Tra utopia e speranza, una polemica a distanza con Jürgen

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Remo Bodei
Bloch e il principio speranza
1. Professor Bodei, il filosofo tedesco Ernst Bloch ha lasciato un'opera monumentale, Il
principio speranza, senz'altro il suo capolavoro. Come è articolata quest'opera e qual è
il suo significato?
Quest'opera di Bloch è una grande enciclopedia della speranza, che mostra come la
speranza stessa si insinui in tutte le manifestazioni dell'uomo a partire dai sogni, che
sono un'attesa di un mondo migliore. A Shakespeare, che si chiedeva di quale materia
fossero fatti i sogni, Bloch risponderebbe che la materia di cui sono fatti i sogni è
appunto la speranza. L'opera contiene anche un'analisi della speranza fatta a livello
apparentemente più volgare, vale a dire a livello di quelli che Bloch chiama "i paradisi
a prezzo scontato": il supermercato, il desiderio di avere denti bianchi e vita snella o
tutto ciò che oggi è desiderio quotidiano alimentato dalla pubblicità. In particolare
Bloch osserva, contro un certo snobismo della scuola di Francoforte, che la signorina
che si mette il rossetto o si pettina in maniera civettuola, o l'uomo che sogna da
ragazzo delle grandi imprese, in realtà sopportano la loro condizione attuale come una
sorta di corteccia provvisoria. Da qui Bloch passa ad analizzare la speranza non
soltanto in termini di utopia e quindi in termini di politica, anzi l'aspetto più attuale di
questo libro è di non considerare la speranza soltanto in termini politici, visto che di
speranze ne abbiamo perse tante per strada ed egli stesso ha perso la speranza,
legata al marxismo, di una società senza classi e di un mondo migliore. Bloch scopre
la speranza non soltanto nelle costruzioni politiche, ma anche e soprattutto in quelle
forme di grande arte, come nella musica, nella pittura, nella filosofia ed infine il libro
si conclude con la più grande sfida alla speranza che è rappresentata dalla morte: noi
possiamo ragionevolmente sperare che la morte non sia la fine di tutto.
Questo libro, per quanto riguarda la sua storia, è stato composto in un arco di circa
vent'anni: Bloch lo inizia nel periodo dell'esilio americano, alla fine degli anni Trenta,
scrive il primo volume nel 1954 ed il terzo ed ultimo nel 1959. Il punto di partenza di
Bloch è il fatto che tutti abitiamo questo continente della speranza, che pur essendo
affollato, è inesplorato come l'Antartide. Per questo Il principio speranza di Bloch è
una grande mappa di tutti i territori della speranza. Bloch concepisce la speranza
contro Heidegger, contro il principio dell'angoscia, se vogliamo chiamarlo così, in
quanto, secondo Bloch, non bisogna prendere il mondo così com'è: la speranza ci
mostra, infatti, il mondo in movimento ed in evoluzione. L'idea di Bloch, quindi, è che
la speranza non è semplicemente un premio di consolazione per le disgrazie
necessarie della vita degli individui e della storia, ma è piuttosto uno sforzo per vedere
come le cose stanno in movimento, come si evolvono. La nostra mente non è simile a
uno specchio che riflette una realtà ferma, ma è piuttosto qualche cosa che si
inserisce nel mondo della speranza. A questo proposito possiamo rifarci a
un'immagine classica della storia della filosofia: Kant parlava della candida colomba
della ragione che pensa che l'aria gli possa essere di ostacolo, senza rendersi conto
che è proprio essa a sostenere il suo volo. Si potrebbe dire con questa immagine che
la speranza è in Bloch l'aria che sostiene la ragione, senza la speranza la ragione non
potrebbe volare e senza la ragione però la speranza sarebbe cieca. Bloch non cerca
una soluzione sentimentale ai problemi: la speranza per questo filosofo ha un
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carattere conoscitivo, un carattere veggente, cioè la speranza è quella che permette al
pensiero di articolarsi al di là dell'immediatezza del vissuto.
2. Professor Bodei, la speranza è per Ernst Bloch il sostegno indispensabile
della ragione umana. Da che cosa è motivata la difesa della speranza da
parte dell'autore dell'opera Il principio speranza?
È motivata in gran parte dal fatto che diamo troppa importanza da un lato alla
razionalità pura, pensiamo che gli uomini siano mossi soltanto da ragioni di tipo
intellettualistico, e dall'altra è motivata invece da coloro che ritengono che nel mondo
non ci sia nessun senso delle cose e che soltanto la pura vitalità amorfa guidi il nostro
agire. Bloch vuol mostrare invece come la speranza abbia un carattere concreto. La
speranza prima di tutto non è certezza, anzi Bloch ricorda una formella, quindi
un'immagine, della porta del battistero di Firenze scolpita da Andrea Pisano, in cui si
mostra la Spes, la Speranza, con le braccia tese verso l'alto come Tantalo che cerca di
afferrare qualche cosa. Quindi la speranza non solo non è certezza, ma è un tendere,
un andare verso. Bloch parla di speranza concreta o di utopia concreta volendo dire
due cose: da un lato che l'utopia, la speranza, l'attesa di un mondo migliore, non
possono essere affidate soltanto alla "corrente fredda", cioè all'idea che la razionalità
si faccia spazio da sola. Non basta, infatti, enunciare una cosa vera perché questa
cosa vera penetri nella testa degli uomini. D'altro lato Bloch cerca di temperare questa
"corrente fredda" con una "corrente calda", cioè non basta mobilitare gli uomini per
raggiungere certi effetti, per credere che questa mobilitazione vada in una direzione
accettabile.
3. Può spiegare la differenza tra la "corrente calda" e la "corrente fredda",
anche in relazione al marxismo?
L'esempio che fa è quello del nazionalsocialismo, che Bloch definisce un "giacobinismo
del mito". È importante un aneddoto che Bloch racconta: nel 1933, poco prima
dell'avvento del nazionalsocialismo, ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a
Berlino tra un rappresentante del partito comunista tedesco e un rappresentante
nazista. Il comunista entra e comincia a spiegare la caduta tendenziale del saggio di
profitto secondo Marx, la gente non capisce niente, e queste verità non fanno presa.
Arriva invece il nazista che comincia a parlare in termini mitici della pugnalata alle
spalle che gli ebrei e i demoplutocrati hanno dato al popolo tedesco, fa dei discorsi che
hanno una grande presa emotiva, usa termini come patria, casa, quelle forme cioè di
richiamo all'identità delle persone ed esce tra le ovazioni di tutti.
Ora, per Bloch il punto, e forse anche per noi, è quello di capire che non si può
staccare la razionalità dagli affetti, ma che non si può avere una pura razionalità, un
socratismo, per cui basti enunciare il vero perché il vero si raggiunga, né si può avere,
come nel caso del nazionalsocialismo, una pura mobilitazione basata su problematiche
irrazionali.
Il tentativo di Bloch rispetto alla storia del marxismo va controcorrente. Lenin aveva
scritto molto su questa capacità di mobilitare le masse e, attraverso il culto per
esempio della mummia di Lenin, anche Stalin aveva usato una certa sua mitologia, se
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vogliamo rozza e contadina, mentre Engels aveva parlato, in un famoso libro, del
passaggio del socialismo dall'utopia alla scienza. Ora per Bloch questo passaggio è
stato fin troppo radicale e rapido. Si è creduto che il marxismo avesse più successo
diventando scientifico e cioè dogmatico, ma in questo modo ha lasciato, per così dire,
"in mezzo ai rovi", quelle che sono le tendenze degli uomini verso una vita migliore,
quello che Marx stesso chiamava il sogno di una cosa. Per questo la rivendicazione
della speranza in Bloch non è la rivendicazione di una mobilitazione cieca degli uomini
verso una vita migliore che non sanno dove stia, ma è il tentativo di innervare di
queste energie umane, che altrimenti si disperdono e si dissipano, un progetto che ha
una base razionale, analitica. È vero che in Bloch non c'è lo stesso snobismo di Adorno
e degli altri studiosi della Scuola di Francoforte quando disprezzano i desideri della
gente comune, e quindi anche le cose apparentemente banali che la pubblicità ci
porta, ma è anche vero che per Bloch questo non è il livello più soddisfacente. Ciò che
il filosofo cerca di fare è di mostrare come nella speranza ci sia una sorta di
crescendo, cioè gli uomini devono essere addestrati, in qualche modo, attraverso la
lettura di questo libro, a desiderare delle cose e a sperare delle cose che gli diano
sempre maggiori soddisfazioni, che diano sempre più densità di senso all'esistenza.
4. Professor Bodei, è corretto affermare che lo scopo dell'opera di Bloch Il
principio speranza è quello di aiutare gli uomini a riscoprire nuovamente la
realtà in movimento, affinché imparino a vivere intensamente ogni istante?
Si, perché paradossalmente l'utopia di Bloch, o la speranza di Bloch, non riguarda
tanto il futuro quanto il presente, nel senso che per Bloch ogni istante può diventare
significativo, noi dobbiamo imparare a vivere ogni momento come se fosse eterno:
"Cogli l'eternità nell'istante" è un principio fondamentale di Bloch. Naturalmente per
"eternità" non si intende un tempo lungo, gonfiato oltre ogni dimensione finita, per
"eternità" si intende la pienezza dell'esistere, l'eternità riguarda quei momenti
d'essere in cui a me sembra di scoprire il senso delle cose e questo senso delle cose io
lo scopro andando al di là dell'oscurità dell'attimo vissuto. Il principio che Bloch ritiene
più originale di tutta la sua filosofia è quello di aver scoperto che la nostra coscienza
del presente, che a noi sembra così cristallina, così trasparente, è in realtà opaca, e
che quindi il presente in effetti è oscuro, o, usando un proverbio cinese che usava
Bloch: "Alla base del faro non c'è luce". Questo significa allora che noi non dobbiamo
proiettarci nel futuro in quanto tale, ma illuminare, attraverso la conoscenza e
attraverso la conoscenza della speranza, quello che è il centro del nostro essere, cioè
dobbiamo buttare luce, dare senso a ogni momento della nostra esistenza. Questo
accade ad esempio attraverso l'arte, attraverso la musica in particolare, dove si ha il
massimo di esattezza matematica e il massimo di pathos: questa è una bella
illustrazione del principio speranza, la speranza non è soltanto pathos, ma è anche
misura e quindi la speranza è una forma che mobilita gli animi, come la musica ci può
dare un senso di esaltazione, di tristezza, ma nello stesso tempo questo senso di
esaltazione o di tristezza è retto da una struttura matematica rigorosa.
5 Professor Bodei, oltre che nell'esperienza del quotidiano la speranza,
secondo Ernst Bloch, si manifesta nelle opere d'arte?
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Si, appunto, le opere d'arte sono per Bloch una esperienza raffinata e condensata,
cioè Bloch non contrappone l'arte alla vita, non scarica tutto sui musei o sui libri per
trovare il senso dell'esistenza, anzi le cose più banali, più piccole, più quotidiane,
hanno un carattere importante. Bloch appunto si sforza di renderci nuovamente
importante ciò che appare ovvio, però le opere d'arte hanno questo vantaggio: sono
un distillato di esperienza e di grande esperienza, quindi l'opera d'arte ci mette in
contatto con questo elemento di mistero e di indecidibilità. Bloch ad esempio amava
molto la pittura metafisica di De Chirico e ricorda come De Chirico firmasse i suoi
quadri attorno al 1908 aggiungendovi un motto latino: "Et quid amabo nisi quod
enigma est", "E che cosa amerò se non ciò che è enigmatico?".
In Bloch non c'è il gusto, per così dire, illuministico di rendere tutto chiaro e
trasparente. Bloch sa appunto che il nucleo di oscurità che è interno a noi stessi non si
potrà mai dissipare; nello stesso tempo però Bloch non cade nel ricatto dell'oscuro,
dell'enigma per l'enigma. Per dirla con Montale "cercano la chiarità le cose oscure",
cioè Bloch cerca di passare dall'oscuro al chiaro senza cancellare gli elementi di
oscurità. E questo riguarda eventualmente anche la morte. La morte, per Bloch, non ci
è ignota, noi sperimentiamo la morte già mentre siamo vivi: sono quegli attimi di
densa opacità, di sogno opaco ed oscuro, di nero, di intermittenze oscure, di cui la
nostra vita stessa è costellata. Così come viviamo la morte in ogni istante di opacità,
noi viviamo l'eterno in ogni istante di pienezza.
Se volessimo usare una formula, si potrebbe dire che Bloch, col suo insegnamento,
vuole ridurre queste intermittenze dell'intelletto e del cuore, questa opacità a noi
stessi, moltiplicando gli attimi in cui, invece, noi incontriamo noi stessi. Infatti il
principio speranza ruota attorno a quello che Bloch chiama "incontro con noi stessi",
Selbstbegegnung, perché la cosa più strana è che noi siamo in compagnia di noi
stessi, ma in realtà è come se non ci incontrassimo mai, siamo sottoposti a tutti questi
messaggi, che vengono dall'inconscio ad esempio, del mondo dei sogni e dei desideri,
ma questi messaggi non sono chiari nella nostra coscienza. Scopo del principio
speranza è quello di cercare di dare un senso a questo nostro vivere a distanza da noi
stessi, quindi l'ideale utopico per eccellenza è di ritrovare noi stessi, di ritrovare il
senso di noi stessi in una collettività, non un senso solitario. Noi viviamo assieme agli
altri e quindi è anche attraverso gli altri che conosciamo parte di noi stessi. Il noi è più
ospitale dell'io. L'io però è più proprio a noi stessi, quindi quando noi incontriamo l'io
incontriamo anche il noi e quando incontriamo il noi incontriamo l'io, cioè è soltanto
vivendo in questa comunità di tutti gli uomini che l'opera d'arte, ci mette in contatto
con ciò che è più proprio. Se ascolto una musica di Mozart o di Bach, se guardo un
quadro di Raffaello o di Michelangelo, se vedo l'architettura del Partenone, ecco in
questo momento ciò che è diventato proprietà comune del noi, del genere umano, mi
parla e mi fa incontrare me stesso.
6. Professor Bodei, si può affermare che l'opera di Bloch contiene una
speranza di vittoria sulla morte?
Sí, forse qui è un po' troppo ottimistico, nel senso che, mentre in Heidegger di Essere
e tempo c'è quasi un'apologia della morte, dell'essere per la morte, del prepararsi alla
morte - tra l'altro questa posizione di Heidegger è erede di una lunga storia, perché è
Platone il primo a far dire a Socrate che compito del filosofo è riflettere sulla morte ed
imparare a morire- Bloch cerca, invece, di liberare tutta la tradizione filosofica, da
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Platone a Heidegger, da questa tanatofilia, da questa sorta di amore per la morte,
cercando di mostrare come coloro che pretendono non solo che dopo la morte ci sia
una vita ultraterrena, ma anche quelli che pretendono che dopo la morte ci sia
soltanto il nulla non hanno ragioni dimostrabili più forti di quelli che invece ritengono
che ci possa essere qualche altra cosa. Bloch ha una sorta di fiducia, che vorrei
definire "congetturale", una fiducia appena accennata, che si può spiegare attraverso
un passo del grande scrittore svizzero Gottfried Keller, che egli cita. L'argomento non
è molto allegro, ma il testo è bellissimo. Gottfried Keller vede una volta un obitorio in
cui sono stesi i cadaveri di gente di tutte le età, di tutte le condizioni sociali, di
entrambi i sessi, e gli sembrano degli emigranti, che dormono nel porto vicino alle loro
misere cose in attesa che sorga l'alba. È questa speranza di un sorgere di un'alba che
guida il pensiero di Bloch, e quindi la possibilità di una vittoria sulla "lampada
funebre", come la chiama lui. Questa sarebbe per Bloch la speranza più piena, ma
Bloch è anche abbastanza realistico da sapere che questa speranza resta speranza,
però è altrettanto realistico quando pensa che in fondo l'evoluzione dell'umanità, del
passaggio dalla scimmia all'uomo darwinianamente, è andata verso il meglio, guidata
in fondo da forze invisibili che noi non controlliamo e che la tradizione ha chiamato
Dio.
7. Qual è la posizione di Bloch nei confronti della religione?
Ora Bloch non crede nel Dio personale, anzi espone in un libro che si chiama Ateismo
nel cristianesimo una tesi radicale: "Il miglior cristiano è l'ateo". L'ateo infatti toglie
alla religione l'aspetto esteriore di tipo immaginifico, legato a delle persone e a dei
fatti, a Gesù e ai miracoli, a Buddha, e lascia nella religione il nucleo più potente,
lascia nella religione quello che è l'aspetto determinante e cioè che la religione
contiene in sé i desideri più profondi degli uomini.
Per certi aspetti la religione è più importante della filosofia, o, per dirla in termini
marxiani in riferimento ad Hegel: la ricerca del nucleo razionale dentro il guscio
mistico si può dire che per Bloch diventa la valorizzazione proprio del guscio mistico
delle religioni. È importante che lo stesso nucleo razionale sia riferito a desideri e ad
aspettative, anche perché il nucleo razionale vive soltanto se c'è la spinta della
speranza. Forse Bloch semplifica troppo, bisognerebbe prendere più sul serio
Heidegger. Heidegger è più radicale, ma certamente è anche vero che in Bloch c'è
questa attesa di un qualcosa che mantiene vive le energie vitali invece che deprimerle
nel sacrificio e nell'essere-per-la-morte. Senza ritornare alle vecchie questioni su
Heidegger e il nazismo, va anche ricordato che nel 1944, questo "essere-per-lamorte", enunciato in Essere e Tempo, diventa il sacrificio dei soldati tedeschi, della
popolazione civile tedesca, un sacrificio, di cui non si deve chiedere il perché, nei
confronti di un regime che chiede agli uomini soltanto di "credere, obbedire e
combattere" e non di pensare e non di sperare in qualcosa di meglio, soprattutto un
meglio che sia emancipatorio di tutto il genere umano. Infatti la speranza di Bloch non
è la speranza di un singolo popolo o di un singolo individuo. In Bloch c'è questo
elemento corale e collettivo per cui la speranza viene paragonata a una fuga musicale,
cioè alla ripresa di un tema che ogni individuo e ogni popolo ripropongono attraverso
variazioni nel tempo e in cui, come in certi corali di Bach, tutti gli individui e tutti i
popoli entrano alternativamente o insieme a cantare questa polifonia, questo accordo
che cerca l'unisono. Queste voci che cercano di trovare l'unità sono per Bloch la
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rappresentazione stessa della storia umana e del processo della speranza nella storia
umana.
Francesco Saverio Festa
Ernst Bloch critico del presente: ideologia, teologia, eresia in
rapporto a speranza e utopia
1.
Quale è il senso, il filo rosso che unisce e lega le varie «forme categoriali» del pensiero di Ernst
Bloch, ossia l'intima motivazione della ricerca blochiana nell'accogliere la religione im Erbe? A
parte la complessità della vicenda e dei nodi da sciogliere, Bloch si inoltra nel suo insonne lavoro
con un «metodo analitico e investigativo» teso a un'intricata operazione di derubricazione e
disvelamento dei testi biblici, da far invidia a un Bultmann o a un Käsemann, per scorgervi le
manipolazioni «sacerdotali» e far riemergere una verità biblicamente alternativa, a cominciare
dalle vicende dell'esodo degli ebrei dall'Egitto e dalle figure dei profeti.
Se la critica della religione è il presupposto d'ogni critica, in quanto non si può dare un'autentica
immagine dell'umanità che non emerga dalla critica delle religioni storicamente effettive, allora per
Bloch la critica della religione è un momento indispensabile e una condizione necessaria per la
critica dell'economia politica, e quindi per la stessa costituzione della teoria e della praxis
rivoluzionarie. Se vi è ancora una presenza diffusa e massiva della divinità, ciò pare legato al fatto
che l'uomo non è ancora se stesso e infinita è la regione del non-ancora divenuto, del non-ancora
conscio, consapevole. Giova ricordare infatti che in un primo momento Bloch intendeva titolare
Geist der Utopie con Sistema del messianismo teoretico. Esso infatti annunciava un progetto di
«sistema del messianismo teoretico» cui resterà fedele sino ad Atheismus im Christentum e a
Experimentum Mundi. È una visione esplicitamente apocalittica della storia, rivolta a una «fine di
questo mondo», che è «fine nel tempo» e compimento assoluto nell'eternità del «presente ultimo».
