un pugno nello stomaco il disco si apre con
una doppietta folgorante (“Kentmentolata”, “Nuda”). Le chitarre sono taglienti, a tratti
anfetaminiche, i synth dal gusto rétro fanno capolino spesso e volentieri, la voce è
stentorea, rabbiosa, a tratti nauseata (“…costretti a digiunare per piacere di più agli
specchi dei nostri difetti…” canta Rino dopo nemmeno un minuto).
Questi due brani danno la misura delle restanti tracce senza tuttavia sminuire niente
di ciò che verrà subito dopo. Al contrario, proseguendo nell’ascolto si riesce ad
apprezzare l’abilità del quartetto nel dare al progetto una direzione omogenea,
mantenendo sempre il giusto grado di tensione. A tratti si scorge con la coda
dell’occhio l’ombra degli Wire, il ciuffo di Alex Kapranos, le strade vuote di Firenze
20 e passa anni fa, ma non c’è mai una vera e propria sensazione di già sentito. Alla
fine di questa breve corsa (trentacinque minuti, ché anche questo sembra un tratto
distintivo del 2008) la band trova anche il tempo di allentare la morsa con un brano
dai richiami psichedelici (“Rana”). Ad un primo ascolto potrebbe sembrare fuori
posto e invero, confidiamo che questa vena venga sfruttata maggiormente in futuro (
www.e.drunks.it).
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Giovanni Linke
El Topo
Pigiama psicoattivo
Off/Audioglobe
Era stato un’autentica meraviglia, “La vita perfetta”, l’album d’esordio di Adriano
Lanzi e Omar Sodano del 2004 uscito per la Klangbad. Elettronica intelligente ed
evoluta, soprattutto capace di corposità jazz e non solo di ninnoli rumoristi e
minimali – merce rara, in questi anni. Seguendo questo istinto verso la corposità, i
due hanno incamerato altri due compagni di viaggio, Andrea Biondi a vibrafono e
percussioni e Francesco Mendolia alla batteria, cambiando così la ragione sociale in
El Topo. Nome non del tutto convincente, visto che fa pensare più a un side project
di Davide Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi Morti… davvero, non rende l’idea. Noi,
diciamolo subito, siamo nostalgici dell’incarnazione a due, siamo nostalgici de “La
vita perfetta”. Lì Lanzi e Sodano avevano la necessità di costruire loro da soli tutta
l’architettura sonora ed erano così costretti a strade più creative; una volta
incorporati in una struttura normale come quella di un quartetto (più ogni tanto ospiti
di buon prestigio e varia provenienza), risultano meno “eccezionali” – sia nel senso
etimologico che in quello qualitativo del termine. Sia chiaro: “Pigiama psicoattivo” è
veramente un buon disco, la direzione è quella dei Tortoise più legati al jazz, la
competenza strumentale e compositiva è da Serie A. Anzi, da Champions League,
visto che lo standard è di livello assolutamente internazionale, su questo vogliamo
essere chiari. Traccia migliore? “Telegraph Dakar”, anche se uno dei pregi di questo
disco è la mancanza di cadute di tono e cali di tensione. Ovvio, qualche momento
concettuoso ed involuto c’è, ma è quasi fisiologico quando si ha una grande cultura
musicale e competenza tecnica da gestire (www.myspace.com/eltopogroup).
Damir Ivic
Esterina
Diferoedibotte
Nopop/EMI
La storia dei toscani Esterina affonda le radici nella formazione degli Apeiron, attiva
per oltre un decennio tra concerti e registrazioni più o meno sotterranee. Poi il
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cambio di ragione sociale e l’incontro con Guido Elmi, che ne ha prodotto il disco di
esordio e lo ha fatto uscire per la sua etichetta, la Nopop (ed è probabilmente grazie
ai di lui buoni uffici che il quintetto è stato invitato ad aprire gli ultimi live di Vasco
Rossi). In effetti, si sente che dietro a “Diferoedibotte” c’è la mano di un produttore di
esperienza, ché i suoni sono semplicemente impeccabili e gli arrangiamenti pure.
Più di tutto, però, si sente la maturità di una band che, in questi anni, ha saputo
crearsi un proprio personale immaginario, tanto lirico quanto sonoro: da una parte,
le coordinate di un urticante rock chitarristico di stampo marleniano vengono
sovente superate grazie all’uso di sintetizzatori, pianoforte (anche elettrico),
melodica e vibrafono; dall’altra, i testi trascendono in chiave
visionario-impressionistica la quotidianità che descrivono (da qui, immaginiamo,
l’uso ricorrente di alcuni termini di matrice dialettale) senza però perdere alcunché in
fatto di impatto. Canzoni rocciose, che avvolgono e feriscono, mentre la voce di
Fabio Angeli disegna buone melodie la cui orecchiabilità è però spesso volutamente
messa in dubbio da parole non altrettanto facili. Un buon esordio, insomma, che
rilegge in chiave sufficientemente personale stilemi già ben noti e – pur senza fare
miracoli – si fa apprezzare tanto nel particolare dei singoli brani quanto nella visione
d’insieme (www.esterina.it).
Aurelio Pasini
Flavio Ferri
Apparentemente esisto
autoprodotto
Il debutto solista di Flavio Ferri, già mente dietro la sigla Delta V, è un lavoro
artigianale fatto in proprio. “Scritto cantato suonato registrato programmato mixato
da Flavio Ferri nella sua camera da letto a Salsomaggiore Terme”, si legge nei
crediti.
