Le trame del risentimento

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Introduzione
CAPITOLO 2
LE TRAME DEL RISENTIMENTO
Guido Di Fraia
Introduzione
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1. Breve fenomenologia del risentimento
Se è vero che tutte le emozioni hanno una componente
relazionale, il risentimento (come l’invidia o la gelosia),
è uno stato del sentire prettamente sociale e
“comparativo” dato che si produce attraverso processi
affettivo-congnitivi connessi con il confronto che il
soggetto compie tra la propria condizione e quella altrui,
in relazione al possesso di risorse, attributi, qualità,
status, fortuna, ecc. Ma è anche uno stato “consapevole”,
in quanto richiede al soggetto la capacità di riflettere sul
proprio comportamento e su quello altrui e di valutarlo in
relazione alla morale che regola i rapporti interpersonali
e sociali del contesto in cui vive (Di Blasio, Miragoli.
2007). La natura prettamente sociale del risentimento,
induce a fare ipotesi tanto sulle sue funzioni adattive
rispetto all’evoluzione della specie, quanto su quelle
sociali connesse con la distribuzione disuguale delle
risorse all’interno dei gruppi umani (famiglie, classi
sociali, collettività, ecc.). Questa stessa natura suggerisce
soprattutto l’impossibilità di immaginare formazioni
umane liberate dal risentimento e dall’invidia. Dove due
o più esseri umani convivono nello stesso spazio sociale
là albergano, più o meno intense e consapevoli, le trame
sotterranee del rancore e dello sguardo invidioso.
Da un punto di vista filologico, il riferimento
imprescindibile per una discussione del risentimento,
nell’accezione di ressentiment è indubbiamente
rappresentato dal modello Nietszche-Scheleriano.
Introduzione
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Delineato da Nietszche in Genealogia della morale, tale
modello ha l’indubbio merito di individuare nel
risentimento un concetto teorico straordinariamente
efficace per tentare di descrivere i processi socioculturali
e simbolici che hanno portato all’affermazione della
modernità (Deleuze, 1962). Attraverso un approccio in
cui la ricostruzione socio-antropologica dello sviluppo di
tale sentimento all’interno della religione giudaicocristiana è condotta ad un livello di astrazione dagli esiti
indubbiamente semplificatori, Nietszche definisce il
risentimento come “un odio impotente”, un desiderio di
rivalsa che, nell’impossibilità di trovare sfogo in
un’azione in grado di incidere effettivamente sulla realtà,
finisce per avvelenare l’animo del risentito e inquinare in
modo tendenzioso i suoi processi di pensiero. Tra i tratti
di fondo del modello vi è un’antropologia astratta e
dicotomica che scinde la realtà umana in due tipologie: i
signori e i servi. Dotati di desideri e di volontà autonome
e in possesso della forza necessaria a esercitare un’attiva
capacità di dominio sul mondo esterno, i Signori sono i
fondatori della morale nobile e risultano immuni, “per
natura”, al risentimento che invece rappresenta l’esito
inevitabile dell’esistenza del popolo dei Servi. Questi
ultimi, privi di autonomia di pensiero e di volontà
proprie, sono destinati ad obbedire ma, parallelamente,
anche a covare un sentimento astioso e risentito.
Nell’impossibilità di agire la propria rabbia repressa, il
popolo dei servi incanalerebbe questa energia in una
forza reattiva in grado di agire a livello simbolico fino a
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sovvertire i principi valoriali su cui si basa la morale
dominante dei Signori. Il risultato storico di tale processo
di ribaltamento dei valori sarebbe riconoscibile, secondo
Nietszche, nell’affermazione della morale giudaico
cristiana incarnata nel principio: “beati gli ultimi perché
saranno i primi”. In questa prospettiva, il risentimento,
meccanicisticamente attribuito a una certa tipologia di
umanità, è immaginato da Nietszche come una forza che,
per quanto reattiva, avrebbe avuto un ruolo decisivo
nella formazione della morale della modernità.
Scheler (1912), pur mostrando una maggiore
attenzione alle dinamiche storico-sociali, riprende
sostanzialmente il modello nietzschiano per giungere a
conclusioni divergenti. Anch’egli considera il
risentimento un prodotto dell’egualitarismo moderno o,
meglio, della contraddizione moderna tra principi
egualitari e permanenza delle disuguaglianze sociali. Ma
il risultato del sovvertimento dei valori prodotto
dall’impotenza risentita di larghe masse di individui non
sarebbe la religione cristiana ma la morale borghese
impregnata di umanitarismo e filantropia.
Pur nelle loro differenze (Meltzer, Musolf, 2002), ciò
che è interessante rilevare è che entrambi gli autori
riconoscono al risentimento un ruolo cruciale nei processi
costitutivi della modernità e nelle trasformazioni storiche
e culturali che l’hanno generata (Tomellieri, 2009, p. 25).
In anni più recenti, questa forma del sentire è stata
oggetto di studio in ambito sociologico, psicologico e
psico-sociologico con lavori empirici che, distanziandosi
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dal concetto filosofico di ressentiment (come tratto
caratterizzante solo un certo tipo di umanità
costitutivamente debole), hanno consentito di giungere a
definizioni più specifiche e analitiche di questo
sentimento (spesso concettalizzato come “rancore”) e
delle
sue
caratteristiche
fenomenologiche
ed
esperienziali (Barbalet, 1992; Halsall, 2005; Feather &
Nairn, 2005; Miceli, Castelfranchi, 2007; Bonfiglioli,
Ricci Bitti, 2007; Mullet 2007; D’urso, 2007).
Attingendo a questo genere di letteratura, possiamo dire
che il risentimento è il ri-sentire un’emozione negativa
già provata in precedenza e dalla quale non si riesce a
liberarsi. Tale emozione originaria è costituita dal senso
di frustrazione e di impotenza conseguenti un’azione
negativa che si è subito e alla quale non si è stati in grado
di far fronte.
Un soggetto (S) ha ricevuto (o ritiene di aver ricevuto)
un torto da parte di un altro (A) al quale non ha saputo o
potuto reagire. Tale episodio o situazione che si protrae
nel tempo si radica nella memoria del soggetto come un
pensiero ricorrente che, “avvelenandogli l’anima”, incide
negativamente sul suo sviluppo a livello emotivo,
cognitivo e comportamentale. Non a caso il termine
“rancore” (che, pur con qualche piccola forzatura, per i
fini della nostra discussione possiamo assumere come
sinonimo di risentimento) deriva etimologicamente dal
concetto di “rancido” e, dunque, di un qualcosa, in questo
caso un’emozione, che si è conservato male e che,
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deteriorandosi, rischia di ammorbare l’ambiente e
avvelenare l’anima di chi lo esperisce.
A livello dinamico, il risentimento si configura
dunque come una sorta di “doppio scacco” del desiderio.