In Spuren Bloch condivide con Benjamin l'idea della discontinuità come cardine del tempo e della
storia; infatti secondo un'immagine della «leggenda ebraica» l'attesa messianica è attesa di una
prossimità interrompente e sorprendente.
La chiesa aveva trionfato in quanto mezzo utile a placare la vecchia plebe e come potenza mondiale
feudale, poi capitalistica ed anche apertamente fascista ha preparato eccellentemente alla «venuta
del regno di Cristo». L'intreccio con l'interesse borghese dello Stato, una nuova situazione
costantiniana, unifica in fondo nel tratto anticomunista la chiesa cattolica con quelle protestanti; e
tuttavia la loro tensione antighibellina con lo Stato fu comunque profondamente giurata, ma
riguardava solo la concorrenza per il profitto e il dominio e non voleva negare entrambi sulla base
dell'evangelo.1
Il celebre investigatore Philo Vance, che si muove col medesimo «metodo analitico e investigativo»
blochiano, in La fine dei Greene sostiene che
c'è una fondamentale differenza tra un buon quadro e una fotografia, [...] esiste un abisso
incolmabile tra le due cose [...] In che modo, ad esempio, il Mosé di Michelangelo differisce da uno
studio fotografico di un vecchio dall'aria patriarcale coi favoriti e una tavola di pietra? Dove sono le
discrepanze tra il Paesaggio con lo Château de Stein di Rubens e l'istantanea di un castello del
Reno scattata da un turista? Perché una natura morta di Cézanne rappresenta un progresso su una
fotografia di un piatto di mele? La differenza tra un buon dipinto e una fotografia è questa: il primo
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è costruito, composto, organizzato, la seconda è solo la casuale impressione di una scena, o uno
spezzone di realtà, così come esiste in natura. In breve, il primo ha una forma; la seconda è caotica.
Quando un vero artista esegue un quadro, dispone tutte le masse e le linee secondo un'idea
prestabilita della composizione; cioè piega tutto, nel quadro, a un progetto fondamentale ed
elimina ogni altro oggetto o particolare che si opponga a quel progetto, o lo sminuisca. In tal modo
raggiunge un'omogeneità di forma, per così dire. Ogni oggetto nel quadro è inserito a uno scopo
preciso e dislocato in una certa posizione perché si accordi con il sotteso disegno strutturale. Non ci
sono elementi inutili, né particolari incongrui, né oggetti isolati, nessuna combinazione arbitraria
dei singoli valori. Tutte le forme e le linee sono interdipendenti; ogni oggetto, anzi ogni colpo di
pennello, prende il suo posto esatto nell'insieme e assolve a una determinata funzione. Il quadro è
ben riuscito, è una unità. Ora, dall'altro lato, una fotografia è priva di un progetto e perfino di un
ordine compositivo in senso estetico [...] . A un fotografo è pressoché impossibile comporre
l'oggetto della sua immagine secondo un progetto prestabilito, come al pittore.2
Ora «l'immagine della realtà il banale meccanismo di una macchina fotografica può registrarla; ma
solo una intelligenza creativa altamente sviluppata, con una profonda introspezione filosofica, può
produrre un'opera d'arte». La fotografia registra la realtà così com'è, mentre la composizione
pittorica di un quadro è tesa a ricomporre le singole tessere al proprio posto secondo un preciso filo
logico: «Dietro ogni atto c'era un calcolo premeditato, una composizione sottile e attentamente
miscelata, per così dire. E tutto discende da quella forma centrale. Tutto è stato modellato da una
idea strutturale alla base».
Qui sta il punto: dove sta il filo conduttore dell'opera blochiana, il senso più autentico del suo
«quadro»? Se un quadro è un momento «costruito, composto, organizzato» della realtà, com'è
stato «combinato» il progetto del quadro blochiano? Se l'ars combinatoria è montaggio e
narrazione, per Bloch in Spuren compito dell'uomo è riconoscere e «leggere le tracce di diritto e di
traverso, per sezioni che delimitano solo il quadro». Per dirla con l'«incomparabile» detectiveesteta Philo Vance: «Tutti gli aspetti e gli eventi del caso, presi insieme, formano un'unità, un tutto
coordinato e interagente. In breve, il caso Bloch è un quadro, non una fotografia. E solo dopo che
avremo scoperto il criterio di fondo di questo quadro, sapremo chi è veramente il suo creatore».
2.
La verità religiosa, che all'inizio dell'epoca moderna non era separata dalle verità oggettivoscientifiche, avendo perciò un carattere universalmente vincolante e pubblico, si ritira ora, nel
'900, nella sfera privata e intima, ove ogni prova e ogni confutazione paiono venir meno. Se
Gregorio XVI, in un'enciclica del 1832, affermava che «è follia pensare che a ogni uomo convenga la
libertà di coscienza», la religione ora viene tollerata sul piano politico e sociale: essa tende a
divenire sempre più esperienza religiosa o convinzione religiosa. Ma Bloch, per quanto curioso e
paradossale possa apparire, pone ancora il problema della verità religiosa. Egli tenta di liberare la
«verità religiosa» dalla chiusura nell'intimo, rendendola di nuovo rilevante per l'interesse pubblico.
Risorge allora il «pathos attivo della verità» e riprende quindi la disputa sul senso dell'intiera
realtà. Ritorna «ciò che sta nella speranza, ciò che viene e riguarda il "volto disvelato" e l'umana
salvezza nella sua essenza». Ma che cosa ha a che fare il Cristianesimo con le utopie sociali? Eppure
la chiesa cristiana sin dalle sue origini ha avuto così tanto e così poco a che fare con le intenzioni
utopico-sociali.
Già dall'esodo dalla schiavitù d'Egitto la Bibbia ha un tono fondamentale in tal senso, che poi non
ha mai più perduto. Le beatitudini del Discorso sulla montagna (Mt 5, 3-12) proclamano un diritto
escatologico per i senza-diritto, per i paria della storia, per gli oppressi e per i perseguitati. Da qui
Bloch desume la convinzione che né la scienza moderna, né la socialdemocrazia, né il bolscevismo
possono mai riuscire a fare della critica della religione il quadro entro cui costruire la propria
prospettiva.
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La frase dell'inganno dei preti è divenuta più abituale e più naturale di quella che tutti i poeti
mentono, rimasta ormai appannaggio delle menti rilassate. La lotta antireligiosa, invece, ha
operato con violenza e con un preciso mandato politico, intervenendo proprio come lotta della
verità in senso assoluto contro qualcosa che non doveva esser nient'altro che tenebra. 3
Ora l'eresia messianica è innanzitutto la risposta alla storia delle eresie come la Chiesa egemone le
ha tramandate, secondo i principi dominanti del suo autoergersi e del suo autoriprodursi. Contro
ogni sorta di nostalgia, quale ricordo d'una intesa passata, ora occorre liberare la chiesa dal
machiavellismo. «Strada senza meta quella del compromesso machiavellico perché la tecnica
dell'astuzia, perfezionandosi, ha a sua volta prodotto la seduzione dell'astuzia. L'uomo nuovo è
l'astuto. Il sapere: strumento d'abilità. Lo scopo: mettere con le spalle al muro il prossimo,
avvalendosi dell'incontrovertibile. La virtuosità diventa sinonimo d'abilità incontrovertibile». In tal
senso la guerra dei contadini è l'evento paradigmatico che permette a Ernst Bloch di
contrassegnare di nuovo la storia dell'eresia. È insieme la sfida al mondo borghese e all'«astuzia»
dei principi e della chiesa luterana, che «ideologizza il fatto compiuto, associa l'ordine giuridico
stabilito alle inaccessibili irrazionalità soggettive del puro volere divino». Ma la critica è rivolta
pure al calvinismo, che «non solamente abusa del Cristianesimo, ma in fin dei conti lo distrugge
completamente giungendo fino a introdurre gli elementi di una nuova "religione", quella del
capitalismo eretto al rango di religione e divenuto la chiesa di mammona». In fondo Adam Smith è
il Lutero dell'economia politica. «Sulla spada di Floriano Geyer, il grande combattente della guerra
dei contadini fu inciso: nulla crux, nulla corona. Tale potrebbe essere il motto di un Cristianesimo
libero da alienazioni».4
«Il Nuovo nella Bibbia si identifica nella più forte eresia dello stesso figlio dell'uomo, che si pone in
posizione messianica all'interno di ciò che un tempo aveva il nome di Dio». Fino a poter sostenere
con Moltmann: «Soltanto un ateo può essere un buon cristiano, e anche solo un cristiano può
essere un buon ateo; come avrebbe potuto in altro modo il figlio dell'uomo dirsi identico a Dio?».
Religion im Erbe «non significa ereditare un cadavere, ma recare alla luce un bambino», ovvero
l'espressione «eritis sicut deus» non significa forse la dualità della natura umana? Non rappresenta
forse «l'esodo dell'uomo da Dio»? Ernst Bloch introduce un elemento nuovo, e per taluni versi
paradossale, cioè un elemento di critica alla religione presente all'interno della religione stessa. La
funzione di Paolo sta nell'accentuare l'al di là nelle parole di Gesù. Ma Paolo dà un'interpretazione
mistificante, adatta e comoda alla classe dominante. È questa la «teologia politica negativa» di
Paolo.5
Gesù stesso non apparve affatto così intimo e così volto all'al di là, come lo vuole, a partire da
Paolo, un'interpretazione mistificante sempre comoda alla classe dominante. [...] Gesù Cristo non
ha mai detto «il regno di Dio è interiore in voi»; la frase ricca di conseguenze (Lc 17, 21) suona
piuttosto testualmente «il regno di Dio è in mezzo a voi»; essa era detta ai farisei, non ai discepoli.
Essa significa: il regno vive già fra voi farisei come comunità eletta in questi discepoli; il significato
è quindi sociale e non interiormente invisibile. Gesù non ha mai detto «il mio regno non è di questo
mondo»; questo passo è interpolato da Giovanni (Gv 18, 36) ed esso doveva servire ai cristiani
dinanzi a un tribunale romano. Gesù stesso non ha tentato di darsi un alibi davanti a Pilato con un
vile pathos dell'al di là. [...] «Questo mondo» è sinonimo di quello ora sussistente, dell'eone
presente, al contrario «quel mondo» dell'eone futuro (così Mt 12, 32; 24, 3). [...] «Quel mondo» è la
terra utopica, con il cielo utopico sovra di essa; in coincidenza con Isaia 65, 17: «Ecco, io creo nuovi
cieli e nuova terra; e le cose di prima non saranno più rammemorate e non verranno più alla
mente». Ciò a cui si aspira non è un al di là dopo la morte, dove gli angeli cantano, ma il regno
dell'amore terrestre e sovraterrestre di cui la comunità primitiva doveva costituire già un'enclave.
Solo dopo la catastrofe della croce il regno di quel mondo venne interpretato come al di là,
soprattutto dopo che i Pilato, anzi i Nerone stessi erano diventati cristiani; infatti per la classe
dominante tutto consisteva nell'allentare nel modo più spirituale possibile il regno dell'amore.6
Per l'apocalittico Gesù la predicazione escatologica (Mc 13) ha il primato su quella morale,
altrimenti è vano chiedersi il senso del Discorso sulla montagna. «Il regno di Dio è in mezzo a voi»
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(Lc 17, 21) significa che l'eone presente è giunto al termine, travolto catastroficamente dalle
fondamenta. Allora, solo allora, «noi dobbiamo diventare come Dio», per poter tentare di rifare
tutto dalle fondamenta. Non è un caso quindi che all'ideologia, sia nelle vesti del bolscevismo sia in
quelle della socialdemocrazia, sfugga il ruolo rivoluzionario della religione. Perché il bolscevismo
ne considera solo l'aspetto alienante, mentre la socialdemocrazia riduce la religione ad affare
privato (Religion als Privatsache), come è tipico di un'eresia interna al protestantesimo dominante
quale sembra esser la natura stessa della socialdemocrazia.7
Su tali questioni Bloch intende misurare i due vizi capitali della società borghese:


aver chiuso la ragione al popolo mediante la separazione dell'agire dal pensare, ossia
mediante la ferrea distinzione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale.8
aver costruito una scienza interessata soltanto all'aspetto quantitativo della realtà naturale,
e quindi priva assolutamente di sensibilità per l'aspetto qualitativo, con le conseguenze che
oggi sono sotto gli occhi di tutti.
Mentre la «sciagura» della socialdemocrazia, a detta di Benjamin, consiste nel fatto che l'idea
messianica della società senza classi è stata elevata al livello di un ideale irraggiungibile, nei Paesi
del «socialismo realizzato» la stessa ideologia serve a nascondere, a velare con l'identificazione tra
partito-guida e coscienza del proletariato, le aspirazioni autentiche delle masse, come pare avvenire
persino in Lukàcs, con la degenerazione dell'utopia stessa in mera ideologia di potere.
La vicenda di Thomas Müntzer ha significato la sfida lanciata sul piano teorico e sul piano pratico a
Lutero, Calvino, ai gesuiti e al machiavellismo. È una sfida che riprende la definizione polemica di
Anselmo d'Aosta: iustitia come rectitudo voluntatis propter se servata, cioè propter ipsam
rectitudinem. Tale definizione è contro la «Ragion di Stato» e la sua concezione del diritto, che
qualifica l'uomo come malvagio e astuto, e compendia la saggezza nella massima machiavellica
della necessità/opportunità di attaccare/offendere l'Altro prima. Se Lutero ha concretizzato il
nesso di teoria-praxis in un nesso conservatore, invece sin dall'inizio Müntzer lo ha fatto in senso
rivoluzionario. È questo il «copernicanesimo» di Thomas Müntzer; infatti la sua critica al
luteranesimo religioso ufficiale è, secondo Taubes, insieme politica e messianica. Müntzer aveva
compreso che per poter approdare alla speranza deve esserci la religione dell'esodo, che unifica in
sé il dominio interiore dell'utopia e la mistica del Regno di Dio. È qui in gioco un Cristianesimo
che, riscoprendo sino in fondo la verità dell'eresia messianica, il «senso profondo del suo ateismo»,
supera la polemica tra le chiese che data dai tempi del concilio di Trento e, facendosi erede di
bisogni e desideri del popolo, riscopre l'utopia concreta: l'apocalisse come «rivelazione» di una sua
dimensione metapolitica e metareligiosa. Thomas Müntzer rappresentava il tentativo di
ricomposizione rivoluzionaria del mondo contadino, che veniva diviso fra i futuri proletari
dell'industria e gli emarginati, dai mendicanti ai servi della gleba. Oggi dunque la prospettiva
müntzeriana, proprio nella sua tensione apocalittica, serve a denotare la frantumazione/divisione
del mondo del lavoro tra occupati, disoccupati ed emarginati, tra mondo industrializzato sempre
più ricco e mondo «in via di sviluppo» sempre più povero.
Forse si può parzialmente concludere che Bloch tiene al significato profetico e utopico della
religione nel suo momento eretico-popolare esplicito e anche implicito, quasi a sottolineare di aver
eretto l'eresia a «sistema aperto» proprio in quanto «eretico». Peraltro «non è più la nonconformità alla chiesa "effettiva", alla sua tradizione storica e dottrinale, ma il modo di rapportarsi
di fronte al novum, al futuro utopico, che definisce l'eresia».9 Se per Martin Buber la rivoluzione di
tipo messianico sarebbe stata recata a compimento solo se la creatività dello spirito ebraico avesse
raggiunto la sua massima espressione, non si dimentichi che per Taubes l'Apocalittica nega il
mondo nel suo complesso, ma non così il messianismo, che trova la sua scaturigine nel rapporto
passato-futuro.10
Ora «la Bibbia non ha esposto alcuna utopia sociale e non si esaurisce certo in essa o non ha in essa
il suo valore decisivo; credere questo sarebbe sopravvalutare insieme falsamente e piattamente la
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Bibbia. Il cristianesimo non è solo un grido contro il bisogno, è un grido contro la morte e il vuoto
[...] Ma se la Bibbia non espone nessuna utopia sociale, indica tuttavia nel modo più appassionato,
tanto nelle sue negazioni quanto nelle sue affermazioni, questo esodo e questo regno». Anzi
«l'espansione totale della speranza dell'umanesimo venne al mondo solo nella Bibbia».11 «Bloch
dice chiaramente ciò che nella religione interessa il marxista: il reale divenire dell'umano, e di
questo problema il cristiano non può non farsi carico. Un rifiuto del marxismo non abolisce il
problema che esso pone, mentre l'accettazione del problema posto dal marxismo non permette
neppure di pensare a risolverlo indipendentemente dal marxismo».12 Vi è in Bloch una saldatura
tra illuminismo e messianismo, che è l'autentico cuore della critica della religione blochiana. Ma
qual è il tipo di nesso stabilito tra i due? A un «primo atto di illuminismo» contro il ruolo
«oppiaceo» della religione operato da Marx e Engels, ma che aveva rischiato di travolgere e
compromettere ciò che di vivo e valido vi è nell'esperienza religiosa, doveva seguire un «secondo
atto di illuminismo», che rischiarasse stavolta nella religione anche «le regioni più vicine al regno
della libertà».13 Infatti, scrive Bloch in Geist der Utopie «è necessario qualcosa di più di un
illuminismo parziale, che allontana da sé gli antichi sogni eretici della vita migliore, invece di
vagliarli ed ereditarli». Se è vero con Hölderlin che «chi ha pensato il più profondo, ama il più
vivo», «nel corso della Riforma i principi protestanti confiscarono i beni ecclesiastici e dal 1803 gli
Stati moderni secolarizzarono il resto. Il pensiero filosofico, dal tempo dell'idealismo tedesco,
riporta sulla terra i problemi religiosi e secolarizza gli aspetti trascendenti».14 Quindi «la vita è
com'è. Questo tipo di illuminismo, di demitizzazione e di secolarizzazione sul sepolcro della
religione, ci è ben noto». Invece Religion im Erbe significa ora «riscattare un diritto e adempiere
una speranza». Dal Gesù dei Vangeli al Gesù Cristo dell'Apocalisse (apokálypsis -- «ecco, io faccio
tutte le cose nuove» (21, 5) non avviene un compimento meccanico, ma attraverso una duplice
decostruzione teologico-storica e biblica, uno scoprimento-rivelazione o disvelamento del volto
nascosto di Dio e dell'uomo al fine di scoprirvi il nocciolo autentico messianico. Per Bloch quindi
non v'è conflitto tra apocalisse e messianismo; essi paiono quasi incastrarsi e delucidarsi l'una con
l'altro.
Dalla mediazione reale tra speranza e possibilità emerge l'intreccio, nel segno di una
trasformazione totale, tra le categorie di futuro e novum, come spazio assoluto e materia di
salvezza: una «nuova Gerusalemme». Müntzer incarna una teoria che nega radicalmente quella
luterana, perché legge la Bibbia con gli occhi eretici della coscienza popolare rivoluzionaria, senza
per questo trasformare il proletariato e i contadini poveri nel Messia, ma insegnando come tutti
«noi dobbiano diventare come Dio»: Eritis sicut Deus.
Bloch intende far emergere il «filo rosso» ereticale della contraddizione insolubile tra servo e
padrone entro la falsa coscienza delle istituzioni politiche e ecclesiastiche nonché entro la «falsa
coscienza» della stessa società civile. Tutto ciò ancor prima di passare alla critica dell'economia
politica e alla critica dell'ideologia, poiché Dio è l'ideale utopicamente ipostatizzato dell'uomo
sconosciuto, l'homo absconditus, che sta oltre la dialettica servo-padrone, oltre la critica della
religione e oltre la critica dell'economa politica, affondando le radici nell'eredità mistico-eretica.
