ESERCITAZIONI a.a. 2014.2015 - Facoltà di Giurisprudenza

Anno Accademico 2014-2015
Corso di Diritto Civile – M/Z
ESERCITAZIONI
1) Cass. Civ., 19 giugno 2014, n. 14006
2) Cass. Civ., 19 giugno 2009, n. 14343
3) Cass. Civ., 28 gennaio 2013, n. 1874
4) Cass. Civ., Sez. Unite, 03 giugno 2013, n. 13905
Cass. Civ. ,03 aprile 2014, n. 7776
5) Corte di Giustizia, 21 gennaio 2015
6) Corte Cost., ord. 24 ottobre 2013, n. 248
Corte Cost., ord. 2 aprile 2014, n.77
7) Cass. Civ., 18 settembre 2009, n. 20106
Cass. Civ., 23 luglio 2014, n. 16787
8) Cass. Civ., Sez. Unite, 6 marzo 2015, n. 4628
Sentenza 19 giugno 2014 n. 14006 Sez. II
CONTRATTI - CONTRATTO PRELIMINARE - Condizione sospensiva Mancato avveramento della condizione - Domanda di risoluzione per
inadempimento - Ammissibilità - Esclusione - Motivi.
Ente Giudicante: Cassazione Civile
Presidente: Pres. GOLDONI Umberto; Rel. FALASCHI Milena
avverso la sentenza della Corte d'appello di Perugia n. 140 depositata il 10 maggio
2007;
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 27 febbraio 2014 dal
Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;
uditi gli Avv.ti (......), per parte ricorrente, (......) e (......), per parti resistenti, nonché
ricorrenti incidentali;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e del ricorso
incidentale della società cooperativa (......), assorbito il ricorso incidentale
condizionato della società (......).
Svolgimento del processo
La ITALCOSTRUZIONI s.p.a. con due distinti contratti preliminari di compravendita
stipulati il 3.4.1996 si impegnava ad acquistare dalla GESQUAR s.r.l. e dalla SEGIPA
s.p.a., che si obbligavano a vendere, terreni siti nel Comune di (OMISSIS) aventi,
rispettivamente, una superficie di mq. 28.000, il primo atto, e mq. 7.840, il secondo
contratto, entrambi i contratti venivano sottoposti alla condizione sospensiva del rilascio,
entro il 31.12.1996, di concessioni per la demolizione del fabbricato adibito a discoteca
(nota come Quasar) e per la costruzione sui terreni oggetto del preliminare e su altri
finitimi di un immobile con destinazione commerciale. Il successivo 4.4.1996 la
ITALCOSTRUZIONI stipulava con LA RINASCENTE s.p.a.
contratto preliminare di compravendita del centro commerciale condizionandolo alla
realizzazione da parte della promittente venditrice sulla medesima area di cui ai preliminari
del 3.4.1996.
Nella stessa data LA RINASCENTE stipulava con la SEGIPA un preliminare di cessione di
rami d'azienda - comprensivi di licenze commerciali - concluso il contratto definitivo nel luglio
1996.
Con atto del 30.9.1996 I.E., in forza di mandato con rappresentanza della SEGIPA,
concedeva alla PROMOS s.r.l. - o a soggetto cessionario da PROMOS - un'opzione per un
preliminare avente ad oggetto la compravendita della medesima area, nel quale veniva
indicato il vincolo assunto in favore della ITALCOSTRUZIONI, seppure erroneamente
indicato quale diritto di opzione, da esercitarsi entro il 31.1.1997, senza possibilità di
proroga; la opzione in favore della PROMOS era condizionata a che la SEGIPA non
comunicasse, entro il 1.2.1997, che la ITALCOSTRUZIONI aveva esercitato la sua opzione.
In data 16.12.1996 la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA prorogavano il termine per
l'avveramento delle condizioni sospensive al 30.6.1997;
altrettanto facevano LA RINASCENTE e la ITALCOSTRUZIONI 5 giorni dopo.
Il 22.1.1997 l' I. comunicava alla PROMOS che l'opzione concessa era risolta per non avere
la ITALCOSTRUZIONI rinunciato all'opzione, ma il 1.2.1997 la PROMOS cedeva la sua
opzione alla PAC 2000, la quale ultima il 5.2.1997 comunicava alla SEGIPA di accettare la
proposta di preliminare.
Tanto premesso, con atto di citazione notificato il 5 febbraio 1997 la PAC 2000 evocava,
dinanzi al Tribunale di Perugia, la SEGIPA, la PROMOS e l' I., chiedendo la pronuncia di
trasferimento degli immobili, subordinatamente al versamento del residuo prezzo,
corrisposto acconto per L. 100.000.000.
Instaurato il contraddittorio, la SEGIPA eccepiva che l' I. aveva ecceduto i limiti del mandato,
quanto alla indicazione di un rapporto diverso da quello realmente esistente con la
ITALCOSTRUZIONI, e comunque alla PROMOS era stata data tempestiva notizia
dell'efficacia del rapporto con la ITALCOSTRUZIONI, con lettera del 22.1.1997, e spiegava
riconvenzionale per il risarcimento dei danni nei confronti sia della PAC 2000, sia della
PROMOS, sia della ITALCOSTRUZIONI; la PROMOS deduceva di avere agito solo quale
mandataria di PAC 2000, nei cui confronti svolgeva domanda riconvenzionale di manleva
dall'azione di danni;
l' I., infine, eccepiva il suo difetto di legittimazione passiva.
A detto giudizio veniva riunita altra causa introdotta da LA RINASCENTE nei confronti della
SEGIPA, della PROMOS, della PAC 2000, dell' I. e della ITALCOSTRUZIONI, con la quale
parte attrice, dopo avere chiesto il sequestro conservativo dei beni della SEGIPA (peraltro
richiesto, con analogo ricorso, anche dalla ITALCOSTRUZIONI), domandava la risoluzione
di tutti i contratti che vedevano come controparti la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA,
nonchè quelli stipulati tra la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA, con condanna della SEGIPA
alla restituzione della somma di L. 600.000.000 versata in esecuzione del contratto di
cessione dei rami d'azienda, nonchè la condanna di tutti i convenuti - esclusa la sola
ITALCOSTRUZIONI - al risarcimento dei danni.
In quest'ultimo giudizio si costituiva la ITALCOSTRUZIONI, chiedendo la risoluzione del
preliminare del 3.4.1996 stipulato con la SEGIPA, oltre al risarcimento dei danni; nonchè la
SEGIPA, la quale eccepiva la carenza di legittimazione attiva, per non essere LA
RINASCENTE parte di alcuno dei contratti in questione, di cui era parte la SEGIPA, oltre a
ribadire la domanda risarcitoria nei confronti della PAC 2000; quest'ultima, nel chiedere il
rigetto della domanda attorea, assumeva di avere legittimamente esercitato il diritto di
opzione una volta scaduto il termine concesso alla ITALCOSTRUZIONI per l'esercizio
dell'opzione.
