Stefano Tomelleri - Kaiak. A Philosophical Journey

Kaiak. A Philosophical Journey, 1 (2014): Sottosuoli
Stefano Tomelleri, La società del risentimento
Meltemi.edu edizioni, Roma 2004
ISBN 978-88-8353-306-8
La letteratura filosofica e non solo del secolo scorso abbonda di confronti serrati con Nietzsche. E
se René Girard, ispiratore della ricerca di Tomelleri, può sostenere, nella prefazione del libro in
oggetto, che i temi più usurati del filosofo di Röcken stiano oramai «passando di moda» e siano
destinati a costituire solo un «soggetto dibattuto nella discussione degli esami di maturità» (p.
11), bisogna riconoscere, tuttavia, che l’ombra lunga degli sfrontati aforismi nietzscheani non
sembra affatto sfittirsi quando si passano in rassegna le questioni di più cocente pregnanza per
l’uomo contemporaneo.
Della serietà e, come vedremo, della pericolosità delle sfide di Nietzsche ai presupposti teorici
della modernità è ben consapevole Stefano Tomelleri, che riesamina il tema del risentimento,
visto prospetticamente come seme maligno che infesta tutti i costrutti teorici e politici
dell’occidente. Ispirato al nesso tra risentimento e democrazia nella riflessione di Girard, lo
studio di Tomelleri prende le mosse proprio dagli interrogativi posti dalla «più sistematica» delle
opere nietzschiane, La genealogia della morale. Il testo del 1887 riconduce, infatti, tutti i più
superbi principi del pensiero moderno (con al vertice quello di eguaglianza) al sentimento di
rivalsa di un’umanità mediocre, il cui segno di indiscutibile inferiorità è inscritto nella propria
incapacità a lottare sul piano diretto dello scontro vitale coi signori. L’umanità moderna,
secolarizzando i principi umanitari del Cristianesimo, prodotto della morale degli schiavi, ha
costruito così un universo assiologico sovvertito e malato, che soffoca la naturale estrinsecazione
vitalistica della volontà umana. Le più luminose costruzioni politiche e sociali della modernità, in
primis la democrazia, poggerebbero dunque le loro fondamenta, anziché su un solido terreno,
sulla verminosa fanghiglia popolata da una schiatta di perdenti. E tutto l’universo dell’uomo
contemporaneo nasconderebbe sotto la superficie, tirata a lucido dagli ideali di giustizia e parità
di diritti, oscuri «sotterranei dostoevskijani» (p. 142), dove le parole ‘egualitarismo’ e
‘democrazia’ rivelerebbero il loro vero significato: l’abbassamento del più forte al livello del più
debole, sancendo così la vittoria del secondo sul primo.
Tuttavia, se Nietzsche ha mostrato chiaramente come nessuna manifestazione dell’uomo attuale
sia esente dal risentimento, non per questo bisogna aderire alla sua condanna inappellabile della
modernità. È questa la sfida nietzscheana da cui bisogna partire. Doppia sfida, secondo l’autore,
invitante e, a un tempo, infida. Mentre la critica demistificante di Nietzsche ci sprona, da un lato,
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Data di pubblicazione: 16.06.2015
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a non sottovalutare mai le motivazioni spurie e spesso indegne nascoste dietro le nostre
conquiste, dall’altro, tale smascheramento può risultare eccessivamente corrosivo, dilapidando
l’intero patrimonio politico-culturale della modernità. «La nostra indagine dà per acquisito che
entrambe queste sfide vadano accolte: la sfida di non distogliere mai lo sguardo dalle nostre
bassezze di uomini, e quella di non dimenticare le conseguenze estreme e antidemocratiche che
deriverebbero dal limitarsi alla condanna nietzschiana di tali bassezze» (p. 20).
Nell’intuizione che il risentimento possa essere una forza generativa di ordini politico-sociali (la
società cristiana e, successivamente, quella moderna), Nietzsche ha colto sicuramente un punto
nodale della moderna sociologia: il legame, purtroppo – dal suo punto di vista – solo a senso
unico, tra la vita emotiva e la costruzione di ordinamenti socio-politico-istituzionali.
