L`ingiustizia del danno - Facoltà di Giurisprudenza

Zanichelli
Lex Aquilia
Zanichelli
Curatore Giovanni Pascuzzi
Opera didattica sulla responsabilità civile
Anno 2005 - Numero 1 - L’ingiustizia del danno - parte I
REDAZIONE:
Mara Bertotti
Carlo Bona
Roberto Caso
L’ingiustizia
del danno
CARLO BONA
L
a dottrina e la giurisprudenza degli anni
’50 offrivano un’interpretazione dell’ “ingiustizia” del danno ex art. 2043
c.c. profondamente diversa
rispetto a quella oggi radicata. L’ingiustizia veniva riferita al fatto e veniva letta come
illiceità, come violazione di
un comando o di un divieto.
Da ciò due conseguenze: una
prima, che all’illecito civile
si attribuiva una funzione essenzialmente sanzionatoria,
in quanto volto a sanzionare
un illecito; una seconda, che
risultavano risarcibili i soli
danni da lesione di un diritto
soggettivo, come situazione
giuridica favorevole scaturente per l’appunto da norme
che ponevano comandi o divieti.
A questa rigorosa impostazione si accompagnava la
netta ostilità mostrata dalla
giurisprudenza verso la tutela dei diritti di credito. Ostilità che si riteneva trovasse
fondamento in due principi.
Anzitutto, nella massima per
la quale i diritti di credito
conferiscono solo una pretesa
da far valere nei confronti del
debitore e non attribuiscono
pretese da far valere nei confronti di terzi. In secondo
luogo, nell’osservazione che,
normalmente, nell’ipotesi di
lesione del credito, il danno
subito dal creditore non può
essere considerato conseguenza immediata e diretta
dell’illecito perché mediato
dal danno subito dal debitore,
donde l’assenza di un valido
nesso causale.
Tale rigorosa impostazione
presentava dei limiti evidenti.
In primo luogo, ricostruendo la norma di cui all’art.
2043 c.c. come norma sanzionatoria -- destinata a sanzionare illeciti configurati da
altre norme -- e non come
clausola generale, si ostacolava gravemente l’evoluzione
del sistema e l’adeguamento
dell’illecito aquiliano ad una
società in costante mutamento.
Poi, ponendo alla riparazione l’ostacolo invalicabile
della lesione di un diritto soggettivo assoluto, si lasciavano sfornite di tutela svariate
situazioni dotate di un sicuro
rilievo economico.
Fulvio Cortese
Paolo Guarda
Giorgia Guerra
Giulia M. Lugoboni
Matteo Macilotti
Matteo Marcolin
Franco Ronconi
Anna Rossato
VIGNETTISTI:
Massimiliano Cecchini
Patrizia Divina
Roberta Piazza
Benedetto Sieff
Stefano Talassi
Silvia Winkler
Nel 1999 la svolta tanto attesa
La Cassazione: risarcibili anche i danni da lesione di
situazioni diverse dai diritti soggettivi
Dopo trent’anni piena adesione alle proposte dottrinali
ROMA — Il signor Giorgio
Vitali, da Fiesole, deve essere
quel che si suol dire una persona tenace. Stipulata nell’ormai
lontanissimo 1964 una convenzione di lottizzazione col
Comune, nel 1971 se l’è vista
porre nel nulla. Una fila di
giudizi, ma non s’è intimorito.
Ha voluto arrivare per forza di
cose al 1999, ed è entrato nella
storia.
Anche l’avvocato del signor
Vitali deve essere quel che si
suol dire un avvocato tenace.
Occorreva parecchia tenacia
per chiedere il risarcimento
del danno da lesione di un interesse legittimo, e per portare
avanti la questione, di fronte
ad una giurisprudenza a dir
poco cristallizzata.
Da queste due persone
– o quantomeno grazie anche
a queste due persone – è scaturita la monumentale sentenza
22 luglio 1999, n. 500 con cui
la Corte di Cassazione ha ammesso la risarcibilità dei danni
da lesione di interessi legittimi
pretensivi, passando per una
completa risistemazione dell’
“ingiustizia” del danno.
La Corte è chiamata a decidere su un regolamento
preventivo di giurisdizione,
promosso dal Comune di Fiesole nel giudizio risarcitorio
instaurato dal Vitali. Assume
L’ALLEGATO
il Comune che non essendo la
domanda risarcitoria da lesione di interessi legittimi pretensivi prevista dall’ordinamento
va dichiarata improponibile
per difetto assoluto di giurisdizione. La Cassazione ha gioco
facile nel dichiarare inammis-
sibile il ricorso per
essere la questione
di merito e non di
giurisdizione.
In
breve, osserva che
con la domanda risarcitoria il Vitali
ha fatto valere un
diritto (contemplato dall’art. 2043
c.c.) pacificamente
previsto
dall’ordinamento. Tutto,
ovviamente, consiste nel valutare
se il danno subito per effetto del
contegno della P.a.
sia “ingiusto”. Ma
questa è, per l’appunto, questione di
merito, che nulla
ha a che fare con la
giurisdizione o le condizioni
dell’azione.
Ma la Cassazione non si ferma a ciò, ed affronta nello specifico il tema della risarcibilità
dei danni da lesione di interessi legittimi pretensivi.
SEGUE A PAGINA 2
Negl i a n n i ’60 i pr i m i seg n i d i u na r ivolu z ione e pocale
La dottrina della svolta:
dall’ingiustizia
del
fatto
all’ingiustizia del danno
Le principali sentenze richiamate in questo
numero sono contenute nel CdRom allegato
1.1 Cass. 2085-1953
Si fa largo la regola che ammette la risarcibilità di ogni
interesse meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento
1.2 Cass. 174-1971
A PAGINA 3
Solo
1.3 Cass. 500-1999
nel
1971 u n pa r z iale accogl i mento
del l’evolu z ione dot t r i nale
Quando la Cassazione ammise
la tutela del diritto di credito
L’opinione
L’ingiustizia
ed il problema
dell’atipicità
dell’illecito
D
etto semplicisticamente, il problema della tipicità
od atipicità dell’illecito
consiste nell’accertare se
il sistema giuridico conosca norme che consentono
il risarcimento in una serie
aperta di casi (nel qual caso
quel sistema si dirà atipico)
o se piuttosto il risarcimento
venga ammesso nei soli casi
espressamente previsti da
norme specifiche (nel qual
caso l’illecito sarà tipico).
Accogliendo questa distinzione, è d’uso affermare
che il sistema italiano della
responsabilità civile è atipico, vista l’ampia formulazione dell’art. 2043 c.c.,
che ammette la risarcibilità
di ogni danno ingiusto. E’
parimenti d’uso affermare
che sono atipici il sistema
francese (cfr. artt. 1382 e
1383 c.c.: tout fait quelconque de l’homme, qui cause
à autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel
il est arrivé, à le réparer), il
sistema greco (art. 914 del
codice), il sistema austriaco
(§ 1295 ABGB), i quali tutti
presentano norme analoghe
a quella di cui all’art. 2043
c.c., tali cioè da ammettere
una serie aperta di casi di
responsabilità.
Con la sentenza Meroni il revirement che tutti aspettavano
L’opinione di un pratico sull’ingiustizia
Tra Guglielmo di Ockham e gli
Stati Uniti d’America: cenni
ad una possibile sistemazione
alternativa dell’ “ingiustizia”
Verso criteri extralegali per la selezione
dei danni risarcibili?
A PAGINA 6
SEGUE A PAGINA 5
A PAGINA 2
La dottrina italiana
Alcune indicazioni bibliografiche per iniziare
PASCUZZI, La responsabilità civile - Percorsi giurisprudenziali, in Quaderni del Dipartimento di Scienze
Giuridiche, Trento, 2001
RODOTÀ, Modelli e funzioni della responsabilità civile, in Riv. crit. dir priv., 1984, 595
BUSNELLI, La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964
TRIMARCHI, voce Illecito, in Enc. Dir., Milano, 1970, 90 ss.
RODOTÀ, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964
SACCO, L’ingiustizia di cui all’art. 2043 c.c., in Foro pad., 1960, I, 1421 ss.
SCHLESINGER, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, in Jus, 1960, 338
VISINTINI, Itinerario dottrinale sulla ingiustizia del danno, in Contratto e imp., 1987, 73
SCOGNAMIGLIO, Ingiustizia del danno [voce nuova - 1996] in Enc. Giur. Treccani, Roma, vol. XVII
SEGUE A PAGINA 4
Lex Aquilia - prima pagina
2 LEX AQUILIA —
- cronaca italiana-
L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I
NUMERO 1 —
ANNO 2005
Nel 1999 la svolta tanto attesa
La Cassazione: risarcibili anche i danni da lesione di situazioni
diverse dai diritti soggettivi
Dopo trent’anni piena adesione alle proposte dottrinali
(segue dalla prima pagina)
E’noto che la giurisprudenza
sino a quel momento pressoché univoca escludeva la tutela.
L’argomento, seppur espresso
per sommi capi, era questo: l’
ingiustizia di cui all’art. 2043
c.c. sussiste in quanto si possa
rilevare la lesione di un diritto
soggettivo. L’interesse legittimo
pretensivo sorge come tale (e
non dall’affievolimento del diritto soggettivo) e tale è destinato a
rimanere anche dopo l’eventuale
annullamento del provvedimento
lesivo (normalmente di diniego
su un’istanza del privato). Ne
segue che non potrà mai trovare
tutela risarcitoria, non assumendo mai la consistenza di diritto
soggettivo perfetto.
A questo punto, per affermare
la tutelabilità in via aquiliana degli interessi legittimi era necessario rivedere a fondo la sistemazione dell’ingiustizia.