Il primo scacco è rappresentato dall’ostacolo che si pone
tra il soggetto e la possibilità di raggiungere il proprio
scopo, sia esso un obiettivo da perseguire o una “risorsa”
da conservare, come una condizione economica o uno
status acquisiti. Di per sé, tale ostacolo non è sufficiente
ad attivare l’esperienza del risentimento configurandosi,
nella maggior parte dei casi, come il semplice
concretizzarsi del principio di realtà cui va ad infrangersi
la gran parte dell’energia desiderante degli esseri umani.
La prima condizione psicologica affinché la frustrazione
subita possa orientarsi nella direzione del risentimento è
che tale impedimento sia percepito dal soggetto come il
risultato di un’azione ingiusta perpetuata nei suoi
confronti da un agente concreto o astratto. Ma anche tale
condizione, per quanto necessaria, non è da sola
sufficiente a tradursi in risentimento. Se chi ha esperito
l’ingiustizia ha la possibilità di far valere le proprie
ragioni, il processo può concludersi senza alcuno
strascico rancoroso e persino generando un surplus di
soddisfazione per colui che è riuscito a ottenere giustizia
“facendosi valere”. Il soggetto rischia di finire nelle spire
del risentimento solo quando anche questa possibilità gli
è preclusa (da cui il secondo scacco!). Quando il suo
tentativo di “ottenere giustizia” (ad esempio costringendo
l’altro a riconoscere le proprie colpe e a porvi rimedio,
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magari anche solo scusandosi per il male arrecato)
fallisce, per l’impossibilità del soggetto ad agire o per
l’inefficacia delle istanze (istituzioni di tutela, di
giustizia, ecc.) a cui egli si è rivolto per ottenere un aiuto.
Quando ciò avviene, il desiderio di vendetta che viene
a prodursi è orientato da tre diverse categorie
motivazionali: 1. il desiderio di ripristinare un equilibrio
morale infranto; 2. la volontà di “dare una lezione”
all’artefice dell’offesa subita; volontà che sottende
un’intenzione educativa per cui il gesto vendicativo
agisce anche come atto simbolico in grado di
testimoniare come i comportamenti scorretti non possano
rimanere impuniti; 3. il tentativo di “salvare la faccia”
(Goffman, 1969, Heider, 1958, Castelfranchi, 1988)
attraverso un’azione che consenta alla vittima di
ristrutturare l’immagine di Sé presso colui che lo ha
offeso e presso il “pubblico” di riferimento che è a
conoscenza dell’accaduto (Di Blasio, Miragoli, cit.).
Se non riesce ad esprimersi e a trovare giustizia, il
risentimento si concretizza in una rabbia complessa e
compressa che, non trovando sfogo immediato, continua
a persistere nel tempo divenendo “serbatoio continuo per
la rappresentazione del soggetto e del suo mondo”
(Casadio, 2007, p. 46). Il ri-sentire l’affronto subito senza
riuscire a superarne il “trauma” produce, infatti, un
penoso strabismo astioso dello sguardo del risentito. Da
una parte, esso rimane infatti ri-volto all’indietro, fissato
sullo smacco subito a cui non è stato in grado di opporsi
e dei cui esiti continua a soffrire. Dall’altra, questo stesso
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sguardo malevolo si proietta verso un futuro
impredicibile, dipinto dai colori del riscatto e della
vendetta. Bloccato nel proprio incedere da questo duplice
scacco del sentire, imprigionato all’interno della gabbia
emozionale che egli stesso ha costruito, il risentito vede il
proprio pensiero e la propria progettualità confusi dal
rimuginamento di ciò che avrebbe potuto fare e non ha
fatto e dalle fantasticherie di ciò che un giorno potrà fare
per ottenere giustizia. Il rimuginamento (rumination) è
una reazione psicologica associata al risentimento che
corrisponde al pensare in modo ossessivo e reiterativo a
quanto successo, che aumenta le motivazioni sia ad
evitare il contatto con l’offensore sia a cercare vendetta
(Caprara, 1986).
L’insieme di queste caratteristiche fanno del
risentimento un fenomeno pluridimensionale che,
generandosi a livello intrapsichico, riverbera i propri
effetti su processi interpersonali e sociali anche di grande
portata. Una sua trattazione efficace richiederebbe
pertanto di affrontarlo attraverso un approccio olistico e
transdisciplinare (e dunque “irriverente” rispetto alle
ripartizioni disciplinari che continuano a vivere
all’interno dell’accademia) in grado di rispecchiare la
natura complessa e stratificata di tale sentimento.
Una possibile trattazione organica del risentimento
dovrebbe essere in grado di ricostruirne: 1) le
manifestazioni fenomenologiche ed esperenziali; 2) le
dinamiche generative; 3) le forme di elaborazione, nel
loro articolarsi a livello individuale e sociale.
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Nell’evidente impossibilità di condensare in questa
sede tutti i punti sopra riportati, cercherò di proporre, in
modo inevitabilmente sintetico e senza alcuna pretesa di
completezza, alcune riflessioni sui meccanismi di
generazione di questo sentimento, particolarmente
salienti in questo scorcio di tarda modernità, e di
elaborazione e dissipazione dello stesso, in grado di
arginare le cariche emozionali generate dalle frustrazioni
del desiderio esperite dagli individui.
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2. La generazione del risentimento nella
società ipermoderna
Come già ricordato, Nietzsche e Scheler individuano
nelle strategie sociali di controllo e dislocazione
simbolica del risentimento messi in atto nella transizione
alla modernità un ruolo strutturante rispetto
all’evoluzione delle forme sociali della convivenza.
Appare dunque legittimo interrogarsi, da una prospettiva
macrosociale, su quali siano le relazioni che la società
ipermoderna intesse con il risentimento individuale e
collettivo. Quali, in altri termini, gli effetti che le
strutture economico-sociali e le concrete forme di vita
nelle società occidentali avanzate hanno rispetto alla
probabilità
soggettiva
di
subire
esperienze
potenzialmente generative di questo vissuto.
In estrema sintesi, l’ipotesi qui tracciata, che riprende e
articola alcuni recenti lavori sul tema (Tomellieri, 2004;
2009; Risi 2009), è che le società occidentali
contemporanee siano intrinsecamente generatrici di
risentimento e ne costituiscano il terreno ideale di
cultura. E’ vero, infatti, che esse riconoscono a tutti gli
individui un’uguale legittimità a desiderare tutto e a
perseguire qualsiasi obiettivo per realizzare le proprie
aspirazioni (o quelle che sono ritenute tali, in un mondo
dominato dal desiderio mimetico su cui più avanti
torneremo). Ma è anche vero che la crescente
disuguaglianza
economico-strutturale
nega
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sistematicamente tali promesse condannando la grande
maggioranza degli individui a un mancato appagamento
delle proprie aspirazioni e a una risentita voglia di rivalsa
che, pur rimanendo latente, non trova riposo (Tomellieri,
2009, p. 12).