Quest’intuizione non ha potuto svilupparsi appieno, conducendo a condanne nefaste, perché
tributaria di una concezione esclusivamente soggettiva delle emozioni. È questa l’accusa
fondamentale che Tomelleri muove al filosofo tedesco: l’irrevocabilità della condanna
nietzscheana deriverebbe da un’unilateralità epistemologica, l’adesione a una visione rigidamente
intrapsichica e individualistica degli stati emotivi, dominante nel pensiero europeo da Les
Passions de l'âme di Cartesio fino alla psicologia freudiana. Procedendo con tale strumento
concettuale, Nietzsche approda necessariamente a una visione «essenzialista» (p. 57) del
risentimento, quale «evento emotivo» negativo, perché frutto di fragilità e di una volontà debole,
di natura meramente reattiva e costitutivamente collegato a «una certa categoria di individui […],
trascurando la possibilità che sia un’emozione che scaturisce dalle interazioni comunicative e che
può interessare la condizione di qualunque uomo, non solo di quelli deboli e fragili, ma anche di
quelli ‘elevati’ e ‘nobili’, senza che vi sia alcun rapporto di necessità tra la potenza di un
individuo e il suo portare rancore» (p. 59).
Una correzione di tale rigidità prospettica Nietzsche l’avrebbe potuta trarre dalla lucida analisi
del Leviatano di Hobbes. Per Tomelleri, il filosofo inglese è il primo autore politico, che –
trovandosi a descrivere il passaggio dall’ordine naturale all’ordine politico – evidenzia
l’intrinseco carattere di reciprocità della condizione umana e, di conseguenza, il legame
biopolitico tra emozioni, da un lato, e rapporti e strutture di potere, dall’altro. Tra le emozioni e il
potere esiste, infatti, un rapporto di «mutua specificazione» (p. 85). Provando amore o paura per
qualcuno, un soggetto si posiziona, nei confronti dell’altro, in una gerarchia relazionale, che può
essere espressa in termini di ammirazione o disprezzo; simmetricamente, una struttura di potere
già consolidata determina date risposte relazionali, agevolando, ad es., alcuni stati emotivi ed
inibendone altri. Hobbes ha abbandonato l’idea che le emozioni siano meri accadimenti intimi,
chiuse nei confini della nostra macchina corporale, come pensava Cartesio, per configurarle come
proprietà relazionali, connesse alle strutture di potere attraverso un meccanismo di retroazione
speculare: modulando le emozioni, coordiniamo i nostri rapporti sociali e viceversa. Allo stesso
modo, se spostiamo l’angolo visuale al livello macrosociale, troviamo che all’incertezza emotiva
che regnava nel caos del bellum omnium contra omnes, l’instaurazione del potere assoluto del
Leviatano sostituisce un codice riconosciuto di transazioni emotive, influenzato e influenzante
l’ordinamento politico-legislativo.
Stabilito che le emozioni incidono sulle procedure socio-istituzionali, ne discende che esse
godono di una natura intimamente relazione e sociale, di modo che, a differenza di ciò che
pensava Nietzsche, tutte le emozioni e quindi anche «il risentimento tra gli uomini non sono da
imputare alla fragilità individuale o alle istituzioni moderne, né tanto meno alla rivelazione
cristiana, bensì sono il risultato del confronto reciproco e dei giochi di potere tra gli uomini
inseriti in determinati contesti istituzionali» (p. 68).
Le emozioni, quindi, non sono dentro di noi, ma tra noi. Questa è la lezione di Hobbes. Da un
approfondimento delle caratteristiche intersoggettive delle dinamiche emotive, l’antropologo e
filosofo francese René Girard ha ricavato un’idea rivoluzionaria del desiderio umano, che risulta
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essere, a detta di Tomelleri, lo strumento concettuale dirimente per la doppia sfida della sua
ricerca. Il desiderio, quale motore delle interazioni umane, trascende la configurazione psichica
del singolo individuo, determinandosi essenzialmente lungo una direttiva imitativa. L’attore
sociale girardiano opera con la finalità di «essere secondo l’altro». Il desiderio per Girard non è
mai solipsistico, non conosce cause endogene, ma si snoda secondo uno schema triadico: l’attore,
l’oggetto del desiderio, che è il medesimo desiderato dall’altro, vale a dire il modello
imitato/invidiato, terzo termine della relazione emotivo-sociale. Quindi, la dinamica emotiva si
configura originariamente come relazionale e interattiva, ma – in quanto mimetica – è anche
costitutivamente ambivalente e conflittuale. Nel momento in cui si desidera di essere come l’altro
e si vuole ‘avere’ ciò che lui possiede, insorgono, nei contesti interattivi in cui si dipana la
vicenda umana, sentimenti di ammirazione che possono facilmente tramutarsi e convivere con
sentimenti di invidia e propositi di rivalsa. «Quanto più l’attore mimetico cerca di realizzare i
propri desideri, tanto più si espone al conflitto col modello-rivale e […] alla violenza» (p. 124).