Era in particolare necessario
rimeditare cinquant’anni di giu-
L
a giurisprudenza si è
sempre mostrata estremamente cauta ad intervenire sull’ingiustizia. Basti
considerare che la nuova impostazione del problema offerta
dalla dottrina nella prima metà
degli anni ’60 – volta a ritenere
ingiusta la lesione di qualsiasi
interesse meritevole di tutela,
a prescindere dalla sua qualificazione come diritto soggettivo
assoluto – è rimasta lettera morta
per un decennio, fino a quando la
Suprema Corte, con un’apertura
tutto sommato timida rispetto
all’estensione delle nuove proposte dottrinali, ha quantomeno
riconosciuto la tutelabilità in via
aquiliana del credito. Questo con
la notissima sentenza Meroni.
Busnelli, nel commentare la
sentenza per Il Foro Italiano, ha
parlato di un “clamoroso revirement” confrontando l’arresto con
un’altra notissima sentenza della
Cassazione, quella pronuncia 4
luglio 1953, n. 2058 con la quale
la Suprema Corte aveva deciso il
caso Superga.
Il 4 maggio 1949 l’intera squadra del Torino calcio periva in un
disastro aereo per essersi il velivolo che la trasportava schiantato contro la collina di Superga.
L’Associazione chiedeva le venisse riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da lesione
del credito, non potendo più godere delle prestazioni dei propri
calciatori, e la Corte lo negava.
Osservava la Cassazione come
i giocatori non potessero considerarsi elementi del patrimonio
aziendale, in ordine ai quali poter
predicare l’esistenza di un diritto
reale risarcibile. Osservava altresì che, pur non dovendosi escludere che il diritto al risarcimento
risprudenza e finalmente aprire
le porte a quella dottrina che già
negli anni ’60 aveva concluso
che risarcibile è ogni danno da
lesione di una situazione meritevole di tutela, a prescindere dalla sua qualificazione in termini
di diritto soggettivo. E questo è
quanto fa la Cassazione.
Osserva la Suprema Corte che l’opinione tradizionale
della risarcibilità dei soli danni
da lesione di diritti soggettivi
muoveva dalla asserita funzione
sanzionatoria dell’art. 2043 c.c.
La norma, si diceva, sanziona la
commissione di un illecito. Ed
un illecito in tanto si dà in quanto vi sia la violazione di una norma che pone comandi o divieti, e
quindi che faccia scaturire diritti
soggettivi. In quest’ottica, “ingiusto” si riteneva il fatto (come
fatto illecito) e non il danno.
Già da tempo (diciamo noi,
almeno dai primi anni ’60) la
dottrina aveva osservato come
la suddetta interpretazione muovesse da una forzatura del tenore
letterale dell’art. 2043 c.c., laddove l’ “ingiustizia” è riferita al
danno e non al fatto, e non v’è
elemento alcuno dal quale si possa o debba inferire la tutelabilità
dei soli diritti soggettivi.
In realtà, osserva la Cassazione aderendo a questa dottrina,
l’art. 2043 c.c. non è una norma
meramente secondaria, volta a
sanzionare la violazione di altre
norme che pongano comandi
o divieti e quindi costituiscano
diritti soggettivi, ma piuttosto
una clausola generale, volta ad
apprestare una riparazione del
danno ingiustamente sofferto.
Quali siano poi, gli interessi
la cui lesione importa un danno
“ingiusto” dovrà accertarlo il
giudice, procedendo ad una comparazione tra gli interessi in conflitto (quello del danneggiante e
quello del danneggiato), comparazione che non sarà rimessa alla
discrezionalità del giudice, ma
andrà condotta alla stregua del
diritto positivo.
In conclusione, si approda agli
stessi risultati della dottrina degli
anni ’60: ingiusto è il danno da
lesione di un interesse meritevole di tutela in quanto direttamente o indirettamente contemplato
e protetto da norme positive:
interesse legittimo compreso,
dunque.
Ma perché la giurisprudenza
approda a questo risultato proprio alla fine degli anni ’90?
I motivi sono vari, ed in parte
traspaiono dalla motivazione. Il
progressivo adeguamento dell’ordinamento italiano agli ordinamenti comunitari, con direttive che hanno imposto allo Stato
di offrire tutela anche a veri e
propri interessi, seppur in settori
limitati (cfr., ad esempio, l’art.
13 l. 19 febbraio 1992, n. 142
sulla lesione degli interessi legittimi nelle procedure di aggiudicazione di appalti comunitari).
La Corte di Giustizia CE, che ha
ammesso la risarcibilità dei danni da mancata o tardata attuazione di una direttiva, così tutelando
una situazione manifestamente
riconducibile all’interesse legittimo. Più in generale, il sempre
maggior raffronto, per effetto
dell’integrazione comunitaria,
con ordinamenti che non conoscono la limitazione che passa
per il concetto di diritto soggettivo. Poi, motivi socio-economici,
come la perdita di sacralità della
Pubblica Amministrazione e la
conseguente avversione verso l’
“immunità” aquiliana degli enti
pubblici; come ancora la sempre
maggior forza delle associazioni
dei consumatori ed altre associazioni di tutela di interessi collettivi (o addirittura diffusi), che ha
spostato l’attenzione sulla tutela
di interessi che nulla hanno a
che fare col diritto soggettivo.
Ancora, la giurisprudenza che
ormai da tempo aveva privato di
significato operazionale la regola della risarcibilità dei danni da
lesione dei soli diritti soggettivi,
offrendo tutela alle situazioni più
variegate.
Ecco quindi l’abbandono della
vecchia regola dell’irrisarcibilità
Solo nel 1971 un parziale accoglimento dell’evoluzione dottrinale
Quando la Cassazione ammise la tutela del diritto di credito
Con la sentenza Meroni il revirement che tutti aspettavano
potesse sorgere anche dalla lesione di un diritto relativo, nel caso
di specie difettava un “nesso di
immediata e diretta dipendenza
del fatto lesivo” perché i danni
lamentati dal Torino “si ricollegano alla lesione di un diritto che
a sua volta è conseguenza della
lesione di altro diritto su quello
prevalente e preminente”. In altre parole, il fatto che la lesione
del credito fosse “mediata” dalla
morte dei giocatori impediva di
ritenere la sussistenza di un valido nesso causale.
Nel 1971 la Suprema Corte si
trova ad affrontare un caso non
molto dissimile. Un minore, tale
Romero, provoca nel 1967 un incidente stradale nel quale perde
la vita Luigi Meroni, calciatore
titolare nella squadra del Torino.
Il Torino Calcio, parimenti a
quanto fatto nel 1949, chiede il
risarcimento del danno da lesione del credito. La Cassazione,
con la sentenza delle Sezioni
Unite 26 gennaio 1971 n. 174,
conferma la sentenza d’appello
con riguardo all’inconfigurabilità di un diritto reale assoluto della società sportiva sui propri giocatori, ma passa alla storia per la
soluzione offerta al problema
della tutelabilità in via aquiliana
del credito.
Osserva la Suprema Corte che
il giudice d’appello s’è attenuto
in modo rigoroso al principio
dell’irrisarcibilità della lesione
del credito muovendo dai due
tradizionali argomenti della relatività degli effetti del contratto (secondo l’art. 1372 c.c.) e
dell’assenza di un valido nesso
causale.
Ma in tal modo si è anzitutto
attribuito all’art. 1372 c.c. un significato che certamente non ha.
La norma, infatti, vale solo ad
escludere l’indebita proiezione
degli effetti propri del contratto
nella sfera giuridica dei terzi. Ma
ciò non significa che i terzi possano liberamente interferire nel
rapporto contrattuale impedendo
al creditore di ottenere l’adempimento.
Orbene, osserva la Corte, l’ingiustizia contemplata dall’art.
2043 c.c. sussiste in quanto il
danno sia arrecato contra ius e
non iure. Il danno può dirsi contra ius quando venga a ledere
una situazione giuridica tutelata
dall’ordinamento nella forma
del diritto soggettivo. Questa
interpretazione, largamente condivisa, porta ad escludere la tutelabilità in via aquiliana delle
situazioni giuridiche che non assurgano al rango di diritti soggettivi, ma non consente in nessun
modo di operare indebite distinzioni tra diritti tutelabili, come
quella che ammette la tutela dei
diritti assoluti e non quella dei
diritti di credito.
D’altra parte, continua la Corte, nel senso dell’irrilevanza della distinzione tra diritti assoluti e
relativi opera anche il richiamo
al precedente del 1953 (la Corte, abbiamo visto, in quell’occasione non aveva escluso in via
di principio la tutelabilità di un
diritto relativo) e, soprattutto,
giocano gli indirizzi giurispru-
denziali che hanno ammesso la
tutelabilità del credito alimentare e sanzionato in via aquiliana il comportamento del terzo
estraneo al rapporto contrattuale
che abbia partecipato alla violazione di obblighi da parte del
contraente. Ribadire l’esclusione
della tutela aquiliana del credito
significherebbe, quindi, fare un
passo indietro rispetto a posizioni giurisprudenziali ormai acquisite e, soprattutto, si rivelerebbe
socialmente ed economicamente
antistorico.
Quindi, conclude la Corte,
l’art. 2043 c.c. offre tutela anche
ai diritti soggettivi di credito,
restando del tutto irrilevante la
distinzione rispetto ai diritti soggettivi assoluti.
Precisato questo la Corte affronta il secondo argomento
addotto sia nel 1953, sia dalla
Corte d’Appello di Torino per
escludere la risarcibilità dei danni subiti dal Torino, ossia quello
dell’assenza di un valido nesso
causale. In breve, si affermava
che il danno subito dalla società
per la morte dei propri giocatori
non fosse conseguenza immediata e diretta dell’illecito che
direttamente ed immediatamente
aveva inciso solo sul preminente
diritto delle vittime alla vita ed
all’integrità personale.