Sinora la teologia evangelica l'ha affidato soltanto all'elezione della grazia divina, entro il rapporto
uomo-natura, entro la dialettica soggetto-oggetto, dalle diatribe quotidiane su fino all'identità
apocalittica del novum e dell'extremum (ultimum): il «non-ancora» del presente con la «tendenzalatenza del processo universale». Infatti «questo "non ancora" manifesta insieme la tendenza
(l'elemento soggettivo, l'eidos) e la latenza (l'elemento oggettivo, la sostanza)» di una possibile
forma di oggettivazione. Il novum, ossia il «non-ancora» del presente, si manifesta nella
«tendenza-latenza del reale o del processo universale, ovvero la latenza del contenuto utopico
finale che non è ancora manifesto, ma opera nella sua verità entro il presente».15
Ma quale è il carattere di tendenza del mondo? In effetti la critica dell'ideologia religiosa deve
essere accompagnata da una critica dell'ideologia del «socialismo realizzato», per poter ereditare
da entrambe, in quanto critiche della datità del presente, quanto è ancora allo stato latente e
pertanto non-ancora compiuto: la prospettiva utopica del Wohin (verso dove) e del Wozu (a-chescopo). Come nel don Giovanni di Mozart, in cui convivono il vecchio che non vuol saperne di
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morire e il nuovo che stenta a nascere, si dà una sorta di cammino storico dell'umanità nel processo
del «mondo incompiuto». L'uomo si caratterizza per il fatto di essere «qualcosa di tipicamente
incompiuto», «una forma inautentica che per il momento è da considerare provvisoria», che «usa
artifici, ma va pur sempre avanti, verso il fronte», una sorta di zona di confine tra presenza e
assenza, tra futuro e novum, tra utopia concreta e speranza, in cui si esprime il non-ancoracosciente e il non-ancora-divenuto della realtà. Misurando l'ideologia, Ernst Bloch attacca un
marxismo assolutamente privo di utopia concreta, ossia quello del cosiddetto «socialismo
realizzato». «Non è forse vero che il marxismo si è trasformato e ha potuto trasformarsi nello
stalinismo fino a diventare irriconoscibile? E non si è anche trasformato a tratti fino a rendersi
conoscibile?».16 «Il socialismo che giunge soltanto se tutti gli ospiti si sono seduti a tavola e si
possono sedere, si troverà sempre dinanzi, in un paradosso particolarmente difficile, alla
tradizionale inversione di questo paradosso: è più facile nutrire l'uomo che redimerlo».17
In Geist der Utopie Bloch ha scritto che il marxismo si presenta come «una critica della ragion
pura, per la quale non è ancora stata scritta una critica della ragion pratica».18 Ogni esclusione
della critica della religione comporta l'esclusione della critica dell'economia politica, che resta «il
teatro della vita inferiore», come della critica dell'ideologia, che si limita a spazzar via i vecchi miti
del «socialismo troppo arcadico ed astrattamente utopico». La cifra dell'utopico è necessaria a una
critica della religione. Infatti «non si deve mai dimenticare che se non ci si fosse mai volti prima a
un esame della religione e alla sua critica conseguente la dottrina dell'alienazione e la critica della
merce di Marx sarebbero difficilmente apparse». Va però respinta l'ideologia di un socialismo
utopico «come forma secolarizzata del regno millenario, e spesso ridotto a un inessenziale
drappeggio, a un'ideologia caratteristica di particolari fini di classe e rivoluzioni economiche molto
fredde», come è accaduto nei Paesi dell'Est, del blocco sovietico, ove il marxismo è stato ridotto a
mera ideologia e terrorismo di Stato e «l'economia è stata eliminata, eppure mancano l'anima e la
fede, a cui si doveva far posto».19
È dunque senza alcun dubbio proprio della corrente fredda del pensiero marxista il penetrare la
storia precedente e le sue ideologie con sguardo investigatore; ma l'«a-che-scopo» cercato, ovvero
lo scopo lontano in cui è insita l'umanità di questo penetrare, è sicuramente proprio della corrente
calda del marxismo originario, e dunque del testo fondamentale del «regno della libertà» che si
manifesta primariamente nella forma Cristo. [...] Ma esiste pur sempre una corrente calda, e le
conseguenze della sua omissione si possono notare nel troppo grande progresso dalla utopia alla
scienza. Anche la corrente calda ha bisogno della sua scienza: e non come assenza di utopia, ma
come utopia finalmente concreta.20
Ora, dato che «allegorie e simboli di carattere religioso» non scompaiono affatto, Bloch spiega che
la religione non è un mero momento dell'irrazionale, ma è saldo mito teocratico, è negazione della
ragione, ma insieme un suo emergere fantastico, essa è espressione utopico-fantastica dell'essenza
umana nella fantasia popolare. «Il mio pensiero ha profonde radici nel Cristianesimo, il quale non
può venir liquidato né come mitologia, né come poesia popolare». Ernst Bloch pare presentarsi
proprio come il filosofo del «salto nell'immaginario», nel senso che egli ha cercato di teorizzare
quello che, seppur confusamente, si esprime nel nostro sognare a occhi aperti, cioè chiarificare
«l'oscurità dell'istante-vissuto» nel «divenire altro nella possibilità». È l'immaginario che diviene,
in quanto potenza tendenziale della storia, coscienza utopico-rivoluzionaria. Da qui viene sulla
scena la presunta unità tra essere e coscienza che, annunciata dal marxismo, è stata rinviata sine
die.21Nell'aura tragica della fine d'ogni ottimismo illuministico dopo la tragedia della prima guerra
mondiale «l'utopista getta la sua ancora sul fondo della notte più profonda e terribile che si sia mai
vissuta».22 Infatti, nota Bloch, è un tempo «in cui il disperato tramonto di Dio è già
sufficientemente presente nelle cose».
3.
Dopo aver decretato la fine di un «dio despota» mitologico, un dio che aveva utilizzato la presenza
in eterno del male nel mondo per poter continuare a essere dio, mentre invece il Dio dei cristiani ha
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annunciato che intendeva vincere il male col bene, per poter alfine «restaurare» un mondo di
giustizia dopo la liberazione dal male, ecco quali sono le domande che aprono Das Prinzip
Hoffnung (1953): in fondo, chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Che cosa ci attende e che
cosa invece ci attendiamo? Ma cosa mai contrassegna un cristiano nell'agire? Come si può quindi
riconoscere un cristiano? E un marxista? In Das Prinzip Hoffnung l'autore, volendo esorcizzare il
«dio despota» d'ogni possibile teodicea, pone in campo l'alternativa radicale e capitale aut Christus
aut Caesar, dopo che per il tramite della Bibbia «è entrata nel mondo la coscienza escatologica».
Per Bloch l'ebreo, l'esule in senso proprio, ha ora una possibilità: entrare alfine, attraverso il
Cristianesimo, nella totalità del mondo religioso e politico-sociale che per primo ha intravisto. In
effetti secondo Moltmann «l'ebraismo va considerato la prima e originaria religione
escatologica».23 «'Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio' venne detto
da Gesù per disprezzo contro lo Stato e con lo sguardo volto al suo prossimo tramonto e non come
l'intese Paolo nel senso del compromesso».24 Infatti
si aspirava a qualcosa di totalmente altro, di totalmente nuovo e infine, nella competizione delle
salvezze, vinse il cristianesimo paolino utilizzando politicamente questa realtà nuova. Gesù aveva
richiesto il salto, ma non un salto fuori dall'al di qua verso l'intimo e l'al di là, ma con giovane forza
verso una nuova terra. Il desiderio cristianamente utopico della comunità si costituì intorno al
nocciolo Gesù spostandolo sempre più nell'al di là in un raccoglimento e una consolazione
intimamente trascendenti. Al posto dell'al di qua che bisognava rinnovare radicalmente appariva
un'istituzione dell'al di là: la chiesa che legò a se stessa l'utopia sociale cristiana.25
«La filosofia di Bloch è un fermento utile per dissolvere compromessi equivoci. Essa riporta la
religione e la rivoluzione alla loro origine comune e le indirizza verso una possibile meta parallela
per il futuro.26
Ora però per Bloch all'inizio della Bibbia non sta la mera creazione, ma forse proprio l'Eritis sicut
Deus. Alla fine non sta il Dio divenuto uomo, che muore per il riscatto dell'umanità, ma l'uomo
divenuto Dio, capace di autoriscattarsi. Dunque la filosofia della religione di Bloch -- come hanno
sottolineato Moltmann e Mancini -- non può intendersi, nello stesso tempo, come religiosa e
irreligiosa, atea e mistica insieme? Nasce forse un tertium genus al di là di atei e religiosi (ebrei e
cristiani)? Un terzo tipo di Messia, quello del Tertium Testamentum? «Oltre a ebreo e cristiano: il
messianismo e il Tertium Testamentum», come ha scritto nella seconda edizione (1923) di Geist
der Utopie? È forse qui in gioco un éschaton assoluto, secondo l'assunto «dov'è speranza, là vi è
religione»?
Quanto più giustamente in verità se ne sono andate le ideologie, le illusioni, le mitizzazioni, le
teocrazie del cristianesimo ecclesiastico, con la loro altissima essenza fissata nella trascendenza
stanziata nell'al di là del malessere. Non ciò prende sul serio l'autentico marxismo, ma il
cristianesimo autentico, e non si instaura un semplice dialogo tra punti di vista senza nerbo e pieni
di compromessi; ma se il cristiano ancora pensa all'emancipazione degli oppressi e degli affaticati,
se per il marxista la profondità del regno della libertà permane e realmente si identifica nel
contenuto sostanzializzante della coscienza rivoluzionaria, allora l'alleanza fra rivoluzione e
cristianesimo nelle guerre dei contadini non sarà stata l'ultima.27
Il messianismo è più antico di qualsiasi esplicita «fede nel Messia». Il messianismo è «l'impulso
all'esodo di Mosè» che costituisce «l'utopia nella religione, la religione nell'utopia». Ora in Das
Prinzip Hoffnung il messianismo viene messo in luce anzitutto come essenza escatologica e
«trasgressiva» della religione. «Se vale il principio, dove c'è speranza c'è religione, allora il
Cristianesimo, col suo potente punto di partenza e con la sua storia ricca di eresie, sembra lasciar
qui emergere finalmente una essenza della religione. Non cioè mito statico, e quindi apologetico,
bensì messianismo umanistico-escatologico, e quindi esplosivo». Dopo che l'ebraismo rabbinico ha
esplicitato in modo peculiare l'idea messianica e la gnosi ha dato vita a una sorta di «antisemitismo
metafisico», «il messianismo è nella religione l'utopia, che permette al Totalmente altro del
contenuto religioso di mediarsi in una forma in cui non contenga più alcun rischio di consacrazione
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di signori e di teocrazia». Messianismo significa allora impulso all'esodo fuor d'ogni condizione di
asservimento, e insieme un protendersi verso il regno della libertà assoluta. La peculiarità del
messianismo di Bloch consiste nell'aver ricavato dall'a priori messianico la necessità di elaborare
una concezione teoretica coerente con questo, quindi una filosofia utopico-escatologica segnata dal
binomio redenzione-liberazione e incentrata sul tema dell'attimo inadempiuto e sulle categorie del
non-essere-ancora. È certo la critica di quel presente nel quale Simmel auspicava la fusione in «un
terzo polo» di ebrei e tedeschi, ma è altresì l'accettazione di quel «tempo riempito dell'adesso
(Jetztzeit)» di cui tratta Benjamin. Forse Bloch condivide con Benjamin un trasparente destino
messianico della storia, inscritto nella tradizione giudaico-cristiana e nella sua escatologia
apocalittica.
Sembra allora che al «dio despota», quel Dio della Genesi che il settimo giorno, contemplando la
sua opera, esclama compiaciuto «ecco, è cosa molto buona», competa una sorta di «verità come
epifania» (o di «anamnesi della verità»). Egli sembra a Bloch quel Dio «totalmente altro» della
teologia dialettica di Bultmann, Barth, Gogarten, che si compiace dello status quo, mentre al «Dio
dell'Esodo» da lui evocato, che proclama «ecco, io faccio ogni cosa nuova», compete la «verità
come apocalisse». Egli è quel dio «totalmente prossimo» che ha rivelato in Gesù Cristo il volto
nascosto dell'uomo. È forse questo una sorta di tentativo blochiano di «appropriazione utopica»
del Deus absconditus barthiano?
In ogni caso qui il Messianismo viene a coincidere con il «principio-speranza» e con l'«utopia
concreta». Si tratta di nuove forme categoriali che finalmente riescono a «significare»
l'oltrepassamento di tutto quel che sinora ha caratterizzato il pensare, l'agire e l'esistere umano. «Il
messianico è il rosso mistero di ogni illuminismo che si mantenga rivoluzionario e carico della
propria pienezza», ossia realizza alfine «un'idea-limite messianica». Bloch sembra avere in mente,
proseguendo radicalmente la direzione messianica impressa dall'ebraismo e dal Cristianesimo, di
andar oltre queste due religioni verso un Tertium Testamentum, un «regno di Dio senza Dio» ove,
come in Das Prinzip Hoffnung, «l'intenzione religiosa del regno implica l'ateismo, finalmente
compreso». È la speranza della realizzazione dell'utopia di un regno di Dio ove l'umano viva il suo
«esser presso di sé» come propria «naturalizzazione» in un mondo non più alienato, bensì
«umanizzato». Si tratta di «naturalizzazione dell'uomo e umanizzazione della natura», proprio
come la sintesi operata dalla musica, l'arte utopica per eccellenza, che per Bloch ha il compito di
manifestare l'incondizionato, poiché essa è per eccellenza il luogo della ricerca e dello stupore,
«singolarmente aperto e incompiuto», pur essendo il suo linguaggio «costruito geometricamente
ed elaborato tecnicamente». «Marxismo e sogno dell'incondizionato si uniscano nello stesso corso,
nello stesso piano di battaglia. L'humanum non più alienato e il presagibile ancora intronato del
suo possibile mondo, vivono entrambi (e non li si può comprare) nell'esperimento futuro, nell'
experimentum mundi».28
Il «principio-speranza» diviene allora il principio ermeneutico-trascendentale che dà vita all'
experimentum mundi, e il mondo diviene a sua volta un immenso laboratorio (laboratorium
possibilis salutis), ove il senso della storia sta in una sedimentazione di tracce (spuren) che
guidano il cammino del viandante verso il novum. L'immagine mitico-religiosa dell'esodo è
trasformata da Bloch nel principio centrale del suo sistema aperto: la speranza. L'utopico
s'intreccia sempre con la speranza produttiva della storia umana. Ma speranza non vuol dire
certezza; infatti se non fosse possibile deluderla, non sarebbe speranza.29 L'utopia concreta è
quindi rivolta radicale contro tutto ciò che lacera e spezza questa tensione all'utopico, e in
particolare, «rammemorando» (eingedenken) con Benjamin la celebre espressione di Hegel: «Ma
la filosofia deve ben guardarsi dal produrre edificazione», contro quell'«astrazione da sé» che par
ipotizzare un al di là dopo la morte «dove gli angeli cantano», mentre invece ciò a cui si dovrebbe
aspirare è «il regno dell'amore terrestre e sovraterrestre, di cui la comunità primitiva doveva già
costituire un'enclave in questo mondo». «Gesù si scioglieva nella comunità nella stessa misura in
cui l'abbracciava. "Quello che voi avete fatto al più piccolo dei miei fratelli l'avete fatto a me" (Mt
25, 40): questa frase fonda l'utopia sociale intesa nel cristianesimo primitivo nel suo comunismo
dell'amore e nell'internazionale di ciò che porta il volto povero dell'uomo».30
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Scoprire il mondo quale storia aperta al futuro, al non-ancora-cosciente (antropologia) e al nonessere-ancora (ontologia): è questo un éschaton presentito come nuovo «settimo giorno della
creazione», ove simultaneamente saranno svelati il «volto nascosto di Dio» e il «volto nascosto
dell'uomo». In tale visione escatologica dell'avvenire dell'umanità Arno Münster vede intrecciarsi
«le motif de l'attente du messianisme juif avec le motif de la rédemption finale de la christologie et
l'espérance sécularisée du marxisme de l'avènement du Royaume de l'égalité, de la justice et de la
fin de l'aliénation».31
Secondo Bloch la Bibbia è attraversata da due principi contrari, quello della creazione e quello
dell'apocalisse. Il testo biblico difatti è segno di contraddizione: «Un tipico dualismo in cui il
"concetto di cosa creata" è totalmente diverso dal "concetto di cosa salvata". Un dualismo che nella
Bibbia dai tempi del serpente del paradiso è latente e represso: "non ci sono vermi nella mela; è
davvero la mela dell'unica conoscenza". Di pari passo avanza anche il sogno messianico che non è il
sogno inviatoci da qualcuno, dal Dio della creazione e dei signori, ma che aleggia dinanzi a noi sin
dai tempi dell'Esodo, della fuga dal potente Egitto, dall'opera mal riuscita di un mondo ormai
compiuto». Da una parte quindi per la verità professata dalla scienza il mondo diviene privo di Dio,
dall'altra per la verità proclamata dalla religione Dio diviene privo del mondo. Bloch ha elaborato
una serie di categorie attraverso cui l'uomo può far emergere, al di là dell'aspetto quantitativo della
natura, il suo aspetto qualitativo corrispondente all'immaginazione produttiva della funzione
utopica, non degradata a un'impressione dell'oggetto scaturita dalla sensibilità del soggetto. La sua
dialettica della natura, al contrario di quella di Engels, privilegia il quantum qualitativo. Questo
non è altro che la possibilità di uno scopo determinato della natura emergente da una mediazione
col livello quantitativo, grazie alla creazione di forme nel mondo materiale che salvano ciò che al
sorgere della modernità è stato bandito come proprietà secondaria, quasi come un'impressione
aggiunta all'oggetto «quantitativo» dalla sensibilità del soggetto.
Se «la Bibbia non ha esposto nessuna utopia sociale», tuttavia essa «indica nel modo più
appassionato, tanto nelle sue negazioni quanto nelle sue affermazioni, questo esodo e questo
regno», ossia le fondamentali categorie del futuro e del novum. Ernst Bloch ne è stato l'interprete
più «completo» e interessante. Alla tradizionale critica della religione ha fatto seguire un lavoro di
dis-velamento volto a dissotterrare «nel campo religioso tanto ricco di problemi, quel tesoro della
Bibbia che non è stato divorato dalla ruggine e dalla tignola». Ma a tale proposito si rende
necessario tornare alla chiave del giallo per tentare alfine di risolverlo: cosa ha voluto veramente
dire sul nesso verità-religione Ernst Bloch? Uno che ha letto la Bibbia sub specie della storia degli
eretici, e che, commentando gli esiti del comunismo in URSS, ha detto: «grazie per averci provato».
L'usuale casistica definitoria lo risolve in un filosofo della praxis e/o teorico dell'utopia, ove sola
pare esprimersi «l'irrisolta ambiguità» del suo pensiero. È forse un «filosofo eretico e sincretico»
(Arno Münster)? Un «filosofo/teologo della speranza» (Jürgen Moltmann), scaturito dalla
«mediazione reale tra speranza e possibilità inesauste dell'uomo»? Eppure la speranza può ben
andar delusa, anche in modo atroce. E allora non è piuttosto uno capace di elaborare una filosofia
mistico-pratica? Allora ha ragione Italo Mancini a sottolineare che paradossalmente Bloch afferma
l'esigenza di un'utopia di natura religiosa nel marxismo e insieme l'esigenza di un materialismo
ateo nella religione.32 O la sua originalità consiste proprio nel paradossale tentativo di formulare
un'«ontologia utopica»? In maniera più completa e più profonda rispetto agli altri marxisti, questo
«ebreo apocalittico-cattolicizzante» riscopre vaste riserve di speranza utopica non solo
nell'autenticità del marxismo, ma anche nell'eterno sottosuolo eretico della Bibbia e della storia del
Cristianesimo. E allora come non rammentare la celebre frase di Rudy Dutschke: «Se Heidegger è
espressione della controrivoluzione in cui l'angoscia è di casa, Bloch è rappresentante della filosofia
rivoluzionaria in cui la speranza è diventata una categoria irrevocabile»? Ha forse ben ragione Karl
Löwith che «la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento
futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico»? Eppure Bloch ha forse
tentato di andar ben oltre una eretica «filosofia della storia». Infatti, combinando originalmente
passato, presente e futuro, ha rimescolato -- hegelianamente -- le tappe di una sorta di sicura
marcia evolutiva verso le «magnifiche sorti e progressive» del cosmo, e ha tentato un'inusitata
identificazione di temi e figure scaturite dall'intersecarsi variegato della praxis: un originale e mai
prima tentato Experimentum Mundi.