Per tracciare almeno la struttura argomentativa di fondo a
supporto di questa ipotesi possiamo ricordare,
limitandoci a enunciarli, alcuni dei tratti più
caratterizzanti della società ipermoderna a cui può essere
riconosciuto un ruolo rispetto alle dinamiche di
generazione del risentimento.
Tra questi ricordiamo, tra gli altri, l’estremizzarsi
dell’individualismo (Lipovetsky, 2006) che, portando alle
estreme conseguenze il processo di emancipazione del
soggetto dai vincoli delle appartenenze (religiose,
tradizionali, di classe, ecc.), consegna all’individuo la
responsabilità totale del proprio destino e, quindi, anche
dei propri possibili fallimenti. Il soggetto, scopertosi
forzatamente libero di forgiare la propria esistenza,
finisce sempre più spesso per scoprire sulla propria pelle
l’impossibilità di raggiungere gli obiettivi (lavorativi, di
reddito, di consumo, di felicità, ecc.) che egli stesso si era
dato sollecitato da un contesto iper-competitivo e da un
sistema simbolico culturale inneggiante all’edonismo.
L’ideologia stessa della competizione sfrenata e
l’attenzione alla performance, a fronte di meccanismi
premianti che solo raramente sono effettivamente basati
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sul merito e sulle capacità personali (Sennet, 2006)
finiscono per lasciare strascichi emozionali d’invidia per
“chi ce l’ha fatta” e di risentimento per le ingiustizie che
si ritiene di aver subito.
Parallelamente, lo sviluppo economico in un contesto
globalizzato accentua le differenze e le disuguaglianze
sociali sia a livello globale che all’interno di ciascun
paese, decuplicando la massa dei soggetti che vengono a
esperire situazioni di deprivazione relativa (Tajfel,
Turner, 1979). E questo mentre l’entrata in crisi dei
sistemi di welfare che hanno accompagnato il
consolidamento della modernità ha ridotto drasticamente
i meccanismi di tutela sociale e di attenuazione del
disagio, depotenziando quelli che per una buona parte del
XX secolo erano stati gli ammortizzatori sociali delle
differenze, e dunque anche del risentimento.
Infine, l’abbandono dei modelli aziendali piramidali
tipici della modernità (Sennet, 2006) in grado di
accompagnare, contenere l’esperienza di vita dei
dipendenti e garantire per il loro futuro; la diffusione del
lavoro flessibile; i processi di delocalizzazione della
manodopera dai paesi avanzati in quelli in via di
sviluppo; la mancanza di meccanismi efficaci di
riqualificazione e ricollocamento dei lavoratori messi in
mobilità o licenziati; la scarsa consequenzialità tra i
percorsi scolastici formativi e i relativi sbocchi
occupazionali; le sempre più ampie sacche di lavoro
precario sotto-retribuito più o meno istituzionalizzato
che, in particolare in Italia, interessa quote rilevanti di
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giovani e lavoratori intellettuali, sono tutti meccanismi
che tendono a diffondere, come è stato ampiamente
teorizzato e discusso (Bauman, 1997; Beck, 1997;
Giddens, 1999), un clima generalizzato di incertezza e
timore per il futuro.
E’ evidente come questi stessi meccanismi costituiscano
anche condizioni oggettive per il verificarsi di esperienze
di vita penose e frustranti, vissute come ingiuste rispetto
ai propri meriti, al proprio comportamento, alle proprie
aspirazioni e di cui il soggetto può sentirsi, spesso del
tutto legittimamente, vittima. L’insieme di queste
situazioni, sia di natura strutturale che contingente,
costituiscono indubbiamente potenti moltiplicatori della
probabilità soggettiva di vivere esperienze di ingiustizia e
quindi di risentimento giusto.
Per comprendere quindi i rapporti tra ipermodernità e
risentimento, oltre alle dimensioni strutturali e culturali
sopra ricordate, è tuttavia necessario approfondire anche i
tratti distintivi del soggetto che all’interno di tale
contesto si trova a nascere e ad agire. Un soggetto spesso
caratterizzato da una personalità ambivalente e
narcisistica, scisso tra la profonda insicurezza tipica di un
Io debole e fragile e un irrealistico senso di illimitata
potenza che gli fa percepire il mondo e le proprie
possibilità in maniera distorta. Una serie di istanze
proprie della post-modernità riducono, infatti,
drasticamente la capacità di controllo che il soggetto può
esercitare sulla realtà, rendendolo insicuro su tutto. Tra
queste vi è la “liquidità” dell’esperienza, che fa evaporare
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ogni riferimento stabile (in un mondo in cui la velocità
del cambiamento è superiore a quella adattiva degli
individui), e trasmette un senso generalizzato di
aleatorietà e mancanza di pur provvisorie certezze. Il
senso di spaesamento è ulteriormente esacerbato dalla
percezione di una serie di minacce, reali o presunte,
enfatizzate dal sistema mediatico e spesso cavalcate dalla
politica, tra cui: la possibile catastrofe ecologica, il
rischio nucleare, il terrorismo, i “pericoli” portati
dall’arrivo delle masse dei diseredati all’interno dei nostri
territori, la crescente violenza dei centri urbani, ecc.
Minacce in gran parte dubbie a livello di portata reale,
ma certe negli effetti di chiusura e arroccamento sul sé
per individui sempre più spaventati e incapaci di farsi
un’idea autonoma sulla realtà.
D’altra parte, tuttavia, il predominio della tecnica, con la
sua certezza di avere una soluzione per ogni problema e
del mercato che ne traduce i risultati in prodotti che
promettono una felicità senza residui, trasferiscono al
soggetto un senso di onnipotenza che va a compensare
illusoriamente la sua fragile struttura psicologica
(Pulcini, cit., p. 134-136).
Sottoposto a queste due opposte istanze e impossibilitato
ad ancorare la propria soggettività alle istituzioni stabili
come avveniva nella “modernità solida”, quello
ipermoderno è un Io:
«confuso, smarrito, insicuro, da un lato, edonista,
grandioso, e illimitato dall’altro. Privo di certezze
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conferite da istituzioni affidabili, e allo stesso tempo
avido di una libertà insofferente di ogni vincolo, esso
presenta quella paradossale consistenza di vuoto e
onnipotenza da cui trae origine e alimento la sua
struttura ansiosa e desiderante, carente, e inappagabile»
(ibid. p. 136).
Questo tipo di soggettività, che prova un senso di
onnipotenza e si sente nel diritto di aspirare ad ogni cosa
ma chespesso non ha le risorse interiori necessarie a
tradurre le sue aspirazioni in progetti perseguibili, appare
strutturalmente destinato al risentimento.