In ordine a questo punto osserva la Corte come anzitutto
non si debba confondere il problema della causalità con quello
della correlazione tra il bene leso
e la norma di protezione. Dire,
come la Corte d’Appello, che
manca un rapporto di immediatezza ogniqualvolta il portatore
dell’interesse (come il Torino
Calcio) sia un soggetto diverso
da quello primariamente contemplato dalla norma invocata
a tutela (ossia, nell’omicidio
colposo, la vittima), significa far
questione di correlazione tra norma e bene, e non certo questione
di causalità.
E la questione del rapporto tra
norma ed interesse leso può essere agevolmente risolta richiamando l’indirizzo consolidato
in tema di costituzione di parte
civile, laddove l’azione civile
nel processo penale è consentita
non già alle sole persone offese
dal reato (ossia ai soggetti verso
i quali è diretta l’azione criminosa contemplata dalla norma), ma
più in generale a chiunque abbia
risentito un danno dal reato. Evidentemente, quindi, non è necessario che ad invocare la tutela
risarcitoria sia proprio la persona
contemplata dalla norma primaria. Ciò, tra l’altro, emerge anche
dalla giurisprudenza civilistica in tema di danno subito dai
prossimi congiunti della vittima
dell’illecito, laddove il prossimo
congiunto può pacificamente
chiedere ed ottenere iure proprio
il risarcimento pur non essendo
direttamente contemplato dalla
norma primaria di protezione.
Il discorso, quindi, non deve
impostarsi sulla correlazione tra
norma ed interesse leso, quanto
piuttosto sulla causalità propriamente intesa.
E sotto questo profilo la Corte
dei danni da lesione di interessi,
ormai non più sostenibile né sul
piano giuridico né su quello socio - economico.
D’altra parte, la Suprema Corte s’avvede dei possibili rischi di
overcompensation, visto che con
la caduta del criterio selettivo del
diritto soggettivo le maglie della
responsabilità aquiliana si fanno
indubbiamente più ampie. E non
è un caso che la stessa sentenza
500/’99 cerchi di recuperare in
selettività affermando (in contrasto con la giurisprudenza a quel
tempo univoca) la necessità di
provare volta per volta la colpa
della P.a., che non potrà mai dirsi presunta per la semplice adozione di un atto illegittimo. Così
come non è un caso che a distanza di pochi anni la stessa Cassazione affermi, con la sentenza
27 marzo 2003, n. 4538, la c.d.
pregiudizialità amministrativa,
ossia la necessità, per proporre la
domanda risarcitoria, della previa impugnazione dell’atto.
ritiene che il nesso immediato
e diretto previsto dall’art. 1223
c.c. “non può aprioristicamente
escludersi per il solo fatto che
l’unico evento lesivo attinga il
diritto del creditore per il tramite
della lesione del diritto del debitore alla propria vita. Se così fosse (…) si opererebbe, ancora una
volta, la già rilevata trasposizione del problema della causalità
sul diverso piano dell’esistenza
di una situazione giuridica tutelabile ex art. 2043 c.c. Si tratta
piuttosto di stabilire in quali casi,
e nel concorso di quali condizioni, l’esistenza del credito strettamente dipenda dalla permanenza
in vita dell’obbligato”. La Corte
ritiene necessario accertare che
la morte determini l’estinzione
dell’obbligazione senza possibilità di trasmissione agli eredi
e che la perdita sia definitiva ed
irreparabile per insostituibilità
del debitore, ossia che il creditore non possa procurarsi da altri
le stesse prestazioni. Nel concorso di queste condizioni si potrà
dire che il danno è conseguenza
immediata e diretta dell’illecito
e quindi sarà pienamente risarcibile.
Un clamoroso revirement, pertanto, che non va peraltro ad incidere sulla rigorosa impostazione giurisprudenziale nel senso
della risarcibilità del solo danno
da lesione di diritti soggettivi.
Per la risarcibilità di ogni danno
da lesione di interessi meritevoli
di tutela occorrerà attendere il
1999. Il che, come s’anticipava,
è perfettamente spiegabile in
chiave storica col timore della
giurisprudenza di un eccessivo
allargamento dell’area dei danni
risarcibili.
- cultura -
ANNO 2005 — NUMERO 1
L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I —
3 LEX AQUILIA
Negli anni ’60 i primi segni di una rivoluzione epocale
La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del danno
Si fa largo la regola che ammette la risarcibilità di ogni interesse meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento
L
’impostazione tradizionale, che ammetteva la
risarcibilità dei soli danni da lesione di diritti soggettivi,
e con esclusione della tutela dei
diritti di credito, viene messa in
discussione a partire dalla prima
metà degli anni ’60.
Ad aprire le danze è Francesco
Donato Busnelli, con La lesione
del credito da parte di terzi, Milano, 1964.
L’opera parte da valutazioni
sulla configurabilità teorica della lesione del credito da parte di
terzi. Si inizia esponendo la tesi
tradizionale, quella per cui “la
rilevanza dei diritti di credito si
esaurisce nel rapporto obbligatorio tra creditore e debitore, e
quindi una lesione può configurarsi unicamente ad opera di quest’ultimo” (pag. 3) Per Busnelli
tale impostazione va radicalmente superata: “l’equivoco sta nel
fatto di aver ritenuto a guisa di
postulato che tale diritto esaurisca la propria rilevanza giuridica
all’interno del rapporto obbligatorio (pag. 30), il che non è vero
se solo si tiene conto della possibilità di adempimento da parte
del terzo; occorre quindi distinguere tra un profilo “che diremo
statico e che rappresenta il diritto
di credito non già in considerazione della possibilità di esercizio da parte del suo titolare (nei
confronti del debitore e secondo
le regole che disciplinano l’attuazione del rapporto obbligatorio),
bensì in considerazione della
sua appartenenza (in termini di
valore da conseguire e realizzare) alla sfera giuridica del creditore e, quindi, della sua rilevanza
giuridica erga omnes, ed un profilo dinamico (o potenzialmente
dinamico) che s’incentra, appunto, nella pretesa, profilo sotto il
quale, indubbiamente, il diritto
del creditore si pone in stretta
correlazione con l’obbligo del
debitore all’interno del rapporto
obbligatorio” (pag. 35).
Quindi, secondo Busnelli, occorre distinguere tra un aspetto
interno del diritto di credito,
che attribuisce una pretesa all’adempimento del debitore, ed
un aspetto esterno, che attribuisce una pretesa all’astensione da
parte di qualsiasi terzo dal ledere
il diritto di credito.
Detto questo, osservato quindi
come una lesione del diritto di
credito ad opera di terzi sia pienamente configurabile, si tratta
di accertare “se una tale lesione
debba o meno considerarsi come
una fonte di responsabilità (extracontrattuale, ovviamente) per
il terzo che ne è l’autore. A questo punto, quindi, il campo dell’indagine si sposta sul piano del
diritto positivo” (pag. 49).
Osserva quindi l’Autore come
vi sia una certa tendenza a ravvisare nell’art. 2043 c.c. una norma
meramente sanzionatoria, destinata ad operare a fronte di lesioni arrecate a diritti tipici (quelli
soggettivi assoluti), tendenza
questa da deprecare, dovendosi
configurare l’art. 2043 c.c. alla
stregua di una clausola generale,
“a questo punto - afferma - sembra che vi siano già elementi
sufficienti per negare che nella
disposizione dell’art. 2043cc sia
ravvisabile una sorta di necessario rinvio a presunti doveri specifici (di non ledere) imposti da
altre norme” (pag. 65).
Ma come leggere tale clausola
generale senza da una parte farne
una norma meramente sanzionatoria, né dall’altra lasciare il
campo all’arbitrio del giudice?
Secondo Busnelli occorre svolgere una “doppia indagine (...)
vertente da un lato sulla posizione del danneggiante (onde accertare se costui ha agito, senza essere autorizzato, al di fuori della
sfera dei propri diritti soggettivi), e, dall’altro, sulla posizione
del danneggiato (onde accertare
se costui è stato leso, per comportamento del danneggiante, in
una propria situazione giuridica
soggettiva)” (pag. 71).
Insomma, si tratta di accertare che la lesione sia non iure e
contra ius. I problemi maggiori
si pongono ovviamente nello stabilire quando il comportamento
possa essere considerato contra
ius, quando cioè esista una situazione giuridica soggettiva meritevole di tutela. Busnelli richiede
un doppio requisito: un interesse
giuridicamente protetto, protezione giuridica che può essere
diretta, ma può essere anche implicita in una o più norme, poi
la cosiddetta “correlatività”: “si
tratta di accertare se la protezione di un interesse, quale risulti
dal dettato di una o più norme,
risulti in rapporto di “correlatività” con il comportamento dei
terzi, nel senso che la protezione
giuridica di cui gode l’interesse
leso si dimostri effettivamente
destinata a quel tipo d’interessi, in conformità di quel tipo di
comportamento” (pag. 88).
Una formulazione un po’ complessa per dire che la regola dalla
quale si desume l’ingiustizia
deve tutelare direttamente l’interesse leso, e non un altro interesse a questo collegato solo in
forza della coesistenza nel particolare caso concreto.
Risolto in questo modo il
problema della configurabilità di una lesione del credito ad
opera di terzi, e della possibilità
di qualificare il relativo danno
come ingiusto, si passa all’altro
argomento che veniva addotto
per escludere la tutela aquiliana
del credito, ossia il difetto di un
valido nesso causale.
nione tradizionale si ammette che
una lesione del diritto di credito
possa provenire anche dal terzo;
poi, nell’analisi dell’art. 2043
c.c. che ne segue, si perviene
anzitutto a qualificare l’art. 2043
c.c. come una clausola generale,
e poi a stabilire che il danno è ingiusto (altra novità: ingiusto è il
danno e non il fatto) allorquando
ci si trovi di fronte alla lesione
non già di un diritto soggettivo,
ma di un qualsiasi interesse giuridicamente protetto.