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E allora Bloch è ancora definibile come un marxista, e di quale tipo, o non è piuttosto uno che ha
inserito il marxismo nel suo «sistema del messianismo teoretico»? Ora la prospettiva messianicoradicale non reca forse «al di là di Dio stesso», verso una divinità che alla fine coincide
misticamente con il tutto della comunità escatologica? Come dimenticare che, quando Bloch morì
nel 1977, Walter Jens nell'orazione funebre a Tubinga lo ebbe a definire «un polistorico della
filosofia che aveva fatto una sintesi unica di mistica ebraica, messianismo ebraico e materialismo
dialettico»?
Il giallo s'inasprisce ancor più, si complica in maniera inestricabile. Da tempo ci vado pensando in
maniera inesausta; ma confesso: non sono Philo Vance, non sono stato sinora capace di ritrovare,
come lui ne La fine dei Greene, il «creatore» del quadro. Ma talora ripenso come in un sogno,
cercando quel filo rosso del pensare blochiano che ancora mi sfugge. Ripenso a due sue frasi per
me decisive e ancora in parte inesplicabili: in Geist der Utopie il marxismo si pone «come una
critica della ragion pura, per la quale non è ancora stata scritta una critica della ragion pratica»,
quasi a voler dare ragione a che «la fede rossa fu sempre di più che una cosa privata, vi è un diritto
fondamentale alla comunità, all'umanesimo, anche in politica e nel suo scopo. Per questo fine si
muoveva il diritto che esige la eunomia del camminare eretti in comunione; la dignità dell'umanità
non è affidata solo all'arte»?33
Note
1.
E. Bloch, Religion im Erbe, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1959 (tr. it. a cura di F. Coppellotti, Brescia, Queriniana,
1979, p. 227). Cfr. l'ultimo libro che Bloch aveva «licenziato» pochi giorni prima di morire: Tendenz-LatenzUtopie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1978.
2.
S.S. van Dine, La fine dei Greene, Roma, Newton & Compton, 1995, p. 204s.
3.
Cfr. E. Bloch, Religion im Erbe, cit., p. 185, 227s.
4.
E. Bloch, Atheismus im Christentum, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1968 (tr. it., Milano, Feltrinelli, 1971, p. 331).
Cfr. pure J. Moltmann, Prefazione a Religion im Erbe cit.; ma anche sull'«autonomia» della politica dall'eticoutopico cfr. M. Tronti, Sull'autonomia del Politico, Milano, Feltrinelli, 1977.
5.
«Bloch scopre falde eretiche non solo all'esterno della chiesa, cioè in correnti di pensiero o in movimenti
protestatari espressamente condannati dalla chiesa, ma anche all'interno di essa, come per esempio in Paolo,
Agostino, nei grandi mistici medievali, nel monachesimo, nel francescanesimo e gioachimismo» (T. La Rocca,
Introduzione a Bloch, in Scritti marxisti sulla religione, antologia a cura di T. La Rocca-F. S. Festa, Brescia,
Queriniana, 1988, p. 362).
6.
E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1959, p. 580s. Cfr. pure J. Moltmann, Im Gespräch
mit Ernst Bloch, München, Chr. Kaiser V., 1976 (tr. it., Brescia, Queriniana, 1979, pp. 73-90).
7.
La socialdemocrazia tedesca ne faceva una faccenda privata entro lo Stato e dentro il partito, restando nei limiti
del soggetto borghese e della differenza tipica dell'ordine borghese tra società ideale e società reale, mentre
invece per Lenin e i bolscevichi la religione è un affare privato per lo Stato, ma non lo è affatto per il partito, che
come tale predica l'ateismo, mentre lo Stato socialista deve garantire il pluralismo religioso (Cfr. le parti che
riguardano Kautsky, Antonio Labriola e Lenin in Marxismo e religione, cit.). Ben più complessa appare la
posizione della socialdemocrazia austriaca di Viktor Adler, Otto Bauer e Karl Renner, come si evince dalla
duplice recente edizione degli scritti inediti di Otto Bauer, Religion als Privatsache, apparsi nel 2001, sempre a
cura di T. La Rocca, sia per l'editore austriaco Geyer sia per Cadmo di Fiesole. Un discorso a parte merita la
straordinaria posizione di Max Adler, la mente filosofica dell'austromarxismo, per il quale rinvio anche qui
all'edizione degli inediti di filosofia della religione apparsi, sempre a cura di T. La Rocca, addirittura prima
presso Cadmo di Fiesole nel 1992 col titolo Filosofia della religione, poi in Austria solo nel 1997 presso Geyer col
titolo Religion Privatsache, sia infine al recente volume di T. La Rocca, M. Adler e O. Bauer. Il fenomeno della
religione nell'austromarxismo, Lecce, Milella, 2001.
8.
Cfr. su tale nodo l'ormai classico A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale, a cura di F. Coppellotti,
Milano, Feltrinelli, 1977.
9.
T. La Rocca, Introduzione a Bloch, cit., p. 362. Ma su tale tema è decisiva la lettura di E. Bloch, Thomas
Müntzer als Theologe der Revolution, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1969 (tr. it., Milano, Feltrinelli, 1980). Cfr.
infine l'ottimo volume di T. La Rocca, Es ist Zeit. Apocalisse e storia. Studio su Th. Müntzer (1490-1525),
Bologna, Cappelli, 1988.
10. Cfr. M. Buber, Profezia e politica, Roma, Città Nuova, 1996; M. Buber, La fede dei profeti, Genova, Marietti,
2000; J. Taubes, Martin Buber e la filosofia della storia, in Messianismo e cultura, a cura di E. Stimilli, Milano,
Garzanti, 2001, pp. 123-143. Cfr. pure J. Taubes, Il prezzo del messianesimo, Macerata, Quodlibet, 2000.
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11. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., p. 582s. Bloch è influenzato dalle correnti mistico-esoteriche tardomedievali (Meister Eckhart, Jacob Böhme, la Qabbalàh), dai movimenti ebraico-apocalittici, da elementi ripresi
dal Sefer Bahir (sec. XII) e dallo Zohar, come dal messianismo giudaico durante e dopo la prigionia babilonese,
dalla mistica russa, come da Tolstoj e da Dostoevskij, persino dall'induismo e dal buddismo (cfr. E. Bloch,
Religion im Erbe, cit., pp. 138-140). Interessante il riferimento a Ivan e Aljòsa Karamazov (p. 124s). Tra l'altro
Bloch scrive che la dottrina gioachimita del Terzo Regno del sec. XIII (cfr. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit.,
pp. 591-598) compare pure in Dostoevskij, tra l'altro tradotto in tedesco da quel Moeller van den Bruck, autore
del noto Das dritte Reich).
12. G. Pirola, Religione e utopia concreta in E. Bloch, Bari, Dedalo, 1977, p. 97.
13. Cfr. T. La Rocca, op. cit., p. 361.
14. J. Moltmann, Prefazione a Religion im Erbe, cit., p. 53.
15. E. Bloch, Naturrecht und menschliche Würde, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1961, pp. 310-314, ora in E. Bloch,
Religion im Erbe, cit., pp. 223-229. Ora «nulla può sedurre come l'inizio di qualcosa perché è la promessa
assoluta e la consolazione contro il vecchio che non deve restare» (p. 134).
16. E. Bloch, Marx e la rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 12. Per Mannheim (Ideologia e utopia, Bologna, Il
Mulino, 1999) sta nella concezione messianico-trasformativa della storia di Gustav Landauer la chiave per
capire atei-religiosi come Bloch e Benjamin, ma aggiungerei pure nel socialismo etico neo-kantiano di H. Cohen
e nella sintesi di socialismo rivoluzionario, messianismo e spirito dei profeti che anima la Roma e Gerusalemme
di Moses Hess.
17. E. Bloch, Atheismus im Christentum, cit., p. 329. Per Bloch «nel Nuovo Testamento non ricorre alcun autore
che non sia ebreo; sono ebrei tutti, compreso San Giovanni, autore dell'Apocalisse». Qui Bloch cerca di
parafrasare una celebre frase di Yisrael Baal Shem, fondatore del chassidismo moderno: il Messia può giungere
soltanto quando tutti gli ospiti si sono seduti a tavola, quasi in una sorta di «mistica politica», quale
alleggerimento dello spirito, dato che la simbologia religiosa «non si esaurisce con la sparizione dell'ideologia».
Cfr. infine G. Bouchard, Marx, Bloch e l'utopie, in «Philosophiques», n. 10, 1983.
18. E. Bloch, Geist der Utopie, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1964, p. 303. «Significa che la critica della ragion pura è
una resa dei conti ed una determinazione del limite della pura ragione teoretica, del determinismo newtoniano.
In Kant in quanto critica della legalità fisica, in Marx in quanto critica della legalità economica» (Gespräche mit
Ernst Bloch. Über ungelöste Aufgaben der sozialistischen Theorie, a cura di R. Traub e H. Wieser, Frankfurt a.
M., Suhrkamp, 1975, p. 65).
19. E. Bloch, Ibidem.
20. E. Bloch, Atheismus im Christentum, cit., p. 327.
21. «La rivoluzione non è una creatura che si riproduce, ma un creatore che crea del Nuovo chiamando nuovi
uomini alla vita [...], perché le loro creature siano figli e non servi» (E. Rosenstock-Huessey, Die europäischen
Revolutionen und der Charakter der Nationen (1961), rip. da R. Strunk in nota a E. Bloch, Religion im Erbe, cit,
p. 133n. .
22. Cfr. la recensione di Margarete Susman nel 1919 alla prima edizione del Geist der Utopie (1918), ora in Ernst
Bloch zu ehren. Beiträge zu seinem Werk, a cura di S. Unseld, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1965, p. 384.
23. Cfr. M. Idel, Qabbalah. Nuove prospettive, Firenze, Giuntina, 1996.
24. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., p. 581.
25. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit. p. 583s.
26. J. Moltmann, Prefazione, cit., p. 64.
27. E. Bloch, Atheismus im Christentum, cit., p. 331.
28. E. Bloch, Ibidem. Ma cfr. E. Bloch, Experimentum Mundi, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1975 (tr. it., Brescia,
Queriniana, 1980).
29. Cfr. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., pp. 585-598; pure E. Bloch, Spuren, Berlin, Paul Cassirer, 1930 (tr. it.,
Tracce, Milano, Garzanti, 1994). Descartes, ne Les passions de l'âme (art. 65), scrive che la speranza è una
«disposizione dell'anima a persuadersi che ciò che si desidera avverrà», mentre Bultmann sostiene che «le
attese e le speranze dell'uomo rispecchiano il concetto che egli si forma dell'avvenire [...] La elpís contiene una
rappresentazione del futuro che l'uomo stesso si forma». Cfr. infine L. Boella, Ernst Bloch. Trame della
speranza, Milano, Jaca Book, 1987; G. Cunico, Critica e ragione utopica. A confronto con Habermas e Bloch,
Genova, Marietti, 1988.
30. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung, cit., p. 581.
31. A. Münster, Figures de l'utopie dans la pensée d'Ernst Bloch, Paris, Aubier, 1985, p. 65; cfr. pure A. Münster,
Ernst Bloch, messianisme et utopie, Paris, PUF, 1989. Arno Münster, Michael Löwy, Emmanuel Lévinas hanno
scorto in Bloch, sin da Geist der Utopie, un filone di pensiero tipico di «uomini ebrei assimilati, ateo-religiosi,
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anarchico-bolscevichi» con una profonda tensione messianica. Ma cfr. anche W. Hudson, The marxist
Philosophy of Ernst Bloch, New York, 1982.
32. Cfr. I. Mancini, Teologia, ideologia, utopia, Brescia, Queriniana, 1974, pp. 541-651. Cfr. pure il numero speciale
su Bloch di «Aut Aut», nn. 173-174, 1979.
33. E. Bloch, Naturrecht und menschliche Würde, cit., p. 314. Cfr. infine M. Riedel, Tradition und Utopie, Frankfurt
a. M., Suhrkamp, 1994; R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979; G.
Cacciatore, Ragione e speranza nel marxismo. L'eredità di Ernst Bloch, Bari, Dedalo, 1979.
Messaggio dell’Esodo ed eredità della religione nel pensiero di Ernst Bloch.
di Franco Toscani
1. La Selbstbegegnung e la storia. La musica, il divino e l’umano-utopico in Bloch.
Nel pensiero di Ernst Bloch il messaggio dell’Esodo è dall’inizio alla fine presente, più ancora che
nel suo capolavoro Das Prinzip Hoffnung (1954-1959), nell’opera Atheismus im Christentum. Zur
Religion des Exodus und des Reichs (1968), sulla quale qui concentreremo l’attenzione .1
E’ importante in via preliminare considerare che nell’utopia concreta di Bloch lo sguardo utopico
deve conservare in sé una parte dell’oscurità e dell’indeterminatezza della coscienza anticipante,
pena un serio rischio di snaturamento e di degenerazione autoritaria dell’utopia stessa.2
Nella “ontologia del non-essere-ancora” (Ontologie des Noch-Nicht-Seins) elaborata da Bloch, il
progetto utopico riguarda tanto il genuino incontro con sé stessi (Selbstbegegnung) - che si può
ottenere combattendo strenuamente la Selbstentfremdung (autoestraneazione) che minaccia
costantemente ogni individuo -, quanto l’intera società umana, la storia e il rapporto uomo-natura
nel suo complesso.
Nel suo libro Idee per una enciclopedia fenomenologica (1973) , riflettendo sul nesso per lui
decisivo nascita-rinascita, Enzo Paci sviluppa e approfondisce a suo modo - riferendosi all’episodio
di Nicodemo nel Vangelo di Giovanni (Gv 3, 1-21) - il tema blochiano della Selbstbegegnung (e del
novum), intendendolo come condizione della Wirbegegnung, dell’incontro col “noi”, con gli altri e
con la storia.3
Già Geist der Utopie (l’opera del 1918 rielaborata nel 1923 e nel 1964, in cui una parte molto
ampia è dedicata alla “Filosofia della musica”) dà voce all’enigma dell’uomo e della storia, apre lo
spazio dell’ineffabile laddove si irrigidiscono altre forme di espressione e di linguaggio, dischiude
l’orizzonte dell’ “utopia di noi stessi”, dell’unica teurgia soggettiva (einzige subjective Theurgie).
L’ascolto autentico del suono consente la penetrazione nell’oscurità e nella latenza dell’Erlebnis,
dell’attimo vissuto ed è la via d’accesso all’incontro con noi stessi: “Così finalmente comincia a
risuonare l’attimo vissuto, raccolto in se stesso, sbocciato, rimasto in sospeso per la camera più
segreta: ed ecco si volgono i tempi, ed alla musica, miracolosa e trasparente arte che supera il
1 Cfr. E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung (1954-1959), trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Il principio
speranza, “Introduzione” di R. Bodei, Garzanti, Milano 1994, vol. I, pp. 15-16 (d’ora in poi l’opera sarà
riportata con la indicazione dei tre volumi in cui è suddivisa l’edizione italiana del 1994 e con la sigla PS); E.
Bloch, Atheismus im Christentum. Zur Religion des Exodus und des Reichs (1968), trad. it. di F. Coppellotti,
Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno, Feltrinelli, Milano 1976 (vol. XIV della
Gesamtausgabe, d’ora in poi cit. con la sigla AC).
2 Abbiamo approfondito questi e altri aspetti del pensiero di Bloch nel saggio Speranza e utopia nel pensiero
di Ernst Bloch, in “Koiné” nn. 1-3, gennaio-giugno 2009, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, pp. 174-192.
3 E. Paci, Modalità e novità in Bloch (1971), in Idee per una enciclopedia fenomenologica, Bompiani, Milano
1973, pp. 581-582. Cfr. anche R. Osculati, Fare la verità. Analisi fenomenologica di un linguaggio religioso,
“Nota finale” di E. Paci, Bompiani, Milano 1974 e F. La Sala, Della terra, il brillante colore, “Prefazione” di F.
Papi, Ripostes, Salerno-Roma 1996, pp. 120-126, 135-137.
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sepolcro e la fine di questo mondo, riesce di dare la prima disposizione dell’immagine divina, di
nominare tutto diversamente il nome di Dio, quel nome insieme perduto e non mai trovato”.4
Nella quinta parte (“Identità”) di Das Prinzip Hoffnung la musica viene interpretata nella sua
essenza utopica e profetica come richiamo a ciò che manca: “Qualcosa manca, e almeno questa
mancanza il suono la esprime chiaramente. Esso ha in sé qualcosa di oscuro e di assetato, esso
vola via, non sta fermo in un posto come il colore” (PS, III, 1227. Cfr. anche l’ “Introduzione” di
Bodei, PS, I, XXXI-XXXII).
Nulla tende più della musica alla Selbstbegegnung. Il nesso tra la musica e l’ umano utopico non
può essere in Bloch più stretto.
2. Il materialismo blochiano e il Logos escatologico dell’Esodo.
Il Marx caro a Bloch è quello di Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), per
il quale: “La critica della religione finisce con la dottrina per cui l’uomo è per l’uomo l’essenza
suprema (das höchste Wesen), dunque con l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti (alle
Verhältnisse umzuwerfen) nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato,
spregevole”.5
E’ il Marx degli Oekonomisch-Philosophische Manuskripte (1844), che vuole la Naturalisierung des
Menschen e la Humanisierung der Natur , il “regno della libertà”, la “migliore delle società possibili”
e il cui motto-guida è homo homini homo (cfr. PS, II, 718).
Vi è una linea lunga di pensiero che secondo Bloch inizia da Aristotele e giunge sino a Marx e al
marxismo. In particolare, il pensatore di Ludwigshafen (autore nel 1952 di uno studio intitolato
Avicenna und die aristotelische Linke) riflette a fondo sulla concezione aristotelica della materia e
sull’interpretazione datane dalla cosiddetta “sinistra aristotelica”, che comprende, oltre ad
Aristotele, Stratone di Lampsaco, Alessandro d’Afrodisia, Avicenna, Averroè, Davide di Dinant,
Pomponazzi, Paracelso, Bruno, Campanella, Spinoza, Goethe, il primo Schelling.6
E’ qui in gioco ciò che Bloch chiama “l’arco utopia-materia” e la differenza essenziale fra il
materialismo meccanicistico e il materialismo dialettico (cfr. PS, I, 392-394). Vi è per Bloch una
“duplice determinazione” della materia in Aristotele: come “misura del possibile”, kata to dynaton e
come dynamei on, permanente “essente-nella-possibilità” (das In-Möglichkeit-Seiende). Qui la
materia, caratterizzata dal “trascendere nell’immanenza”, è tutt’altro che riducibile alla “morta
pietra” e, anzi, derivando da mater, indica la possibilità, è gravida mater, il luogo fecondo da cui
può sempre nascere qualcosa che prima non c’era.7
A questo punto si può comprendere l’importanza che assume ciò che Bloch chiama il Logos
escatologico dell’Esodo, che si pone agli antipodi di un Logos puramente mondano avente il suo
punto di forza nel pensiero di Spinoza (che pure sta dentro la linea della aristotelische Linke), nel
suo Deus sive Natura che dà per già presente l’equazione fra Dio e Natura; per il filosofo tedesco
si tratta invece di insistere sulla materia come substrato del dynamei on, dell’ “essere-inpossibilità”, nella direzione di una “nuova Canaan”, di una “nuova Gerusalemme”, del Novum della
patria, del mondo come patria, da non intendere più in termini meramente spiritualistici: “è stato
proprio il Logos escatologico, il Logos che non ha legami col mondo presente, ad utopizzare il suo
nuovo cielo e la sua nuova terra sulla base della materia, nonostante tutte le seducenti tentazioni
per una eliminazione solo spiritualistica del mondo.” (AC 285. Cfr. anche AC 283-286).