Se da un lato il risentimento può quindi rappresentare la
principale energia emozionale circolante al di sotto delle
società occidentali avanzate, dall’altro sorge la domanda
di come esse possono sopravvivere senza frantumarsi
sotto la spinta centrifuga di tale energia astiosa. Come
possono arginare gli effetti potenzialmente distruttivi
originati dalle frequenti frustrazioni del desiderio
prodotto dall’incapacità del sistema di mantenere le
infinte promesse di benessere, autorealizzazione e felicità
che esso tende a generare negli individui? E come
riescono a non finire travolte dagli effetti dell’enorme
quantità di risentimento che il modello di sviluppo e le
contingenze socio-economiche di questi ultimi anni
tendono a generare? O, detto in altro modo, quali sono i
meccanismi attraverso cui la quantità di risentimento
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eccedente rispetto a quella tollerabile e funzionale al
sistema viene elaborata e dissipata in qualche forma?
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3. L’elaborazione del risentimento
Consapevoli dell’energia negativa potenzialmente
disgregante del risentimento e dello sguardo invidioso
che la convivenza umana inevitabilmente produce, le
società hanno da sempre elaborato dispositivi simbolici,
pratiche rituali e istituzioni finalizzate a dare voce,
incanalare e contenere tali forze oscure. Dispositivi,
pratiche e istituzioni che si sono evolute con l’evolversi
delle forme storiche delle società umane (Elias, 1976).
In quelle arcaiche, ad esempio, caratterizzate da risorse
scarse, ridotta complessità sociale e relazioni
interpersonali dirette, il risentimento e l’invidia erano
percepite come forze dominanti sulle dinamiche
relazionali. Immerse in universi simbolici interpretativi
incentrati sulla magia e la superstizione, tali società
riconducevano la maggior parte delle esperienze negative
che colpivano gli individui e la collettività alle energie
malefiche prodotte dallo sguardo risentito e invidioso di
altri componenti del gruppo. In questo modo, qualsiasi
evento infausto (una malattia, un cattivo raccolto un
periodo infelice nella caccia, ecc.) veniva ricondotto
all’interno di narrazioni secondo cui la fortuna e il
benessere materiale di qualcuno avrebbe attivato l’invidia
e il risentimento astioso di altri, il cui sguardo malefico
(talvolta canalizzato in precise pratiche magiche) si
sarebbe tradotto in influssi negativi in grado di portare
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disgrazia a chi aveva osato essere o avere più degli altri
(Schoeck, 1966).
Al di sotto di questo tipo di pensiero, vi è evidentemente
una visione del mondo sociale (tipica di società dominate
dalla scarsità), regolate da dinamiche economicodistributive “a somma zero”, in cui la quantità
complessiva di qualsiasi bene (possessi materiali, salute,
potere, felicità o buona sorte) era immaginata finita e,
conseguentemente, ogni acquisizione individuale era
ritenuta possibile solo a spese di qualcun altro (Foster,
1965). Per contenere la rivalità astiosa e il pericolo
contenuto nell’energie malefica dello sguardo risentito e
invidioso, le società di sussistenza prevedevano tutta una
serie di pratiche rituali e comportamentali, alcune delle
quali, per altro, sono sopravvissute nelle zone rurali
dell’Italia fino ad alcune generazioni fa (De Martino,
1959). Si pensi, per fare solo qualche esempio, alla
regola di buona educazione che consigliava di non
vantarsi della propria buona sorte; di vestire i figli in
maneria un po’ inferiore di quanto non si sarebbe potuto;
di nascondere la gravidanza sin quando possibile,
parlandone poi con tono dimesso quasi fosse una
disgrazia; o, ancora, astenersi dal fare complimenti e lodi
eccessive alla sorte o ai possessi altrui, in quanto
interpretabili come possibili espressioni di tendenze
invidiose (Lipovetsky, 2006, p. 263). La stessa usanza di
chiudere gli occhi ai defunti deriverebbe dal timore che le
società arcaiche avevano dello sguardo invidioso e
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potenzialmente malefico che i morti possono avere nei
confronti di chi è rimasto in vita.
Oltre a queste pratiche di contenimento dell’aggressività
invidiosa, di natura simbolico culturale, l’elaborazione
persecutiva e quella depressiva rappresentano due potenti
forme di imbrigliamento e dislocazione del risentimento,
di tipo psico-sociale, particolarmente efficaci e
“transculturali” (Alberoni, 1989).
Attraverso l’elaborazione persecutiva, l’individuazione di
un nemico, interno o esterno al gruppo, cui attribuire le
colpe d’ogni male trasformandolo in capro espiatorio
consente di convogliare l’aggressività risentita degli
individui rinsaldando al contempo i legami di
appartenenza dei suoi membri. Il processo di
vittimizzazione indicata da Girard alla base delle società
arcaiche (1961); la giustificazione ideologica di gran
parte delle guerre che hanno funestato e funestano la
storia dell’umanità (Tomellieri, 2009); la montante
ondata di intolleranza presente in molti paesi occidentali
nei confronti dei migranti (Bauman, 2005), le azioni
criminali dei tanti gruppi neo-nazisti attivi in diversi
paesi del mondo, sono tutti esempi di forme persecutive
di elaborazione sociale del risentimento attraverso cui la
rabbia socialmente prodotta viene dislocata all’esterno
del gruppo su di un capro espiatorio, individuale o
collettivo.
L’elaborazione depressiva, probabilmente più “moderna”
in quanto possibile solo all’interno di una visione del
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mondo che riconosce al soggetto la capacità di
autodeterminarsi, è invece il meccanismo attraverso cui il
soggetto è indotto a prendere su di sé la colpa della
propria condizione negativa, anche quando essa ha
origini sociali e strutturali. Sono esempi di questo tipo di
elaborazione tanto la ricerca di soluzioni personali a
disfunzioni sistemiche descritta da Beck (1992), quanto
l’attuale grande diffusione di forme depressive nelle
società complesse. Incapace di riconoscere la natura
strutturale e sociale dell’ingiustizia vissuta e, dunque, di
indignarsi legittimamente per essa, il soggetto narciso e
fragile della contemporaneità finisce per ritenersi
responsabile di tutte le cose che, nella sua vita, non
vanno come vorrebbe.
Se quelli persecutivo e depressivo sono due meccanismi
“classici” attraverso cui le società si proteggono dagli
esiti potenzialmente distruttivi dell’aggressività che esse
stesse producono, più complesso appare ricostruire i
meccanismi dissipatori propri della contemporaneità. Per
una trattazione esaustiva di tali meccanismi sarebbe
necessario indagare come i principali tratti socio
strutturali della società ipermoderna possano agire su
ciascuno dei diversi elementi costituivi le dinamiche del
risentimento,
amplificandoli
o
dissipandoli.
Nell’impossibilità di svolgere qui tale compito, ci
limitiamo a proporre alcune considerazioni su alcuni di
tali aspetti.