Istruite le cause, la controversia veniva conciliata tra la PAC 2000 e LA RINASCENTE con
la cessione alla prima dei diritti oggetto delle pretese avanzate in giudizio dalla seconda,
che perciò diveniva concessionaria di LA RINASCENTE. Il Tribunale adito, dichiarata
cessata la materia del contendere fra PAC 2000 e LA RINASCENTE, respingeva tutte le
restanti domande proposte dalle parti.
In virtù di rituale appello interposto dalla ITALCOSTRUZIONI, cui veniva riunito quello
proposto dalla PAC 2000, la Corte di appello di Perugia, nella resistenza degli appellati
SEGIPA ed I., respingeva i gravami e per l'effetto confermava la decisione impugnata.
A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava - preliminarmente
esaminata l'impugnazione proposta dalla PAC 2000 - che andava condiviso il giudizio del
giudice di prime cure quanto all'avere l' I. superato i limiti del mandato con procura nella
stipulazione dell'opzione in favore della PROMOS, come si evinceva dal tenore del
medesimo mandato, di cui alla scrittura del 20.1.1996, laddove era previsto che l'incarico
conferito dovesse avere pieno rispetto di quanto pattuito dalla SEGIPA con la
ITALCOSTRUZIONI, incarico che sarebbe cessato automaticamente nel caso in cui la
ITALCOSTRUZIONE avesse esercitato la propria opzione nei termini convenuti, di nessuna
rilevanza la data del 20.1.1997, verosimilmente legata alla scadenza, nell'anno precedente,
di altro mandato rinnovato per un anno solare. Concludeva che non essendo riferibile
l'opzione alla pretesa rappresentata, cadevano tutte le domande e gli ulteriori rilievi formulati
dalla PAC 2000 circa la riferibilità alla SEGIPA dell'opzione dalla stessa esercitata.
Quanto all'appello proposto dalla ITALCOSTRUZIONI, osservava la corte distrettuale che
intrinsecamente contraddittorio si presentava il motivo relativo alla prospettazione secondo
cui sarebbe bastato, ai fini dell'avveramento della condizione, l'ottenimento di un nulla osta
per 2.400 mq., a fronte dei 5.800 mq. previsti nel preliminare, nel senso che avrebbe potuto
dichiarare la sua volontà in tal senso alla SEGIPA, senza peraltro temere alcuna
conseguenza dannosa, pur in presenza dell'azione della PAC 2000, dichiarazione che
avrebbe avuto l'effetto di eliminare l'efficacia delle condizioni sospensive apposte ai contratti
preliminari, rendendo immediatamente attuale l'obbligazione della SEGIPA di trasferire
l'immobile.
Concludeva che il contratto preliminare non aveva spiegato efficacia per il concorso di due
sole circostanze: il mancato avveramento delle condizioni sospensive, da un lato, la volontà
della promissaria acquirente di non rinunciare all'avveramento delle stesse; non essendo la
prima circostanza frutto dell'attività dell' I. o della PROMOS, della PAC 2000 e della SEGIPA,
non essendolo neppure la seconda, non era configurabile alcun rapporto di causa - effetto
tra le condotte di questi soggetti e l'inefficacia del preliminare.
Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Perugia agisce la
ITALCOSTRUZIONE, in base a cinque motivi, nonchè la PAC 2000, con ricorso affidato a
due motivi, cui replica la SEGIPA s.r.l.
con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale articolando un unico motivo. Al
ricorso incidentale della SEGIPA replica la ricorrente principale con controricorso.
In data 27.6.2008 l'Avv.to Carlo De Marchis Gomez Borrero ha prodotto comunicazione L.
9 febbraio 1982, n. 31, ex art. 9, di attuazione della Direttiva Europea 77/249/CEE. La
ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA hanno depositato memorie illustrative.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disposta, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., la riunione del ricorso principale e
dei ricorsi incidentali siccome proposti avverso la stessa sentenza.
In relazione ai due ricorsi autonomamente proposti, rispettivamente, dalla
ITALCOSTRUZIONI e dalla PAC 2000 occorre osservare che, come è pacifico nella
giurisprudenza di legittimità, per il principio dell'unicità del processo di impugnazione contro
una stessa sentenza, dopo la notifica del primo ricorso (principale) tutte le altre impugnazioni
devono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e, perciò, nel caso del
ricorso per cassazione, nell'atto contenente il controricorso indipendentemente dalla forma
espressa dalla parte ed ancorchè proposto con atto a sè stante:
tale modalità non è però essenziale, per cui si verifica la conversione di ogni ricorso
successivo al primo in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del
termine di quaranta giorni (venti più venti), risultante dal combinato disposto degli artt. 370
e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l'abbreviato e l'annuale) di impugnazione in
astratto operativi. Detto termine decorre dall'ultima notificazione dell'impugnazione
principale nel caso (come nella specie) in cui tale impugnazione sia stata notificata anche
alla parte che propone l'impugnazione incidentale (Cass. 2 agosto 2002 n. 11602; Cass. 6
dicembre 2005 n. 26622). Nel caso in cui i ricorsi siano stati notificati nella stessa data,
l'individuazione, tra essi, del ricorso principale e di quelli incidentali va effettuata con
riferimento alle date di deposito dei ricorsi, considerandosi principale il ricorso depositato
per primo e incidentale quello depositato successivamente.
Nella specie i due ricorsi della ITALCOSTRUZIONI s.p.a. e della PAC 2000 soc. coop. a r.l.,
proposti come impugnazioni autonome, sono stati notificati, il primo, il 16 maggio 2008 ed il
secondo il 16 giugno 2008, oltre ad essere stati depositati in differente data, per cui va
considerato come principale quello della ITALCOSTRUZIONI, mentre quello della PAC
2000 si converte in ricorso incidentale, al pari di quello della SEGIPA, espressamente
definito come tale dalla stessa parte.
Venendo ora all'esame del ricorso principale, con il primo motivo la società ricorrente
denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1358 e 1458 c.c., in relazione ai principi
generali che presiedono al rapporto tra tutela giurisdizionale ed effetti del contratto
preliminare condizionato, per avere la corte di merito ritenuto che il mancato avveramento
della condizione sospensiva, avveramento al quale era subordinata la efficacia del contratto
preliminare stipulato fra la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA, nonchè quello collegato
intercorso fra la prima e RINASCENTE, abbia privato di ogni effetto il contratto medesimo,
sull'erroneo presupposto che solo il consolidamento della efficacia di tale contratto fosse
compatibile con le domande di ITALCOSTRUZIONI. Ad avviso della ricorrente la soluzione
offerta dalla sentenza impugnata postulerebbe che i contraenti "sotto condizione
sospensiva" sarebbero dispensati dalla osservanza dei propri obblighi e dall'esercizio dei
propri diritti, tesi che colliderebbe con il disposto dell'art. 1358 c.c..
Infatti se l'obbligo di comportarsi secondo buona fede caratterizza il periodo di pendenza,
ogni valutazione circa l'osservanza o la violazione di tale obbligo deve prescindere dalla
questione dell'avveramento della condizione medesima.