4 E. Bloch, Geist der Utopie (1918 e 1964), trad. it. a cura di V. Bertolino e F. Coppellotti, Spirito dell’utopia,
La Nuova Italia, Firenze 1980, p.178. Cfr. anche p.184.
5 K. Marx,Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), in Die Frühschriften,
Heraugegeben von S. Landshut, “Geleitwort” von O. Negt, Alfred Kröner Verlag, Stuttgart 2004, p. 283; trad.
it. di R. Panzieri, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx-F. Engels, Opere
complete 1843-1844, III, a cura di N. Merker, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 197-198.
6 Sulla aristotelische Linke vedasi R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Bibliopolis, Napoli
1979, pp. 81-82.
7 E. Bloch, Marxismo e utopia, cit., pp. 157-158.
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Qui per Bloch l’escatologico non va confuso col sovramondano, il futuro biblico con l’essere della
filosofia greca: insomma, la speranza, la profezia, il mito della promessa, il tempo futuro, l’ultimo
topos, la corrente calda che porta avanti il messaggio escatologico del cristianesimo primitivo e la
sua origine profetica è ciò che caratterizza la Bibbia (cfr. AC 89-90): “solo la Bibbia bussa alla
porta della speranza umana, della attesa del ‘perfetto compiuto’ “, scrive Bloch con un riferimento
esplicito a 1Cor 13, 10 (cfr. AC 114).
3. Corrente fredda e corrente calda nel marxismo e nel cristianesimo.
Questa considerazione blochiana utopica della materia e del mondo-patria ci introduce al grande
tema del rapporto fra “corrente fredda” (Kältestrom) e “corrente calda” (Wärmestrom) nel
marxismo, fra il “rosso freddo” e il “rosso caldo” (cfr. soprattutto PS, I, 245-247; III, 1578-1580).
Il “rosso caldo” è il momento concretamente entusiasmante e prospettico, che concepisce la
prospettiva dell’ “essente-nella-possibilità”, della “materia in avanti”, dello slancio verso il possibile
in piena libertà, come movimento di un trascendere senza Trascendenza, “teoria-prassi di un
arrivare-a-casa”, incessante lotta di liberazione verso la società senza classi, la “patria
dell’identità”, il “totum utopico”, il regnum hominis, l’ultimum, lo Endziel.
Il marxismo è così per Bloch il detective più freddo nelle analisi e, nel contempo, il liberatore più
radicale, che ci ricongiunge alle promesse delle fiabe e al sogno dell’età dell’oro; in esso il
pensatore tedesco vuole coniugare umanismo e materialismo, entusiasmo e sobrietà, ragione e
speranza, eredità del passato e tensione al futuro (cfr. PS, III, 1575-1581).
Ma la corrente fredda ha di gran lungo prevalso nella storia del marxismo, sino a determinare la
crisi profonda del suo impianto dottrinale e il fallimento delle sue realizzazioni storiche.
Dopo un periodo non breve di cedimenti e concessioni al marxismo-leninismo ufficiale, nel suo
capolavoro pubblicato nel 1959 Bloch denuncia con lucidità e vigore le insufficienze e le deviazioni,
gli intorbidamenti e le degenerazioni del processo di umanizzazione socialista, gli esiti disastrosi
non solo dell’industrialismo capitalistico, ma anche dell’industrialismo sfrenato staliniano e
dell’etica comunista-produttivistica del lavoro (cfr. ad esempio il capitolo conclusivo dell’opera:
“Karl Marx e l’umanità; il materiale della speranza”, PS, III, 1564, 1567-1568, 1583-1584).
Secondo Bloch, il marxismo nella sua storia non è sempre riusciuto a coniugare lo spirito utopico
con il “camminare eretti” e con il rispetto della dignità umana, ma per lui soltanto il marxismo ha in
sé la possibilità di ritornare alla sorgente autentica della liberazione umana.
C’è, secondo il Bloch degli anni Sessanta del XX secolo, una “unità avvolgente” dell’epoca, che
determina, all’Est come all’Ovest, un unico sistema di dominio, manipolazione, alienazione, sia
pure manifestantesi in forme assai diverse.
Anche la rilettura blochiana dell’Esodo e della questione religiosa avviene, sul piano storicopolitico, secondo una duplice direzione polemica: da un lato contro il sistema capitalisticoborghese, d’altro lato contro il sistema del Partito-Stato dei regimi comunisti dell’Est, contro
l’ideologia ossificata marxista-leninista.
Nelle conclusioni di Atheismus im Christentum, l’autore ribadisce le ragioni della sua polemica
contro il marxismo volgare, l’appello alla ripresa della corrente calda nella lotta contro le varie
forme di alienazione, la ricerca del nuovo “senza nessun tipo di catechismo”(cfr. AC 326-321).
Ora, abbiamo insistito sul rapporto fra corrente calda e corrente fredda nel marxismo, perché
anche nel cristianesimo e nella storia delle religioni più in generale si riscontra secondo Bloch
questa compresenza.
Tutta la importante lettura dei testi biblici condotta in Ateismo nel cristianesimo insiste sul fatto che
marxismo e cristianesimo hanno subìto le stesse deformazioni e degenerazioni autoritarie e
dogmatiche quando - venendo a mancare il loro slancio utopico, la spinta in avanti e la freschezza
liberatrice - sono entrambi diventati ideologie o religioni ufficiali.
Paolo e Lutero sono fra i principali responsabili della riduzione della religione a “oppio dei popoli”,
della complicità col potere, della santificazione/legittimazione dell’autorità in quanto proveniente da
Dio (cfr. AC 46, 59-61). Perché Lutero e Münzer si sono entrambi così intensamente ispirati alla
stessa sapienza biblica? Per la duplicità e l’ambivalenza costitutive della Bibbia, che guidò e ispirò
in modi assai diversi tanto Münzer quanto Lutero.
In Ateismo nel cristianesimo e nei suoi scritti di filosofia della religione Bloch compie sempre,
congiuntamente, una duplice operazione: da un lato sviluppa una formidabile analisi critica delle
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religioni ridotte a instrumentum regni, della fede impoverita a oppio del popolo, delle chiese
schierate coi poteri, del cristianesimo asservito al potere e alle ideologie dominanti, capace di
abbassare l’amore a mera ipocrisia ed esercizio verbale; d’altro lato opera un recupero altrettanto
formidabile delle istanze critiche e liberatrici presenti nelle religioni, nella Bibbia intera e nel
cristianesimo in particolare.
In aperta polemica col marxismo volgare ed economicistico incapace di prospettare la fondazione
di una “nuova Atene”, Bloch afferma che anche la famosa frase di Marx sulla religione come
Opium des Volks va contestualizzata.8
Prima di essa, infatti, Marx scrive che la religione è “la realizzazione fantastica dell’essenza
umana ( die phantastische Verwirklichung des menschlichen Wesens), poiché l’essenza umana
non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro
quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa (Das religiöse Elend) è
insieme l’espressione (Ausdruck) della miseria reale e la protesta (Protestation) contro la miseria
reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così
come è lo spirito di una condizione senza spirito (Die Religion ist der Seufzer der bedrängten
Kreatur, das Gemüt einer herzlosen Welt, wie sie der Geist geistloser Zustände ist). Essa è l’oppio
del popolo (das Opium des Volks). Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol
dire esigerne la felicità reale. (...) La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle
di lacrime (Kritik des Jammertales), di cui la religione è l’aureola (Heiligenschein)” .9
Non basta dunque ed è anzi più che mai insoddisfacente una liquidazione semplicistica e settaria
della religione. La critica più efficace della religione esige che si passi all’adempimento di ciò che
nella religione stessa viene illusoriamente promesso.
Ecco perché Bloch rimarca inequivocabilmente in Ateismo nel cristianesimo : “Marx non si limitò a
ripetere solo che Dio non esiste o che è un’astuta trovata dei preti. (...) Marx non parla mai con una
tale ingenuità astorica, poiché tra lui e gli enciclopedisti stanno Hegel e Feuerbach. (...) Riflettere
sul passo dell’oppio, se citato completamente e non più mutilato, non dovrebbe invero suscitare
alcuna meraviglia ma per i credenti liberati dalla ideologia e per i non credenti senza tabù
aprirebbe infine almeno il cosiddetto spazio del dialogo” (AC 94-97).
Il libro si conclude infatti (cfr. AC 326-331) non coll’auspicio di un semplice dialogo fra marxismo e
cristianesimo, fra punti di vista diversi e destinati a rimanere tali, ma con la proposta/speranza di
una vera e propria alleanza fra la rivoluzione e il “sogno dell’incondizionato”, fra il marxismo e il
cristianesimo liberati dalle proprie alienazioni e deformazioni, restituiti entrambi alla propria
essenza autentica, nella tensione comune all’homo absconditus non ancora venuto alla luce.
4. L’Esodo come “paradigma teologico-politico” e inesauribile riserva di senso. Rizzi e Bloch.
In un bel testo dedicato al libro dell’Esodo, Armido Rizzi avanza la tesi dell’Esodo come
“paradigma teologico-politico” e istituisce una stretta relazione fra l’Esodo e la teologia politica, per
cui qui il libro biblico non è più solo il testo fondante dell’identità di Israele (nei suoi quattro
momenti fondamentali: 1) l’uscita dall’Egitto e il passaggio dalla schiavitù in Egitto al deserto; 2) il
cammino nel deserto; 3) la salita al monte e il suo senso teologico: il dono dell’alleanza e della
Legge; 4) il passaggio del Giordano e l’arrivo nella terra promessa, la terra di Canaan, promessa
ad Abramo, Gn 12, 4-7, “dove scorrono latte e miele”, Es 3, 17 e si realizza la giustizia, la pace,
shalom, come pienezza di vita, Is 32, 17-18), ma assume una dimensione di senso di ben più
ampia portata.10
8 Sulla lettura blochiana di Marx si veda fra l’altro D. Fusaro, Filosofia e speranza. Ernst Bloch e Karl Löwith
interpreti di Marx, Il Prato, Padova 2005.
9 K. Marx, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung (1844), in Die Frühschriften, cit., pp. 274275; trad. it., Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx-F. Engels, Opere
complete 1843-1844, III, cit., pp. 190-191.
10 Cfr. A. Rizzi, Esodo. Un paradigma teologico-politico, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole
(Firenze) 1990. Fra i commenti al libro dell’Esodo segnaliamo qui Meister Eckhart, Commento all’Esodo, a
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Nella lettura cristiana dell’Esodo, quest’ultimo è prefigurazione e anticipo della redenzione operata
da Dio per tutti gli uomini mediante Gesù (At 7, 12-53; 1Cor 10, 1-13 e 11, 23-25; Ap 15, 1-4).
Il punto di partenza dell’Esodo è la condizione di schiavitù, il lavoro forzato in cui versa la
minoranza ebraica, “straniera” e “schiava” in terra egiziana. Circa la condizione dello straniero e il
rapporto verso di esso, il libro dell’Esodo parla chiaro: ”Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo
straniero che soggiorna in mezzo a voi” (Es 12, 49); “Non molesterai lo straniero né l’opprimerai,
perché voi siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Es 22, 20. Cfr. anche Es 23, 9; Dt 24, 17-22; Lv 19,
33-37). Gli fa eco il Deuteronomio: “Amate lo straniero, perché anche voi foste stranieri nella terra
d’Egitto” (Dt 10, 19).
Il senso ultimo della terra promessa e della teologia esodica è per Rizzi nel contempo etico,
politico e teologico: “Ricevere da Dio il pane con riconoscente letizia e spezzarlo con i fratelli,
senza escluderne nessuno”.11
Compito della teologia politica esodica per Rizzi non è tanto di proporre (come fa Bloch stesso)
“improbabili sintesi” fra messaggio biblico e dottrine della modernità o della post-modernità, ma di
tornare alla essenzialità del “racconto biblico” per riscoprire un senso del tutto nuovo della
rivoluzione: “la teologia politica dell’Esodo presenta un orizzonte di comprensione che non ha
l’eguale nel pensiero successivo. Nello spazio della dilezione, portatore dei diritti è soltanto l’altro,
lo ‘straniero’, il povero; l’io è eletto per essere al servizio dei diritti altrui, portatore del
comandamento dell’amore. In questo senso, l’Esodo prefigura una rivoluzione diversa da quelle
finora tentate; una rivoluzione di cui ognuno è responsabile, e dove la forza dell’amore cessa di
essere (prevalentemente) impulso alla santificazione personale per diventare potenza della
trasformazione della città degli uomini”.12
Con il Bloch di Ateismo nel cristianesimo, Rizzi condivide il giudizio sull’Esodo da intendere come
inesauribile riserva di senso (“l’ ‘Esodo’ è una ‘riserva di senso’ che nessuna interpretazione può
pretendere di esaurire” 13 ), ma è in dissenso a proposito dell’esito della sua ricerca.
Più precisamente, il teologo italiano non esita a riconoscere i grandi meriti dell’opera blochiana,
“che pur approdando a un risultato discutibile (l’opposizione tra il Dio trascendente e mitico della
creazione e il Dio immanente della liberazione), ha avuto il merito di attirare l’interesse dei teologi
europei sulla teologia dell’Esodo (si pensi in particolare al Moltmann della Teologia della speranza)
e l’interesse del pensiero progressista secolarizzato sul valore emancipatorio del linguaggio
simbolico-religioso della Bibbia”.14
5. La lettura blochiana dell’Esodo.
Abbiamo già rilevato che il messaggio dell’Esodo è, dall’inizio alla fine, massicciamente presente in
Bloch, soprattutto in un’opera come Ateismo nel cristianesimo.
Come ha messo bene in luce Francesco Coppellotti nel suo saggio introduttivo all’edizione italiana
di Ateismo nel cristianesimo (cfr. AC 7-20), tutta la lettura blochiana della Bibbia è orientata a
rintracciare in essa il “filo rosso” (der rote Faden) apocalittico e non teocratico, la “stella utopica”
che brilla anche nella storia delle grandi eresie e delle rivoluzioni, il “grido escatologico” (AC 86), la
“vera biblia pauperum” (AC 114), la volontà tenace di trascendimento senza trascendenza
metafisica.
Citando l’esempio di Lessing, Bloch scrive che “la cosa migliore nella religione è il fatto di creare
degli eretici” (AC 24 e 31). Nella Scrittura - che parla a tutti e ovunque, è comprensibile e valida
per tutti, al di sopra della varietà dei popoli e della lontananza dei tempi (cfr. AC 49) - il filosofo
vuole rintracciare il “non-ancora biblico” e intraprendere un cammino “ponendosi dalla parte di
coloro che furono lasciati in disparte” (AC 41).
cura di M. Vannini, Città Nuova, Roma 2004; G. Auzou, De la servitude au service, L’Orante, Paris 1961; G.
Ravasi, Esodo, Queriniana, Brescia 1980; M. Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986.
11 A. Rizzi, op. cit., p. 38.
12 A. Rizzi, op. cit., p. 123. Cfr. anche p. 122.
13 A. Rizzi, op. cit., p. 115.
14 A. Rizzi, op. cit., pp. 107-108.
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Lo scopo è di attingere a quel tesoro di sapienza biblica, di giustizia e di verità che è stato sovente
nascosto, seppellito, represso. Vi è infatti un contenuto morale e sociale esplosivo, sovversivo
della profezia biblica.
Bloch preferisce tradurre il famoso versetto di Esodo 3, 14 in cui Dio (Jhwh, il tetragramma
impronunciabile) dice “Io sono quello che sono” (Eh’ je ascher eh’ je, latino ego sum qui sum) con
“Io sarò quello che io sarò” (cfr. AC 32, 124). La parola d’ordine dell’exodus (exodus è forma latina
tarda; greco exodos, comp. di ek, fuori e odos, via) è la speranza: “dove v’è speranza, ivi è anche
religione; di certo non vale l’inverso (dove è religione, ivi è anche speranza), a riguardo delle
religioni dettate dal cielo e dall’autorità” (AC 31).
Il Dio dell’Esodo, nella interpretazione blochiana, ci libera dalla re-ligio del legame all’indietro, del
mitico Dio dell’origine, della creazione del mondo, ci invita alla fuoriuscita dal mero regno della
necessità, del dolore e del male, è il “Dio del grido ribelle mai ripagato ‘eritis sicut deus, scientes
bonum et malum‘ ”; l’Esodo è così la professione del cristianesimo del figlio dell’uomo e
dell’eschaton, che richiede una nuova teologia, secondo cui “solo un ateo può essere un buon
cristiano, ed anche: solo un cristiano può essere un buon ateo” (cfr. AC 24, 30-33). Bloch giunge
ad affermare, suscitando lo scandalo dei tetri sostenitori dell’ “ateismo di stato”, che “solo la Bibbia
riesce ad evitare che il sale ateo diventi sciocco” (AC 102. Cfr. anche AC 114).
Qui possiamo osservare che questa impostazione di Bloch e lo stesso suo linguaggio son fatti
apposta per far imbestialire e uscire dai gangheri gli spiriti dogmatici e gli ottusi fanatici di tutte le
risme, agli occhi dei quali queste aperture feconde e questo modo di dissolvere le vecchie forme
ideologiche date non possono apparire che follia, irrazionalismo, confusione teorica e ideologica.
Per Bloch l’Esodo è ben più che un mero libro biblico, che la semplice fuoriuscita degli ebrei dalla
terra e dalla schiavitù d’Egitto; esso è il “logosmythos della Bibbia”, il “sogno messianico” che
rifulge davanti all’umanità intera, la fuoriuscita dall’immobilismo verso il regno della libertà, il “mito
apocalittico”, la dimensione dell’attesa, “lo spirito ribelle prometeico e messianico”, l’insopprimibile
elemento di rivolta e di liberazione che sempre si ripresenta in tutti i tempi e in tutte le situazioni
storiche (cfr. AC 69, 87, 102, 124, 243).
Con l’exodus si spezza l’immagine teocratica di Jhwh, di un Dio geloso, terribile, collerico, potente,
bellicoso, autoritario, si palesa la “Bibbia sotterranea”, l’ “asse non teocratico della Bibbia”, rifulge
appunto la Bibbia dell’Esodo protesa instancabilmente verso nuovi cieli e nuove terre; e la figura
del Dio dell’esodo, veniente “mare di giustizia” (cfr. anche Amos 5, 24: “come le acque scorra il
diritto e la giustizia come un torrente perenne”), il Dio messianicamente utopico dell’ equità,
dell’amore e della misericordia (cfr. AC 113, 126).
L’Esodo nel “totalmente nuovo”, nella luce escatologica, come creatio del mondo-patria, come
“utopia soteriologica apocalitticamente dirompente” (cfr. PS, III, 1588 e AC 274, 278), indica il
verso-dove marciante nel tempo, verso la terra di Canaan, ma è l’esodo attraverso il deserto,
l’immenso abisso del dolore, dell’ingiustizia e del male concernente la nostra terra, sempre ancora
troppo arida.
Come l’opera dei profeti testimonia, con l’uscita dall’Egitto non sono finiti i guai e le difficoltà, la
promessa di terre e cieli nuovi rimane sempre insoddisfatta e differita, la terra di Canaan è
trasposta all’escatologico, non ci è ancora concesso un mondo davvero umano comune, ma
ovunque ci è concesso fondare una Canaan, tentare di costruire nell’azzurro.