Agli stessi risultati, seppur
sulla base di argomenti diversi,
qualche anno dopo giunge anche
Pietro Trimarchi, nella voce Illecito per l’Enciclopedia del Diritto, Milano, 1970.
Osserva Trimarchi che “secondo una formula un tempo
prevalente in dottrina e che ancor
oggi riecheggia frequentemente
nelle motivazioni delle sentenze
(senza peraltro determinare le
decisioni), il divieto e la sanzione operano solo quando vi è la
Osserva Busnelli che, a parte
le ipotesi in cui è fuor di discussione la sussistenza del nesso
causale per cadere il danno solo
in capo al creditore (ad esempio,
nel caso di uccisione del debitore
da parte del terzo, quando il debitore non abbia congiunti) e per
l’impossibilità quindi di predicare un danno che si frapponga tra
il fatto ed il pregiudizio subito
dal creditore, ed a parte anche
l’evoluzione giurisprudenziale
che aveva mostrato di intendere
in modo estensivo il concetto di
conseguenza “immediata e diretta”, a parte ciò “non è esatto
individuare
nell’evento...una
sorta di danno (-evento) che si
interponga tra fatto del terzo e
danno subito dal creditore (…)
Quest’ultimo danno deriva dal
fatto del terzo alla stessa stregua
di danni pacificamente qualificati come conseguenze immediate
e dirette del fatto stesso (...), non
si vede perché la stessa qualifica non dovrebbe spettare anche
al danno sofferto dal creditore”
(pag. 136).
Così compendiato il testo, risultano in tutta evidenza i punti
di frattura con la tradizionale impostazione dell’illecito.
In primo luogo, contro l’opi-
lesione di un diritto soggettivo.
La formula non è determinata,
poiché dipende dal significato di
un termine (“diritto soggettivo”)
che non è definito dalla legge e il
cui uso nella letteratura giuridica
presenta oscillazioni talora notevoli. Certo è che la formula ha un
senso limitativo, poiché tende a
coprire solo le ipotesi di lesione
di diritti reali o di beni quali la
vita, l’integrità fisica, la libertà di movimento, l’onore (…)
L’elenco dei “diritti soggettivi”
tutelabili può essere esteso a
comprendere il diritto al nome ed
il diritto all’immagine, ed inoltre
i cosiddetti “diritti sui beni immateriali” (opere dell’ingegno,
invenzioni industriali, marchi
d’impresa); ma è chiaro che ogni
ulteriore estensione svuoterebbe
la formula di ogni significato”
(pag. 94).
Ma allora, osserva l’Autore,
varie situazioni giuridiche pur
tutelate non possono essere ricondotte alla categoria del diritto
soggettivo (ad esempio, quelle
lese dalla concorrenza sleale,
o da false informazioni), salvo
concludere che ad ogni atto illecito corrisponda un diritto soggettivo, il che priva la categoria
di ogni concreta utilità operati-
va.
Scartata quindi la validità della tesi tradizionale, Trimarchi si
interroga se quantomeno si possa conservare l’altra teoria, che
vede comunque nell’art. 2043
c.c. una norma sanzionatoria di
atti dannosi compiuti in violazione di doveri o comandi posti
da altre norme di legge. Per concludere che “L’interpretazione
che rinvia a doveri risultanti da
altre norme mortifica la forza
espansiva della regola generale
contenuta nell’art. 2043 c.c. Si
è sostenuto perciò che tale articolo debba essere inteso non già
come norma secondaria, meramente sanzionatoria, bensì come
norma primaria, che pone essa
stessa un dovere giuridico amplissimo: quello di astenersi da
ogni comportamento che possa
recar danno ad altri, salvo che il
comportamento stesso sia giustificato. L’ingiustizia, si è scritto,
va intesa non come violazione
di una regola di condotta posta
a protezione di un interesse specifico, bensì come violazione del
dovere generale dell’alterum non
laedere”, in assenza di un diritto
del danneggiante al compimento
dell’atto che ha causato il danno:
diritto che non va inteso come
agere licere e la cui attribuzione
non può pertanto essere riconosciuta ogniqualvolta manchi una
norma proibitiva, bensì soltanto
quando risulti, attraverso sicuri
indici normativi, che l’attività
dannosa è fra quelle che l’ordinamento ritiene siano da incoraggiare e proteggere” (pag. 96).
Ma anche quest’ultima tesi,
riconducibile a Schlesinger, -per la quale l’art. 2043 c.c. vieta
qualsiasi attività dannosa salvo
che sia lecita perché giustificata
dall’ordinamento alla luce di sicuri indici normativi -- viene criticata da Trimarchi come troppo
restrittiva, in quanto non considera la possibilità che un’attività
debba considerarsi giustificata a
prescindere da chiari indici nor-
proposizione, infatti, trascura la
complessità delle valutazioni che
contribuiscono a determinare un
sistema di responsabilità per atto
illecito” (pag. 96).
Precisato questo passa ad
esporre la sua impostazione del
problema: “Il problema dell’illecito civile consiste principalmente (ma, è bene sottolinearlo
fin d’ora, non esclusivamente),
nella valutazione comparativa di
due interessi contrapposti, l’interesse altrui minacciato da un
certo tipo di condotta da un lato,
e l’interesse che l’agente con
quella condotta realizza o tende
a realizzare.
Tale valutazione ha gran peso
quando si tratta di disciplinare
legislativamente delle figure di
illecito; altrettanta importanza le
compete nell’ambito delle operazioni che l’interprete deve compiere allo scopo di integrare la
disciplina legislativa dove questa
è incompleta o generica. Vi sono
campi in cui questo intervento
integrativo della legge è necessario più spesso: così là dove si
tratta di fissare i limiti alla lotta
economica tra imprenditori in
concorrenza (…). Altrove il conflitto tra le esigenze contrapposte
viene risolto legislativamente attraverso la regolazione di particolari tipi di illecito e, in particolare, attraverso la configurazione
di diritti soggettivi (…). Ciò non
esclude tuttavia che anche qui il
giudice sia chiamato ad operare
valutazioni comparative di interessi” (pag. 98)
Premesso ciò si tratta di chiedersi secondo quale criterio risolvere questi conflitti, e per Trimarchi il criterio va individuato
nella pubblica utilità: “abbiamo
detto che la soluzione del problema dell’illecito civile dipende in
gran parte dalla valutazione comparativa degli interessi dell’agente da una parte e del danneggiato
dall’altra. A questo punto occorre aggiungere un chiarimento di
estrema importanza, e cioè che
mativi (e fa l’esempio dei danni cagionati dalle informazioni
commerciali bancarie): “non
sembra sostenibile che l’illiceità venga meno solo nelle ipotesi in cui l’attività dannosa sia
incoraggiata e protetta. Questa
il criterio, in base al quale gli
interessi in gioco vengono comparati, è un criterio di pubblica
utilità” (pag. 100).
Anche in questo caso è palese
SEGUE A PAGINA 4
4 LEX AQUILIA —
- cultura -
L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I
NUMERO 1 —
ANNO 2005
La dottrina della svolta: dall’ingiustizia del fatto all’ingiustizia del danno
data alla pubblica utilità, ma
al contempo precisando che
la novità rispetto alla concezione “a sua volta il criterio della
tradizionale, data dalla rottura pubblica utilità verrà detercon quella sorta di tipicità legata minato dall’interprete in base
al diritto soggettivo assoluto che ai valori desunti da leggi che
era stata costruita da dottrina e regolano materie analoghe o
giurisprudenza.
dai principi generali dell’orNella posizione di Trimar- dinamento giuridico” (pag.
chi si rinviene peraltro qualche 129). Con ciò approdando ad
ambiguità. Un po’ perché nei una soluzione non molto dissuoi articoli non si capisce bene simile da quella di Busnelli,
fin dove arrivi il distacco dal- il quale ammetteva la risarcil’orientamento tradizionale, un bilità del danno da lesione di
po’ perché non chiarisce sempre ogni interesse meritevole di
in modo evidente cosa si debba tutela in quanto direttamente
intendere per “pubblica utilità”, o indirettamente protetto da
meglio, come questa debba es- norme positive.
sere circoscritta.
Vere o presunte ambiguità
Basti osservare che se nel- a parte, l’opera di Trimarchi
l’intervento per l’Enciclopedia resta essenziale, anche (e fordel diritto la rottura con la tesi se soprattutto) per aver fatto
tradizionale sembra assoluta, conoscere agli italiani l’imcol ricorso per la determinazio- portanza dell’analisi econone degli interessi protetti ad un mica nello studio del diritto
criterio extralegale di stampo civile.
essenzialmente economicistiNello stesso torno di anni
co come la “pubblica utilità”, Stefano Rodotà dà alle stamqualche anno dopo nel suo ma- pe Il problema della responnuale istituzionale (Istituzioni sabilità civile, Milano, 1964.
di diritto privato, Milano, l991)
Rodotà affronta il tema da
lo stesso Trimarchi tornerà (o un’ulteriore prospettiva, dando
Osserva l’Autore come il nosembrerà tornare) sulle proprie inizio ad una feconda serie di stro ordinamento sia improntato
posizioni ribadendo sì che la studi sulla “costituzionalizzazio- dal principio di solidarietà, che
selezione degli interessi è affi- ne” della responsabilità civile.
impone di comportarsi in modo
da non ledere l’interesse altrui.