A conclusione del mezzo è posto il seguente quesito di diritto:
"dica la Corte se la domanda di risoluzione che postuli, quale inadempimento di contratto
preliminare sotto condizione sospensiva, la creazione, da parte del promittente venditore, di
situazioni giuridiche in capo a terzi incompatibili con le legittime aspettative del promissario
acquirente, sia autonomamente valutabile quale fattispecie di inadempimento indifferente al
successivo mancato avveramento della condizione".
Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio quanto alla
clausola contenuta al punto 7) del contratto preliminare ITALCOSTRUZIONI - SEGIPA,
laddove la promittente venditrice dichiara e afferma di garantire che quanto oggetto del
contratto è nella sua piena ed esclusiva disponibilità, esente da oneri, vincoli e diritti di terzi
in genere, da cui la promissaria acquirente vorrebbe far discendere una obbligazione attuale
della SEGIPA, immediatamente produttiva di effetti, non condizionata a sua volta. Chiarisce
la ricorrente principale che il fatto controverso e decisivo attiene alla produzione di effetti
(immediati o viceversa dilazionati nel tempo) del contratto preliminare (sospensivamente)
condizionato intercorso tra ITALCOSTRUZIONI e SEGIPA, per avere la corte di merito
ritenuto che una volta non avveratasi la condizione, il contratto preliminare fosse totalmente
improduttivo di effetti. Infatti a corollario del mezzo formula il seguente momento di sintesi
(omologo del quesito di diritto): "il Giudice di appello ha omesso di considerare la clausola
(di cui al punto 7) del contratto inter partes Italcostruzione - Segipa la quale, in accordo con
le norme di legge, profila un diritto di Italcostruzioni al quale corrisponde una obbligazione
di Segipa già attuale (i.e.: immediatamente produttiva di effetti)".
Con il terzo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione dell'artt.
1356 e 1458 c.c., per avere la corte di merito ritenuto che la Italcostruzioni non poteva
pretendere alcunchè una volta accertato il mancato avveramento della condizione prevista
in preliminare. Aggiunge la ricorrente che erroneamente la corte territoriale avrebbe
obliterato la circostanza che nel momento in cui era stata adottata la delibera della Giunta
Regionale n. 5713/1997 essa aveva perso interesse all'avveramento della condizione. In
sintesi, la corretta interpretazione dell'art. 1356 c.c. quale norma conferente tutela
giurisdizionale in presenza di condizione sospensiva, rapportata al caso di specie, conduce
alla formulazione del seguente quesito di diritto: "dica la Corte se il successivo mancato
avveramento della condizione sospensiva si rifletta sulla esperibilità dell'azione risolutivo risarcitoria, motivata alla alterazione unilaterale dello status del bene promesso ed
esercitata dal promissario acquirente in pendenza della condizione".
I primi tre motivi di ricorso principale vanno esaminati congiuntamente, stante la loro
connessione in merito alla definizione dei confini della clausola generale di buona fede nei
rapporti contrattuali.
Essi sono infondati. La sentenza impugnata è, infatti, del tutto corretta e si sottrae alle
critiche di cui è stata oggetto.
Bisogna premettere che, come è noto, il contratto sottoposto a condizione sospensiva si
perfeziona immediatamente ma è inefficace fino a quando la condizione non si avvera: il
negozio esiste - esistendo i suoi elementi strutturali - ma non è ancora efficace e solo con il
verificarsi della condizione spiega la sua efficacia ex tunc, mentre cessa di esistere se la
condizione non si avvera. Così, ad esempio, nella vendita è differito non solo il trasferimento
ma ogni effetto (finale) tipico del negozio. L'efficacia di tale contratto è paralizzata durante
la pendenza del termine per il verificarsi della condizione.
Durante il detto periodo di pendenza - su cui retroagiscono l'avveramento o il mancato
avveramento della condizione - le parti si trovano in una posizione di aspettativa che è fonte
di effetti preliminari. In particolare, in pendenza della condizione sospensiva, il contratto a
prestazioni corrispettive produce i suoi normali effetti e vincola i contraenti al puntuale ed
esatto adempimento delle obbligazioni rispettivamente assunte: la condizione, infatti, rende
incerto il negozio, ma è già fermo ed irrevocabile il vincolo negoziale. Nessun effetto riferito
alla situazione finale può però verificarsi finchè dura la pendenza salvo alcune eccezioni
derivanti dall'applicazione dei principi ricavabili dalle disposizioni dettate dall'art. 1358 c.c.:
da dette disposizioni è possibile individuare il contenuto delle aspettative delle parti del
contratto condizionato, ossia delle situazioni soggettive che nascono dal contratto
condizionato. Tale contratto fa sorgere diritti ed obblighi preliminari che possono dar luogo
a risoluzione per inadempimento alla specifica obbligazione - prevista dal citato art. 1358
c.c. - di ciascun contraente di comportarsi in pendenza della condizione "secondo buona
fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte", cioè di osservare i doveri di lealtà e
correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., in modo da non influire sul verificarsi dell'evento
condizionante pendente.
Al riguardo questa Corte ha avuto modo di precisare che il contratto pur inefficace per il
mancato avveramento della condizione, può essere risolto in danno della parte colpevole di
aver violato il dovere di comportarsi in buona fede: è di conseguenza ammissibile la
risoluzione - di un contratto divenuto inefficace per il mancato avveramento della condizione
- per inadempimento dell'obbligo di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo
buona fede nonchè di astenersi da quanto possa pregiudicare gli interessi dell'altro
contraente e di compiere quanto sia del caso necessario affinchè l'evento condizionante si
verifichi (in tali sensi, tra le tante, Cass. 22 marzo 2001 n. 4110 e Cass. 18 marzo 2002 n.
3942). Il contratto sottoposto a condizione sospensiva, quindi, può ritenersi perfettamente
concluso e, anche se non ancora efficace, già produce obbligazioni preliminari o
prodromiche - da osservarsi dai contraenti durante la pendenza della condizione - il cui
inadempimento può dar luogo ad una responsabilità contrattuale e ad una pronuncia di
risoluzione per mancato rispetto degli obblighi di cui al citato art. 1358 c.c..
Nella specie, però, la violazione degli obblighi assunti dalle promittenti venditrici con i
rispettivi contratti preliminari, sottoposti a condizione sospensiva, non ha comportato secondo l'incensurabile valutazione in fatto operata dalla corte di merito con ineccepibile e
congrua motivazione - un danno irrimediabile alla promissaria acquirente e la menomazione
delle ragioni di quest'ultima, nè ha avuto alcuna incidenza sul mancato verificarsi della
condizione e sulla definitiva inefficacia del contratto (non attribuibile a colpa delle promittenti
alienanti che non avevano impedito o ostacolato il verificarsi dell'evento condizionante),
nonchè sulla connessa caducazione di tutti i contratti a detto accordo collegati, divenuti
incompatibili con la definitiva inefficacia dei primi due negozi, compresa l'opzione per un
preliminare concordata dall' I. (in forza di mandato con rappresentanza della SEGIPA) a
favore della PROMOS o soggetto cessionario di quest'ultima, operativa solo se la
condizione sospensiva si fosse verificata, non esercitati dalla Italcostruzioni i diritti nascenti
dai preliminari stipulati.