Dato che il risentimento è un vissuto relazionale
originato dal confronto, è sulle opportunità di confronto
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con gli altri tipiche della contemporaneità che si deve
innanzitutto indagare. In questo senso è evidente come il
sistema
mediatico,
principale
costruttore
di
rappresentazioni della realtà e generatore di senso delle
società avanzate, sia il sistema maggiormente in grado di
offrire agli individui infinite possibilità di conoscenza su
situazioni, esperienze di vita, successi e fortune altrui.
Conoscenze che possono offrire potenti sollecitazioni al
risentimento invidioso: “perché a loro sì e a me no?”. Ma
lo stesso sistema veicola anche contenuti che spingono
gli stati emozionali soggettivi in direzione opposta,
facilitando cioè un’elaborazione attenuatoria e
dissipatoria del risentimento. Le logiche di agenda
attraverso cui sono costruite le news ci servono ogni
giorno quantitativi impressionanti di sofferenza, dolore e
morte in un progressivo gioco al rialzo in cui sempre più
spesso il diritto all’informazione sfocia nel voyerismo più
osceno. Tali immagini, che coinvolgono sempre gli
“Altri” (lontani nello spazio, più umili, più cattivi, più
arretrati o, se non altro, più sfortunati di noi), saturano i
nostri bisogni di sollecitazione emozionale, generando un
meccanismo di desensibilizzazione progressiva che,
anziché stimolare l’indignazione collettiva, tende
piuttosto a narcotizzarla insieme alle coscienze. In questo
modo, come efficacemente riconosce Bauman (2005) la
visione di queste immagini, così come la presenza degli
ultimi nelle nostre città svolgono un ruolo consolatorio e
di contenimento dell’insoddisfazione ricordando ai
Introduzione
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cittadini dei paesi avanzati di appartenere comunque a
una minoranza di privilegiati.
Tuttavia, un genere che, rappresentando l’oggetto
specifico di un intero settore del sistema mediatico,
appare particolarmente connesso con il tema del
risentimento e dell’invidia è il gossip, il cui tema
narrativo è quello di scrutare la vita intima dei personaggi
dello star system. Sottoposta allo sguardo indiscreto dei
teleobiettivi indugianti su ventri molli e cellulite e al
pettegolezzo spacciato come scoop, l’aurea che circonda
tali personaggi quando sono “on stage“, finisce
inevitabilmente per evaporare. Perché invidiare
personaggi che, visti da vicino, sono come noi e hanno
problemi simili ai nostri, se non peggiori? Gli effetti di
senso complessivi di questo genere mediale sono quelli
di un “abbassamento” simbolico delle figure dello star
system in un processo che replica, a livello collettivo, il
gioco linguistico tipico del risentimento invidioso e
contribuisce, sul piano della più generale macroeconomia emozionale, a dissipare tali vissuti
convertendoli in un incessante, quanto innocuo,
pettegolezzo collettivo (citare il tipo?????.
Anche il successo delle trasmissioni televisive che
sfruttano il desiderio di protagonismo dei partecipanti
trova le proprie radici nel risentimento che deriva dal
desiderio di distinzione dalla massa e riscatto dalla
propria condizione. Il loro format prevede quasi sempre
un qualche tipo di competizione (Pulcini, 2011) che
mette di fronte persone di ogni genere disposte a tutto pur
Introduzione
23
di poter concorrere all’assegnazione del monte premi ma,
soprattutto, di godere di qualche secondo di visibilità
mediatica. Visibilità che, interpretata come notorietà e
quindi come “successo”, gonfia la componente grandiosa
della loro personalità narcisistica, nascondendone, anche
solo per qualche istante, l’intima fragilità. Tali
trasmissioni svolgono un ruolo ambivalente rispetto alle
macro-dinamiche di flusso del risentimento. Per un verso,
infatti, esse generano aspettative elevate negli individui
che aspirano a entrare nel mondo dello spettacolo
contribuendo così a produrre importanti quote di
emozioni risentite verso il sistema da parte di coloro che
ci hanno provato senza successo, e invidiose nei
confronti dei pochissimi che ce l’hanno fatta. Per contro,
veicolando il meta-messaggio che tutti possono
partecipare al grande circo mediatico e aspirare a un
successo basato non sui meriti ma sulla notorietà
ottenibile a basso costo, tali programmi svolgono anche
una funzione potentemente attenuante di questo genere di
sentimenti negativi.
La complessità del rapporto tra sistema mediatico
broadcasting e risentimento appena descritta si riproduce,
in forme diverse, anche nel caso dei social media. Essi
offrono, infatti, la possibilità di entrare in relazione con
gli altri in maniera svincolata dai limiti spazio temporali
rendendo l’incontro e il confronto interpersonale più
facile di quanto non sia mai avvenuto in passato. Negli
spazi della rete, le relazioni si generano spontaneamente
sulla base di motivazioni condivise. Questo ha reso
Introduzione
24
possibile lo svilupparsi di comunità in grado di riunire
soggetti portatori dei più diversi interessi, da quelli più
esoterici e faceti a quelli più seri e “impegnati” come, ad
esempio, quelle di persone accumunate da una stessa
situazione disagiata (ex. gruppi di mutuo aiuto, network
spontanei di lavoratori precari, ecc.) dei net activist o dei
cittadini che cercano di ribellarsi a uno stato tirannico.
Offrendo agli individui la possibilità di confrontarsi con
altri che condividono la loro stessa condizione, questi
spazi possono aiutarli a prenderne consapevolezza da una
prospettiva meno individualistica e persino a coglierne le
origini strutturali e sistemiche. In questo modo, le
comunità online si configurano come spazi
potenzialmente privilegiati di elaborazione della rabbia e
del risentimento individuale che, socializzandosi e
riconoscendosi in quello degli altri, potrebbero essere
elaborati assumendo la forma di indignazione e azione
collettiva. Le ricerche sino a oggi condotte sul tema, una
delle quali riportata in questo stesso volume (cfr. Risi)
non sembrano tuttavia offrire conferme univoche in
questo senso, per lo meno per quanto riguarda la realtà
italiana studiata. Forse anche a causa della relativa novità
di tali forme di relazione, le dinamiche che vi si
sviluppano sembrano più in grado di riprodurre
meccanismi dissipativi di “ruminamento” della rabbia
repressa, che non consentire quei processi di fusione
emozionale e di auto-organizzazione alla base dei
processi collettivi.