Non in vendita nei negozi, l’album è una dichiarazione di esistenza dopo l’addio a
Milano con trasferimento a Salsomaggiore. “Made in cameretta”, dunque, ma i tempi
sono cambiati dalle ballate gonfie di spleen voce & chitarra, registrate con la fronte
sul vetro della finestra. Il disco di Ferri è fatto di computer e, al 90 percento, di basso
e batteria, come afferma con fierezza il suo artefice.
“Apparentemente esisto” – disponibile anche per il download gratuito – è
l’espressione di una techno scura e filmografica. Il rimando più ovvio (ma inevitabile)
è ai Subsonica, seppur con minori concessioni e minore ricercatezza, perché qui
vige la regola del “buona la prima”. E poi perché il suono di Ferri è ferroso (!), più
duro e metallico. Con qualche eccezione: “Il salto” si snoda dentro un groove in
ottimo relaxing, “Se la mia fatica sale” è un soul in tempo lento con campanellini a
scandire ritmo e toni. Alcuni episodi (“Apparire scomparire”, “Una risposta di troppo”)
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suggeriscono anche qualche link con la seconda stagione dei Gang Of Four, con
quella post-wave elettronica, corrosa, finto-disco, le linee di basso in primissimo
piano.
Le quindici tracce si susseguono in un concept iconoclasta e claustrofobico, o una
suite post-industriale, con schegge di brani dalla durata anche di soli uno-due
minuti, alcuni che pompano mozzafiato e allucinogeni, altri più orientati verso una
forma-canzone elettronica (www.flavioferri.it).
Gianluca Veltri
Folkabbestia
Il segreto della felicità
Edel/UPR
I Folkabbestia, al pari di artisti come la Bandabardò, si sono trasformati, nel tempo,
da emergenti a punto di riferimento per la scena musicale italiana. Una sorta di
istituzionalizzazione forzata la loro, ottenuta a suon di concerti in giro per lo stivale e
grazie ad una proposta musicale qualitativamente ineccepibile. Il passaggio al
nuovo status veniva implicitamente celebrato un paio di anni fa con quel “25-60-38.
Breve saggio sulla canzone italiana” che “coverizzava” alla maniera della band
barese quattordici brani provenienti della tradizione italiana, uno scarto reso ora
definitivo dalla la pubblicazione del nuovo “Il segreto della felicità”.
La formula, per i quindici inediti del disco, è a grandi linee la stessa di sempre,
ovvero folk battagliero e in levare innamorato della tarantella (“Risveglio
dell'incanto”), sporcato di reminiscenze irlandesi (“Il segreto della felicità”), figlio
delle ballate popolari (“Il brigante innamorato”), parente stretto dello ska (“Rovo da
more”), su testi che spingono alla riflessione. Nello specifico su problemi come
l'immigrazione (“Il sogno di Mhedy”) o magari sulla felicità nascosta nelle piccole
cose (ancora la title track), sul destino (“Cartomanzia”) o sui sogni di libertà (“Poesia
al potere”). Il tutto viene affrontato con la solita attitudine fricchettona e libertina
ormai diventata un tratto distintivo della formazione, gioiosa ed efficace - neanche a
dirlo - soprattutto in dimensione live ma capace di regalare buoni momenti anche su
disco (www.myspace.com/folkabbestia).
Fabrizio Zampighi
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Numero Luglio/Agosto '08
Hell Demonio
Discography
Wallace-Robotradio/Audioglobe
Spetta ai veronesi Hell Demonio l’onore e l’onere di marchiare a fuoco la centesima
uscita della Wallace Records che, come per il debutto “Greatest Hits” (2005),
co-produce con la Robotradio di Trento: due etichette di punta del nostro
underground, che si muovono al confine tra rock, sperimentazione e avanguardia.
Dopo il fulminante esordio, assestato su strutture tipicamente hardcore-noise
combinate con un approccio selvaggiamente rock’n’roll, gli Hell Demonio aggiustano
il tiro, elaborando un suono più curato negli arrangiamenti, meno istintivo e più
calibrato, che tuttavia non rinuncia alla sua forza d’impatto. A risaltare stavolta non è
più la violenza e brutalità sonora ma costruzioni più raffinate, che mescolano il post
hardcore spigoloso e anthemico dei Fugazi con il noise tagliente e corrosivo dei
Jesus Lizard, i riff hard-blues degli AC/DC con gli assalti punk’n’roll degli Hives.
Dieci brani di rock’n’roll realmente indemoniato, tra i quali si distinguono
l’hard’n’roll/noise di “Arms Stolen To Farms” e “Message In A Butthole” e le trame
fugaziane di “Foresaking My Husband Years”. Prodotto a metà tra l’Italia (da
Maurizio Baggio all’Hate Studio di Vicenza) e gli Stati Uniti (da Bob Weston,
bassista degli Shellac, al CMS di Chicago), “Discography” è uno dei dischi rock
italiani più riusciti del 2008 e gli Hell Demonio si riconfermano come una delle più
solide promesse del rock indipendente nostrano (www.myspace.com/helldemonio).