Tale principio trova referente
sia nella normativa costituzionale (artt. 2 e 41 Cost.), sia in
quella ordinaria: “non si può
FRANCIA
negare, infatti, che il codice
vigente costituisca, proprio in
questa direzione, un notevole
CODE CIVIL
progresso rispetto alla codificaArticle 1382
zione civile del 1865: basta por
Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un
mente a norme del tutto nuove
dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le
in esso contenute, quali sono,
réparer.
ad esempio, quelle relative
agli atti emulativi (art. 883), al
Article 1383
comportamento secondo corretChacun est responsable du dommage qu’il a causé non
tezza (art. 1175), alle trattative
seulement par son fait, mais encore par sa négligence ou
precontrattuali (art. 1337). In
par son imprudence.
proposito, le parole adoperate
(segue da pagina 3)
l’angolo normativo
nella Relazione sono significative: “la correttezza che impone
l’art. 1175 (…) non è soltanto
un generico dovere di condotta
morale; è un dovere giuridico
qualificato dall’osservanza dei
principi di solidarietà corporativa a cui il codice, nell’articolo
richiamato, espressamente rinvia. Questo dovere di solidarietà
(…) non è che il dovere di comportarsi in modo da non ledere
l’interesse altrui fuori dei limiti
della legittima tutela dell’interesse proprio, in maniera che,
non soltanto l’atto di emulazione ne risulti vietato (art. 883),
ma ogni atto che non implica il
rispetto equanime dell’interesse
dei terzi” (pag. 90).
Portato sul terreno della responsabilità civile, questo prin-
cipio implica la necessità di leggere la clausola dell’ingiustizia
come clausola generale, idonea
a consentire la riparazione di
ogni danno arrecato in violazione della solidarietà e senza
la necessità di far luogo ad una
tipizzazione legislativa di ogni
comportamento dannoso.
Aperte in tal modo le porte
alla tutela di situazioni giuridiche diverse dai diritti soggettivi, Rodotà affronta il consequenziale problema di evitare
che l’atipicità dell’illecito si
traduca in arbitrio dell’interprete: “non si tratterà (…) di una
serie aperta di casi di responsabilità civile nel senso che il
giudice potrà, secondo il modo
in cui riterrà opportuno considerare la coscienza collettiva
in un determinato momento
storico, ammettere l’esistenza
di un qualsiasi dovere; bensì
nel senso che il limite della solidarietà deve ritenersi operante
in tutte le situazioni per le quali
è prevista una qualsiasi forma
di protezione legislativa” (pag.
112).
“Introdurre in un sistema una
o più clausole generali non vuol
dire che il giudice, nelle materie
da queste regolate, possa decidere secondo il suo particolare
modo di sentire le esigenze della
società e del tempo in cui vive:
ché, infatti, la sua decisione dovrà sempre essere fondata sui
criteri indicati dalla legge, anche
quando la concreta definizione
della loro fisionomia abbisognerà di una ricostruzione che
tenga conto dei dati della realtà
effettuale. Si è ben lontani, dunque, da quel rifiuto di trovare il
criterio di decisione nella legge,
per attingerlo direttamente alla
realtà sociale, di cui faceva parola la dottrina del diritto libero”
(pag. 138).
Anche in Rodotà si distinguo-
no pertanto i tratti caratteristici
della “rivoluzionaria” dottrina
degli anni ’60.
Anzitutto, la netta opposizione a riconoscere carattere meramente tipico e sanzionatorio
all’illecito civile. L’illecito ha
funzione essenzialmente compensativa e, per il tramite di una
clausola generale (l’art. 2043
c.c.), offre riparazione ad ogni
occasione di danno giuridicamente rilevante.
In secondo luogo, anche Rodotà mostra la preoccupazione
che l’allargamento delle maglie
della responsabilità si traduca
nell’attribuzione all’interprete
di una libertà idonea a sfociare
in arbitrio. Sente in altre parole
l’esigenza di mantenere precisi
criteri di selezione del danno,
anche a livello dell’ingiustizia.
Infine, tali criteri vengono comunque individuati nel diritto
positivo: è meritevole di tutela
ciò che risulti direttamente o
indirettamente protetto dall’ordinamento positivo.
Sicché, se volessimo compendiare in una massima l’orientamento della dottrina negli anni
’60 dovremmo concludere che
“l’illecito civile ha funzione
compensativa e per tramite della clausola generale dell’ingiustizia offre riparazione ad ogni
danno da lesione di interessi
giuridicamente rilevanti in quanto direttamente o indirettamente
contemplati da norme positive”.
Questo mentre prima degli anni ’60 operava la diversa
massima per la quale “l’illecito
civile è volto a sanzionare la
violazione di norme primarie
che pongono divieti o comandi
facendo scaturire diritti soggettivi assoluti”.
La svolta degli anni ’60 e la recente “ingiustizia” del danno
Le nuove frontiere dell’ingiustizia
Dall’eccesso di selezione ad un eccesso di riparazione?
CARLO BONA
(segue dalla prima pagina)
Basti considerare i danni da
lesione del possesso, o i c.d.
danni da lesione dell’integrità
patrimoniale (o da lesione della
libertà contrattuale).
Ancora, oltre a condurre a risultati discutibili sul piano pratico, questa impostazione mal
s’attagliava al diritto positivo,
muovendo da una interpretazione dell’art. 2043 c.c. che ne
sconvolgeva la lettera (laddove
l’ingiustizia è chiaramente riferita al danno e non al fatto).
Infine, sovente creava clamorose dissonanze tra regole declamatorie e regole operazionali,
essendo spesso la giurisprudenza
costretta a vere e proprie acrobazie concettuali per giustificare la
tutela di situazioni che in senso
proprio non potevano essere
qualificate alla stregua di diritti
soggettivi assoluti.
Agli inizi degli anni ’60 la dottrina evidenzia con forza questi
limiti e propone una sistemazio-
ne alternativa dell’illecito.
Anzitutto precisa che la tutela
non può essere limitata ai soli diritti soggettivi assoluti, giacché
è errato ritenere che i diritti di
credito attribuiscano pretese da
far valere nei soli confronti del
debitore. Ad un aspetto per così
dire dinamico del credito (consistente nella pretesa verso il
debitore) va infatti aggiunto un
aspetto statico, consistente nella
pretesa attribuita al creditore nei
confronti di terzi, che si astengano dal ledere il diritto di credito.
La lesione di tale pretesa si traduce in un danno ingiusto.
Ma la dottrina non si ferma
a ciò, ritenendo che si debba
completamente rivedere lo stesso concetto di ingiustizia. L’art.
2043 c.c., si dice, non è una
norma meramente sanzionatoria
destinata ad operare unicamente
a fronte della violazione di norme che pongono comandi o divieti e che quindi costituiscono
diritti soggettivi. E’invece una
norma che, per il tramite della
clausola generale dell’ingiustizia, offre riparazione ad ogni
danno da lesione di un interesse
rilevante. Precisato che si tratta
di una clausola generale, occorrerà escludere la necessità di un
rinvio a norme preesistenti che
individuino illeciti tipici, ma al
contempo occorrerà fare attenzione a porre dei limiti alla risarcibilità, sì da evitare possibili
arbìtri. E, seppur in vari modi,
tutti gli esponenti della dottrina
di questo periodo sono d’accordo nel ritenere che la selezione
vada operata mediante un rinvio
al diritto positivo. E’ riparabile
qualunque danno da lesione di
una situazione meritevole di tutela perché direttamente o indirettamente protetta dall’ordinamento positivo.
Il sistema quindi, nella prospettiva della dottrina, cambia
radicalmente: dalla funzione
sanzionatoria e dalla tutela dei
soli diritti soggettivi alla funzio-
ne compensativa ed alla tutela di
ogni interesse meritevole di protezione.
Ma la giurisprudenza tarda ad
accogliere le proposte dottrinali.
Si dovranno attendere i primi
anni ’70, con la nota sentenza
Meroni, per vedere superato il
primo scoglio, ossia quello della
risarcibilità dei soli diritti assoluti e non dei diritti di credito.
Quanto al secondo, ben più
rilevante ostacolo, ossia quello
costituito dalla risarcibilità dei
soli danni da lesione di un diritto
soggettivo, la giurisprudenza si
mostra intransigente a conservare la regola a livello declamatorio. Ma al contempo mostra sempre più di abbandonarla a livello
operazionale, con un florilegio di
sentenze che, con vari espedienti concettuali, “mascherano” da
diritti soggettivi dei veri e propri
interessi.
Tale atteggiamento, se letto in
una prospettiva storica, appare
molto più giustificato di quanto a
prima vista non sembri. Il timore
della giurisprudenza è quello di
allargare troppo le maglie della
risarcibilità, a fronte di proposte
dottrinali che pur condivisibili
nell’impostazione di fondo, diventano oscure quando si tratta
di precisare secondo quali criteri
selezionare gli interessi (ed infatti, non v’è chi non veda che il
richiamo ad ogni interesse direttamente o indirettamente meritevole di tutela presenta ben scarsa
capacità selettiva).
Anche queste remore vengono
meno quando nel 1999 le Sezioni Unite della Suprema Corte, con la nota sentenza n. 500,
aderiscono in pieno alle proposte
dottrinali: da questo momento in
poi l’art. 2043 c.c. offre tutela
ad ogni interesse meritevole di
tutela in quanto direttamente o
indirettamente protetto dall’ordinamento positivo.
Il tema ben presto scema di
interesse, assorbito da questioni
ormai più rilevanti. Sembra che,
più o meno consapevolmente,
la dottrina abbandoni l’ingiustizia per buttarsi a capofitto alla
ricerca di altri criteri selettivi.