Introduzione
25
Se dunque il sistema dei media agisce con effetti
ambivalenti sulle opportunità di confronto con l’altro da
cui possono scaturire fenomeni di invidia e di
risentimento, altri meccanismi strutturali allo sviluppo
attuale del capitalismo paiono agire sui contenuti di tali
confronti con effetti prettamente dissipativi e di
contenimento dell’energia negativa. Sono tutti quei
dispositivi che, per spingere i consumi, hanno offerto
soluzioni in grado di “dopare” innaturalmente il reddito
effettivo dei consumatori e delle famiglie consentendo
loro, e intere nazioni con loro, di vivere al di sopra delle
proprie effettive possibilità economiche. Almeno sinché
la crisi non ha dimostrato la nudità dell’imperatore. E’
quanto è successo con la diffusione abnorme del credito
al consumo, delle carte di debito e di credito o con i
mutui offerti a tutti, compresi coloro che non sarebbero
mai stati in grado di restituirli, da cui ha preso origine il
fenomeno dei mutui subprime alla base della crisi
globale. Negli stessi anni in cui in tutti i paesi avanzati
andava allargandosi a dismisura la forbice economica tra
l’elite sempre più esclusiva dei super ricchi (sempre più
ricchi) e la massa crescente dei più poveri (sempre più
poveri, e tra i quali sono state risucchiate fasce importanti
della classe media. Cfr. Wilkinson, R., Picket, K.,2009)),
tali dispositivi economico-finanziari, necessari ad
alimentare il livello dei consumi di cui il capitalismo
aveva bisogno, offrivano l’illusione, a chi in realtà si
stava impoverendo, di poter far parte della massa dei
turbo
consumatori.
Questo
meccanismo,
Introduzione
26
democratizzando falsamente i consumi e rendendo
accessibile a tutti l’edonismo voluttuario stimolato dal
sistema, ha potentemente contribuito a contenere le
possibilità di insorgenza di invidia e risentimento presso
le masse di coloro che in precedenza erano esclusi dai
processi di consumo.
Ma quando anche l’allettante proposta del “consuma
adesso, pagherai in futuro” pare insufficiente ad offrire il
livello di vita a cui il soggetto aspira, egli può sempre
cercare una possibilità di riscatto tentando la sorte! E’ il
tipo di promessa offerta dalle lotterie, dai concorsi a
premi, dalle scommesse e dalle slot machine che hanno
avuto in Italia una diffusione straordinaria negli ultimi
anni muovendo un volume di denaro verso le casse dello
Stato e della malavita organizzata calcolabili in punti
percentuali di Pil. Prima ancora che diventi patologia da
dipendenza, dietro il comportamento ossessivo che vede
un numero crescente di persone giocarsi quote
significative del proprio reddito non è difficile
riconoscere una volontà di riscatto risentito che aspira a
una promozione sociale desiderata quanto impossibile da
raggiungere in altri modi. Il rinnovarsi continuo della
speranza di una vittoria che potrebbe cambiare la vita del
giocatore contiene sempre dentro di sé un riferimento ad
“altri” (datori di lavoro, amici, parenti, vicini di casa,
ecc.) da cui riscattarsi facendoli “schiattare d’invidia”. E
in questo alternarsi di rinnovate speranze pagate a caro
prezzo e inevitabili delusioni non è difficile riconoscere il
meccanismo del “ruminamento” che accompagnando
Introduzione
27
l’elaborazione psicologica del risentimento contribuisce
al contenimento della sua potenziale forza distruttiva.
Una forma di appagamento del desiderio acquisitivo è
dato anche dal “malaffare” che, soprattutto in Italia,
costituisce una vera e propria economia parallela a quella
ufficiale. Più che alla malavita organizzata mi riferisco al
“malaffare” diffuso, fatto di evasione ed elusione fiscale,
corruzione, contraffazioni, truffe, disonestà nel condurre
il proprio lavoro, desiderio di “fregare l’altro” per
ottenerne vantaggio, ecc. Il malaffare ha fatto sempre
parte delle società umane. Ciò che tuttavia differenzia
quello presente oggi in Italia, oltre alla sua endemica
diffusione (sicuramente più vasta di quanto non si riesca
a immaginare se riesce a smuovere, come indicano
alcune stime, un volume di denaro pari a circa il 7% del
Pil!1 ), è il fatto che venga giustificato sulla base di una
più o meno esplicita legittimazione sociale che tende a
farsi cultura dominante. Legittimazione sul cui istaurarsi
non poco ha contribuito la classe politica al potere negli
ultimi due decenni. Chi si arricchisce illegalmente, evade
le tasse o semplicemente arrotonda la propria condizione
1
Cfr.: “Mafia crime is 7% of GDP in Italy, group reports”, The New York
Time, Monday, October 22, 2007. I ricercatori dell’CSC nello studio
pubblicato il 13 Settembre 2010 scrivono: «C’è una parte dell’economia
italiana che non ha subito recessione: il sommerso». In effetti di tratta di un
incremento di almeno tre punti di PIL rispetto ai dati Istat con un balzo che
raggiunge nel 2010 il 20 per cento del Prodotto interno lordo e una pressione
fiscale effettiva ben oltre il 54 per cento del PIL, pari a più di 125 miliardi di
euro, l’evasione più elevata in Europa. In: Confesercenti - Le mani della
criminalità sulle imprese. Roma, maggio 2010.
Introduzione
28
economica al di fuori delle norme, non solo si assicura la
possibilità di accedere a uno stile di vita e di consumo
superiori a quelli che il suo status non gli consentirebbe,
ma riceve anche l’approvazione di coloro che
condividono la sua stessa “etica”. Un’etica secondo cui:
“il denaro giustifica i mezzi” e sotto la cui luce egli
appare non come un delinquente, ma come “un furbo”,
“uno che ha saputo destreggiarsi” in un mondo dove
“tanto nessuno è onesto”. L’economia del malaffare,
immettendo sul mercato un flusso considerevole di
denaro, contribuisce sensibilmente alle dinamiche del
consumo e al successo delle sue logiche. Allo tesso
tempo, tale economia, (insieme agli altri fenomeni sopra
ricordati che aumentano le possibilità degli individui di
soddisfare la propria sete di consumo o promettono di
farlo) contribuisce a dissipare negli individui le cariche di
aggressività che potrebbero derivare loro dal doversi
“accontentare” di ciò a cui possono aspirare contando
solo su quanto guadagnato onestamente. In questo modo,
in mancanza di un universo etico in grado di orientare i
comportamenti individuali, la possibilità di partecipare al
banchetto del consumo nel tavolo dei più fortunati,
indipendentemente dal modo in cui questo è stato
ottenuto, diminuisce notevolmente la possibilità di
esperire sentimenti di invidia e di risentimento sia di tipo
invidioso che “giusto”.
Ma il meccanismo di dissipazione della violenza prodotta
dalle dissimmetrie (progressivamente crescenti) e dalle
ingiustizie sociali delle attuali società falso-democratiche
Introduzione
29
passa soprattutto attraverso le logiche stesse del mercato.
In un mondo dominato dall’etica del consumo, i confronti
tra individui da cui prendono origine le emozioni
comparative (gelosia, invidia e risentimento), avvengono
soprattutto in relazione alle possibilità di spesa e al
possesso di beni acquistabili sul mercato.