Gabriele Barone
Le Gorille
Le Gorille
Nino Records
Sono in tre i Le Gorille, hanno tutti ventisei anni e vengono da Livorno. E – ecco la
cosa fondamentale – fanno un rock strumentale che non annoia praticamente mai.
Di quanti altri gruppi si può dire lo stesso? Il bello è che la band, per costruire le
proprie tessiture sonore, non si appoggia alle circolarità, alle dinamiche esplosive e
agli sperimentalismi del post-rock, ma si muove su un territorio più impervio proprio
perché di maggiore accessibilità: a metà strada tra colonne sonore d’antan e
canzoni vere e proprie, le composizioni del gruppo giocano con suggestioni e
sfumature, con i vuoti e i pieni, con il rock e il jazz, con le note di un pianoforte e con
una chitarra elettrica sporca e spesso acida, mentre la batteria sostiene il tutto
senza mai strafare. Tante quindi le atmosfere evocate, lungo il confine che separa
l’ironia colta dalla fisicità, con rispetto per la tradizione (uno dei nomi che fa capolino
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tra un pezzo e l’altro è quello, per esempio, di Nino Rota) ma con sufficiente
personalità per smarcarsene quando serve, pur senza andare a finire del
decostruzionismo rumoristico di un John Zorn o di un Mike Patton. Tanto per servirci
di un luogo comune, musica che sembra l’ideale accompagnamento per un film
immaginario, e che per questo ha la capacità di far viaggiare la fantasia
dell’ascoltatore e di solleticarne la curiosità, senza però perdersi in cerebralismi e
arrivando subito al sodo. Una gradevole sorpresa (da non farsi sfuggire, visto che il
CD costa solo 5 euro), che speriamo nel tempo sappia trasformarsi in una solida
certezza (www.myspace.com/legorille).
Aurelio Pasini
Lleroy
Juice Of Bimbo
BloodySoundFucktory/Valvolare/SweetTeddy/Marinaio Gaio
Sono tre ragazzi di Jesi (Ancona), ma suonano rock come se avessero anni di
esperienza alle spalle. Riescono a coniugare con disinvoltura sconcertante
compattezza, padronanza tecnica e violenza sonora. Insieme ai Butcher Mind
Collapse sono il gruppo di punta della prolifica scena underground marchigiana. Se
quelli rappresentano l’attualizzazione in chiave “no wave” del blues e del punk, i
Lleroy sono il punto d’incontro tra il grunge-punk dei Nirvana e il noise più efferato di
scuola chicagoana e newyorkese (Jesus Lizard, Shellac, Unsane, Helmet). Il power
trio marchigiano è al suo debutto, registrato e mixato da Giulio Favero (ex One
Dimensional Man, adesso in Il Teatro degli Orrori e Putiferio), vero marchio di
fabbrica per le sonorità più distorte e malate della Penisola. L’incipit del disco è
affidato alla corrosiva “The Lost Battle Of Minorca”, che richiama il brutale
noise-core dei Pissed Jeans. Segue “Magnete”, incrocio tra i Jesus Lizard più
“matematici” (quelli di dischi come “Goat” e “Down”) e gli Shellac più spietati. È poi
la volta di “Debbie Suicide”, devastante wall of sound alla Melvins, con chitarre
taglienti e ultra-abrasive. La foga debordante di “In My Head” riporta invece alle
sonorità ruvide e urticanti dei Nirvana. Una menzione a parte merita la violentissima
e selvaggia “Tetsuo”, urlata in italiano nel caratteristico stile deviato alla Old Time
Relijun. Notevole anche l’alienante claustrofobia di “Naked Violet”. In tutto trenta
minuti di caos organizzato che non lasciano vie di scampo all’ascoltatore e
trasfigurano perfettamente il degrado morale e psichico della società odierna (
www.myspace.com/lleroymusic).
Gabriele Barone
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Numero Luglio/Agosto '08
Magnetic Sound Machine
Chromatic Tunes
Lizard/Eventyr/BTF
Questa enorme marmellata sulla quale poggia qualcosa che per comodità
chiamiamo mercato musicale, in realtà è solo una testimonianza che l’entropia, non
è un’invenzione della termodinamica, ma esiste. Come spiegare altrimenti che
cinque ragazzi, non più che ventenni, anziché distruggersi il cervello sui videogiochi,
preferiscano imbracciare degli strumenti e fare musica? Si ma non suonare quelle
lagne che l’indie di moda vuole, o quella specie di emocore che strimpellato non a
New York ma a Treviso farebbe ridere. No, i Nostri - nome altisonante, ma umiltà
caratteriale - decidono che la musica da provare a proporre è jazz-rock, perché una
volta sono capitati tra i vinili di una band italiana, i Perigeo, e hanno capito che tutto
quello che suona oggi nulla è, se confrontato a questo - come si chiama? –
jazz-rock bell’appunto. Incredulità. Altre parole non trovo per portarvi in dote
l’entusiasmo che ho provato ascoltando le dieci tracce di questo esordio che suona
libero, pulito e coraggioso, dove una tecnica di base già fine, si intreccia con idee
compositive ardite, ma non ingombranti. C’è gusto e raffinatezza tra questi solchi,
con una chitarra solista che pare liquida e si intreccia con le tastiere e a tocchi di
sax e flauto, per dare vita a canzoni prive di cantato, perché a nulla servirebbe una
voce. Alla fine in “Bubble Trouble”, denominata “concept take” e divisa in quattro
frammenti, affiora qualche raro tocco di modernariato, forse post-rock, forse chissà,
ma che è solo una logica estensione di un suono privo di vincoli e mai cervellotico,
che cattura dalla prima all’ultima nota. Puri, ma non matematici: che bella sorpresa
questi Magnetic Sound Machine (www.webmasm.net)!
