Prof. Francesco D’AGOSTINO Docente di Filosofia del Diritto – Università di Roma – Tor Vergata Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica Conferenza Episcopale Italiana IL C OMIT AT O SCIEN T IFICOORGAN IZZAT ORE DELLE SET T IMAN E SOCIALI Intervento di Francesco D’Agostino 1. 2. 3. 4. 5. Quali sono le speranze della scienza? Le troviamo espresse in modo sinteticamente mirabile nell’epitaffio che si può leggere sulla tomba di David Hilbert a Göttingen: Wir müssen wissen. Wir werden wissen!, e cioè: Dobbiamo sapere. Sapremo! Dilatare continuamente l’ambito del sapere è il compito che ai autoassegna la scienza non solo come pensiero (o almeno come strutturazione paradigmatica del pensiero), ma ancor più come pratica sociale, o, se così si preferisce dire, come impresa collettiva. Quali sono i timori della scienza? Distinguiamo. Come strutturazione paradigmatica del pensiero essa può avere un timore soltanto: quella di non trovare o più propriamente di non riuscire a formare pensatori adeguati: timore non irrilevante nel mondo occidentale contemporaneo, che vede costantemente decrescere il numero dei giovani che si avviano agli studi superiori scientifici. Come pratica sociale, il timore della scienza è piuttosto quello di perdere lo status tradizionale di cui ha goduto nell’epoca moderna, almeno dopo il “caso Galileo”, quello di istituzione sociale indipendente. Questo timore è ancora più fondato del precedente ed è indispensabile spiegarne adeguatamente le ragioni. Come istituzione la scienza moderna pretende di autolegittimarsi: a) non come una delle possibili forme di conoscenza, ma come la conoscenza in quanto tale, e b) come conoscenza pubblica, accessibile però solo a specifici esperti (che è la scienza stessa è a qualificare legittimamente come tali), una conoscenza non comunicabile –se non in forme estrinsecamente divulgative- a chi non sia addetto ai lavori (in quanto incapaci di gestirne le metodiche), e sindacabile quindi solo al proprio interno. Di queste due pretese, la prima è indebita –e ad essa vanno ricondotti tanti sterili conflitti tra scienza e filosofia o tra scienza e religione-; la seconda invece è più che condivisibile, anzi costituisce uno dei fondamenti dell’identità della cultura occidentale, di cui essa ha fatto per dir così dono al resto del mondo. Come istituzione sociale la scienza moderna ha due pretese: a) che il sistema giuridico la autorizzi a determinare con criteri propri ed intrinseci le conoscenze da ritenere a livello sociale oggettivamente valide in ciascuna singola situazione determinata (e di fatto il diritto moderno, interagendo con la scienza, ha in genere accettato remissivamente di pensare se stesso alla stregua di sistema di norme tecniche, chiamate cioè a recepire passivamente e in modo quindi giuridicamente acritico conoscenze accertate al di fuori del suo ambito di riferimento, come si rende ad es. evidente nell’istituto giuridico della “perizia”); e b) che la stessa remissività il diritto la esibisca nei confronti della tecnologia (nel senso proprio di una dimensione non di sapere, ma di saper fare), che della scienza moderna è la derivazione più diretta. La prima pretesa è fondata, la seconda no: ma il prestigio sociale goduto dalla scienza nella modernità ha fatto sì che si radicasse l’idea che il continuum scienzatecnologia dovesse godere di un unitario statuto epistemico-sociale. Il modello appena citato, tipico dell’epoca moderna, sembra oggi scricchiolare da tutte le parti: anche in questo ambito il moderno è alle nostre spalle e stiamo passando, o siamo già passati, in un orizzonte postmoderno. Esistono ragioni sociologiche, oltre che teoretiche, che ci spiegano l’ineluttabilità di questa transizione. Si consideri ad es. la crescente e ineludibile esigenza della scienza di ottenere finanziamenti da parte della società civile per poter far progredire le sue ricerche: questa esigenza rende sempre meno accettabile socialmente la visione del sapere degli scienziati come elitario, esperto e insindacabile: chi è chiamato a dare danaro pretenderà prima o poi di controllarne l’uso. Inoltre, il nuovo impatto sociale, in termini di rischio, di pressoché tutte le imprese scientifiche di frontiera (caso esemplare quello della genetica) apre inevitabilmente a carico della scienza inquisizioni, processi o almeno spazi pubblici e collettivi di discussione un tempo inimmaginabili, che spingono perché il diritto superi la sua tradizionale neutralità nei confronti dell’operato degli scienziati e riassuma nei loro confronti un potere giudicante. 6. 7. 8. 9. 10. 