La teoria mimetica del desiderio ha il merito di essere lo strumento epistemologico più
performante nel penetrare in modo unitario e organico le qualità dell’interazione socio-emotiva,
concependo i sentimenti negativi, dal risentimento fino alla più brutale violenza, come una
possibilità oscura insopprimibile, insita in ogni essere umano. Proprio in virtù del fatto che non
scade in una visione soggettivistica della vita emotiva, permette di inquadrare l’intero ventaglio
delle emozioni come una corrente che si distribuisce fra tutti gli attori al mutare dei contesti
relazionali (che sono sempre hobbesianamente contesti di potere).
La genealogia mimetica del desiderio agevola, quindi, una concezione più appropriata delle
«bassezze» umane, risolvendo il primo capo dell’accusa di Nietzsche. Tuttavia, se si vuole
accettare fino in fondo la «sfida epistemologica» (p. 20) proposta da Girard, bisogna anche
rileggere la rivelazione cristiana alla luce dell’altro pilastro dell’antropologia girardiana, la teoria
del capro espiatorio, per scollare definitivamente dalla democrazia l’etichetta di ‘regime degli
sconfitti risentiti’.
Dagli studi antropologici su molte tradizioni mitologiche (greche, africane e mesoamericane),
Girard ha rilevato un rapporto costitutivo tra la violenza e il sacro. Le turbolenze delle società
primordiali (l’hobbesiano bellum omnium contra omnes) sono risolte da un «processo vittimario»,
che individua un «capro espiatorio», a cui si addossano tutte le colpe. L’eliminazione di
quest’ultimo sancisce la pace tra le parti e l’inizio del processo di civilizzazione. La violenza
reale originaria viene, poi, trasfigurata, attraverso un processo di simbolizzazione, in forme
rituali, le quali, mentre ripropongono nelle liturgie religiose del sacrificio l’atto fondativo di
violenza, ne rafforzano il valore di collante sociale e istituzionale, sancendo divieti e norme,
legati a doppio filo ai precetti sacri.
La rivelazione cristiana ha definitivamente rotto questo rapporto circolare tra violenza e sacralità
o, se si vuole, tra violenza e interazione socio-istituzionale, che è stato il fondamento principale
delle società umane fin dal processo di ominizzazione. Quando Cristo si è dichiarato apertamente
vittima dei suoi accusatori, denunciando in modo chiaro la violenza persecutoria, ha rotto
l’incanto che la violenza mitica esercitava sulla coesione umana. Con la sua predicazione, Cristo
ha mostrato che non c’è bisogno di ricercare in lontane potenze mitiche la scaturigine della
negatività registrabili nelle società umane, ma che gli uomini, e solo loro, sono gli artefici e i
responsabili della violenza nelle loro relazioni reciproche.
È in questo punto che, paradossalmente, si instaura il legame tra Cristianesimo e risentimento.
Nel momento in cui la rivelazione/rivoluzione di Cristo scompagina gli assetti della società
tradizionale, in cui la violenza era sedata da divieti sacrali, si assiste ad uno scatenamento del
conflitto, con la sua scia di risentimento, proprio in mancanza dei consolidati freni rituali, dissolti
dalla morale cristiana. La situazione peggiora con la secolarizzazione dei valori cristiani negli
ideali egualitari e democratici nell’età moderna. Ma la riflessione di Nietzsche, secondo Girard,
non ha tenuto conto che, se è vero che il risentimento è «figlio» del Cristianesimo, di sicuro non
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ne è il «padre» (p. 114). Nel profilo antropologico dell’uomo, contenuto nella rivelazione
cristiana, emerge infatti chiaramente la possibilità di, non diciamo superare, ma almeno contenere
le spinte aggressive con i loro correlati passionali. Attraverso la messa al bando dei meccanismi
di esclusione e di violenza che hanno sempre retto le società umane, il messaggio cristiano
prospetta una forma alternativa di convivenza, costruita sull’apertura e sul perdono dell’altro, che
non svolge più solo il ruolo di rivale ma è una concreta possibilità di «completamento» e di
«resurrezione» per ogni individuo (p. 142).