Gianni Della Cioppa
My Own Parasite
God 3 – Myself 0
Plumbea
Di questi tempi, far uscire un doppio disco denota una grandissima ambizione (per
non dire faccia tosta) e se aggiungiamo che la divisione segue un concept che vede
il primo volume interamente elettrico e il secondo totalmente acustico, si capisce
che il progetto “God 3 – Myself 0” forse merita più attenzione del solito. Questo
perché, superando lo scoglio del doppio formato (più tempo, più attenzione… non
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sono elementi elementari per l’ascolto della musica nel ventunesimo secolo), si
tratta di un grande disco. I My Own Parasite sanno bilanciare benissimo il monte di
influenze ed esperienze che li hanno portati a questo: brani in inglese che strizzano
l’occhio all’emo e ai Trail Of Dead (sentire l’incedere delle chitarre e l’intensità del
cantato di brani come “One Black Car” per averne la certezza), pezzi in italiano che
strizzano l’occhio alle lezioni ideologiche dei CSI e del Giorgio Canali solista e
frammenti acustici che pescano nell’IDM tedesca e nel post-rock più convenzionale.
Insomma, l’ambizione certo non manca ed è un caso più unico che raro la qualità
media di un prodotto del genere. In un lavoro del genere (così multiforme, così
caleidoscopico, così interessato alla perdita del punto di riferimento) e molto difficile
che l’ambizione trovi un compromesso con la scrittura. I My Own Parasite ci sono
riusciti e hanno dato vita ad un disco espressivo e determinato, non un lavoretto
tanto per fare o una di quelle di opere da dopolavoro che finisce negli scaffali degli
amici. Insomma, questa è la via per ridar vita al nostro mondo musicale, una delle
ricette possibili (www.myownparasite.com).
Hamilton Santià
Ococo
Ococo
Radiofandango/Edel
Ve li ricordate i Divine? Tra i primi gruppi ad uscire per la collana “Taccuini” del fu
Consorzio Produttori Indipendenti, giovanissimi, pescaresi e innamorati competenti
di certo indie rock etereo come della new wave più atmosferica, con “Sortie”
pubblicarono nel 1996 un ottimo esordio che non ebbe purtroppo un seguito. Nel
decennio successivo, dopo la inevitabile diaspora, alcune spore del progetto (ovvero
il chitarrista Marco Mazzei, titolare del progetto con Marco Pizii, entrambi tra i
musicisti del tour di “A.C.A.U.” di Gianni Maroccolo nel 2004) germogliano in questi
Ococo, un progetto che ibrida intelligentemente forma canzone ed elettronica
evoluta e onnivora, inglobando campioni vocali, strumenti acustici, loop di tastiere,
giocattoli ritmici montati e smontati con gran diletto dei compositori ma anche di chi
ascolta. Il risultato è infatti particolarmente gradevole, con cantilene alla Yuppie Flu
adagiate su un tappeto folk elettronico e costruzioni orchestrali che si muovono
lentamente sullo sfondo (“Butterflies”), o delicate miniature all’insegna di
un’elettronica da camera che valorizza sfumature e variazioni cromatiche come
“Fascinating Mechenical Nuance”. Altrove (“Re-Angel”, “25 12 99”) si sconfina in
territori più dance ed electro-pop, oppure ci si appropria con buona inventiva dei
trucchi di certa scuola indietronica tedesca (Re-Angel, che starebbe bene sul
catalogo Morr Music). Un disco sfaccettato, divertente, leggero ma mai vacuo, con
un sacco di sorprese e piccoli particolari che si svelano ad ogni ascolto (
www.ococomusic.com).
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Numero Luglio/Agosto '08
Alessandro Besselva Averame
Pentolino’s Orchestra
Perros
FromScratch
La Pentolino’s Orchestra ha una line-up numericamente variabile, ma in questo suo
esordio sulla lunga distanza per FromStratch, a due anni dall’EP “I’m A
Supernoiser”, si presenta come trio. Per semplificare: Paolo Moretti voce e chitarra,
Martino Lega alla batteria, Andrea Angelucci al basso. In realtà in questo caso
semplificare sarebbe un errore. Non solo perché tutti e tre suonano molte altre cose,
ad esempio strumenti giocattolo, banjo e fisarmonica, ma anche perché il suono del
gruppo è il frutto di un disordine stilistico va in mille direzioni. Se in “Perros On
Holiday” c’è la no wave in gita nei luoghi dell’alternative country, “I’m Not This Kind
Of Man” è pura psichedelia dilatata con qualche scheggia di bluegrass in corpo, “All
That I Hate” è una bella escursione dalle parti dei Calexico, ma quando ci siamo
ormai acclimatati nel Mojave, arrivano le chitarre fuzz e le progressioni di accordi
storti della barrettiana “Mikugaya”, mentre “When I’d Stay With You” è la brevissima
parodia di una ballata, anzi quella che sembra la sua distruzione a colpi d’accetta
per mezzo di tastiere tremolanti e spastiche. Potremmo andare avanti ancora a
lungo ma quello che ci preme sottolineare, in questa libera esplosione di talento
musicale, dispersiva quanto molto spesso geniale, non è tanto l’eclettismo, che pure
è evidente, ma la capacità di rendere riconoscibile con piccoli trucchi e millimetrici
spostamenti di asse un suono peculiare. In conclusione, non abbiamo capito se
questo sia un gruppo di tradizionalisti travestiti da avanguardisti o viceversa, ma
siamo ben contenti di portarci dietro il dubbio (www.fromscratch.it).