11. Nell’epoca postmoderna la scienza giunge inevitabilmente a sentirsi minacciata. Minacciata da una pubblica opinione non più ingenuamente e acriticamente schierata dalla sua parte. Minacciata dal sistema sociale, che attraverso il controllo dei finanziamenti di cui essa ha bisogno può vistosamente intervenire per orientarne le pratiche. Minacciata dal sistema giuridico, che è chiamato ad elaborare tecniche sempre più pressanti di controllo giudiziario –civile, amministrativo, ma anche penale- sull’agire degli scienziati. Emblematica, alcuni anni fa, la campagna giornalistica –sponsorizzata da un noto istituto di ricerca scientifica- promossa da un notissimo settimanale statunitense, che mostrava nella foto di copertina il cartello CLOSED apposto sul portone centrale di un istituto di ricerca, costretto a cessare le proprie attività per la “persecuzione giudiziaria” cui sarebbe stato soggetto. Dobbiamo ormai riconoscere che i giudici –attraverso la dilatazione della categoria del risarcimento del danno- acquisiscono nei confronti delle pratiche scientifiche e tecnologiche poteri di intervento tradizionalmente inimmaginabili, soprattutto nei confronti di quelle tecnologie che, potendo essere adeguatamente testate solo nell’ambiente, rendono obsoleta la distinzione tra indagini confinate in laboratorio e loro applicazione al mondo esterno (considerazioni analoghe andrebbero fatte per l’argomento utilizzato dalla Microsoft nei processi che la vedono da anni protagonista, in quanto accusata di aver assunto un ruolo monopolistico nel mondo dell’informatica: condannata giudiziariamente allo smembramento, l’azienda si è difesa, rivendicando il suo diritto a portare avanti la ricerca informatica, che verrebbe gravemente ostacolata ove il know-how da essa acquisito dovesse essere ripartito in una molteplicità di singoli, decentrati, non gerarchizzati centri aziendali e di ricerca). Si può arrivare a sostenere che non esiste più un singolo ambito (se non forse quello logico-matematico, ma anche in questo caso analisi più dettagliate potrebbero riservare sorprese) in cui la ricerca scientifica non venga a trovarsi sotto il sindacato, almeno potenziale, del diritto. La bioetica (in tutte le sue dimensioni, da quelle cliniche –e in particolare quelle concernenti l’inizio e la fine della vita umana- a quelle ambientali, a quelle alimentari e biotecnologiche) può costituire una vistosa esemplificazione di quanto detto. Alla radice di questa situazione (che gli anglosassoni denominano con l’efficace espressione science in policy) non stanno però solo dinamiche di tipo sociologico, ma in misura determinate questioni di tipo epistemologico. Senza averne avuto consapevolezza fino in fondo, sono stati gli stessi scienziati a mettere in crisi l’immagine della comunità scientifica come quella di una respublica orgogliosamente sovrana ed autoreferenziale, insistendo a sottolineare il carattere non neutrale della loro conoscenza o comunque l’indecidibilità in termini strettamente scientifici di dimensioni ontologiche di grande rilievo simbolico e sociale (si pensi al problema dello statuto ontologico dell’embrione umano o a quello dei “diritti” degli animali e dei vegetali a non essere sottoposti a manipolazioni genetiche). La scienza postmoderna si trova oggi quindi nella necessità di cercare nuove forme di accreditamento da parte della società civile. Questa, a sua volta, per accreditarla, elabora nei suoi confronti pretese sempre più pungenti ed esige che gli scienziati rinuncino ad autoavvalorare le proprie pratiche, a considerare se stessi come gli unici depositari ufficiali del sapere scientifico, ed accettino di coinvolgere sempre più i cittadini nelle loro decisioni. L’esperienza dei comitati (e in particolare di quelli di bioetica) può essere compresa fino in fondo solo in questo contesto. La crisi del tacito rapporto fiduciario tra scienza e società civile si riverbera inevitabilmente, come già si è detto, in nuove forme di controllo sociale della scienza, tra le quali le forme di controllo giuridico hanno ormai acquistato un sicuro primato. Nei confronti della scienza e delle sue pratiche il diritto contemporaneo, assumendo la funzione di garante della società civile, pretende di assumere altresì la funzione di istanza superiore di controllo del sapere scientifico. Alcuni esempi. E’ ormai evidente che oggi il diritto si sente legittimato a definire in via normativa e quindi autoritaria il sapere: quando la Corte Costituzionale italiana, chiamata a 12. 13. sindacare la legge sull’aborto, ha fatto l’infelice distinzione tra gli interessi della donna, persona, e quelli del nascituro, che a giudizio della Corte persona dovrebbe ancora diventare, non ha fatto altro che intervenire autoritativamente in un ambito epistemologico che andrebbe sottratto alla competenza al diritto. Un esempio meno controvertibile è probabilmente quello della brevettazione, che va ormai intesa come una vera e propria creazione giuridica di entità scientifiche. Si pensi ancora a quanto sia ingiustificatamente invasiva la pretesa di alcuni ordinamenti giuridici, come quello inglese, di qualificare normativamente l’inizio della vita umana (attraverso l’adozione della teoria del preembrione, teoria priva di alcun fondamento scientifico nell’opinione della stessa Lady Warnock, che ha esplicitamente riconosciuto di averla elaborata per dare una risposta ad esigenze pragmatiche –quelle di legittimare la ricerca precoce sugli embrioni). Le stesse lacune conoscitive che nel suo progredire la scienza sempre più frequentemente riconosce come necessarie e inevitabili e che quindi, in quanto scienza, riconosce di non poter gestire vengono oggi sempre più spesso colmate attraverso l’intervento autoritario del diritto: si pensi ad es. a quante pratiche mediche vengano oggi ritenute lecite