Quindi, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 1358 c.c., l'eventuale domanda di risoluzione per
inadempimento delle obbligazioni rispettivamente assunte dalle parti con il contratto
sottoposto a condizione sospensiva deve essere rigettata nel caso in cui la condizione non
si sia verificata. Intanto si può parlare di inadempimento contrattuale in quanto sussista un
contratto efficace:
il mancato avveramento della condizione impedisce al contratto di produrre i propri effetti
con conseguente impossibilità di parlare di inadempimento.
Peraltro le argomentazioni svolte dal giudice del gravame quanto al mancato avveramento
della condizione vanno lette in collegamento con l'accertamento contenuto nella sentenza
relativamente al motivo di appello per il quale sarebbe bastato l'ottenimento del nulla osta
per 2.400 mq., a fronte dei 5.800 mq. previsti nel contratto preliminare, per determinare
l'efficacia dell'accordo, richiamato a pagg. 15 e 16 della decisione impugnata secondo cui
la Italcostruzione, dopo aver appreso del rilascio del nulla osta per la minore superficie,
avrebbe dovuto esprimere la volontà di dare comunque corso al preliminare.
Orbene, come è stato affermato da questa Corte, colui che si è obbligato o ha alienato un
bene sotto la condizione sospensiva del rilascio di determinate autorizzazioni amministrative
necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l'altra parte si propone, ha il
dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede
(art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l'avveramento di siffatta condizione,
in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio delle autorizzazioni; con la
conseguenza che deve rispondere delle conseguenze dell'inadempimento di questa sua
obbligazione contrattuale nei confronti dell'altra parte, alla quale è possibile chiedere la
risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni conseguenti, da accertare secondo il
criterio della regolarità causale, che consente di riconoscere il danno nel caso in cui (avuto
riguardo alla situazione di fatto esistente nel momento in cui si è verificato l'inadempimento)
debba ritenersi che la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo possibile il legittimo
rilascio delle autorizzazioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile (Cass. 2
giugno 1992 n. 6676; Cass. 15 giugno 2011 n. 13099). E' evidente che tale giudizio deve
essere condotto verificando se sussistessero circostanze tali da fare ragionevolmente
presumere che il procedimento amministrativo avrebbe avuto esito favorevole. In altri
termini, nell'ipotesi di cui all'art. 1359 c.c., il giudice deve indagare se l'inadempimento sia
imputabile al debitore e deve esaminare il comportamento dell'obbligato potendo dichiarare
la risoluzione del contratto solo se sussista la colpa di quest'ultimo per il mancato
avveramento della condizione.
Si tratta di attività di accertamento preclusa nella specie per avere la stessa ricorrente
principale riconosciuto che il rilascio di autorizzazione era intervenuto per la realizzazione
di un centro commerciale di estensione ben inferiore rispetto a quella prevista in contratto,
con conseguente definitiva inefficacia del negozio medesimo (per il mancato verificarsi della
condizione sospensiva) e cessazione dell'esistenza del contratto, nonchè di tutte le relative
pattuizioni.
Del resto per potere essere riconosciuto il risarcimento del danno da inadempimento
contrattuale, in ipotesi di violazione del generale canone della buona fede, in presenza di
contratto sottoposto a condizione sospensiva, occorre fornire la prova non solo di una
condotta negligente e dell'esistenza di danni, ma anche di un nesso di causalità, ossia
dell'incidenza della prima nella produzione dei secondi, non potendo certo il risarcimento
essere riconducibile al mero non avveramento della condizione. E nella specie la corte di
merito ha positivamente accertato che l'unico comportamento colpevole era stato quello dell'
I., che comunque non aveva inciso sul mancato avveramento della condizione.
Deve poi essere segnalato - con riferimento alle censure relative al lamentato errore che
sarebbe stato commesso dalla corte di appello nell'interpretare le clausole del contratto
preliminare in questione e nell'obliterarne il contenuto e la portata - che costituisce principio
comunemente recepito quello secondo cui, in tema di interpretazione dei contratti e delle
clausole contrattuali, l'accertamento della volontà dei contraenti si traduce in una indagine
di fatto affidata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di
insufficienza o contraddittorietà di motivazione tale da non consentire la ricostruzione
dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, ovvero per il caso di violazione delle
regole ermeneutiche. Pertanto in questa sede di legittimità la censura dell'interpretazione
data dal giudici di merito al contratto ed alle clausole che lo compongono, può essere
formulata sotto due distinte angolazioni:
denunciando l'errore di diritto sostanziale per non essere state rispettate le regole di
ermeneutica dettate dall'art. 1362 c.c. e ss.; ovvero investendo la coerenza formale del
ragionamento attraverso il quale la sentenza impugnata è pervenuta a ricostruire la comune
intenzione delle parti.
E' infine compito del giudice del merito valutare il contenuto del contratto al fine di
identificarne l'oggetto: il risultato di tale indagine è soggetto al sindacato della cassazione
solo sotto il profilo della logicità e della congruità della motivazione.
Nella specie la corte di appello ha esaminato i principali obblighi assunti dalle parti ed ha
evidenziato gli aspetti più rilevanti e caratterizzanti dei contratti in questione con riferimento
alla previsione della condizione sospensiva, agli obblighi assunti dai promittenti venditori,
all'individuazione dell'assetto degli interessi perseguiti dai contraenti con il regolamento
negoziale.
All'esito di tale indagine e di tale attività interpretativa la corte territoriale, prendendo le
mosse dall'esame dei fatti e delle risultanze istruttorie, ha coerentemente concluso
affermando che i promittenti alienanti non avevano violato l'obbligo di comportarsi secondo
buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte, nè la loro condotta aveva reso
impossibile la stipula del contratto definitivo di vendita.
La corte distrettuale è pervenuta alle riportate conclusioni attraverso argomentazioni
complete ed appaganti nonchè improntate a retti criteri logici e giuridici.
Il giudice di appello ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in
fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento.
Alle dette valutazioni la ricorrente principale contrappone le proprie, ma della maggiore o
minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo
consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo
esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione.
Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la corte di appello, nel porre
in evidenza gli elementi favorevoli alle tesi delle promittenti venditrici, ha implicitamente
espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi della promissaria acquirente.
Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge che
presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal
giudice del merito.
In particolare le dette censure - con le quali la società ricorrente mira ad ottenere un riesame
del merito circa l'interpretazione del contratto stipulato dalle parti tenendo conto della volontà
comune dei contraenti - risultano inammissibili in quanto volte ad una rivalutazione dei fatti
di causa non consentita nel giudizio di cassazione: in effetti i rilievi al riguardo mossi dalla
ITALCOSTRUZIONI urtano contro valutazioni ed apprezzamenti di merito che, in quanto
sorretti da adeguata e coerente motivazione, si sottraggono a qualsiasi critica in questa
sede.