Alessandro Besselva Averame
Putiferio
Ateateate
Robotradio
Non fatevi ingannare dalla banalità del nome (in Italia – e oltre – girano infiniti
Putiferio, purtroppo non solo musicali…), questi sono quelli “moderni”. Arrivano da
Padova e i quattro singolarmente vantano innumerevoli esperienze tra i sentieri
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dell’indie rock nazionale, una scena – se tale è – che non conosco così bene come
forse dovrei, ma che ha tentacoli talmente diramati che anche un esperto
faticherebbe a districarsi. I nomi del passato o attuali (alcuni componenti dividono
più esperienze), sono Kelvin, Lodio, Antisgammo e Hugh, ma il più accreditato ad
assumere il ruolo di referenza, è certamente il chitarrista Giulio Favero, ex One
Dimensional Man e membro dei chiacchierati Il Teatro degli Orrori. Un suono bianco
e devastante che non conosce ostacoli, che sembra non avere origine né
destinazione, questo il percorso dei Putiferio, che rielaborano il loro personalissimo
concetto di rock, con un incedere drammatico e disarmonico. L’iniziale “Give Peace
A Cancer”, parte come una tarantella violentata dal noise per poi assumere i
connotati del doom più fangoso. E se “Carnival Corpse For Serbers” pare un gioco
di rimandi tra industrial-metal e punk, a sorprendere è l’esplicita “Putiferio Goes To
Hell”, sorta di colonna sonora per menti distorte, una suite per sonorità aliene,
alienanti e disallineate. In chiusura, dopo due tracce assassine, lo sludge tribale di
“HOLES Holes HOLES” . I Putiferio non subiscono il rock, lo reinventano. Capire se
si tratti di genio o insolenza è compito del singolo ascoltatore (
www.myspace.com/putiferio).
Gianni Della Cioppa
Renegades Cosmic Storm
Tiwst The Wick
autoprodotto/Go Down
Le continue uscite, anche in Italia, ancorate ad un suono hard rock (e dintorni)
testimoniano indelebilmente di una nuova generazione che sembra aver saltato a
piè pari due decenni, ad esclusione di qualche piroetta nel grunge e nello stoner,
per ritrovarsi invischiata negli anni 70 belli e puri. In questo senso, con l’esordio dei
Renegades Cosmic Storm è ancora il Veneto a dimostrarsi terra ricettiva per questo
suono. La band dell’area trevigiana, non è formata da giovanissimi e vanta un
passato (e un presente) come nota cover band di classici di Led Zeppelin,
Whitesnake, Rolling Stones, ZZ Top e via andare, ma qui si presenta con un
mini-CD autoprodotto e ben confezionato, contenente cinque pezzi originali che non
possono che derivare dai tanti idoli che la omaggia. A livello compositivo il gruppo
appare vincolato a schemi collaudati, ma il collante dell’energia sopperisce ad
alcune ripetizioni di troppo. Il collante del sound è l’Hammond dell’esperto Chris JJ
Lord, il vero elemento di distinzione che porta inflessioni in chiave Deep
Purple/Rainbow, anche se l’intera band appare preparata tecnicamente, compreso il
cantante inglese Ren, un tocco di distinzione non indifferente. Il contenuto generale
del CD è di buon livello, ma “Shot Outta Hell” e “Midnight Sun” sono a mio avviso, i
due brani più incisivi e meglio definitivi, capaci più degli altri di staccarsi dai vincoli
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dei mille riferimenti che pesano, fortunatamente che sia chiaro, sulla genesi di
questo interessante gruppo. Si attendono ulteriori sviluppi (www.renegades.it).
Gianni Della Cioppa
Ruben
Da qui non si vedono le stelle
La Matricula/Venus
Dopo un paio di lavori che esponevano il lato intimo e da formale cantautore, ecco
finalmente il volto meno malinconico dell’artista veneto. Nonostante il titolo chiami in
causa tratteggi poetici, che comunque non mancano, l’approccio stilistico appare sin
dalla solida apertura con “Mario” - con quel drumming incavolato e “Storie di fango”,
basso e chitarra che duettano - più suonato e meno pensato. Ruben ha smesso i
panni del giullare del cuore, per scoprire l’aspetto più rock del suo essere musicista,
un passaggio elettrificato, che non altera gli equilibri della sua personalità artistica,
ma infonde nuovi colori e ci permette di denudarne nuove prospettive. E affascina
sentire la voce che graffia in “Gringo” (autoelogio o autoironia?), con un’irruenza che
non ti aspetti, ma che coinvolge. Un rock tricolore, padano verrebbe da dire, visti i
tempi, che incalza e brucia storie di provincia o visioni più “alte”, se pensiamo a
“Sotto lo stesso cielo (Lettera da Kabul)”, cantata in duetto con la brava Veronica
Marchi. Una successione di rime, che ne limita l’espressione lirica, non permette a
“Cosa ha in testa la gente” di affondare la lama fino in fondo, cosa che avviene in
“La collina degli stivali”, filastrocca che rievoca il primo Angelo Branduardi. E quanti
di voi riconoscono il vicino di casa in giacca e cravatta e 24 ore al seguito,
protagonista di “Noto Brambilla”? Un bell’organo Hammond e ancora la voce della
Marchi splendono nella delicata chiusura di “In luce”, ricamata con dolce pianoforte:
una bella ballata, forse il pezzo migliore sin qui scritto da Ruben, cantore di una
provincia dove tutto cambia, ma tutto resta uguale (www.rubenrock.com).