Già Simmel aveva teorizzato il ruolo dissipativo e di
contenimento dell’energia invidiosa operato dalla moda
(1895). Il suo ragionamento si basa sulla constatazione
che, se da una parte la moda introduce elementi di
distinzione sociale tra chi “può permettersela” e chi
invece non ha le risorse per farlo, e dunque moltiplica le
occasioni di stimolo al risentimento invidioso, dall’altra,
essa svolge anche un ruolo omologante dato che tutti
coloro che la seguono finiscono poi per “assomigliarsi”.
Ma soprattutto, sostiene ancora Simmel, la moda e,
potremmo aggiungere, il consumo più in generale,
attivano dinamiche competitive comunque più
“democratiche” (rispetto ad esempio a quelle basate sullo
status) e certamente potenzialmente poco distruttive
rispetto all’ordine
sociale2.
Le
considerazioni
simmelliane vanno tuttavia contestualizzate alla società
solido-moderna, e dunque gerarchica e piramidale, a cui
egli si riferiva. Da allora, il fenomeno della moda e dei
processi di consumo si sono enormemente specializzati,
soprattutto per l’azione delle pratiche di marketing
2
E’ ben noto, per altro, il ruolo compensativo e riparatorio che un
acquisto voluttuario può svolgere rispetto alla rabbia e alla
frustrazione accumulata, ad esempio, sul posto di lavoro.
Introduzione
30
succedutesi nel tempo in maniera funzionale allo
sviluppo delle economie e dei mercati. Grazie alla
potenza del marketing e ai messaggi delle sue “Sirene”
pubblicitarie, i riferimenti di classe, tipici di un mondo
solido e basato sulla produzione, si sono liquefatti in una
diaspora infinita di stili di vita incentrati sul consumo,
all’interno dei quali il soggetto può riconoscersi. Questo
processo di artificiosa differenziazione sociale si è
ulteriormente sviluppato negli ultimi anni giungendo,
attraverso
il
marketing
relazionale
e
una
personalizzazione sempre più spinta dei prodotti, ai suoi
limiti oggettivi costituiti da un consumatore non più visto
come parte di un target, ma come singolo individuo con
cui entrare in relazione diretta anche grazie alle
tecnologie della rete. E’ il singolo individuo quello di cui
le aziende si propongono oggi di soddisfare le brame di
consumo con prodotti pensati solo per lui (o fatti credere
tali). Il risultato di questo processo, finalizzato a gonfiare
la domanda di un mercato in cui i processi di acquisto
sono orientati da valori immateriali, è quello di un
aumento, almeno in apparenza, della differenziazione
sociale e dunque degli spazi simbolici entro cui i diversi
individui si trovano a confrontarsi. Non essendoci
un’unica moda e un unico mercato su cui competere,
ogni individuo può sentirsi “alla moda” secondo
innumerevoli modelli e riferimenti simbolico-culturali, in
un processo che ha ormai da tempo una funzione
espressiva e identitaria piuttosto che ostentativoemulativa.
Introduzione
31
La merce contraffatta, i discount, gli outlet, i mercatini
dove si trovano prodotti firmati a prezzi bassissimi, sono
tutte ulteriori possibilità che democratizzano il mercato e
consentono a molti di accedere, o anche solo simulare,
una condizione di consumo superiore alle proprie reali
possibilità. Tali processi di democratizzazione e
differenziazione pur essendo in larga misura solo
apparenti in quanto non fondati su un’effettiva
redistribuzione più egualitaria dei redditi, contribuiscono
tuttavia a depotenziare ulteriormente l’intensità
complessiva dell’invidia e del risentimento in circolo nel
sociale.
Introduzione
32
4. risentimento e neo capitalismo
Tutti i fenomeni e dispositivi descritti in questo
contributo e in grado di incidere sulle macrodinamiche
emozionali, contenendo e dissipando le cariche invidiose
e risentite che le disfunzionalità sistemiche
incessantemente producono, resterebbero largamente
inattivi se non andassero ad incardinarsi sul meccanismo
primario su cui si basa il successo globale
dell’iperconsumo. Un meccanismo in grado di agire
direttamente sulle coscienze individuali e sui processi
intrapsichici di generazione del desiderio. Per cogliere
tale dinamica è necessario ripensare a come esso si
presenti originariamente.
La psicoanalisi ci ha insegnato che il desiderio è l’energia
emozionale alla base del comportamento umano. Ci ha
anche spiegato che tale energia può orientarsi in modo
creativo verso obiettivi costruttivi e in grado di generare
relazioni di valore, solo se si incontra e si scontra con la
legge, ricevendone il suo sostegno simbolico (Recalcati,
p. 8). Se non si infrange contro i limiti della norma,
l’energia libidica, che si manifesta primariamente come
ricerca di godimento immediato, non può trasformarsi in
desiderio. Per questo, il “programma della Civiltà”, con il
suo apparato normativo e valoriale, si è sempre opposto
al dispiegamento in-mediato dell’impulso al godimento,
“castrandolo” e permettendo in questo modo l’attivazione
di processi di sublimazione attraverso cui tale energia
Introduzione
33
diventa desiderio creativo e risorsa per la collettività
(ibid. p. 31).
Nelle società occidentali avanzate, questo meccanismo
pare oggi essere entrato in stallo. Embricandosi su
processi socioculturali che, pur avendo le proprie origini
in periodi ben più remoti, sono giunti a compimento negli
ultimi decenni (ma che non è possibile qui approfondire),
il
programma
iperedonistico
del
capitalismo
contemporaneo “liquida”, insieme a molto altro, anche le
forze normative in grado di imporre agli individui i
necessari processi di sublimazione dell’energia libidica.
Così facendolo il capitalismo contemporaneo sembra
portare a compimento quel meccanismo, apparentemente
paradossale, di de-sublimazione repressiva acutamente
delineato da Marcuse (1955, cfr. Recalcati, cit. p. 30).
La necessità di promuovere un consumo sempre più
famelico ed eccedente si è concretizzata in un’ideologia
che prima ha riconosciuto a tutti il diritto all’edonismo e
a un consumo liberato dalle resistenze morali o religiose
che lo penalizzavano sino a qualche decennio fa; poi ha
imposto questo stesso edonismo, inteso come diritto al
godimento, come imperativo di massa. In questo modo, è
lo stesso neocapitalismo che legittima e incita gli
individui a liberarsi dai vincoli della norma per poter
soddisfare, senza alcun limite “subliminante”, il proprio
impulso al piacere attraverso i beni acquistabili sul
mercato.
Introduzione
34
Così facendo: <<il sacrificio pulsionale viene negato nel
nome di una falsa liberazione della pulsione che si
svincola da ogni forma di sublimazione, promettendo un
godimento immediato, de sublimato, appunto, senza
mediazione simboliche e senza più limiti>> Recalcati,
cit. p. 9).