Con il quarto motivo viene dedotta la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione
circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacchè essendo pacifico che la
condizione de qua era stata in contratto a solo favore della Italcostruzioni, la corte di appello
rimprovera alla ricorrente principale di non avere formalmente dichiarato alla controparte la
sua volontà di dare per avverate le condizioni che erano poste a suo unico interesse.
Giudizio che viene definito dalla ricorrente principale intensamente contraddittorio per avere
la stessa agito per la risoluzione del contratto e non già per il suo adempimento. Viene
indicato il seguente momento di sintesi: "il giudice di appello ha omesso di considerare che,
proponendo la domanda giudiziale di risoluzione, Italcostruzioni aveva mostrato in maniera
univoca di non avere più interesse all'effetto legato all'avveramento della condizione".
Con il quinto motivo la ricorrente principale nel denunciare la omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione censura la decisione impugnata laddove ha ritenuto neutra
l'azione intrapresa dalla PAC 2000 rispetto alle aspirazioni e agli interessi della
Italcostruzioni, giacchè se fosse stata accolta avrebbe posto nel nulla il suo titolo. Aggiunge
la ricorrente che comunque detta azione costituiva un vulnus nell'affidamento sull'assetto
dei diritti in gioco provocato dalla creazione (da parte della Segipa) di pretese in capo a terzi
e delle iniziative giudiziarie che ne erano scaturite.
L'illustrazione del mezzo pone a conclusione il seguente momento di sintesi: "il Giudice di
appello ha contraddittoriamente ed illogicamente affermato che, se Italcostruzioni avesse
dichiarato di rinunziare alla condizione non avrebbe avuto da temere alcuna conseguenza
dannosa, pur in presenza dell'azione della Pac (quando l'azione della Pac, se accolta,
avrebbe in ogni caso condotto alla nullificazione del titolo di Italcostruzioni). Il Giudice di
appello ha contraddittoriamente ed illogicamente affermato ancora che, gravato l'immobile
dalla trascrizione della domanda giudiziale della PAC, liberarlo sarebbe stato onere della
venditrice Segipa".
Anche gli ulteriori motivi del ricorso principale - che vanno trattati congiuntamente per la
contiguità argomentativa - non sono da accogliere, perchè si basano sul fraintendimento del
senso delle affermazioni che censurano.
La Corte d'appello, infatti, ha accertato, nel respingere l'impugnazione della Italcostruzioni,
che l'inefficacia del contratto preliminare di compravendita era dipeso dal mancato
avveramento della condizione sospensiva, la quale non si era realizzata per fatti non riferibili
a parte promittente venditrice. Di qui la conclusione secondo cui la condotta della SEGIPA
non poteva essere considerata contraria a buona fede, essendo inidonea, ai sensi dell'art.
1453 c.c., a legittimare la proposizione della domanda di inadempimento.
Ciò posto, si osserva che, nell'ambito di tale percorso argomentativo, l'ulteriore rilievo
contenuto in sentenza, secondo cui "L'Italcostruzioni - se fosse stata interessata
effettivamente all'acquisto del terreno in assenza delle autorizzazioni contemplate nel
contratto - avrebbe potuto dichiarare la sua volontà alla Segipa, senza temere nessuna
conseguenza dannosa, pur in presenza dell'azione della PAC", è svolto chiaramente ad
abundantiam, e non incide sulla reale ratio decidendi, che è rappresentata dall'acclarata
conformità a buona fede del comportamento tenuto dalla promittente venditrice, tale da non
legittimare la proposizione della domanda di inadempimento.
Orbene, costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui è inammissibile
il motivo di ricorso per cassazione che censuri una argomentazione della sentenza
impugnata svolta ad abundantiam e che, pertanto, non costituisce una ratio decidendi della
medesima. Una affermazione, infatti, contenuta nella motivazione della sentenza di appello,
che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva
di effetti giuridici, non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse
(tra le tante v. Cass. 22 novembre 2010 n. 23635; Cass. 19 febbraio 2009 n. 4053; Cass. 5
giugno 2007 n. 13068;
Cass. 14 novembre 2006 n. 24209; Cass. 23 novembre 2005 n. 24591).
Passando all'esame del ricorso (convertito, a seguito di riunione, in incidentale) proposto
dalla PAC 2000, il primo ed il secondo motivo, con i quali viene denunciato il difetto di esame,
illogicità manifesta e contraddittorietà su punti decisivi della controversia, in particolare viene
criticato l'assunto del giudice di appello secondo cui la priorità della trattativa con
Italcostruzioni dovesse vincolare il mandatario oltre il limite cronologico del 31.12.1996
previsto e pattuito nel contratto preliminare prioritario, nonchè mancato esame della
circostanza secondo la quale la dedotta prorogabilità del preliminare non era a lei opponibile
per difetto di data certa, patto che peraltro non era sottoposto a registrazione, indicano quali
punti decisivi: "se la priorità degli accordi raggiunti tra la società mandante e la promittente
acquirente implichi o meno, in difetto di esplicito patto, la prorogabilità dei termini fissati negli
accordi stessi"; "se la eccezione di difetto di opponibilità del patto di proroga privo di data
certa meritasse, o meno, di essere esaminata e valutata ai fini della congrua valutazione
delle domande avanzate da PAC 2000 nei confronti di Segipa".
Tali motivi sono inammissibili per sopravvenuta carenza di interesse.
Come emerge chiaramente dal contenuto della sentenza impugnata dianzi sintetizzato (cfr.,
supra, Svolgimento del processo), la reiezione della domanda di risoluzione del preliminare
di compravendita si fonda sulla ratio decidendi, idonea, di per se sola, a sorreggerla, della
inefficacia definitiva del contratto per mancata realizzazione della condizione sospensiva. E'
da sottolineare che tale decisum non risulta sindacato, per cui sono inammissibili le censure
relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime
non potrebbero comunque condurre, stante l'intervenuta definitività della pronuncia, alla
cassazione della decisione stessa (Cass. 24 maggio 2006 n. 12372; Cass. 16 agosto 2006
n. 18170; Cass. 29 settembre 2005 n. 19161).
Infine la censura posta a fondamento dei due motivi del ricorso incidentale (formulato in via
condizionata) della SEGIPA (con cui lamenta che il giudice del gravame non abbia tenuto
conto della sua eccezione di inammissibilità relativa al fatto che la Italcostruzioni aveva
introdotto la medesima domanda prima con comparsa di costituzione e risposta del 4.6.1997
nel giudizio introdotto da RINASCENTE e poi con atto introduttivo autonomo della stessa
Italcostruzioni notificato il 14.10.2003) è assorbita dal rigetto del ricorso principale.
Conclusivamente, il ricorso principale e quello incidentale della PAC 2000 vanno rigettati,
con assorbimento di quello incidentale condizionato della SEGIPA. Stante la complessità
della vicenda in fatto, ricorrono giusti motivi per dichiarate interamente compensate fra le
parti le spese del giudizio di legittimità.