Gianni Della Cioppa
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Numero Luglio/Agosto '08
Tears Of Othila
Renaissance!
Ark
Alcuni mesi fa mi ritrovai per le mani un CD-R molto spartano - probabilmente la
copia di un demo più curato graficamente - con sopra scritto a mano "Tears Of
Othila". Null'altro: né i titoli delle canzoni, tanto meno qualche nota informativa; vano
poi è stato ricercare su Internet notizie su questo misterioso gruppo.
Tuttavia il disco mi colpì parecchio, tanto che lo riversai sull'iPod, dove peraltro
ancora risiede. È stata dunque una piacevole sorpresa - inattesa tra l'altro - ricevere
il loro album definitivo, pubblicato con lungimiranza dalla partenopea Ark Records a
fine maggio.
Benché sulle origini della band e dei suoi trascorsi ancora non è dato sapere
granché, almeno apprendo che i suoi componenti sono ben sette e suonano violini,
flauti trombe percussioni e tastiere. Il loro stile recupera l'essenza del migliore neo
folk, rievocando la magia di un medioevo immerso nelle meraviglie della natura:
ballate acustiche che richiamano una tradizione perduta, percussioni che
accompagnano l'infaticabile marcia verso la luce del sole. Il raffronto con gli
americani In Gowan Ring sorge spontaneo, anche per via dei testi, tutti in inglese.
Ma a prescindere da ciò, l'ensemble capitanato da Marco Gradella riesce a creare
atmosfere davvero toccanti, malinconiche e orgogliose come il riposo di un guerriero
(www.arkrecords.net).
Fabio Massimo Arati
The Boomers
Fast And Bulbous
Goodfellas
Disco di genere e forse di maniera quello dei Boomers, ma se ne uscissero di più,
in Italia, di dischi così, il nostro paese sarebbe musicalmente molto più sano. Stiamo
in ogni caso parlando di un gruppo di veterani, visto che Marco Marraccini, voce e
chitarra, e Fausto Delfini, batteria, hanno a lungo frequentato la scena punk’n’roll
romana a partire dagli anni 80. Unitisi quattro anni fa ad un secondo chitarrista,
Alessandro Peana, i due musicisti hanno dato vita ai Boomers, una formazione il cui
scopo è aggiornare all’alternative rock anni 90 il patrimonio genetico garage e
rock’n‘roll degli anni formativi (riferimento a Captain Beefheart nel titolo di questo
disco incluso). Impresa riuscita? Sì. Innanzitutto il suono è compatto e corposo, e
l’assenza del basso non si fa notare troppo. In secondo luogo, la scrittura non è
originalissima ma l’originalità, lo diciamo senza ironie, quando si suonano
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determinati generi rischia pure di diventare una specie di fastidioso orpello. C’è però
dell’ottimo artigianato al lavoro: le sfumature grunge di “Life Surfer” non scalfiscano
l’anima scassata del brano, il blues ciondolante e acustico di “War” lo abbiamo
sentito e risentito in altre vesti, ma ci divertiamo un sacco ancora una volta a battere
il tempo con il piede. Quello che però abbiamo apprezzato di più è l’incoscienza,
interpretabile solo come amore infinito per un certo spirito rock’n’roll, cliché che però
ha ampi fondi di verità, di reinterpretare la doorsiana “The End”: impresa che nel suo
inevitabile fallimento ci regala un veloce ed entusiasmante garage-rock (
www.boomers.it).