Questo tipo di de-sublimazione non corrisponde affatto a
un aumento della libertà individuale, ma piuttosto alla più
sottile ed efficace forma di controllo sociale messa in atto
dal sistema. Penalizzando il movimento del desiderio,
esso annulla infatti <<ogni dissimmetria critica nei
confronti della realtà alla quale, invece, il soggetto tende
ad adeguarsi sempre più passivamente>> (ibid.).
Se il capitalismo descritto da Marx alienava il soggetto
riducendolo alla sua sola forza fisica trasformata in
lavoro,
nel
neocapitalismo
dell’iperconsumo
l’alienazione ha assunto la forma di << una riduzione del
soggetto alla spinta mortifera del godimento>> (ibid. p.
34).
Oltre che sul piano ideologico, la frammentazione e
trasmutazione del desiderio in volontà di godimento è
prodotta anche da un altro tipo di dinamica. Da un punto
di vista psichico, è la mancanza dell’oggetto ciò che
anima il desiderio e lo vitalizza sospingendolo in avanti.
Viceversa, quando l’oggetto ha assunto la forma di merce
e si presenta, come avviene oggi, oscenamente
sovrabbondante, è lo stesso desiderio che finisce per
annichilirsi sotto l’effetto “intasante” dell’eccesso. Un
Introduzione
35
eccesso di beni e opportunità di godimento che annulla la
mancanza necessaria a muovere la spinta desiderante e
impedisce la creazione di legami autentici con gli altri
(ibid. pag. 35). In questo modo, è il rapporto con
l’oggetto ad assumere le caratteristiche di una nuova
forma di schiavitù favorendo l’insorgenza delle sempre
più diffuse dipendenze patologiche, non più solo “da
sostanze”, ma anche dal gioco, dall’uso della rete, dal
sesso mercificato, dal fitness, ecc.
Favorendo questo tipo di processo, il neocapitalismo ha
di fatto generato un progressivo svaporamento del
desiderio (Ciaramelli, 2000), almeno come istanza
psicologica dominante gli individui, iperframmentandolo
e trasmutandolo in ricerca di godimento immediato che
ricorda drammaticamente l’esito parossistico cui è
destinata l’evoluzione della mimesi girardiana.
Il desiderio presume del resto progettualità, creatività,
impegno, incontro con l’altro, e tempi lunghi per potersi
esprimere. Tempi poco compatibili con quelli necessari a
un mercato che può mantenersi solo contando sulla
frenesia di individui divenuti turbo-consumatori. Solo la
ricerca immediata del godimento soddisfacibile con le
merci può invece assicurare la temporaneità istantanea
del qui ed ora in grado di rendere i comportamenti di
acquisto sempre più frenetici e in sintonia con il
parossismo a cui è giunto il tempo di deperimento
segnico delle mode e delle merci.
Introduzione
36
Questo processo di de-sublimazione e trasmutazione
dell’energia desiderante ha evidentemente effetti
molteplici a vari livelli. Interagendo potentemente con il
movimento del desiderio esso genera, innanzitutto, una
diffusa adesione acritica ai modelli di vita dominanti. Ma
tale processo ha un effetto decisivo anche sulle
dinamiche macroeconomiche di dislocazione del
risentimento. La conversione del desiderio in ricerca di
godimento istantaneo stempera infatti notevolmente
l’intensità della frustrazione che l’incapacità di
soddisfare tali bisogni comporta. Inoltre, mentre
l’oggetto del desiderio è unico e insostituibile, il
godimento ottenibile attraverso il consumo può essere
soddisfatto con oggetti molteplici e facilmente sostituibili
(prodotti, servizi, corpi, ecc.). Infine, questo stesso
meccanismo di trasmutazione operato dal capitalismo
contemporaneo e supportato dalle pratiche di marketing
“one to one”, estremizza gli esiti dell’individualismo
contribuendo alla monadizzazione del soggetto che
finisce per ritrovarsi quasi del tutto incapace di
coinvolgersi in relazioni e basate sull’eros (in senso
psicanalitico) e quindi sulla capacità desiderante.
L’incapacità del soggetto “liquido” di impegnarsi “per
sempre”, come si diceva una volta credendoci, sono
esempi in questa direzione (cfr. tra tutti, Bauman,
2XXX).
Da questa progressiva incapacità a entrare in relazione
autentica e ad “amare” l’altro, derivano tanto i fenomeni
di iper-centratura sul sé, ampiamente descritti dalla
Introduzione
37
letteratura sul soggetto post-moderno, quanto le diverse
patologie del legame di cui parla Recalcati (2010).
La monadizzazione narcisistica della soggettività
corrisponde, di fatto, a una progressiva scissione del
legame sociale e a una chiusura narcisistica auto centrata.
Tale disposizione induce l’individuo a ricercare soluzioni
personali a fenomeni che sono invece il risultato di
disfunzionalità e ingiustizie socio-strutturali del sistema.
Lo sguardo rivolto al proprio caso personale gli
impedisce di riconoscere le vere cause del proprio stato.
In questo modo, nel tentativo di “cavarsela da solo
preoccupandosi solo di se’” è molto probabile che entri in
conflitto con altri individui che condividono la sua stessa
situazione e che competono orizzontalmente tra loro per
accaparrarsi risorse scarse, in una estenuante “lotta tra
poveri”. Una lotta che, anziché essere combattuta tutti
insieme per ottenere quello che spetterebbe loro di diritto
(un lavoro stabile, servizi sociali funzionanti, una
tassazione equa, un adeguato sistema sociale di tutela dei
soggetti più deboli e svantaggiati, ecc.) finisce per
frantumarsi in un’infinità di micro-conflitti latenti e
risentiti in cui soggetti-monadi si scontrano
simbolicamente tra loro spinti da un bisogno acquisitivo
di origine mimetica che solo il consumo sembra poter
placare. In questo modo, quello che potrebbe assumere la
forma di risentimento giusto per le ingiustizie sociali
subite e che, incontrandosi con quello degli altri,
potrebbe concretizzarsi in movimento di protesta, si
Introduzione
38
trasforma in risentimento invidioso e malevolo verso
coloro con cui ci si trova, orizzontalmente, a competere.
Da un punto di vista macroeconomico, dunque, la
produzione dell’energia libidica necessaria a sostenere
l’iperconsumo di cui l’attuale sistema capitalistico
necessita, contribuisce anche alla dissipazione delle
cariche potenzialmente distruttive del risentimento
invidioso che le disfunzioni sistemiche producono. E lo
fa incanalandole nella camera di combustione del
mercato che li riconverte nella ricerca del godimento da
cui si originano i drive motivazionali al consumo. Così il
cerchio si chiude, in un meccanismo perfetto e in grado
di autoalimentarsi attraverso l’energia emozionale che
esso stesso produce; in un moto perpetuo destinato a
continuare nel tempo almeno fino a quando nuove
formazioni sociali e movimenti non si dimostreranno in
grado di scardinarne le fondamenta.
39
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