Analogamente a Bloch, sulla terra promessa ha scritto Ernesto Balducci ne Il Vangelo della pace:
“La terra promessa non è un luogo della geografia, è un luogo del futuro collettivo del mondo, è
l’unità del genere umano”.15
Liberato da Jhwh, nell’esodo, dalla condizione di schiavitù e oppressione nella terra d’Egitto,
Israele è stato chiamato come popolo a eliminare al suo interno tutte le forme di povertà,
oppressione e ingiustizia. Scopo dell’esodo era la perfetta condivisione dei beni e della terra (dono
di Dio per tutti), la solidarietà, la libertà e la giustizia, l’eguale dignità degli israeliti e di tutti gli esseri
umani. Ma, come ci mostra fra l’altro anche il Deuteronomio, molte sono le tentazioni nella terra
promessa, soprattutto quella di insuperbire e indurire il proprio cuore; forte dunque è
l’ammonimento di Jhwh a Israele, “popolo di dura cervice” (cfr. Dt 8, 6-20 e Dt 9, 6).
15 E. Balducci, Il Vangelo della pace. Commento alla liturgia della Parola, vol. I, Borla, Roma 1986, pp. 199200.
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Proprio perché la promessa dell’exodus non rimane mai del tutto esaudita, l’Esodo permane come
una sorta di “idea regolativa” nei profeti (come Ezechiele) che si scagliano, da Amos sino all’ultimo
Isaia, contro l’animo malvagio, il “cuore di pietra”, a favore del “cuore nuovo”, del “cuore di carne”,
di uno “spirito nuovo”, di un pentimento e di una conversione possibili a partire da un movimento
dell’intimo (cfr. Ez 11, 19 e AC 135-136).
L’Esodo appare a Bloch come il logosmythos percorrente uno spazio che va dal Libro di Giobbe
all’Apocalisse (cfr. AC 243). Per il filosofo, la categoria originaria dell’esodo continuerebbe a
funzionare anche nel Libro di Giobbe, ma qui, dopo l’esodo di Israele dall’Egitto, avviene “un esodo
di Giobbe da Jhwh; certamente: e verso dove?” (AC 149). Le dure domande e questioni poste da
Giobbe (si veda ad esempio Gb 17, 13-16) restano, nessuna teodicea è più possibile, nessuna
dialettica materialistica o utopia concreta ispirata all’ “ottimismo demente” e acritico è proponibile:
“La risposta più semplice è quella che nel mondo vi è sempre di nuovo un esodo, che conduce
fuori dallo status di volta in volta, ed una speranza che si lega con la rivolta, che è fondata sulle
possibilità concretamente date di un nuovo essere. Come un appoggio nel futuro, con un processo
che non è per nulla frustrato, anche se non è per nulla acquisito, perché è irremissibilmente
gravido della sua soluzione, della nostra soluzione” (AC 161. Cfr. AC 146-161 e 165).
L’esodo dall’Egitto e l’entrata in Canaan comportano secondo Bloch rivolgimenti nella stessa
immagine di Dio e pongono nuovi interrogativi su Jhwh, che diventa “il punto di unità luminoso dei
giusti di tutti i popoli” (cfr. AC 133-134).
In ogni antropomorfismo religioso a noi noto manca la dimensione aperta dell’anthropos agnostos,
dell’uomo nascosto e inedito (cfr. AC 197). Il discorso vale anche per Gesù e per il cristianesimo,
che non cessano di fermentare. Anche la natura di Gesù si manifesta in senso escatologico come
exodus, ponendosi egli in Dio come uomo, nell’incarnazione.
Più precisamente, si deve però parlare di cristianesimi, al plurale. A questo proposito Bloch insiste
sulla distinzione fra Gesù inteso come Figlio di Dio, Kyrios Christos troneggiante e dinasticolegittimistico, Pantokrator, Dio dei potenti di gran lunga dominante nel corso dei secoli e Gesù
assunto come figlio dell’uomo, da concepire nella luce del futuro totale dell’homo absconditus.
L’escatologia cristiana profetizza la parousia di Cristo nella luce del topos assolutamente non
teocratico del figlio dell’uomo (cfr. AC 198-203). Col cristianesimo, Deus homo factus est:
“quest’ultima svolta biblica dell’esodo biblico da Jhwh” (cfr. AC 203) ci introduce nella dimensione
enigmatica e misteriosa dell’umano nel divino e del divino nell’umano.
Anche il cristianesimo è exodus, sporge nell’incompiutezza - termine che in questo contesto ha per
il filosofo tedesco un senso estremamente positivo - con la parola enigmatica del figlio dell’uomo e
la divinità cessa di essere colta come una “esterna e mostruosa oggettività estranea all’uomo. La
grandezza dispotica della rappresentazione di Jhwh viene qui eliminata e ciò che viene
rappresentato sotto il Dio dell’esodo raggiunge la visione atea del figlio dell’uomo: una visione
incompiuta al massimo che non è in sé stessa per nulla risolta; secondo la quale quindi la parola
enigmatica figlio dell’uomo posta in Jhwh ed al posto di Jhwh non è soltanto una conclusione
formale ma veramente contenutistica, una conclusione che secondo il suo desiderio più autentico
è incompiuta e di certo non ancora del tutto risolta” (AC 198).
6. La questione del divino e l’ eredità della religione in Bloch.
Il Gott als ganz Anderes (il Dio totalmente altro) di certa teologia novecentesca nel pensiero di
Bloch si trasforma nel futuro utopico, nello Endziel da perseguire. Per il filosofo di Ludwigshafen
non è più possibile alcuna positivizzazione della trascendenza, si dà invece la trascendenza
nell’immanenza e l’immanenza nella trascendenza. L’ “arco utopia-materia” si offre come una
tensione alla trascendenza nell’immanenza, senza più Trascendenza metafisica ed extraumana.
Dio non vale più come il Dio-ipostasi, come il super-Ente o Ente sommo della metafisica classica
cristiana e della teologia scolastica medievale, la cui esistenza è indimostrabile dal punto di vista
razionale; ciò che fu chiamato l’ Ens perfectissimum e realissimum, il summum Ens si risolve
piuttosto nel problema aperto e completamente umano del totum utopico, in un “contenuto di
speranza incondizionato e totale” (cfr. PS, III, 1388).
Per l’essenza totale del suo desiderio, per il suo tendere a una perfezione non ancora data nel
mondo, l’illusione religiosa non è per Bloch completamente vana. Ora “Dio appare (...) come ideale
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ipostatizzato dell’essenza umana, non ancora divenuta nella sua realtà; egli appare come utopica
entelechia” (PS, III, 1489. Cfr. anche AC 114).
Il mistero del Deus absconditus rinvia così a quello dell’homo absconditus - contrapposto all’homo
editus -, che si tratta finalmente di scoprire. Dio è allora l’ “ideale utopicamente ipostatizzato
dell’uomo ignoto” (PS, III, 1481).16 La Resurrezione cristiana può essere riletta e ritrovare
significato come apertura all’Eden del Totum-Novum.
Nella religione il motivo del trascendimento va riletto e recuperato in senso integralmente umanoterreno, senza più la prospettiva di una trascendenza celeste.
Nonostante i suoi limiti e lacune (a proposito dei quali Bloch condivide interamente le critiche
talvolta sin troppo dure e ingenerose mosse da Marx a Feuerbach nelle Thesen über Feuerbach),
Ludwig Feuerbach rappresenta anche per l’autore di Das Prinzip Hoffnung il decisivo punto di
svolta nella filosofia della religione, perché si è posto il problema dell’eredità della religione (cfr.
PS, III, 1487) o, meglio, della religione in eredità (Religion im Erbe) nella nuova coscienza utopica
dell’umanità, nel suo compito inesauribile di disalienazione radicale: “Egli infatti non voleva essere
soltanto il becchino della religione tramandata - impresa facile cento anni dopo Voltaire e Diderot ma piuttosto era preso dal problema dell’eredità religiosa” (PS, III, 1484).
La speranza, che ha giocato un ruolo così rilevante nella religione, ora si libera dalle illusioni, dalle
ipostasi, dalle mitologie, da ogni tentazione di positivizzazione della trascendenza e, al di là dei
limiti del materialismo feuerbachiano, tende a concepire l’utopia del soggetto e della natura
insieme. La critica antropologica della religione è critica solo della mitologia dell’adempimento della
speranza ipostatizzata come reale, ma non della speranza stessa (cfr. PS, III, 1488-1489).
Ereditabile è per il regnum humanum il contenuto di desiderio e la profondità della speranza delle
immagini religiose. Nell’intera Bibbia vi è per Bloch - come abbiamo visto - una eredità sovversiva
e dinamica da riscoprire, troppo a lungo repressa e nascosta. Il vero asse della Bibbia per Bloch
non è teocratico, ma è, sulla scia indicata da Feuerbach, quello dell’autoiscrizione dell’uomo nel
segreto dell’oggettivazione religiosa, quello dell’ “homo absconditus dell’eritis sicut deus” (cfr. AC
113).
Nel mistero di Dio la coscienza religiosa ha proiettato il mistero dell’uomo stesso, il suo lato
nascosto, la latenza dell’umano: “Ciò che è allo stesso tempo familiare e totalmente altro, come
segno dello strato religioso, dagli dei animali fino al Dio unico e potente, fino al Dio salvatore,
diviene comprensibile solo come proiezione interpretativa dell’homo absconditus e del suo mondo”
(PS, III, 1488). La credenza in Dio rinvia dunque all’ utopia del regnum humanum: “La verità
dell’ideale di Dio è unicamente l’utopia del regno, e presupposto di questa è appunto che nessun
Dio resti in alto, dal momento che comunque lì non c’è, né ce ne fu mai nessuno” (PS, III, 1490).
Vi è una ambivalenza di fondo delle religioni, che hanno sempre oscillato fra l’essere strumenti di
potere e vie di redenzione, ideologie repressive e culture di liberazione, percorsi di rassegnazione
e di trascendimento.
Se la religione sia “oppio dei popoli oppure rafforzamento del valore infinito dell’anima propria e di
conseguenza rafforzamento della volontà di non lasciarsi trattare come bestie, e ciò da ora, tutto
questo dipende dagli uomini e dalle situazioni a cui e in cui si è predicato del cielo; per esempio la
predica di Thomas Münzer, sebbene per più aspetti riferita ai ‘servi celesti’, non fu oppio del
popolo” (PS, III, 1281-1282).17
L’eredità della religione rimane sino all’ultimo fondamentale nel pensiero blochiano. Al termine di
Atheismus im Christentum l’autore ribadisce l’indissolubilità di messianismo e illuminismo, ateismo
e utopia: “Il messianico è il rosso segreto di ogni illuminismo che si mantiene rivoluzionario e
pregnante. (...) L’ateismo è il presupposto dell’utopia concreta, così come la concreta utopia è
l’irrinunciabile implicazione dell’ateismo. L’ateismo e la concreta utopia sono insieme, nello stesso
atto fondamentale, l’annientamento della religione e la sua speranza eretica che cammina su piedi
16 Cfr. anche E. Bloch, Religion im Erbe. Eine Auswahl aus seinen religionsphilosophischen Schriften (1959
e 1966), ediz. it. Religione in eredità. Antologia dagli scritti di filosofia della religione, “Prefazione” di J.
Moltmann, “Introduzioni” di R. Strunk, a cura di F. Coppellotti, Queriniana, Brescia 1979, p. 304.
17 Alla figura di Münzer Bloch dedicò il libro Thomas Münzer als Theologe der Revolution (1921 e 1969),
trad. it. di S. Krasnovsky e S. Zecchi, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, a cura di S. Zecchi,
Feltrinelli, Milano 1980.
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umani. La concreta utopia è la filosofia e la prassi del contenuto-tendenza latente nel mondo e
quindi della materia radicalmente qualificata”.18
7. La farmacologia blochiana, l’homo absconditus e il messaggio dell’Esodo.
Il sostanziale ottimismo metafisico - si tratta qui di una peculiare metafisica del futurum e della
tendenzialità latente - del filosofo viene temperato dalla lucidità e razionalità materialistica: “La
meta di tutte le religioni superiori era una terra in cui fluiscono realmente e simbolicamente latte e
miele; la meta dell’ateismo pieno di contenuto, rimasto dopo le religioni, è esattamente la stessa senza dio, ma col volto scoperto del nostro absconditum e della latenza della salvezza nella
difficile terra” (PS, III, 1514).
Qui si palesa la peculiare farmacologia contro la morte del pensiero blochiano. Il “coraggio rossoateo” di fronte alla morte accoglie in sé, in senso terreno e non più mitologico, l’eredità di
precedenti immagini di desiderio mitologico.
La coscienza socialista comporta per il filosofo la salvaguardia di una certa idea di immortalità, nel
senso di una solidarietà rivolta verso le vittime del passato e gli uomini più fortunati/vittoriosi delle
future generazioni: l’immortalità è qui la sopravvivenza dei migliori contenuti e intenzioni umani (cfr.
PS, III, 1355).
Quella che egli chiama enfaticamente la cosmologia comunista è “il campo problematico di una
mediazione dialettica dell’uomo e del suo lavoro con il possibile soggetto della natura” (PS, III,
1357). Quest’ultimo rimane però nient’altro che un problema aperto e, in termini kantiani, un
postulato della ragion pratica; “se per il nostro destino nella natura non c’è ancora una soluzione
positiva, nemmeno ce n’è però una definitivamente negativa” (PS, III, 1357).
La morte, allora, qui non è più negazione dell’utopia, ma appare nelle luci di latenza del futuro e
dell’autentico.
Essendo il nocciolo dell’homo absconditus non oggettivato, non ancora nato ed esprimendo esso
“il non essere ancora divenuto”, l’ “homo intensivus sed absconditus sta ancora nettamente al di
fuori del territorio dell’essere annientante della morte” (AC 320. Cfr. anche AC 321 e PS, III, 1363).
La lotta per un mondo migliore non comporta soltanto, per Bloch, l’eliminazione dei tanti mali e
dolori evitabili e indegni dell’uomo, ma anche l’eliminazione della pregnanza forte, della
insuperabilità del nulla e della morte (cfr. PS, I, 21, 23).
Come leggiamo pure in Geist der Utopie, tale lotta comporta il superamento dell’annientamento del
mondo, il perseguimento della “immortalità che supera i limiti del cosmo, la realtà unica del regno
delle anime, il pleroma dello spirito santo, la casa costruita in integrum fuori dal labirinto del
mondo”.19
La speranza sembra qui speranza dell’impossibile ed è rivolta al superamento della Nichtigkeit
costitutiva dell’esistenza. In termini heideggeriani, possiamo osservare che Bloch non pensa la
Geworfenheit in den Tod, l’essere-gettato per la propria fine Pa come l’unica vera condizione della
nostra libertà.
La speranza di Bloch è che la natura sia, nel suo senso finale, sempre più amica dell’uomo.
Concludendo Das Prinzip Hoffnung, l’autore scrive che “la vera genesi non è all’inizio, ma alla fine”
(PS, III, 1587). L’insistenza è sull’eschaton e ciò determina l’afflato religioso, in largo senso, del
suo pensiero.
La sua metafisica materialistica insiste sul “fine ancora nascosto”, sul “mondo reale della
speranza”, sulla materia utopica, processuale, costantemente “volta in avanti”, “essente-secondopossibilità”, su di una natura completamente al servizio dell’uomo e del paese di Cuccagna (cfr.
PS, II, 722-723), una totale trasformazione del mondo in patria (Umbau der Welt zur Heimat)
Rimane però l’interrogativo sulla possibilità che il mondo si risolva interamente in una Patria
dell’uomo.
La enfasi posta dall’autore di Das Prinzip Hoffnung sull’ultimum, sullo Endziel, sul totum utopico,
sulla vera Heimat e così via, oggi va ridimensionata e rimessa, crediamo, in discussione insistendo
18 E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, cit., pp.298-299.
19 E. Bloch, Spirito dell’utopia, cit., p. 315.
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sulla ambiguità e problematicità ineliminabili dell’essere umano, della sua vita, della sua storia, ma
uno dei motivi più vivi del duraturo fascino e della validità del pensatore di Ludwigshafen consiste
comunque nel suo anticonformismo di fondo, nella sua strutturale incapacità di acquietarsi, nella
freschezza del suo incessante invito all’invenzione della realtà, nella contrapposizione al realismo
cinico e opportunistico dominante.
Lo “straparlare” utopico di Bloch - come lo definì una volta sarcasticamente György Lukács -,
mantiene una valenza felicemente sovversiva, emancipatrice e rivoluzionaria che non possiamo
mai assolutamente dimenticare.
Il pensiero di Bloch e il suo Logosmythos dell’Esodo potrebbero anche oggi, all’inizio del XXI
secolo, proporsi all’attenzione in modo stimolante e con una certa freschezza, nonostante la
indubbia, perdurante crisi della teoria marxista e l’esito fallimentare dei regimi comunisti sorti nel
XX secolo. Diciamo potrebbero, perché di fatto non vi sono in alcun modo - nell’attuale “società
dello spettacolo”, nel mondo della cosiddetta globalizzazione posta essenzialmente sotto il segno
della mercificazione, del consumismo, del produttivismo e del primato dell’economia capitalistica le condizioni di un ascolto e di un’attenzione reali rivolti al suo pensiero.
La vittoria odierna del mondo borghese della mercificazione universale e della società sirenicospettacolare si pone in palese contraddizione con la proposta di Bloch: la “tensione in avanti”, il
coraggio dell’oltrepassamento, il “varcare le frontiere” (cfr. AC 31), l’aspirazione a un mondo
nuovo.
Quale può essere oggi una nuova rilettura critica del messaggio dell’Esodo? Non disponiamo di
certezze né ci è consentito abbandonarci a facili consolazioni.
La terra promessa della civiltà planetaria e del dialogo interreligioso, di una convivenza mondiale
solidale e fruttuosa fra i popoli e le culture non appare dietro l’angolo e non è affatto garantita.
La sconfitta di immani e inedite proporzioni profilantesi nella nostra epoca rischia di essere
irreversibile e definitiva per tutti, ma la difficile lotta nonviolenta per un mondo migliore, per una
civiltà planetaria più solidale ed ecologica, conviviale e pacifica, libera e giusta rimane per noi,
indubbiamente, la migliore eredità che possiamo offrire ai nostri nipoti.
Ernest Bloch (1885-1977),
Tra utopia e speranza, una polemica a distanza con Jürgen
Moltmann (1926) tra escatologia e speranza.
Giuseppe Ferrari
Lo “Spirito dell’utopia”, (Geist der Utopie, 1919), l’opera prima di Ernest Bloch rappresenta la “buona
notizia” dell’intero panorama filosofico, politico, sociale dell’inizio del Novecento.
Gli stessi temi e problemi prospettati nell’opera giovanile saranno ripresi in modo più organico ed
approfondito nell’opera “Das princip Hoffnurg” voll. 3, Francoforte, 1959.
Il marxismo di Bloch, come quello di Lukàcs, trae origine dall’umanesimo ed è in evidente contrasto con
l’ortodossia marxista-leninista e si propone un percorso originale che scardinerà, in definitiva, il pensiero
monolitico del materialismo storico e dialettico (Diamat).
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Bloch, figlio di una famiglia di estrazione medio-borghese con ascendenze ebraiche, aveva studiato a
Berlino con Simmel e si era laureato in filosofia a Würzburg nel 1908. Si entusiasmò alla lettura del testo del
suo amico Lukàcs “Storia e coscienza di classe” in cui riscontra “un primo soffio d’aria fresca” nel marxismo,
dopo lungo tempo. Bloch guardava con simpatia oltre al binomio classico della sua formazione giovanile
Hegel-Goethe, alle avanguardie artistiche e letterarie del primo novecento.
“L’espressionismo, questa fu la rivolta della mia generazione, della nostra giovinezza, una rivolta che
portava in sé il germe della speranza”.
L’influsso della filosofia post-hegeliana che va da Kierkegaard a Nietzsche, a Dilthey e poi l’influenza della
lettura della Bibbia e le riflessioni sulla storia del cristianesimo, nella sua componente profetica ed eretica,
hanno indirizzato Bloch alla costruzione “dell’uomo nuovo”, alla realizzazione “del sogno di una cosa” di cui
aveva parlato il giovane Marx.