Ecco allora accesi dibattiti sul
nesso di causalità e sul danno
riflesso, sulla nuova figura del
danno esistenziale e sulla teorica del “danno evento”, etc. Ma
il sistema è veramente in grado
di reggersi in mancanza di una
valida selezione a livello d’ingiustizia? E, domanda ancor più
significativa, siamo proprio sicuri che la selezione avvenga alla
stregua di un criterio normativo
e non di un criterio sociale, ossia che vangano risarciti i danni
a seconda della protezione loro
accordata dall’ordinamento e
non a seconda delle valutazioni
sociali? Non è forse opportuno
rivedere il tutto?
- cultura -
ANNO 2005 — NUMERO 1
L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I —
5 LEX AQUILIA
L’opinione
Uno spunto critico sulla distinzione tra tipicità ed atipicità
L’ingiustizia ed il problema dell’atipicità dell’illecito
E’corretto ritenere atipico il nostro sistema e tipico quello di common law?
(segue dalla prima pagina)
Di converso, è d’uso affermare che era tipico il sistema
dell’illecito romano, che conosceva le sole figure del furto,
della rapina, dell’iniuria, del
damnum iniuria datum e che
sono oggi tipici i sistemi di
common law, in quanto basati
su precedenti specifici. Tipico
sarebbe anche il sistema tedesco, visti i §§ 823 ss. BGB che
fanno riferimento alla lesione
di diritti specificamente indicati
(in particolare, il § 823 I comma fa riferimento alla lesione
colposa della vita, della persona, della salute, della libertà,
della proprietà o di un “diverso
diritto”, il § 823 II comma ha
riguardo alla violazione colpevole di una norma che mira
alla tutela dell’interesse di un
soggetto; il § 826 disciplina i
danni arrecati intenzionalmente ad altri agendo in difformità
dal buon costume).
La distinzione è peraltro del
tutto semplicistica.
Prendiamo anzitutto il sistema italiano dell’illecito. L’ “ingiustizia” di cui all’art. 2043
c.c. è in un primo momento
stata intesa come ingiustizia
del fatto, ossia come illiceità. Dal che il principio che la
sanzione civile potesse operare
solo a fronte della violazione
di norme che ponevano comandi o divieti, costituendo
o riconoscendo diritti. Come
ben osservato dalla dottrina, il
sistema (se così interpretato)
doveva dirsi tipico. L’art. 2043
c.c. valeva solo a sanzionare la
violazione di altre norme, specifiche. Il sistema era quindi sostanzialmente analogo a quello
delineato dal § 823 I comma
BGB per il quale, si è detto, è
tra l’altro risarcibile la lesione
di un “diverso diritto” (“sonstiges Recht”). In entrambi i
casi la tutela risarcitoria poteva
ammettersi solo a fronte della
lesione di diritti specificamente individuati dall’ordinamento
positivo.
D’altra parte, se la regola declamata era quella della
risarcibilità dei soli danni da
lesione dei diritti soggettivi,
la giurisprudenza aveva gioco
facile ad “inventare” dei diritti
soggettivi quando riteneva necessario offrire tutela a semplici interessi (ad esempio il caso,
eclatante, del c.d. diritto all’integrità del patrimonio: Cass., 4
maggio 1982, n. 2675). Quindi
la “tipicità” operante a livello
declamatorio veniva già sconfessata a livello operazionale,
offrendo la giurisprudenza
tutela ad una serie aperta di
possibili situazioni giuridiche
soggettive (cfr. FRANZONI,
Dei fatti illeciti, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna
- Roma, 1993, 191). Sul piano
operazionale il sistema poteva
pertanto dirsi a tutti gli effetti
atipico.
Una vicenda non molto diversa ha caratterizzato la responsabilità civile tedesca. La
tipicità affermata e ribadita
sul piano declamatorio, è stata
nel tempo fortemente corretta
dalla giurisprudenza sul piano
operazionale, mediante interpretazioni sempre più elastiche
del concetto di “diverso diritto” ex § 823 BGB. E proprio
sul piano del danno economico il Reichsgericht ha riconosciuto un “diritto al rispetto
dell’attività imprenditoriale”
difficilmente compatibile con
le norme del BGB, se intese secondo uno stretto principio di
tipicità (ZWEIGERT - KOTZ,
Introduzione al diritto comparato, Milano, 1992, 284).
Quindi, i due sistemi, tedesco ed italiano, seppur formalmente l’uno tipico e l’altro atipico, hanno vissuto esperienze
per molti versi simili, con in
entrambi i casi una chiara dissociazione tra regole operanti
a livello declamatorio e regole
operazionali.
Tornando in Italia, a partire
dalla recente sentenza delle
Sezioni Unite 500/’99 si è ammessa la risarcibilità del danno
da lesione di ogni interesse meritevole di tutela, a prescindere
dalla sua qualificazione in termini di diritto soggettivo. Sembrerebbe quindi di poter dire
che il nostro sistema è ormai a
tutti gli effetti atipico, tanto sul
piano declamatorio, quanto su
quello operazionale. Non fosse
che la Cassazione ha precisato,
conformemente alla dottrina,
che un interesse può dirsi meritevole di tutela in quanto sia
direttamente o indirettamente
contemplato dall’ordinamento
positivo. Sicché, se è pur sempre necessario individuare una
norma che contempli l’interesse leso, non è poi così semplice
parlare di atipicità, rinvenendosi comunque degli elementi,
forti, di tipicità.
Tutto sarà vedere, peraltro,
come si comporterà la giurisprudenza quando concretamente dovrà operare il giudizio
di meritevolezza dell’interesse.
Ricorrerà veramente all’ordinamento positivo?
E’da immaginare che la regola operazionale non sarà dissimile rispetto a quella seguita
prima degli anni ’90. Sul piano
declamatorio, si affermerà la
stretta necessità di un richiamo
al diritto positivo, così dando
vita ad un sistema che, a parte
i vari proclami, presenterà ancora varie affinità con i sistemi “tipici”. Sul piano pratico
è invece da prevedere che la
giurisprudenza, conformemente a quanto fatto finora, utilizzerà il diritto positivo più per
giustificare, ex post, scelte già
previamente operate, che non
come base effettiva per operare
l’autentica selezione degli interessi. E’ quindi da ritenere che
si perpetuerà la dissociazione
tra una regola declamatoria
che vira verso la tipicità, ed
una operazionale che procede
diretta verso la piena atipicità.
Passiamo ora ai sistemi di
common law. Questi, si dice,
sono tipici, in quanto offrono
tutela a casi già contemplati
in precedenti. Ma se manca
un precedente, o se il caso risulta diverso da quello trattato
nel precedente, si potrà ancora
parlare di tipicità? No, perché
in tali casi nulla osterà al riconoscimento di una tutela fino
ad allora inedita. Per dirla con
le parole di René David: “gli
ordinamenti della famiglia romano-germanica costituiscono insiemi coerenti, “sistemi
chiusi” (…) il diritto inglese
è, invece, un “sistema aperto”;
possiede cioè un metodo che
permette di risolvere ogni tipo
di problema, e non possiede
invece norme sostanziali da
applicare indifferentemente in
tutti i casi. La tecnica del diritto inglese (…) consiste nello
scoprire, partendo dalle legal
rules già formatesi, la legal
rule, magari del tutto nuova,
che dovrà essere applicata nel
caso di specie (…). Ad una
situazione nuova corrisponde
(deve corrispondere, secondo
il giurista inglese) una regola
nuova” (DAVID, I grandi sistemi giuridici contemporanei,
Padova, 1980, 319).
Ecco quindi che, a complicare ulteriormente il quadro, nei
sistemi di common law sarà
necessario distinguere tra il
caso già deciso, con riferimento al quale si potrà parlare di
tipicità, ed il caso ancora non
approdato davanti alle corti,
per il quale i sistemi anglosassoni e nordamericani si rivelano decisamente più aperti e
quindi meno “tipici” di quelli
continentali. Ed a dimostrazione di ciò sta il fatto che i sistemi di common law si rivelano
più ricettivi verso le novità di
quanto non lo siano i nostri sistemi a base legislativa.
Un discorso analogo può e
deve essere fatto con riguardo
al sistema romano. E’ben vero
che il pretore poteva concedere tutela sulla base di actiones
tipiche, ma è pur vero che nulla gli precludeva di innovare
l’ordinamento quando ciò si
rivelasse necessario. E difatti,
già nel corso dell’età classica
Il problema della atipicità secondo Trimarchi
Pur non pervenendo alla
nostra conclusione -- lo confessiamo, anche volutamente
provocatoria -- di abolire la
distinzione tra sistemi tipici
ed atipici, Trimarchi già nel
1970 metteva in guardia contro
ogni rigida schematizzazione
in materia. Nel suo intervento
per l’Enciclopedia del Diritto,
alla voce Illecito, osservava
come “la differenza tra i sistemi fondati sull’enumerazione
di figure tipiche e quelli fondati su un’amplissima regola
generale è però meno spiccata
di quanto si possa credere”.
Anzitutto, perché nei sistemi
“tipici”, le figure espressamente contemplate possono essere
così numerose e ampie da permettere la riparazione di ogni
danno socialmente e giuridicamente rilevante. Di converso,
nei sistemi “atipici” la regola
generale non può essere intesa
nel senso che ogni fatto dannoso sia illecito. Operano infatti
svariate limitazioni, che possono anche condurre a risultati
restrittivi.
Di fatto, osservava Trimarchi, la comparazione tra gli
ordinamenti occidentali mo-
stra come, a prescindere dalla
loro tipicità od atipicità, “i risultati ultimi presentano per
lo più svariate coincidenze e,
nelle zone residue, notevoli
somiglianze: il che può stupire solo chi creda che l’attività
interpretativa consista nello
sviluppo sistematico di complessi di proposizioni immersi
nel vuoto”.