La democrazia, quale declinazione attuale degli ideali cristiani, è uno spazio aperto e indifeso,
dove si pratica, in forma sempre incompiuta, «l’apprendistato di una libertà nuova, di una
difficilissima libertà» (Girard, citato dall’autore, p. 111). La parità di diritti e tutti i principi e le
istituzioni politiche dell’occidente contemporaneo, anziché configurarsi come un’ipocrisia
gigantesca, dove risuonano i rantoli soffocati di un’umanità sconfitta e risentita, rappresentano lo
sforzo, condotto sulla base dell’insegnamento evangelico, di instaurare una logica socioistituzionale inclusiva, che inglobi e depotenzi i guasti competitivi costitutivamente iscritti
nell’interazione umana.
Scomposta nella sua struttura, l’argomentazione di Tomelleri procede con un movimento a
spirale, costituito da tre passaggi. Nella prima parte del testo si avanza una rilettura critica del
risentimento nell’opera di Nietzsche, nonché del suo nesso con la democrazia; nella seconda parte
si utilizzano le riflessioni di Hobbes nel Leviatano per mostrare l’errore epistemologico di base
commesso da Nietzsche nell’analisi del legame tra tale emozione negativa e l’ordine sociopolitico; nella terza parte, infine, si svela come la teoria mimetica del desiderio di René Girard,
oltre a risultare lo strumento concettuale più adatto per radiografare l’interazione dei rapporti
umani, permetta di ritornare, senza insidie, sul rapporto risentimento-democrazia, evitando che il
primo termine fagociti il secondo. Nella prospettiva mimetica, il risentimento costituisce sì una
possibilità inscritta nella reciprocità delle azioni umane e, dunque, nella dinamica processuale dei
nostri ordinamenti politico-sociali, ma è pur vero, sostiene Tomelleri, che se interazione umana e
condotta istituzionale si modellano sul profilo antropologico che emerge dalla rivelazione
cristiana, il risentimento può essere incluso e contenuto nelle normali relazioni socio-politiche,
come polarità di una dialettica emotiva, senza – per questo – inficiare il valore del sistema
democratico, come voleva Nietzsche, ma – anzi – dimostrandone l’intrinseca qualità, basata su
una logica di inclusione e di non-violenza.
L’operazione di Tomelleri è sicuramente di notevole portata: correggere Nietzsche con Hobbes,
per poi rivoltarlo grazie a Girard. E la sua rilevanza consiste, a mio parere, proprio nel
manipolare, incrociandoli in modo originale, i più moderni strumenti concettuali forniti
dall’antropologia e dalla sociologia (e, talvolta, dalla biologia, come quello di «mutua
specificazione», importato dalla teoria dell’autopoiesi dei sistemi naturali di Varela, qui
assimilato alla retroazione), per evidenziare l’obsolescenza dei costrutti teorici del filosofo
tedesco, radicati a pieno titolo in quel pensiero sostanzialistico o della «profondità» che egli
stesso voleva scardinare. Risulta così, dicevamo, totalmente ribaltata – per indegnità
epistemologica, sia consentita l’espressione – la tesi della Genealogia della morale: la
democrazia costituisce un freno del risentimento. La ricerca parte, però, e utilizza a piene mani
proprio l’intuizione nietzscheana del legame filiale tra morale cristiana e ideali moderni. Tuttavia,
è proprio la condivisione di questa inferenza culturale a generare nuove riflessioni.
Le eredità culturali, soprattutto tra due grossi ‘continenti’ concettuali (come il cristianesimo e la
modernità in senso lato), non sono mai stabilite in modo definitivo, ma variano al mutare dei
contesti storico-culturali che le istituiscono. Non potrebbe costituire proprio quell’assunzione
indiscussa di una discendenza culturale una mancanza epistemologica? È ancora valida
quell’equazione nietzschiana oggi? (Ammesso, poi, che lo fosse allora. Nella sua unilateralità,
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quanto tralascia in termini di elementi costituenti dell’universo culturale moderno e della
democrazia?)
Nel disaggregato mondo postmoderno, privo di principi di sistematicità, nuove teorie ed
esperienze socio-istituzionali si accumulano – in modo sconnesso – in un contesto mondializzato,
senza che le relazioni fra essi emergano in modo chiaro. Basterebbe la pratica del regime
democratico in paesi come l’India, cioè in un milieu culturale totalmente altro dall’occidente di
origine giudaico-cristiano, per riformulare, non dico negare, in modo radicale la discendenza
diretta tra morale cristiana e regime egualitario e democratico.
Sono riflessioni naturalmente che allargano il campo visuale ed esulano sicuramente dai compiti
che l’autore si è prefissato, ma possono costituire sicuramente l’obiettivo di un percorso, se non
alternativo, complementare e necessario per fortificare la pratica contemporanea della
democrazia, scopo ultimo anche della ricerca di Tomelleri.
Luigi La Montagna
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