Negli anni venti condivide in stretto rapporto con Bertolt Brecht, Adorno e Benjamin, le speranze di un
imminente avvento del comunismo.
Con l’avvento del nazismo e la presa del potere di Hitler, Bloch lascia la Germania e nel 1938 si stabilisce
negli Stati Uniti.
Al tempo dei processi staliniani, giustifica la condotta Stalin motivandola con la “durezza dei tempi” e con la
necessità di difendere l’edificazione del comunismo nell’Urss. Tornato in Europa nel 1949, si stabilisce nella
Repubblica Democratica Tedesca (Germania est) dove è accolto con grande calore e viene chiamato a
dirigere l’Istituto di filosofia dell’Università di Lipsia.
Dopo i moti operai di Berlino nel 1953, che avevano dato un chiaro segnale di malessere della classe
operaia e di insofferenza popolare nei confronti del regime di Ulbricht e, nonostante il processo di
destalinizzazione in seguito al XX congresso del PCUS che Bloch aveva salutato con grande favore, il suo
laboratorio sperimentale di filosofia era guardato con sospetto dal regime.
Diversi suoi discepoli furono arrestati e lo stesso Bloch nel 1957 è stato sospeso dall’ insegnamento.
Nel frattempo, aveva pubblicato nel 1949 l’opera “Soggetto-oggetto. Commento ad Hegel” e nel 1954-55 “Il
principio speranza” (i primi due volumi), il suo capolavoro, di cui il terzo ed ultimo volume nel 1959.
Nel 1961, trovandosi nella Germania occidentale al momento della creazione del muro che divideva in due
la città di Berlino, deluso del “socialismo reale”, chiede asilo politico senza mai abbandonare
definitivamente la prospettiva della realizzazione d’un socialismo dal “volto autenticamente umano”. Bloch
insegnerà alla Università Tubinga fino al momento della sua morte e gli studenti avrebbero voluto
chiamarla “Ernest Bloch Universität”. Gli scritti di questo periodo sono: “Questioni fondamentali di
filosofia”, “L’ontologia di non-essere ancora” del 1961, “Ateismo nel cristianesimo”, “Per la religione
dell’Esodo e del Regno” del 1968 , “Experimentum mundi” del 1975.
Concretezza dell’utopia e marxismo.
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Già nel suo primo scritto “Spirito dell’utopia” composto in Svizzera, dove si era rifugiato a causa delle sue
idee pacifiste, Bloch aveva elaborato i lineamenti essenziali del proprio percorso filosofico.
Acuto, attento osservatore della situazione, del travaglio spirituale e morale dell’Europa di quegli anni,
Bloch captava il sentimento pessimista più diffuso tra gli uomini del suo tempo, della negatività del
presente, dell’assenza d’ogni prospettiva e di ogni speranza. Ma, invece di volgere questa consapevolezza
nella direzione del nichilismo, che di lì a poco avrebbe trovato in Martin Heidegger (1889-1976), nell’ essere
- per- la - morte (der Mensch ist für Tode), la desolante enunciazione, Bloch, alla luce del marxismo
rivissuto nella sua istanza utopica di fondo e sotto la spinta delle avanguardie artistiche, scorgeva nella
disperata crisi del presente, sì l’agonia, la fine di un mondo decrepito, ma insieme al presagio della novità
imminente che individuava nel “futuro” la vera dimensione ontologica dell’uomo. Nello “Spirito dell’utopia”
era già al centro del pensiero blochiano quell’ontologia del “non - essere - ancora” che avrebbe
rappresentato il “leit- motif” dell’intera sua riflessione.
Bloch prende le distanze dalla dimensione “utopistica” della realtà che Marx ed Engels avevano
criticamente rifiutato, rimprovera poi i marxisti ortodossi di aver tenuto conto solo della “corrente fredda”
del marxismo, ossia dell’ analisi scientifica della realtà, a discapito della “corrente calda”, ossia della visione
“utopica” della realtà, e del primato della praxis e dell’uomo che fanno del marxismo una teoria
autenticamente rivoluzionaria nella proposta dell’ “homo novus”.
È nel celebre libro “Principio speranza” che Bloch riapre alla praxis umana quella dimensione del
“possibile”, del futuro che Kierkegaard aveva ragione a riabilitare, attraverso l’annuncio del “non - ancora avvenuto”. “La speranza è la più umana di tutte le emozioni. La mancanza della speranza appare la cosa più
insostenibile, la più insopportabile per i bisogni umani”. “Stolta tristezza degli animali, creature senza
prospettive, abbandonate ad una istantaneità senza luce, solo gli uomini tentano di protendersi verso il
futuro, irrequieti, di trascendersi”. Il principio speranza è in gran parte una specie di fenomenologia che
descrive le diverse forme ed esperienze “della coscienza anticipante”, come Bloch chiama la coscienza
dell’uomo in quanto, mossa dal desiderio e dalla speranza, anticipa il futuro.
Vengono passati in rassegna il sogno notturno, “i sogni ad occhi aperti”, gli archetipi della coscienza, le
fiabe, il cinema, il teatro, i romanzi d’appendice, la moda, i viaggi, le utopie di varia natura che prospettano
un mondo migliore. Tutte avventure e strati della coscienza che rivelano, talvolta, un mondo illusorio e
mistificato, la struttura ontologica fondamentalmente utopica dell’uomo. Quanto alle fiabe, il loro scaturire
dalla fantasia popolare, è l’espressione utopica delle aspirazioni millenarie degli oppressi, la liberazione dal
lavoro, dalla fatica, l’uscita dalla miseria, la ricerca della felicità, della giustizia e dell’ abbondanza (la
lampada di Aladino, il paese della Cuccagna, il giovane povero che sposa la figlia del re, ecc…), evidenziando
che: “l’uomo è ciò che ha ancora molto davanti a sé”.
Bloch, inoltre, propone un nuovo “rapporto uomo - natura” secondo l’insegnamento marxiano di una
“umanizzazione” della natura, ma anche una “naturalizzazione” dell’uomo: non più si deve verificare una
“colonizzazione” della natura, intesa come mezzo di scambio, ma è necessario stabilire una riconciliazione
ed un’armonia tra uomo e natura.
Lo sviluppo della storia in Bloch ed il suo progresso non è sempre lineare e rettilineo, il procedere in avanti
della storia non avviene senza continui ritorni indietro, in sentieri prima aperti con fatiche e poi
abbandonati per essere ripresi successivamente.
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Marxismo e Cristianesimo.
Bloch prende in considerazione anche i bisogni ed i desideri spirituali dell’uomo radicandoli, però, nella
sfera della materialità del corpo vivente, riconoscendoli come espressione della fame che tormenta la
materia universale. Non di solo pane è infatti la fame degli uomini. Non ci si deve meravigliare più di tanto
che Bloch faccia ampio spazio, nella sua filosofia dell’utopia e della speranza, alla religione.
Non che egli venga meno al suo rigoroso ed intransigente ateismo: solo che lui ritiene che nella religione,
precisamente nella religione ebraico-cristiana nel suo sotterraneo e nascosto “filo rosso”, sia presente la
più sconvolgente ribellione del Dio creatore e padrone del mondo e dell’uomo. È Bloch che,
provocatoriamente, nel libro intitolato “Ateismo nel cristianesimo” afferma “che solo un ateo può essere
un buon cristiano, e solo un cristiano può essere un buon ateo”. Bisogna ben intendere questo duplice
paradosso: della religione va conservato quel formidabile semenzaio di speranze in un “mondo migliore” e
di proteste di fronte alle ingiustizie del mondo attuale, che con la religione è stato coltivato dagli uomini,
anche se i preti hanno cercato di disinnescare le proteste volgendo le speranze verso una consolatoria meta
oltre mondana, verso l’aldilà. Scrive Bloch in “Ateismo nel cristianesimo”: “l’ateismo e la concreta utopia
sono insieme, nello stesso atto fondamentale, l’annientamento della religione e la sua speranza critica che
cammina con piedi umani”. È vero che Marx, infatti, ha parlato della religione come “oppio dei popoli”, ma
questa espressione va collocata nel contesto in cui si dice che la miseria religiosa è insieme espressione
della reale miseria e la protesta contro di essa. “La religione è il sospiro della creatura oppressa, l’animo di
un mondo senza cuore”. “Dio è una lacrima dell’amore versata nel più profondo segreto della miseria
umana”.
Bloch, profondo conoscitore del testo biblico, apprezza soprattutto la religione del Regno e dell’Esodo,
rivaluta la “Bibbia dei poveri”, i profeti come Amos ed Isaia che si scagliano contro i signori con il loro Dio
sacerdotale (potere teocratico). È il filone del cristianesimo biblico che ha ispirato le grandi eresie popolari
e le guerre dei contadini italiani, inglesi, francesi e tedeschi fino all’insurrezione delle Cevennes appena
novant’anni prima della Rivoluzione Francese. Tra questi la Bibbia di Thomas Müntzer, il teologo
condottiero della guerra dei contadini tedeschi del 1525, cui fin dal 1921 Bloch aveva dedicato uno dei suoi
saggi più veementi (Thomas Müntzer, teologo della rivoluzione).
Dei fatti biblici, Bloch, attraverso il testo sacro da Mosè a Giobbe fino al Gesù della risurrezione, sviluppa
una lettura in chiave di una liberazione escatologica, tutta umana e mondana, liberazione dei diseredati dal
dominio dei potenti. L’episodio del “serpente”, il Prometeo della Bibbia ed il grido ribelle “eritis sicut deus,
scientes bonum et malum” viene rivalutato nella linea della indipendenza ed autonomia dell’uomo da Dio.
Bloch rifiuta la predicazione paolina del Gesù Salvatore che fa della Croce la sua scelta ed, invece, esalta il
Gesù della risurrezione, simbolo dell “éscaton”, dell’avvento dell’ “uomo nuovo”, dell’ “homo absconditus”
con lo sguardo verso l’avanti che ha sostituito lo sguardo verso l’alto.
Bloch accoglie tutta l’eredità sovversiva e non statica della Bibbia, in questo senso il Marxismo può dare
piena voce a quel trascendere senza trascendenza che nella Bibbia viene soffocato da una copertura
teocratica. In questo senso solo un ateo può essere un buon cristiano, dall’altra parte è la Bibbia che può
far uscire il Marxismo dalle piatte volgarità dell’economicismo e del materialismo. E questo è il senso della
reciproca: “solo un cristiano può essere un buon ateo”.
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Bloch, in definitiva, non propone un dialogo a distanza tra Marxismo e cristianesimo né un compromesso,
ma un’alleanza ed integrazione per la liberazione degli uomini oppressi e sfruttati, tra la rivoluzione ed il
cristianesimo.
Moltmann (1926), la teologia della speranza.
Le istanze ed ispirazioni messianico-religiose di Bloch hanno esercitato un notevole interesse in settori
importanti della teologia cristiana del Novecento.
Moltmann si è ispirato espressamente alla filosofia di Bloch, ma anche alle posizioni umanistiche di Camus,
di Adorno e di Horkheimer.
Moltmann, nato ad Amburgo nel 1926, ha iniziato a studiare teologia da prigioniero di guerra a Nortcamp
in Gran Bretagna ed ha proseguito gli studi a Gottinga dove si laurea nel 1952. Impegnato in attività
pastorale a Bremen con gli studenti universitari, ha insegnato alla Kirkeliche Hochschule di Wuppertal e poi
a Bonn ed a Tubinga. I suoi interessi culturali sono la teologia protestante ed in particolare Calvino. Il 1959
segna una svolta culturale nella vita di Moltmann, quando legge a Bonn e recensisce “Il principio speranza”
di Bloch e si pone l’interrogativo come mai alla fede cristiana sia sfuggito questo tema che le doveva,
invece, essere congeniale e caratterizzava il cristianesimo primitivo. Un primo confronto su questa tematica
egli lo tenta nel saggio del 1963 “Il principio speranza e la fiducia cristiana”, dove riprende un pubblico
dibattito tenutosi a maggio dello stesso anno a Tubinga. Parte dalla constatazione che il pensiero di Bloch
appare radicalmente orientato al futuro e proprio per questo impegnato a recuperare tutti gli elementi di
speranza presenti nel passato.
Questo tipo di marxismo si presenta perciò erede universale delle speranze umane. Per Moltmann la
risurrezione dei morti, l’attesa dell’escatologismo cristiano, la tematica di Dio, non sono riconducibili alla
prospettiva cristiana della patria dell’identità. Non condivide di identificare la speranza dell’escatologismo
di Bloch in cui l’ “homo absconditus” viene a coincidere con il “ Deus absconditus”. La speranza cristiana
trova il suo fondamento nella promessa di Dio e sul futuro aperto da Cristo: per questo Moltmann ribalta la
posizione di Bloch che proprio il cristianesimo è l’erede del mondo, perché ha acceso e mantiene viva la
speranza tra gli oppressi in un futuro caratterizzato dalla giustizia, dalla vita, dalla presenza di Dio.
Nel 1964, in continuità con questa linea di pensiero, esce la “Teologia della speranza” che rese celebre il
suo autore per l’originalità dell’impianto, ma anche perché apriva una nuova prospettiva teologica
superando le contrapposizioni dei barthiani e bultmaniani e la facile teologia della morte di Dio.
Nella prima parte dell’opera, alla domanda quale sia l’essenza del cristianesimo risponde che questa è da
porsi nell’ “escatologia” come centro e non semplice appendice.
Nell’ Antico Testamento, la religione appare caratterizzata come la religione della promessa, che orienta
l’uomo al futuro, che ha nella storia di Israele degli adempimenti che vengono sempre oltrepassati. Dio è
fedele alle sue promesse ed alimenta la speranza di una sua signoria sulla terra, che consiste nell’instaurarsi
della pace, intesa come abbondanza di ogni bene e della giustizia.
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Nel Nuovo Testamento, in Cristo si realizza la promessa dell’evento salvifico della storia in continuità con il
Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il Vangelo viene letto in questa prospettiva convalidante la
promessa dell’ Antico Testamento e la promessa verso il futuro della salvezza universale e cosmica.
Moltmann ribadisce che il cristianesimo sta o cade con l’affermazione della risurrezione di Gesù dai morti.
Tale evento può essere definito storico non perché può essere descritto con le moderne categorie della
scienza storica, ma perché è reale possibilità di eventi futuri, apre ad un futuro escatologico. Ora l’annuncio
della risurrezione è possibile nell’orizzonte della promessa e della domanda utopica. Se consideriamo l’
“absconditum sub Cruce” come l’elemento latente ed il “revelatum in resurretione” come l’elemento di
tendenza, vediamo che la risurrezione di Gesù è la convalida delle promesse antiche e nuova promessa
d’un futuro descrivibile come libertà e pienezza. In questa prospettiva, il cristianesimo non può ridursi alla
mera sfera privata, ma è chiamato a suscitare un orizzonte di speranza nel mondo e ad incidere sulle sue
istituzioni.
La Chiesa è la comunità della speranza il cui compito è di dischiudere al mondo l’orizzonte del futuro Regno.
Il Dio che la Chiesa attende “come colui che verrà”, crea il tempo storico come spazio aperto alla speranza
ed alla libertà umana e l’evento di Cristo (la risurrezione) è anticipazione del futuro che viene.
La risurrezione anticipa il futuro di Dio per coloro che sono senza speranze e senza diritti. L’uomo che ha un
tale tipo di fede ha, pure, questa visione della storia e del futuro e perciò lotta contro le strutture
autoritarie (strutture di peccato) ossessive e legalistiche della prassi politica e Moltmann indica cinque vie,
ambiti o sfere di liberazione dell’uomo, in concreto.
(1) Nella sfera economica non ci si può che impegnare per la liberazione della povertà e questa liberazione
si chiama socialismo inteso come giustizia sociale.
(2) Nella dimensione politica esiste il cerchio maledetto (diabolico) del potere e la via della liberazione si
chiama democrazia e diritti dell’uomo. (3) Nei cerchi del potere e della povertà si può individuare il cerchio
della estraniazione razzista e culturale e la via della liberazione non può che essere l’emancipazione. (4) I
cerchi della povertà, del potere e della estraniazione razziale sono avvolti oggi dalla distruzione industriale
della natura e la via della liberazione si chiama pace con la natura (problema ecologico). (5) Questi cerchi
visti esistenzialmente sono avvolti dal cerchio del non senso della vita o, in termini teologici, il sentimento
dell’abbandono da parte di Dio e qui la via della liberazione si intitola senso, coraggio di esistere. La
cristianità, infine, ha la consapevolezza di essere la coscienza critica dell’umanità e non di proporre
soluzioni politiche sociali alternative. Questi processi di liberazione sono interdipendenti e costituiscono i
gesti della speranza. La missione della cristianità è infatti “l’esperimento speranza” nella memoria del
Crocifisso e della sua sequela.
Nel 1972, Moltmann pubblica l’opera “Il Dio crocifisso” ed inizia una riflessione teologica sulla teologia della
Croce, evento centrale della vita di Cristo. Questa svolta potrebbe sembrare un elemento di rottura e di
discontinuità nel suo pensiero, mentre invece, risulterà una “vena scoperta” per affrontare il problema del
male e del dolore. Da una parte Moltmann critica il culto esasperato della Croce del mondo cattolico,
esaltante la mistica della Croce e la sofferenza che ha dato adito all’esperienza religiosa bollata come
“oppio dei popoli”. In realtà la Croce risulta in sé radicalmente irreligiosa: in essa trionfa il non-Dio, il nondiritto, la bestemmia, il nemico, la morte. Gesù fu condannato dal suo popolo come “bestemmiatore” e fu
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crocifisso dal potere romano come “sobillatore” sovversivo, in realtà la ragione profonda della sua morte è
stato il suo Dio e Padre.
La Croce acquista senso e valore solo se compare insieme alla risurrezione e va interpretata in un contesto
storico ed escatologico. I credenti pongono l’evento della Croce nell’orizzonte di significato della Pasqua,
nell’ottica del futuro di Dio che viene.
In Gesù, risuscitato dai morti, il futuro del mondo della vita si è reso già presente nel mondo irredento
caratterizzato dalla morte ed anche il futuro della risurrezione di tutti i morti è proletticamente in quell’
“Uno” che è risorto: “Il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine e non soltanto in appendice: è
speranza, è orientamento in avanti e perciò anche rivoluzionamento e trasformazione del presente.
L’elemento escatologico non è una delle componenti del cristianesimo, ma è in senso assoluto il tramite
della fede cristiana, la nota dominante a cui si accorda tutto il resto, è l’aurora dell’atteso nuovo giorno che
colora ogni cosa della sua luce” (J. Moltmann, Teologia della speranza, Brescia, 1970, p. 10).
“Senza la conoscenza di Cristo che si ha per la fede, la speranza diverrebbe un’utopia sospesa per aria. Ma
senza la speranza la fede decade divenendo tiepida e morta. Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero
della vita vera, ma soltanto la speranza ve lo mantiene” (J. Moltmann, Teologia della speranza, Brescia,
1970, p. 14). Il sentiero della vita di cui parla Moltmann attraversa, intersecandoli, i sentieri del mondo. La
speranza radica la vita cristiana nel cuore del mondo, trasformandolo. Dio in questa concezione non può
essere conosciuto con indagini metafisiche, ma attraverso l’analisi storica come “colui che viene”, “colui
che chiama”, potenza del futuro. La stessa rivelazione non può essere intesa in senso epifanico come si
usava una volta, ma acquista un significato prolettico (ossia anticipazione del futuro), annuncio del futuro
del Risorto.
La speranza diventa la chiave ermeneutica, il principio architettonico della Rivelazione, la classica formula di
S. Anselmo “fides quaerens intellectum, credo ut intelligam” si trasforma nel principio moltmaniano dello
“spes quaerens intellectum: spero ut intelligam”.
Bilancio critico conclusivo.