Al più, osservava, la differenza tra sistemi riguarda il
diverso ruolo del giudice, che
in quelli atipici è incaricato di
porre volta per volta le necessarie limitazioni, in quelli tipici
trova questo compito già svolto
dalla legge.
Ma anche a questo riguardo, osservava Trimarchi, le
differenze sono tutt’altro che
nette. Ed infatti, spesso i sistemi tipici contemplano delle
figure tipiche sufficientemente
indeterminate da lasciar spazio
per l’interprete, e di converso
quelli atipici finiscono con l’affiancare alla norma generale
delle norme specifiche che costituiscono “delle indicazioni
di massima per l’ulteriore determinazione e specificazione
ad opera del giudice”.
si è assistito a varie estensioni
del concetto di damnum iniuria datum, nonché alla concessione da parte del pretore
di svariate actiones in factum
(ad exemplum legis aquiliae)
genericamente dette utiles (cfr.
BURDESE, Diritto Privato
Romano, Torino, 1993, 530
s.). Sia per il giudice anglosassone, sia per il pretore romano
non opera il limite legislativo,
sicché per molti aspetti il loro
sistema è molto meno “tipico”
di quello italiano.
Quindi, la distinzione tra tipicità ed atipicità dell’illecito è
molto meno pacifica di quanto
a prima vista non sembri. Dal
che due conseguenze.
La prima conseguenza è
quella dell’impossibilità di
trarre dalla qualificazione del
sistema come tipico o atipico
delle previsioni in ordine alla
sua capacità di seguire l’evoluzione sociale. Gli studi di
diritto comparato hanno ampiamente dimostrato che sistemi tipici come quello nordamericano hanno una capacità
di adattamento notevolmente
superiore rispetto a quella propria del sistema italiano, che
pure dovrebbe essere atipico. E
da studi ancor più approfonditi
è emerso come le regole operazionali, a medio termine, non
differiscano in modo significativo, quale che sia il sistema
preso in considerazione.
La seconda conseguenza,
che si potrebbe trarre è, allora,
quella della sostanziale inutilità dei concetti di tipicità od
atipicità, ove applicati alla responsabilità civile.
Il concetto di tipicità può
avere infatti (ed ovviamente)
due sole funzioni: una descrittiva, quando si limiti a “fotografare” l’ordinamento, od
una prescrittiva, quando se ne
vogliano trarre delle precise
direttive.
La funzione descrittiva si è
visto, è assolta così malamente che ci si può chiedere che
utilità possa connettersi al qua-
lificare i nostri sistemi come
tipici e quelli di common law
come atipici. Una descrizione
di questo tipo, infatti, rischia di
produrre più equivoci di quanti
non riesca a risolverne (dall’equivoco della maggior capacità di adattamento dei sistemi
atipici di civil law, a quello
della necessaria diversità delle
regole operazionali).
Quanto alla funzione prescrittiva, l’inutilità della distinzione salta ancor più agli occhi.
Da una parte, infatti, l’asserita
atipicità del nostro sistema non
ha mai ostacolato l’affermazione, da parte di dottrina e giurisprudenza, della necessità del
ricorso a norme positive per
definire il contenuto della clausola generale dell’ingiustizia,
con ovvia contaminazione da
parte di elementi propri di un
sistema tipico.
D’altra parte, è ovvio che
anche nei sistemi tipici non si
potrà mai immaginare una tipicità analoga a quella, ad esempio, operante in tema di diritti
reali, o di azioni a cognizione
sommaria nella procedura civile. E ciò per l’ovvio motivo
che anche i sistemi “tipici”
devono presentare delle valvole di sfogo che consentano di
adeguare l’ordinamento alla
costante evoluzione sociale,
particolarmente
impetuosa
in tema di responsabilità. Ma
sono proprio queste valvole di
sfogo ad annullare sul piano
operazionale le differenze tra
sistemi, e quindi a privare di
ogni portata prescrittiva il concetto di tipicità.
In conclusione, in mancanza
di una reale efficacia descrittiva o prescrittiva, ed anzi per
la almeno tendenziale idoneità
a creare equivoci di non poco
conto, la distinzione tra sistemi
tipici ed atipici di responsabilità civile andrebbe semplicemente abolita.
l’angolo normativo
GERMANIA
BGB
(Codice civile)
§ 823 Schadensersatzpflicht
(1) Wer vorsätzlich oder fahrlässig das Leben, den Körper,
die Gesundheit, die Freiheit, das Eigentum oder ein sonstiges Recht eines anderen widerrechtlich verletzt, ist dem anderen zum Ersatz des daraus entstehenden Schadens verpflichtet.
(2) Die gleiche Verpflichtung trifft denjenigen, welcher
gegen ein den Schutz eines anderen bezweckendes Gesetz
verstößt. Ist nach dem Inhalt des Gesetzes ein Verstoß gegen
dieses auch ohne Verschulden möglich, so tritt die Ersatzpflicht nur im Falle des Verschuldens ein.
6 LEX AQUILIA —
- cultura -
L’INGIUSTIZIA DEL DANNO I
NUMERO 1 —
ANNO 2005
L’opinione personale di un pratico sull’ingiustizia
Tra Guglielmo di Ockham e gli Stati Uniti d’America: cenni ad una possibile
sistemazione alternativa dell’ “ingiustizia”
G
uglielmo di Ockham
è passato alla storia
come il filosofo che
riuscì ad affondare la corazzata della Scolastica, chiudendo
definitivamente con più di cinquecento anni di pensiero occidentale.
E quest’impresa gli riuscì
formulando un principio che a
noi, oggi, sembra banale, ossia
quello per il quale in ogni ragionamento occorre partire dalla
realtà naturale ed evitare le moltiplicazioni di enti. Se una cosa
è spiegabile semplicemente,
inutile complicarsi la vita creando nozioni su nozioni in un crescendo di concettualismo.
Fu una pugnalata mortale per
il pensiero occidentale di quel
periodo, che era abituato a discutere (seriamente, beninteso,
ma in modo logicamente scorretto) sul sesso degli angeli.
Il pensiero di Ockham da quei
tempi -- eravamo nella prima
metà del trecento -- ad oggi ne
ha fatta di strada, tanto che a
nessuno tra i tanti che oggi si
occupano seriamente di scienza
verrebbe mai in mente di arzigogolare su concetti che non trovano un preciso riscontro empirico o, peggio ancora, di fornire
spiegazioni complesse e sovrabbondanti per fenomeni semplici
o addirittura banali. Verrebbe
semplicemente messo ai margini dalla comunità scientifica.
La scienza è, soprattutto, ricerca
della semplicità ed aderenza ai
fenomeni.
Questa direttiva metodologica, ormai univoca in ambito
scientifico, tarda non poco a
trovare riconoscimento nell’ambiente giuridico. A volte, sommersi dal fragore dei concetti,
i giuristi non sentono la sottile
voce della realtà. E sì che la
realtà è spesso spiegabile in due
parole, senza bisogno di fiumi di
teorie.
Prendiamo quindi la nostra
responsabilità civile, ed in particolare il nostro tema, quello
dell’ingiustizia.
Quando un danno è “ingiusto”? Per la dottrina di quarant’anni fa e la giurisprudenza
di cinque - dieci anni fa, un danno poteva dirsi ingiusto quando
veniva a ledere un diritto soggettivo. Stando a simili conclusioni, ogni volta il giudice avrebbe
dovuto: a) individuare con precisione quale fosse la situazione
giuridica lesa e provvedere a
qualificarla in termini giuridici;
b) valutare se fosse direttamente
protetta dall’ordinamento come
diritto soggettivo, ossia se sussistesse una norma tale da vietare
espressamente di lederla o da
comandare di proteggerla.
Come si comportava concretamente il giudice?
E’stato osservato dalla dottrina pressoché concorde che il
giudice se riteneva di rigettare
la domanda, allora richiamava
la regola e negava la sussistenza
di un diritto soggettivo (è stato
Verso criteri extralegali per la selezione dei danni risarcibili?
così, ad esempio, per il risarcimento dei danni da lesione di
interessi legittimi pretensivi), se
invece riteneva che si dovesse
concedere tutela, si “inventava”
diritti soggettivi in realtà inesistenti mediante varie acrobazie
concettuali (si consideri il noto
diritto all’integrità del patrimonio).
In tal modo, grazie alla regola
della risarcibilità dei soli diritti
soggettivi, che poteva venire
in ogni momento disattesa, il
giudice riusciva a seguire, ed in
parte anche a dirigere, l’evolu-
richiamare solo indici normativi.
Più della metà della comparsa
conclusionale sarà destinata ad
una minuziosa elencazione delle ragioni economiche, sociali
ed equitative che giustificano
l’adozione della scelta suggerita
da quegli indici normativi.
Perché l’avvocato si comporta in questo modo?
Perché sa perfettamente che i
giudici non introducono nuove
voci di danno a cuor leggero,
solo perché un avvocato è stato
in grado di trovare un paio di
norme che sembrano fondarle,
— Battute celebri —
Dal film “Il cavaliere della valle solitaria”
Regia di Gorge Stevens, USA, 1953
Quando parli di diritti, tu intendi dire che hai il diritto di
non riconoscere quelli degli altri.
(Il contadino Van Heflin all’allevatore Emile Meyer)
zione sociale ed economica.
La società chiedeva a gran
voce nuove forme di tutela?
Il giudice faceva quattro conti
(così è avvenuto sia per il danno
biologico, sia per la lesione degli
interessi legittimi), ed a seconda
che la tutela si rivelasse compatibile o meno con le ragioni
dell’economia, la riconosceva o
la negava. Nessun ostacolo sul
piano normativo, ovviamente,
visto che -- e lo si è dimostrato
-- creare nuovi diritti soggettivi
ai quali riconoscere tutela era un
gioco da ragazzi.