PQM
La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quello principale e quello incidentale della PAC 2000,
assorbito quello incidentale condizionato della SEGIPA;
dichiara interamente compensate fra tutte le parti le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 27 febbraio
2014.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 19 GIUGNO 2014
Sentenza 19 giugno 2009 n. 14343 Sez. III
LOCAZIONE - DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI URBANI
(LEGGE 27 LUGLIO 1978 N. 392, COSIDDETTA SULL'EQUO CANONE) PATTI CONTRARI ALLA LEGGE - Clausola di contratto di locazione
relativa alla previsione cumulativa del divieto di sublocazione e di
ospitalità non temporanea di terzi - Nullità Sussistenza - Fondamento.
Ente Giudicante: Cassazione Civile
Presidente: Pres. VITTORIA Paolo; Rel. D'AMICO Paolo
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso in riassunzione depositato il 20.3.1998 l'INPDAI agiva nei confronti di L.D.B. e
B.D. esponendo di essere proprietario di un appartamento sito in (......), concesso in
locazione abitativa alla L..
Precisava l'attore che da tempo quest'ultima non occupava più l'immobile e che, in
contrasto con quanto disposto dal contratto di locazione, ne aveva ceduto il godimento alla
B..
Tanto premesso parte attrice chiedeva dichiararsi risolto il contratto di locazione concluso
con L.D.B.;
dichiararsi la B. occupante senza titolo dell'immobile;
condannarsi la L. e la B. al rilascio dell'appartamento ed al pagamento dell'indennità di
occupazione, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio.
Mentre B.D. rimaneva contumace, L.D.B. resisteva alla domanda sostenendo di aver
avuto e di avere ancora la disponibilità dell'immobile;
che lì era indirizzata la sua corrispondenza e lì era telefonicamente rintracciabile;
che la B. era stata soltanto un'ospite;
che i propri impegni lavorativi e familiari ne rendevano discontinua la presenza
nell'appartamento;
che le modalità di godimento della cosa locata appartenevano ad una dimensione sua
personale non sindacabile in alcun modo dal locatore.
La convenuta non negava dunque d'aver ospitato la B., nè d'aver abitato in modo non
continuativo l'appartamento; sosteneva però di non averlo mai abbandonato e concludeva
per il rigetto dell'avversa pretesa sostenendo:
a) l'inefficacia della clausola 15 del contratto nella parte in cui vieta "di ospitare non
temporaneamente persone estranee al nucleo familiare anagrafico", in quanto la clausola
stessa non era stata specificamente approvata per iscritto ai sensi dell'art. 1341 c.c.,
comma 2, art. 1342 c.c. e art. 1469 quinquies c.c., ed era da presumere vessatoria a
norma dell'art. 1469 bis c.c., n. 18;
b) la nullità della medesima clausola in quanto tesa a limitare "anche la libertà personale,
delle relazioni personali e del domicilio, in contrasto con l'art. 3 Cost., comma 2, artt. 13 e
14 Cost.".
La ricorrente precisava infine che nessun danno era stato comunque cagionato all'ente
ricorrente.
Con sentenza n. 36653/2000 il Tribunale di Roma, disattesa l'eccezione di nullità della
clausola 15 del contratto inter partes;
ritenuta inapplicabile in quanto posteriore al contratto de quo la norma dell'art. 1469 bis
c.c.;
ritenuta sussistente la perdurante violazione, per circa un quinquennio, della suddetta
clausola;
rilevata la sussistenza degli estremi per la risoluzione del rapporto ed il risarcimento del
danno, così provvedeva:
1) dichiarava risolto per effetto di clausola risolutiva espressa il contratto di locazione
concluso tra l'INPDAI e L.D. B.;
2) dichiarava B.D. occupante senza titolo dell'immobile;
3) condannava L.D.B. e B.D. al rilascio in favore dell'INPS dell'appartamento;
4) condannava L.D.B. e B.D. in solido al risarcimento dei danni da liquidare in separato
giudizio.
Proponeva appello la sola L.B. talchè la sentenza passava in giudicato per la B..
L'appellante insisteva sull'eccezione di nullità della clausola contrattuale ex art. 15, non
approvata ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2 e comunque ritenuta in contrasto con la
norma dell'art. 1469 bis c.c. considerato applicabile al caso anche se posteriore alla
stipulazione del contratto;
negava che sussistessero gli estremi per la risoluzione del contratto;
deduceva la mancanza di prova del danno considerato del tutto inesistente.
Resisteva l'INPDAI.
A seguito della soppressione dell'INPDAI da parte della L. n. 289 del 2002 e della
successione a titolo universale dell'INPS nei relativi rapporti, la causa era interrotta e
quindi riassunta nei confronti dello stesso INPS che però non si costituiva.
La Corte d'appello, in accoglimento del gravame ed a parziale riforma dell'impugnata
sentenza:
a) rigettava la domanda di risarcimento danni nei confronti dell'appellante;
b) confermava per il resto la sentenza impugnata.
Proponeva ricorso per cassazione L.D.B..
Resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale l'INPS e per esso la Romeo
Gestioni s.p.a..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. - Ricorso principale e ricorso incidentale, rivolti contro la stessa sentenza, debbono
essere decisi insieme.
Il primo è fondato, non lo è l'altro.
2. - L'art. 15 del contratto di locazione dispone che "E' fatto assoluto divieto, sotto
comminatoria di risoluzione di diritto del presente contratto e pagamento integrale del
deposito cauzionale, e salvo il diritto al risarcimento dei maggiori danni subiti, di sublocare
i beni locati anche in parte o di cedere il contratto, sia a titolo oneroso che gratuito, con o
senza mobili.
Detto divieto è esteso anche al caso in cui i sublocatari risultino affini del conduttore.
E' altresì vietato, sotto le comminatorie tutte sopra riportate, ospitare non
temporaneamente persone estranee al nucleo familiare anagrafico, quale risulta essere
indicato all'atto della stipula del contratto.
I divieti sono validi ed operanti anche se l'Istituto non pone in essere atti diretti a farli
rispettare".
L'impugnata sentenza ha ritenuto valida ed efficace tale clausola perchè, secondo la corte
d'appello,
a) è connaturale alla locazione, specie abitativa, essendo quest'ultima un rapporto fondato
sull'intuitus personae;
b) si colloca nella fisiologia del contratto di locazione e non può pertanto considerarsi, ai
sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2 vessatoria e soggetta a specifica approvazione per
iscritto.
Anzi, prosegue la sentenza, un'ospitalità protratta per un lungo lasso di tempo finisce per
assumere i caratteri della sublocazione invito domino in conflitto con la L. n. 392 del 1978,
art. 2 (seppure non con l'art. 1594 c.c.).
Data l'anteriorità della clausola in esame rispetto alla data di entrata in vigore dell'art. 1469
bis c.c. non è conferente, si ritiene infine, il richiamo a quest'ultima disposizione (Cass.,
17.7.2003, n. 11200).