“Quel che importa è imparare a sperare” afferma Bloch che impernia la sua filosofia sulla speranza. L’uomo
vive unicamente proteso verso il futuro, l’impulso a sperare ampia “l’orizzonte dell’uomo”. L’uomo è
chiamato a progettarsi, a modificare il mondo e se stesso, ad auto-tendersi e fa questo nello spazio
dell’utopia. Ed è proprio qui che il pensiero di Bloch si innesta sui presupposti marxiani e tende a sviluppare
le conseguenze oltre Marx. La speranza è l’elemento trainante della vita umana. La filosofia della speranza,
come quella marxista, è la filosofia del futuro; ed analogamente a quella marxista ha a fondamento che
l’uomo vive in stato di alienazione. Però, mentre in Marx l’alienazione dell’uomo scaturisce da motivi
economici, Bloch fa risalire l’alienazione a ragioni più universali e profonde, a ragioni ontologiche. L’uomo è
alienato perché incompiuto, come incompiuto è l’universo di cui fa parte. “Dove c’è speranza, c’è religione”
afferma Bloch che rivaluta la protesta, come la ribellione della religione contro lo sfruttamento dell’uomo
sull’uomo. La religione è lamento nell’esistenza attuale e speranza di “un nuovo cielo e di una nuova terra”
(2 Pt, 3, 13). “Ecco faccio nuove tutte le cose” (Ap, 21, 5), l’annuncio escatologico che fa del Regno un
evento cosmico che si apre “ verso la nuova Gerusalemme”.
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Per questa sua profonda ispirazione messianico-religiosa, il pensiero blochiano non avrebbe mancato di
esercitare notevole interesse sulla teologia cristiana del Novecento. Moltmann ha guardato con simpatia
allo studioso comunista Ernest Bloch che ha elaborato una dottrina antropologica ed una visione della
storia in cui il teologo di Amburgo ha individuato lo strumento idoneo per offrire una interpretazione della
rivelazione cristiana conforme alle esigenze esistenziali ed alle attese dell’uomo moderno. In questo
quadro, il pensiero teologico di Moltmann costituisce un atto di fiducia nella capacità dell’uomo
contemporaneo di comprendere il messaggio evangelico e di sentirlo congeniale con le proprie aspirazioni.
Ma anche la sua teologia della speranza e della Croce ha avuto indubbi meriti di aver posto al centro
dell’attenzione e della riflessione il Crocifisso come colui che accoglie i peccatori, gli emarginati, gli
abbandonati dagli altri uomini.
D’altra parte la sua teologia della speranza ha suscitato un notevole dibattito per quanto riguarda il futuro
della sua teologia e della sua unilateralità. Nel tentativo di mettere in rilievo la novità del futuro in teologia,
Moltmann mette da parte le altre dimensioni del tempo, passato e presente, la stretta connessione di
adesso e di una volta, del “di già e non ancora”.
È pure parzialmente vera l’osservazione di Moltmann circa l’influsso ellenistico della categoria greca
dell’epifanico della divinità (rivelazione) rispetto a quello escatologico. E questa impressione risulta più
evidente quando il teologo di Amburgo sottolinea che la parola “Zukunft” (futuro, avvenire) nella lingua
tedesca copre due diverse tradizioni linguistiche e concettuali, quella del “futurum” e quella dell’
“adventus”. “Futurum” significa la possibile realizzazione di ciò che, attualmente contenuto nella potenza
originaria delle cose, si può realizzare in una fase temporale successiva, mentre l’ “adventus” indica quanto
può accadere non in forza della potenzialità propria delle cose, ma grazie ad un intervento di terzi.
Naturalmente l’escatologia cristiana e la teologia della speranza sono costruite sull’ “adventus” di Cristo. Il
Cristo risuscitato risulta la prolessi, l’anticipazione, l’inaugurazione del futuro di Dio. Ma una teologia che
pone un nesso esclusivo tra speranza e risurrezione trascura il legame tra l’incarnazione e la passione di
Cristo. Sensibile a questa osservazione, Moltmann elabora la teologia della Croce, perché non poteva
trascurare il problema della sofferenza, del dolore, della miseria, della tribolazione e della disperazione (le
smorfie del dolore e l’enigma della morte che aprono le porte al nichilismo). La speranza poi si realizza nella
prassi, l’azione politica e la rivoluzione.
Il Cristo Crocifisso stesso risulta una sfida lanciata alla Chiesa cristiana, alla teologia che osano qualificarsi
appellandosi al suo nome.
La teologia della speranza di Moltmann apparve a molti come il manifesto del nuovo cristianesimo
ecumenico e concreto ed ebbe un grande successo internazionale. La fede cristiana appariva fornita di
categorie originali e di una attività e vitalità sbalorditive corrispondenti alle aspirazioni di molti in tutto il
mondo (Roberto Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico - II, Secondo millennio, San Paolo,
Milano, 1997, p. 637). È stato detto giustamente che il mondo sarà “di chi saprà organizzare la più grande
speranza”. In Lui (Cristo Risorto) le genti spereranno!
“Signore noi speriamo in Te” (Isaia, 26, 9).
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“Utopia”.
È stato Sir Thomas More (Londra, 1478-1535), umanista, uomo politico e filosofo inglese a coniare il
termine “Utopia” che letteralmente significa “in nessun luogo”. Nell’omonima opera (1516), rappresenta il
nome di un’isola immaginaria in cui descrive uno stato ideale perfetto, retto dal principio dell’uguaglianza
economico-giuridica dei cittadini. Comunemente, il termine “Utopia” significa qualsiasi idea o progetto che
si prefigge scopi nobili e giusti, ma irrealizzabili. Oltre alla famosa prima utopia della “Repubblica” di
Platone (Atene, 427-347 a. C.) costruita a sfondo politico-sociale, altri filosofi elaborarono varie utopie
politiche come: Tommaso Campanella (Stilo, 1568- Parigi 1639), autore de “La Città del Sole” (1602) a
sfondo politico-economico e pedagogico-culturale, e F. Bacone (Londra, 1561-1626) con “La Nuova
Atlantide” (1627) di taglio politico tecnico e scientifico.
In senso spregiativo, l’appellativo “utopistico” fu riferito ai socialisti del primo Ottocento (Saint-Simon,
Owen, Faurier, Proudhon) in contrapposizione al socialismo scientifico promosso da Marx ed Engels. Il
socialismo sarebbe utopistico, perché misconoscendo l’importanza della lotta di classe e l’inevitabilità della
rivoluzione, pretenderebbero di modificare gradualmente, con mezzi pacifici, e comunque inadeguati, la
struttura economica e politica della società capitalistica e non hanno mirato alla conquista del potere
politico e perciò si sono rivelate fallimentari.
In termini espliciti, Bloch in “Spirito dell’utopia” (1918) e ne “Il principio speranza” (1954-56) ha parlato
della funzione positiva dell’utopia in quanto capace di scovare la realtà attraverso lo strumento della critica,
agisce come forza propulsiva reale della storia, consentendo l’affermarsi del diritto sulla forza e della pace
universale. Fondando la sua concezione politica “sul possibile”, Bloch chiama “utopico” il suo progetto
rispetto all’utopia stessa, campato in aria, utilizzando l’immaginazione che rende possibile l’impossibile - in
prossimo futuro. L’uomo è progetto, è proiezione in avanti verso un futuro migliore. “L’uomo non è tutto
ciò che è, che ha, ma tutto ciò che vorrebbe essere e ciò che vorrebbe avere” (Sartre).
Speranza
Oltre le macerie del ’900
Laura Boella
Parlare della speranza per la mia generazione rischia di assumere i tratti dell’autobiografia oppure
anche di una storia del secolo scorso: la speranza è stata infatti una figura centrale, ma altamente
drammatica nel Novecento ed è difficile separarla da eventi storici collettivi come la rivoluzione
sovietica e anche le rivolte giovanili degli anni ’60. La filosofia della speranza di Ernst Bloch è oggi
pressoché dimenticata, la teologia della speranza appare un relitto di un periodo confuso. La
speranza non interessa più o, scusate il gioco di parole, fa paura, appare pericolosa come forza
collettiva che incide sulla storia e sulla politica, responsabile in fondo di molte catastrofi, di slanci in
avanti immotivati e spesso pagati a caro prezzo, di un’ansia di miglioramento che, se non è fallita,
si è rovesciata spesso nel suo contrario, esercitando violenza e autoritarismo sui singoli. A livello
individuale, l’ideale o l’utopia di un mondo migliore, diverso o anche di una felicità personale
sembra ormai un azzardo o un folle volo dell’immaginazione. Oggi temiamo il futuro, pieno di
incognite e povero di rinnovamento e ci attestiamo, anzi siamo risucchiati dal presente, con le sue
esigenze di «realismo», di calcolo delle possibilità oggettive.
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Negli anni ’80, spentasi la fiammata delle rivolte giovanili e diventato sempre più urgente il
confronto con la distruttività della tecnica, Hans Jonas capovolse l’invito del filosofo della speranza
Ernst Bloch a «imparare a sperare» nell’invito a «imparare a disperare, ad avere paura». Paura di
che? Del futuro, del suo ignoto e delle sue minacce di distruzione dell’ambiente e delle condizioni
di vita dell’umanità. Il principio angoscia, disperazione, ha, per alcuni versi a ragione, sostituito
l’eccessiva fiducia della speranza nel possibile, nella trasformazione e manipolazione dell’esistente
con gli strumenti della tecnica. Ma è anche vero che ci si può chiedere se il senso del limite, della
responsabilità e del rispetto che dovrebbero derivare dal netto ridimensionamento delle aspettative
della speranza non rischino di essere gravati dall’ombra troppo cupa del principio disperazione.
Soprattutto, se pensiamo alle giovani generazioni, ha senso insegnare a disperare?
La storia del secolo scorso ha prodotto un effetto di restringimento dell’orizzonte della speranza e
forse una semplificazione del concetto. La speranza infatti non deve essere intesa solo come
potente agente propulsivo della dinamica storica, una sorta di spinta in avanti che imprime la
novità e il mutamento su processi che, lasciati a se stessi, avrebbero un andamento più lento o
meccanico, ripetitivo. Essa appartiene anche alla vita soggettiva di ognuno, corrisponde alla
capacità umana di anticipare e immaginare ciò che non è presente, ma è solo verosimile o
probabile, ciò che non si dà ancora in carne e ossa, che non ha raggiunto forma compiuta, ma si
annuncia o è oggetto di proiezioni ed elaborazioni della fantasia, del desiderio, dell’ideazione. La
speranza corrisponde alla capacità della mente umana di farsi guidare e ispirare da
ideali, immagini di felicità, perfezione e compiutezza. In tal senso, essa coinvolge tutte le attività
della mente. La speranza è sicuramente intrisa di emozione, di desiderio, di passionalità (è un
affetto d’attesa), è sicuramente impaziente e turbolenta come ogni manifestazione della vita
emotiva e come tale dà la tonalità emotiva alla volontà, con la sua esitazione, incertezza, il conflitto
delle motivazioni. La capacità di anticipazione e immaginazione di ciò che non è ancora reale la
colloca al centro della percezione (senza anticipazione non vedremmo le cose…) e delle funzioni
cognitive, in particolare della memoria. La speranza, dunque, va vista non solo all’interno della
costellazione dei sentimenti e degli affetti, ma anche come una dimensione che attraversa l’intera
vita soggettiva.
Da questo punto di vista, non sembra più tanto irrealistico e passato di moda l’invito di Bloch a
imparare a sperare. Certo, dobbiamo cercare di capire che cosa significhi sperare. Vista in una
luce che non la schiacci esclusivamente sugli avvenimenti storico-politici e sulle ideologie del
secolo scorso, la speranza mostra in effetti una trama molto complessa. Sperare ha una parentela
stretta con il sogno, con la creazione fantastica, con l’ideale, l’utopia, il progetto, con tutte le attività
della mente che oltrepassano la realtà data e si proiettano verso qualcosa di migliore, di diverso.
Lo scarto rispetto alla realtà è un elemento fondamentale della speranza. Ne consegue che per
capire che cosa significhi sperare bisogna fare i conti con le illusioni della speranza e con le sue
possibili delusioni. La speranza, in altri termini, deve fronteggiare la possibilità dell’illusione e
anche la possibilità di essere delusa, di non venire realizzata, compiuta.
Tra illusione e delusione c’è però una differenza: l’illusione ha a che vedere con il contatto con la
realtà e implica la sostituzione della fantasia alla realtà, la delusione ha a che vedere con la
realizzazione dell’ideale o dell’oggetto della speranza. Mentre la speranza astratta è una fuga dalla
realtà e quindi una negazione dello sforzo di miglioramento, la mancata o parziale realizzazione
della speranza non implica necessariamente il suo fallimento, ma può anzi rilanciarne il contenuto
ideale.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il pensiero della speranza è stato elaborato
nell’ambito della filosofia del ’900 proprio tematizzando le illusioni, le delusioni, la malinconia che
aleggiano intorno alla speranza. Il grande testo sulla speranza, ancora oggi da leggere e riscoprire,
resta Il principio speranza di Ernst Bloch. Bisogna però ricordare che, pubblicato nel 1955, nella
Repubblica Democratica Tedesca, fu scritto negli Stati Uniti in un momento di tragico isolamento di
Bloch che ebbe enormi resistenze a imparare l’inglese e quindi visse chiuso nella sua stanza,
sostanzialmente, a scrivere il libro dell’esilio. Il programma blochiano di sviluppare il principio
speranza, la dimensione di non ancora della realtà viene dunque messo in pratica scrivendo il libro
dell’esilio, il libro di una vita in un mondo straniero, un mondo che parlava un’altra lingua.
Bloch, che aveva iniziato con un libro sull’utopia, impregnato di forti tinte escatologiche e
messianiche, matura il suo vero e proprio pensiero della speranza negli anni Trenta, nella
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Germania su cui incombe lo spettro del nazismo. E tale maturazione avviene in un dialogo molto
stretto con Walter Benjamin, il pensatore della «speranza dei senza speranza».
Il pensiero della speranza nasce dunque in un momento di particolare pienezza di aspettative
come quello della Rivoluzione russa e dello spirito delle avanguardie e matura in strettissimo
dialogo con un pensiero che non crede sostanzialmente alla speranza come forza che spinge in
avanti. Ciò significa che il pensiero della speranza nel Novecento si alimenta della critica di una
concezione della storia come sviluppo lineare e progressivo e soprattutto si sviluppa in direzione
del ritrovamento, nel soggetto e nella realtà, di una dimensione di speranza intesa come capacità
di anticipazione e ideazione.
C’è un’altra immagine che campeggia nella filosofia del Novecento con la stessa forza e forse una
potenza ammonitrice ancora maggiore rispetto alla figura complessa della speranza di Bloch. È
quella contenuta nelle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, miracolosamente salvate e
affidate a Hannah Arendt nella fuga attraverso i Pirenei che si concluse tragicamente.
Si tratta di un testo in cui il principio del progresso viene radicalmente confutato e all’immagine
della marcia trionfale della storia in avanti viene sostituita l’immagine del profeta con lo sguardo
rivolto al passato. Noto è il riferimento della nona tesi al quadro di Paul Klee, Angelus Novus: un
angelo viene spinto a forza verso il futuro da una tempesta che spira dal paradiso, ma resiste, si
oppone alla forza che lo spinge in avanti e si volta indietro verso la storia che gli appare un
mucchio di rovine con un unico desiderio, quello di ricomporre l’infranto. La posizione di Bloch e
quella di Benjamin sono state probabilmente molto più in dialogo di quanto comunemente si creda.
Un’altra immagine benjaminiana ci viene pertanto in aiuto per costruire la costellazione della
speranza nella filosofia del Novecento. È contenuta in un bel libro di Benjamin, molto surrealista,
degli anni Trenta, Strada a senso unico. Qui troviamo il riferimento all’immagine della speranza
che si trova scolpita sul portale del Duomo di Firenze ed è opera di Andrea Pisano. Il brano di
Benjamin suona così: «Sopra il portale la Spes di Andrea Pisano, seduta, leva impotente le braccia
verso un frutto che le rimane irraggiungibile e tuttavia è alata. Nulla di più vero». Anche questa è
un’immagine di grande potenza simbolica, tutta giocata sulla legge del contrasto e della
coesistenza degli opposti. La figura della speranza è seduta, non è slanciata in avanti, forse è
impotente, ma leva le mani verso un frutto che rimane irraggiungibile; è immobile, ma leva le
braccia e ha le ali. Si tratta dunque di una speranza che si volge a un obiettivo impossibile, ma è
comunque impegnata in una tensione, non è priva di ali. Questa immagine potrebbe benissimo
essere ricollegata a quella che chiude un altro splendido saggio di Walter Benjamin, il saggio del
1924 sulle Affinità elettive di Goethe: nelle pagine conclusive compare l’immagine della speranza
come stella cadente che si leva sulla testa degli amanti, i protagonisti del romanzo, senza che loro
se ne accorgano. È questa la «speranza dei senza speranza».
Siamo arrivati al cuore del pensiero più intenso e che ancora ci parla, sporgendosi dall’abisso che
si è scavato tra il Novecento e l’inizio del nuovo millennio. Nonostante Bloch avesse un
programma e uno spirito probabilmente refrattari alle immagini di tensione impotente, di ali che non
riescono a spiccare il volo, di speranza seduta, sebbene il suo impeto vitale di scrittura e di
pensiero resistesse al senso del limite proprio di Benjamin, tanto l’immagine blochiana, quanto
quella benjaminiana dicono che il problema della speranza non è esclusivamente quello
della tensione in avanti, del sogno di un mondo migliore. Il problema della speranza è piuttosto,
come mostrano i chiaroscuri, il crepuscolo e l’alba di Bloch, quello di fare i conti con il passato e
con il presente. Il problema della speranza è un problema di realtà, di quale concezione abbiamo
di ciò che è reale e presente. L’insegnamento più profondo che ci viene dal profeta della speranza,
Bloch, e dal critico della speranza, Benjamin, è che senza una collocazione, un prendere le misure
nei confronti del presente e del passato, la tensione verso il futuro risulta vuota e, spesso può
anche risultare catastrofica. Questa vicenda insegna innanzitutto che la speranza non è semplice
fiducia nel sole dell’avvenire oppure nelle magnifiche sorti e progressive, bensì è una potenza
energetica, profondamente insidiata da forze contrapposte e da se stessa, dai rischi di fughe in
avanti e di proiezione sostanzialmente nel vuoto. Se questa visione più drammatica e più
complessa costituisce sicuramente la principale eredità del pensiero del ’900, non si può dire che il
discorso sulla speranza sia concluso.
Certo, ci si può chiedere: com’è compatibile questo rilancio della speranza con una visione tragica
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della storia, una visione che non può fare a meno di mettere al centro il male radicale? Si può
almeno provare a pensare che una concezione tragica della storia che pone al centro il male, il
male imprescrittibile, imperdonabile, non può in fondo impedire di pensare che i giochi non siano
tutti fatti o, detto in altri termini, che la storia non sia irrimediabilmente finita. Questa apertura,
certo, precaria, non ha nessuna garanzia, ma rimane il fatto che la partita non è ancora chiusa. In
questa apertura tutto è possibile, ed è possibile di conseguenza anche sperare, attivare qualcosa
di nuovo.
Maria Zambrano esprime in maniera molto delicata questa possibilità di apertura non garantita nel
contesto di una visione radicalmente tragica della storia. In un testo intitolato, non a caso, I beati,
Zambrano parla della speranza che non spera nulla, di una speranza priva di speranza che si
alimenta della propria incertezza: è «[…] la speranza creatrice, quella che estrae la sua stessa
forza dal vuoto, dall’avversità, dall’opposizione, senza per questo opporsi a nulla, senza lanciarsi in
alcun tipo di guerra. È la speranza che crea restando sospesa, senza ignorarla, al di sopra della
realtà, quella che fa emergere la realtà ancora inedita, la parola non detta: la speranza rivelatrice…
che nasce dal sacrificio».
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