Ma allora, ciò che dirigeva
le scelte dei giudici non erano
le valutazioni normative, ma
valutazioni sociali ed economiche. Il giudice agiva sulla base
di un crittotipo, una regola non
espressa, che affondava le sue
radici nel contesto sociale.
Oggigiorno, per la dottrina
e la giurisprudenza pressoché
univoche, il danno è ingiusto
quando leda una situazione meritevole di tutela in quanto direttamente o indirettamente protetta dall’ordinamento giuridico.
Ciò farebbe pensare che ogni
avvocato che si rispetti, quando
propone una domanda risarcitoria, curi di allegare le norme
che offrono protezione diretta
od indiretta all’interesse asseritamente leso.
Chiunque abbia avuto la ventura di frequentare le aule dei
nostri tribunali sa che le cose
vanno in modo ben diverso.
L’avvocato, almeno quello
dotato di un minimo di furbizia,
se esistono precedenti, specie se
di quel tribunale, si aggrappa ai
precedenti. Se precedenti non ne
esistono, richiama sì degli indici
normativi, ma si guarda bene dal
ma, nell’ovvia considerazione
di interessi pratici e della funzione pratica del diritto, valutano se la scelta ermeneutica sia o
meno compatibile con la realtà
socio-economica.
L’avvocato, a volte inconsciamente, avverte che i giudici
decidono sulla base di un crittotipo, sulla base di valutazioni
sociali od economiche, provvedendo solo in seguito a dare giustificazione normativa alle loro
innovazioni.
D’altra parte, che alla base
di tutto stia il crittotipo appena
descritto, emerge da una serie di
considerazioni finanche banali.
Prima considerazione. Perché
se tutto dipende dall’ordinamento positivo la responsabilità
civile è in costante evoluzione
quando l’ordinamento resta sovente immutato? La figura del
danno biologico, ad esempio, è
stata creata a prescindere dall’innovazione dell’ordinamento. Se il giudice effettivamente
si fosse avvalso di criteri normativi, non avremmo assistito alla
costante evoluzione dell’ultimo
quarantennio.
Seconda considerazione. Perché i giudici quando decidono di
introdurre nuove voci di danno
si dilungano nella considerazione della loro rilevanza sociale ed
economica? Se tutto dipendesse
dall’ordinamento positivo, basterebbe rifarsi all’ordinamento.
Terza considerazione. Il concetto di interesse direttamente
o indirettamente protetto dall’ordinamento, utilizzato dalla
nostra dottrina per dire quando
un danno è ingiusto, è manifestamente generico. Di per sé,
stando a questo concetto, qualsiasi giudice o avvocato dotato
di un minimo di fantasia è in
grado di creare qualsiasi nuova
voce di danno. Tutto, o almeno,
tutto quel che non è espressamente vietato, può dirsi protetto. Perché allora la responsabilità civile non concede tutela a
tutto? Verosimilmente perché il
criterio di selezione è da individuare al di fuori dell’ordinamento positivo.
Quarta considerazione. Le
regole di responsabilità civile
dei paesi occidentali, almeno
sul piano operazionale, sono per
gran parte sovrapponibili, a prescindere dal fatto che si tratti di
sistemi di common o civil law.
Come è possibile tutto questo
attesa la significativa differenza
tra gli ordinamenti? Se stiamo
a guardare le norme tedesche
sulla responsabilità civile, sono
profondamente diverse da quelle italiane. Non stiamo a parlare
dei sistemi di common law, che
neppure conoscono il nostro
concetto di norma. Eppure le
soluzioni sono le stesse. Perché?
Forse perché le società ed i bisogni sono gli stessi, ed è sulla
base di questi che si decide.
Quinta considerazione. Facciamo un passo oltre il mondo
dei giuristi. Solo noi siamo abituati a credere che il diritto sia
un’entità a sé, in grado di autosostenersi. A parte le conclusioni, forse esagerate, della critica
marxista che vede nel diritto
una mera sovrastruttura, è fuor
di discussione che di norma è la
realtà a piegare il diritto, e non il
diritto a piegare la realtà. Perché
allora ritenere che nel mondo
della responsabilità civile operino delle regole diverse, e che
il riconoscimento di una nuova
voce risarcitoria dipenda da al-
Gran parte della dottrina ritiene che il richiamo alle norme
positive sia utile, perché permette di prevenire possibili arbitri dell’interprete.
Come a dire: sappiamo che
si decide in virtù di considerazioni più socio-economiche
che strettamente normative, ma
siccome noi non ci fidiamo più
di tanto dei giudici, e tantomeno degli avvocati, vale la pena
porre qualche paletto, e dire che
risarcibili sono solo i danni più
o meno direttamente contemplati dall’ordinamento.
Ma un simile ragionamento
reggerebbe, ed escluderebbe
un’inutile moltiplicazione dei
concetti se veramente questo
paletto fosse indispensabile e se
valesse a delimitare l’area del
risarcibile.
Però, questo è il problema, il
nostro paletto normativo non è
indispensabile e tanto meno ha
una vera efficacia selettiva.
Che non sia indispensabile per selezionare i danni lo si
avverte già avendo riguardo al
nostro ordinamento. Perché non
ci si avvede una volta per tutte
che l’art. 2043 c.c. individua
una vera clausola generale, che
come tutte le clausole generali
(buona fede, equità, correttezza,
etc.) esige di essere riempita di
contenuti mediante il ricorso a
criteri extralegali?
Se ci fidiamo dei giudici quando si tratta di definire quando
un comportamento sia corretto,
senza pretendere che si rifacciano ad indici normativi, perché
non fidarsi di loro quando si
tratta di definire se un danno è
ingiusto?
Invero, il richiamo all’ordinamento positivo per riempire
La citazione
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia
Fra gli eruditi i giuristi rivendicano senz’altro per sé il
primo posto e nessun altro riesce a compiacersi di sé
come loro mentre rotolano assiduamente il macigno di
Sisifo e mettono assieme seicento leggi senza prendere fiato – la coerenza alla causa è l’ultima cosa che
importa – e ammucchiando glosse su glosse, opinioni
su opinioni, fanno sembrare quella disciplina la più difficile di tutte. Infatti credono che tutto ciò che costa
fatica sia senz’altro nobile e meritorio.
chimie concettuali anziché dalla
spinta della vita di tutti i giorni?
Ma se alla base di tutto sta un
crittotipo, restando il richiamo
alle norme positive come mera
regola declamatoria, non è che
noi giuristi siamo incorsi proprio in quell’errore logico - metodologico sul quale implacabile si sarebbe abbattuto il rasoio
di Ockham? Non è che abbiamo
creato degli enti -- il richiamo,
diretto od indiretto, a norme
positive nella determinazione
dell’ingiustizia -- assolutamente
inutili?
di contenuti l’ingiustizia è sovrabbondante, contrasta con la
prassi seguita nell’interpretazione di altre clausole generali
e, soprattutto, contrasta con la
stessa funzione delle clausole
generali.
Ma che il nostro “paletto”
normativo non sia indispensabile lo si comprende con ancor
maggior evidenza varcando i
confini della provincia italica ed
approdando in uno dei paesi di
common law, gli Stati Uniti, ad
esempio. Questi paesi non conoscono nulla di simile al nostro
ordinamento positivo, eppure si
rivelano perfettamente adeguati a fronteggiare i problemi di
selezione dei danni risarcibili.
Anzi, sovente i loro ordinamenti
si rivelano ancor più pronti del
nostro ad affrontare eventuali
problemi di overcompensation,
e ciò in virtù di un’indiscutibile
maggior elasticità. I giudici non
impazziscono, e gli arbìtri non
sono molti più, né molti meno
di quelli ai quali si assiste nei
nostri ordinamenti.
Il richiamo a norme positive che tutelino direttamente o
indirettamente l’interesse leso
non è quindi indispensabile per
selezionare i danni. Ma non è
nemmeno un criterio dotato di
un’autentica efficacia selettiva.
Abbiamo già visto come, con un
minimo di fantasia e conoscenza dell’ordinamento, chiunque
riesca a creare interessi almeno
indirettamente protetti.
In altre parole, non solo il nostro criterio non appare necessario, ma non è nemmeno idoneo
ad assolvere una funzione selettiva.
Evidente, pertanto, come il
richiamo alle norme positive si
traduca in una mera, diseconomica, moltiplicazione di enti.
Quindi: si è detto che il giudice, nel selezionare gli interessi
riparabili in via aquiliana, fa ricorso ad un crittotipo, ossia applica criteri extralegali di natura
socio-economica, sebbene sul
piano declamatorio affermi la
regola della risarcibilità dei soli
interessi direttamente o indirettamente tutelati dall’ordinamento positivo. Questa scissione tra
regole declamatorie e regole
operazionali (quelle fondate sul
crittotipo) è a prima vista diseconomica, in quanto si traduce
in un’inutile moltiplicazione degli enti. Si viene a creare cioè un
ente intermedio -- il necessario
richiamo alle norme positive - che è privo di peso concreto,
rimanendo la selezione affidata
alla rilevanza socio-economica
dell’interesse leso e, soprattutto,
che sarebbe comunque privo,
per la sua genericità, di qualunque valenza selettiva.
Ed allora, partendo da Guglielmo di Ockham e passando
per gli Stati Uniti, il modesto
consiglio che questo pratico si
sente di dare è quello di riconoscere che decidiamo perché abbiamo in mente la vita, e non le
vuote formule normative.
Sveliamo il crittotipo, ammettiamo che il danno è ingiusto
quando tale appare sul piano sociale ed economico. Così potremo ragionare molto più sui reali
effetti delle nostre scelte, e la
responsabilità civile sarà ancora più adeguata a rispondere sia
alle esigenze di compensation
che alle esigenze selettive.