Le tesi della corte d'appello sono contestate da L.D. B., con il ricorso principale in cui sono
svolti tre motivi nei quali si denunzia rispettivamente:
1) "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1571 e 1587 c.c., L. n. 392 del 1978, art. 2, in
relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Omessa e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5";
2) "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1341, 1342, 1469 bis, 1469 quinquies c.c.,
anche in combinato disposto con l'art. 3 Cost., comma 2, artt. 13 e 14 Cost., in relazione
all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Omessa e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5";
3) "Omessa pronuncia sul contrasto, immediato o mediato, del regime convenzionale (art.
15 del modulo contrattuale I.N.P.D.A.I./ L.) con l'art. 3 Cost., comma 2, artt. 13 e 14 Cost.,
in relazione, all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 e omessa motivazione in relazione all'art. 360
c.p.c. n. 5".
Con il primo motivo la ricorrente critica in particolare la tesi secondo la quale il rapporto di
locazione "si fonda sull'intuitus personae" e il ritenuto carattere "connaturale alla
locazione" del contenuto della clausola n. 15.
Secondo la ricorrente le affermazioni della corte d'appello sono apodittiche e controvertibili
e quest'ultima ha erroneamente postulato l'equivalenza fra "ospitalità protratta" e
"sublocazione", inferendone l'estensione alla ospitalità del divieto di sublocazione non
parziale di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 2.
Tale equivalenza (fra "ospitalità protratta" e "sublocazione"), prosegue la ricorrente, è
smentita dall'insegnamento dalla stessa Cassazione secondo la quale il titolo
dell'occupazione (sublocazione, comodato, ospitalità) è tanto rilevante da essere materia
di prova.
Con il secondo motivo la L. critica ancora la corte d'appello per essersi questa
"sbarazzata" della disciplina dei "contratti col consumatore", contenuta nel capo 14 bis c.c.
(ed ora nel "Codice del consumo"), e ritiene che nessun dubbio può sussistere circa
l'applicabilità degli artt. 1469 bis e 1469 quinquies c.c. ad un contratto di locazione
stipulato fra un ente (I.N.P.D.A.I) che gestisce il proprio patrimonio immobiliare ricorrendo
a modalità di contrattazione in serie e per adesione ed un privato (L.) il quale, sottostando
a condizioni contrattuali unilateralmente predisposte dalla controparte, si procura l'accesso
ad un bene fondamentale della vita quale l'abitazione.
Con il terzo motivo la ricorrente segnala infine la mancata corrispondenza tra chiesto e
pronunciato in relazione all'omessa pronuncia sul conflitto tra l'art. 15 del contratto e la
disciplina costituzionale; e sostiene che la clausola contrattuale in forza della quale è stata
confermata la risoluzione pronunciata in prime cure è priva d'effetto perchè in diretto
contrasto con le norme della costituzione citate nell'epigrafe del motivo in esame.
Orbene, ai fini del decidere si deve escludere che la clausola in discussione -che equipara
la prolungata ospitalità a sublocazione -sia riconducibile ad alcuna delle figure previste
dall'art. 1341 c.c..
Nè al caso si può ritenere applicabile la norma dettata dall'art. 1469 bis c.c. introdotto con
L. 6 febbraio 1996, n. 52, perchè la disposizione è priva di effetto retroattivo e non si
applica ai negozi conclusi in epoca antecedente alla sua entrata in vigore, stante il
generale principio di irretroattività della legge (Cass. 23.12.2004 n. 23965; Cass.
17.7.2003 n. 11200; Cass. 29.11.1999 n. 13339).
Tanto premesso, ritenuti non applicabili gli artt. 1341 e 1469 bis c.c., la disciplina della
fattispecie per cui è causa va ricercata nell'ordinamento unitariamente considerato, quale
insieme di fonti eterogenee ma reciprocamente armonizzate seppur non in senso paritario
bensì secondo un rigoroso rapporto gerarchico al cui vertice è la costituzione che, in modo
diretto o indiretto, assegna a ciascuna di esse la propria funzione normativa.
In tale struttura gerarchica una posizione preminente hanno quelle norme che attengono ai
valori inviolabili della persona umana ed il cui dettato non si esaurisce in formule
meramente programmatiche, ma è dotato d'un valore precettivo che le rende direttamente
applicabili anche ai rapporti intersoggettivi (Cass. 15.7.2005 n. 15022; Cass. 31.5.2003, n.
8828; Cass. 31.5.2003, n. 8827).
In questo quadro, come i osserva in dottrina, l'autonomia negoziale non può essere
disancorata dalla natura degli interessi sui quali una data disposizione è destinata ad
incidere.
E poichè ogni interesse è correlabile ad un valore, attraverso l'analisi degli interessi si
dovrà individuare quali fra essi estrinsecano valori che hanno nella Carta costituzionale il
loro riconoscimento e la loro tutela.
In altri termini, il fondamento costituzionale dell'autonomia negoziale va individuato alla
luce di molteplici supporti normativi, in ragione della natura degli interessi affidati alle
singole esplicazioni di autonomia e dei valori costituzionali ai quali questi interessi sono
riconducibili.
I fondamenti costituzionali dell'autonomia negoziale offrono all'interprete le indispensabili
coordinate, alle quali attingere per esprimere sui singoli e concreti atti di autonomia quei
giudizi di valore che l'ordinamento affida loro.
Ci si riferisce ai controlli di "meritevolezza di tutela degli interessi" (art. 1322 c.c.) e di
"liceità" (spec. art. 1343 c.c.) che devono essere condotti, per quanto qui interessa, alla
stregua dell'art. 2 Cost. il quale tutela i diritti inviolabili dell'uomo e richiede l'adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà.
Quest'ultima, supremo principio costituzionale, esprime cooperazione e si caratterizza per
una valenza etica, identificandosi con un "ideale di partecipazione piena all'altrui vicenda"
che non può non assumere aspetti di reciprocità.
La persona è inseparabile dalla solidarietà che non può essere pertanto limitata alla sfera
dei rapporti economici dato che il principio solidaristico, oltre a svolgere una funzione
emancipatoria ed a garantire l'adempimento dei doveri del singolo verso la comunità,
assume rilevanza anche nell'ambito dei rapporti interindividuali.
In altre parole, il principio solidaristico non è più soltanto caratterizzato in senso
economico, rivolto a scopi nazionalistici, di efficientismo del sistema o di aumento della
produttività, ma ha fini ad un tempo politici, economici, sociali.
Nell'art. 2 Cost. (oltre che negli artt. 29 e 30 cost.) trovano così il loro sostegno le
esplicazioni di autonomia, a contenuto patrimoniale e non, che hanno la loro ragion
d'essere nella famiglia (ad es., accordi sull'indirizzo della vita familiare, convenzioni
matrimoniali, contratti stipulati nell'interesse della famiglia), alla quale è devoluto
l'essenziale compito di realizzare le istanze più profonde della persona.
Alla stregua di queste premesse deve rilevarsi che i divieti di cui all'art. 15 del contratto di
locazione confliggono proprio con l'adempimento dei doveri di solidarietà che si può
manifestare attraverso l'ospitalità offerta per venire incontro ad altrui difficoltà e possono
altresì confliggere con la tutela dei rapporti sia all'interno della famiglia fondata sul
matrimonio sia di una convivenza di fatto tutelata in quanto formazione sociale, o con
l'esplicazione di rapporti amicizia.