solo a condizione che siano conformi al dettato della legge (le normative sui trapianti sono illuminanti al riguardo). Oppure si consideri lo spinoso rilievo giuridico che va acquisendo il principio di precauzione. Utilizzato dalla Unione Europea in polemica vivacissima con gli USA per proibire la commercializzazione degli OGM, questo principio sempre più appare alla stregua di una tecnica extra-scientifica per colmare con valutazioni giuridiche gli spazi ineliminabili di incertezza e di rischio che il sapere scientifico e tecnologico può cercare anche e con buone ragioni di minimizzare, ma di cui non può in tutta onestà negare l’esistenza. Ed infine si rifletta ad un fenomeno sicuramente in crescita, quale quello della gestione giuridica delle controversie degli scienziati con i cittadini e degli scienziati tra loro. Mentre fino a un passato relativamente recente la soluzione di queste controversie era affidata alla stessa comunità scientifica, con i tempi che le fossero comunque indispensabili, e con le metodiche che solo la scienza poteva elaborare, oggi l’urgenza di dare risposte a dubbi che scuotono la pubblica opinione abilita i giudici a legittimare posizioni scientifiche contrastanti, purché estrinsecamente plausibili (si pensi ad es. alla legittimazione giudiziaria di terapie alternative) e più in generale ad assumere decisioni scientificamente incisive, anche se nella sostanza –proprio perché promananti da giudici e non da scienziati- arbitrarie. Non è un caso, quindi, che nel mondo anglosassone si parli ormai comunemente di crisi della mainstream science e che sempre più accanto all’obiezione di coscienza si rivendichi il diritto di porre obiezione di scienza, da parte di coloro che non si riconoscono nelle statuizioni scientifiche determinate per via normativa. E’ il caso del New Jersey, che nella legge che riconosce giuridicamente valido l’accertamento della morte cerebrale, approvata nel 1991, riconosce comunque il diritto del cittadino di vedere applicata al proprio specifico caso la criteriologia della morte cardiaca. Da qui a teorizzare il controllo democratico sui luoghi in cui si elaborano i paradigmi scientifici socialmente più rilevanti il passo è molto breve. Per l’ambiente questo scenario è già una realtà, solo che si considerino le disposizioni della Convention on Access to Information, Public Partecipation in Decision Making and Access to Justice in Environmental Matters del 1998. In termini sociologici, la scienza sta così scontando a carissimo prezzo l’eccezionale risonanza da essa acquisita nella modernità sul sistema socio-politico, che si era tradotta epistemologicamente nell’ideologia dello scientismo. In termini politici, ciò comporta il tentativo di dar vita ed imporre una nuova, accattivante concezione della democrazia, del tutto coerente con le pretese dell’orizzonte post-moderno. La democrazia non andrebbe più intesa come la dottrina che indica nel riferimento alla volontà della maggioranza il criterio per assumere decisioni in merito alla gestione di interessi collettivi, ma come la pratica sociale che, destrutturando ogni linguaggio che pretenda di assumere valenze autoritative 14. (come appunto quello della scienza), predispone le modalità istituzionali per collocare nella società civile il luogo per discutere e negoziare ogni forma di autorità. In quanto postmoderno, questo modello appare oggi dilagante. Se appare come si è detto accattivante, è perché non ha ancora espletato fino in fondo i propri effetti. E si tratta di effetti rovinosi. La destrutturazione della pretesa veritativa della scienza, se è accettabile come confutazione dello scientismo, è inaccettabile quando porta con sé la destrutturazione, assolutamente indebita, dell’idea di persona (e della sua dignità) e dell’idea generale di verità. Tali forme di destrutturazione non possono essere sanate attraverso un pur generoso riferimento alla società civile e alla libertà dei suoi dibattiti e dei suoi confronti. Non sempre infatti la società civile è garante di libertà: in un orizzonte che rinuncia a qualsiasi forma di razionalità forte, cosa può garantire che la società civile non cada a sua volta preda di manipolazioni ideologiche o non ceda a forme di regressione epistemologica (di cui peraltro la storia ci fornisce non pochi esempi)? La cultura postmoderna tenderà necessariamente ad implodere (in tempi difficilmente prevedibili), quando apparirà finalmente chiaro che il dibattito democratico è sì del tutto legittimato a decidere secondo modalità maggioritarie la gestione degli interessi sociali, ma non ha alcuna legittimazione a statuire in merito a questioni di verità. Il vecchio ammonimento, secondo il quale nella scienza non c’è democrazia, può esserci ancora utile, non certo per sottrarre gli scienziati alle loro responsabilità sociali, ma per distinguere nell’operato degli scienziati ciò che afferisce alla loro identità di scienziati (e che va valutato secondo il codice binario vero/falso) e ciò che afferisce alla loro identità di attori sociali (che va invece valutato secondo il codice binario giusto/ingiusto). Alla confusione di queste due dimensioni vanno addebitate molte delle difficoltà discusse in queste pagine.