Alessandro Besselva Averame
The Hormonauts
Spanish Omelette
Hormonetta
Il mercato discografico è in crisi, ormai lo sanno anche i sassi. Da una parte si
producono sempre più CD e se ne vendono sempre meno; dall’altra Internet mette
praticamente ogni cosa a disposizione in maniera gratuita, quantunque non sempre
legale. Che fare, allora, se si è un gruppo che vuole promuovere il proprio nuovo
lavoro? Una soluzione potrebbe essere quella escogitata dai Radiohead. Un’altra ce
la propongono gli Hormonauts, il cui quinto album, in attesa di una pubblicazione su
CD “normale”, è ora disponibile in una sfiziosa edizione limitata: una confezione – in
vendita nei negozi della catena “La Feltrinelli” e sul sito del gruppo a un prezzo più
che accessibile – contenente, oltre al supporto digitale, anche un lettore MP3
serigrafato a forma di audiocassetta (e quindi utilizzabile anche nei vecchi
regustratori) contenente le tracce dell’album in formato digitale, più il necessario
corredo di accessori (cavo USB, cuffie, alimentatore, memory card). Un’idea
originale, senza dubbio, e anche bella. Che però rischia di distogliere un po’ troppo
l’attenzione dalla musica, che presenta a sua volta alcuni aspetti nuovi: l’ormai
riconoscibile miscela di rockabilly, sonorità westernate e messicaneggianti e
ritmiche in levare del trio ha guadagnato qualche gustosa screziatura elettronica
grazie alla collaborazione col londinese Kenny Diesel. Ciò che ne esce è un disco
estivo, senz’altro piacevole all’ascolto (valga come esempio l’iniziale, travolgente
“Your Gun”) e degno di nota per quanto riguarda certe soluzioni produttive, ma che
alla distanza non lascia tracce particolarmente profonde nella memoria, complice
una scrittura non sempre in grado di elevarsi da una pur aurea medietà. Meglio il
contenente del contenuto, insomma, sebbene anche quest’ultimo raggiunga la
sufficienza (www.thehormonauts.com).
Aurelio Pasini
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Numero Luglio/Agosto '08
Trees Of Mint
Micro Meadow…
Here I Stay
Trees Of Mint è l’alter-ego di Francesco Serra, ex cantante chitarrista della noise
band cagliaritana Virus In Pachyderm che ha deciso di spostare le coordinate della
sua musica verso un indie-rock rarefatto e pieno di suggestioni folk. Universo
musicale nuovo e antitetico, che ha avuto buoni esiti nell’esordio “Songs From
Drawers” tanto da dargli un seguito di ampio respiro come “Micro Meadow…”. Il
secondo capitolo di questa nuova vita si fonda su una collaborazione
chitarra-batteria (qui suonata da Andrea Siddu) che dona ai brani una buona
compattezza e un’efficace capacità espressiva. Ad un primo ascolto, sembra quasi
che chi decida di superare le barriere del post-rock e di costruire delle canzoni
partendo da determinati stilemi sia destinato a scrivere pezzi molto belli. Ora,
probabilmente il post-rock non è il giusto punto di partenza, ma la musica di “Micro
Meadow” si bilancia tra questi mondi paralleli, ricordando anche esperienze musicali
come Sophia e Red House Painters (ma con una maggiore consapevolezza pop,
per dire). Ci sono alcune canzoni di livello come “Today Polaroid” e “Window Seat” e
possiamo affermare di trovarci davanti a un lavoro che vale la pena di essere
ascoltato. Nel disco c’è una volontà di ricerca e una voglia di mettersi in discussione
che fa capire come Trees Of Mint sia un progetto aperto e capace di proseguire sui
giusti binari. Di questi tempi, non è una cosa da sottovalutare. (
myspace.com/treesofmint)
Hamilton Santià
Xabier Iriondo - Gianni Mimmo
Your Very Eyes
Wallace-Long Song-Amirani/Audioglobe
La strada da Milano a Matera è lunga e stremante; peraltro più ci si avvicina alla
meta, più la via si fa aspra, tortuosa, inaccessibile. Ci sono luoghi al mondo che
hanno preservato la loro naturale bellezza perché troppo impervi per essere aperti a
tutti, perché son pochi gli uomini che hanno la forza e la volontà di raggiungerli.
Parimenti sono esigui gli ascoltatori in grado di frequentare i territori della
sperimentazione e dell'avanguardia, luoghi del suono di cui anche Xabier Iriondo è
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Numero Luglio/Agosto '08
da diverse stagioni infaticabile modellatore.
Assieme al sassofonista Gianni Mimmo, altro ricercatore con venticinque anni di
jazz alle spalle, l'ex chitarrista degli Afterhours si è imbarcato verso il profondo sud,
per far risuonare i propri strumenti tra le rocce alveolari di una chiesa rupestre del X
secolo. Da questa singolare esperienza nasce "Your Very Eyes", album registrato in
presa diretta nel giugno del 2007 ed oggi giunto a noi grazie alla sinergia di più
entità produttive, tra cui la benemerita Wallace Records.
Il duo si esibisce in una performance minimale in cui corde e fiati s'intrecciano
nervosamente, si contorcono e si rilassano in continuazione, senza mai esplodere,
senza mai spezzarsi. Così la tensione rimane palpabile in ogni momento, a
testimoniare l'incontro/scontro tra due menti, due storie, due filosofie musicali che
nessuno pensava si potessero incrociare (www.xabieririondo.com).
Fabio Massimo Arati
Xcoast
No East No West
Modern Activism
Sono una felice eccezione, gli Xcoast, nel panorama italiano: anche se in questo
momento dalle nostre parti è di moda fare altro, loro portano avanti la loro ricetta
sospesa tra hip hop ed elettronica. Un tempo, l’avrebbero chiamato trip hop. Non lo
useremo questo termine, per “No East No West”: in primis per non sputtanarlo (da
anni si è trasformato da pregio a infamia, questo marchio), ma poi anche perché ci
sono più spigoli in questo disco di quanti una definizione di quel tipo potrebbe far
sospettare. I riferimenti possono andare all’IDM più sporcata dal funk digitale
(Funkstorung, giusto per dare un riferimento), così magari ci capiamo meglio; quel
che conta è che non c’è traccia di punk-funk (non è il diecimilionesimo progetto che
prova a rifare i Franz Ferdinand, alleluja) né, spostando il campo, di minimal techno
(non c’è furbizia ad inseguire il suono elettronico che ora è una vera gallina dalle
uova d’oro, alleluia due). Al primo impatto non convince del tutto, questo secondo
LP firmato da Knuf e Costa: l’impressione è che ci sia poco mordente. Alcuni limiti,
in particolar modo nella costruzione del beat, continuiamo a sentirli anche adesso,
ma questo in effetti è uno di quegli album che ha bisogno di alcuni ascolti per
decantare. Piano piano arriva a scoprire comunque un suo fascino, una
claustrofobia nebbiosa piena però di spigoli e che ha il merito di non essere
compiaciuta e compiacente. Ecco che quindi, oltre ad essere un sostanziale passo
in avanti rispetto al precedente “Rough Enough”, è un LP che consigliamo senz’altro
di approcciare, annusare, esperire. Potreste scoprire che calza a pennello le vostre
piccole, private inquietudini urbane (www.xcoast.it).
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Luglio/Agosto '08
Damir Ivic
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Numero Luglio/Agosto '08
Truce Klan
Kindergarten, Bologna, 7 giugno 2008
Molti erano andati al “Miami”, domenica 8 giugno, pensando di vedere finalmente in
azione ‘sto Truce Klan di cui tanto si parla. Giustamente, perché fottersene delle
aspettative della scena indie italiana rientra a pieno titolo nelle caratteristiche del
Klan, il vero concerto è stato ventiquattro ore prima a Bologna, con la crew quasi al
completo sul palco.
Mancavano in pochi, fra questi Metal Carter, colui che il giorno dopo è andato al
Magnolia a (non) farsi capire dalle indie-masse. Mancava poi anche Chicoria, che è
l’elemento più pericolosamente pasoliniano del gruppo. Ma quello che si è visto sul
palco del Kindergarten, club che da quando non è più l’Estragon (migrato
cinquecento metri più a nord) è abituato a sonorità techno, è stato un vero e proprio
concerto da posse, come da molto tempo non ne vedevamo. Ma veramente molto.
Ovvero: casino totale. Disorganizzazione assoluta, o quasi. Un traffico di gente sul
palco che nemmeno la tangenziale di Milano all’ora di punta. Poi, come spessissimo
abbiamo visto accadere in questi casi, per tutto questo mare di MC sul palco solo
due microfoni e mezzo (due funzionanti, uno insomma), che venivano via via passati
fra chi era sul palco con modalità abbastanza random, e nessuna speranza che un
fonico presente in sala regolasse il volume a seconda di chi ce l’aveva in mano (i
timbri e la potenza vocale non sono mica uguali in tutti). Ci sembrava per certi versi
di essere tornati a quindici anni fa e passa, coi concerti dell’Isola Posse All Star
(quando dentro c’era tutta la scena bolognese, dai Sangue Misto e Papa Ricky in
giù), degli happening insensati ed entusiasmanti, irritanti e coinvolgenti. Ma molto
tempo è passato, l’Isola Posse non ritorna più, e il Klan è tutta un’altra storia.
L’ossatura del live e quanto è contenuto nel Ministero Dell’Inferno, monumentale
album di cui abbiamo diffusamente parlato in “Fuori dal Mucchio”. Stile, direzioni e
attitudini vanno ben distanti da quel meraviglioso misto di consciousness politica e
altezzosa attitudine hip hop (l’Isola era questo), sono invece uno slabbrato e
confusionario impeto di sangue e bestemmie, metaforicamente (e non solo)
parlando. Ma va bene così. Con tutte le sue pecche, quello del Kindergarten è stato
un concerto vivo. Così tanto, che i suoi protagonisti sono rimasti in giro per Bologna
fino alle dieci del mattino dopo, anche a live abbondantemente finito, senza dormire
mai. Se poi invece vogliamo tornare a questioni più musicali, credeteci: un MC dal
talento tecnico di Noyz Narcos non si trova in giro tutti i giorni, e anche un altro paio
di quelli sul palco, quelli delle leve un po’ più nuove della crew, promettono
abbastanza bene. In conclusione, checché ne pensino quelli che poi sono finiti al
“Miami”, il Klan – con tutti i suoi errori, difetti ed approssimazioni – è faccenda
autentica.
Damir Ivic
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Tiger Tiger!
Che la tigre evocata dalla ragione sociale di questo duo bolognese (espandibile a
quartetto in occasione dei live) sia quello stesso animale che forniva latte nel primo
disco dei Belle And Sebastian? Così si direbbe, a sentire la svagata ingenuità con
cui questo indie-pop vagamente indolente si manifesta attraverso le canzoni
contenute in un CD-R targato MyHoney dal titolo “11 PM”. Qualcosa di più del
“carino” innalzato a categoria estetica, visto che di roba carina da cameretta non se
ne può davvero più, con il guizzo bandistico di “Je t’aime”, da qualche parte tra
Gainsbourg e i Kiss, e il clavicembalo in salsa twee di “The First Woman On The
Moon” a spiccare tra canzoni comunque di buona fattura, il cui livello di scrittura è
decisamente buono. Da tenere d’occhio (www.myspace.com/tigerontiger).
Alessandro Besselva Averame
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