D'altra parte, considerato il superamento del tradizionale modo di intendere i diritti della
personalità e l'esigenza di tutelare la vita privata dall'altrui ingerenza, è lecito individuare
nella clausola generale di cui all'art. 2 Cost. una tutela contro le lesioni della personalità
che si potrebbero verificare anche attraverso l'intrusione nelle mura domestiche del
conduttore.
E una tale violazione certo consente l'art. 15 Cost. attraverso quei possibili controlli sullo
svolgimento di relazioni individuali all'interno dell'immobile, finalizzati ad impedire forme di
ospitalità non temporanea.
In conclusione, per le ragioni sin qui esposte, rilevato il contrasto fra il suddetto art. 15
Cost. e la disciplina dell'art. 2 Cost. il ricorso principale è fondato.
3. - Si deve allora esaminare il ricorso incidentale, che come si è anticipato non è fondato.
L'Inps con un motivo denuncia vizi di violazione di norme sul procedimento (art. 360 c.p.c.,
n. 4, in relazione all'art. 418 c.p.c.) e di difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5):
sostiene che la questione della inefficacia della clausola di cui all'art. 15 Cost. del contratto
di locazione avrebbe dovuto essere introdotta in giudizio nel rispetto dell'art. 418 cod. proc.
civ., perchè la sua deduzione avrebbe la natura di domanda riconvenzionale e che questa
difesa, già opposta in primo grado non è stata presa in esame.
Se non che la questione dell'inefficacia della clausola, come dimostrano le ragioni che
hanno condotto ad affermarla, aveva invece la natura processuale di un'eccezione
rilevabile di ufficio sottratta alla operatività dell'art. 418 c.p.c..
4. - Accolto il ricorso principale e rigettato quello incidentale, siccome non sono richiesti
altri accertamenti di fatto la causa si presta ad essere decisa nel merito con il rigetto della
domanda.
5. - La novità della questione decisa giustifica che le spese dell'intero processo siano
dichiarate compensate per l'intero.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta l'incidentale, cassa la sentenza impugnata e
pronunciando nel merito rigetta la domanda, compensa le spese dell'intero giudizio.
DATA DEPOSITO 19 GIUGNO 2009
Sentenza 28 gennaio 2013 n. 1874 Sez. III
RESPONSABILITÀ CIVILE - PROFESSIONISTI - ATTIVITÀ MEDICOCHIRURGICA - Espianto del rene - Consenso del donante Provvedimento di autorizzazione del giudice - Effetti.
Ente Giudicante: Cassazione Civile
Sentenza
Svolgimento del processo
Il 5 marzo 2004 il Tribunale, adito con citazioni 20-22 maggio 1999 da Alfredo@Calvo, che
si era sottoposto ad una operazione di espianto di rene per donarlo a \Vito @Giacaruni\ il
*15 dicembre 1986*:
a) dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Gestione Liquidatoria della ex USL
*Roma A* e della Regione Lazio, in quanto il Policlinico Umberto *I di Roma*, prima della
riforma ex legge n.453/99 costituiva unità organica con la Università *La Sapienza* ed era
estranea al S.S.N., pur concorrendo alle sue prestazioni;
b) dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Azienda Policlinico *Umberto I*
perchè la neocostituita Azienda era succeduta alla precedente Azienda Universitaria
Policlinico *Umberto I* solo nei rapporti in corso e non già nei rapporti esauriti già definiti
alla data della istituzione dell'Azienda Policlinico, trattandosi di azione di risarcimento
danni a seguito di inesatto adempimento di prestazione sanitaria;
c) dichiarava prescritto il diritto al risarcimento nei soli confronti del Ministero della Salute,
in carenza di atto interruttivo, mentre rigettava la eccezione di prescrizione dell'Azienda
Universitaria;
d) accoglieva la domanda risarcitoria proposta dal C. nei confronti dell'Azienda
Universitaria per inadempimento contrattuale solo per danni biologico e morale,
escludendo, perchè non dimostrato, il danno patrimoniale;
e) rigettava la domanda di garanzia impropria assicurativa, proposta nei confronti della
Assitalia dalla Azienda Policlinico *Umberto I* e la domanda di garanzia proposta dalla
Azienda universitaria nei confronti della stessa Compagnia, essendo rimasto senza esito
(successivo alla notifica) il differimento della udienza di comparizione.
In punto di fatto, il C. aveva citato, con gli atti di cui sopra, il Ministero della Sanità (ora
Ministero della Salute), la Regione Lazio, la ex USL *ROMA 4* (in realtà USL *ROMA 2*)),
ex artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., e a vario titolo, onde sentirli condannare al risarcimento
dei danni, che assumeva avere riportato a seguito di un intervento di espianto di un rene,
come donatore, presso il Reparto di patologia speciale chirurgica del Policlinico *Umberto
I*.
Asseriva che a seguito di quell'intervento, aveva riportato gravi sofferenze (spondilosi
lombare, discopatia, stati depressivi e schizofrenia), cronicizzate, tali da impedirgli lo
svolgimento di qualunque attività lavorativa e lamentava di avere riportato danni anche alla
sfera psicologica perchè erano state omesse o eseguite in modo errato le indagini
richieste dalla legge n.458/67 atte ad accertare l'attitudine psicologica del donatore ad
essere spiantato.
Su gravame principale della Università *La Sapienza* ed incidentale dell'Assitalia la Corte
di appello di Roma il 21 dicembre 2009 ha accolto per quanto di ragione l'appello
principale, segnatamente disconoscendo il danno morale risarcibile per inesistenza di un
comportamento antigiuridico direttamente riferibile ai sanitari (p.17 sentenza impugnata) e
ha dichiarato assorbito l'appello incidentale della Assitalia, governando variamente le
spese.
Avverso siffatta decisione propone ricorso principale per cassazione la Università degli
Studi di Roma, affidandosi a sette motivi, di cui tre incentrati sulla disconosciuta
prescrizione, altri su profili processuali (uno e sette), altri su questioni di diritto sostanziale.
Al ricorso principale resistono con controricorso l'Assitalia, che propone poi ricorso
incidentale in parte adesivo al ricorso della Università, l'Azienda Policlinico *Umberto I* e il
\Calvo\, che propone ricorso incidentale, con un unico motivo che con cui contesta la
ritualità, rinvenuta dal giudice dell'appello, delle modalità con cui è stato raccolto dal
Pretore il suo consenso ai sensi della L. n. 458 del 1967, art. 3.
Al ricorso incidentale del C. resiste con controricorso l'Università *La Sapienza*.
L'INA ASSITALIA ha depositato memoria.
Motivi della decisione
I due ricorsi sono riuniti ex art. 335 c.p.c..
In merito alle questioni sottoposte dalle parti all'esame di questa Corte il Collegio osserva
quanto segue.
1.Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell'art. 99 c.p.c., e del principio della
domanda - ultrapetizione -, nonchè di quello della corrispondenza tra chiesto - petitum - e
pronunciato in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n.
5) la Università lamenta che, avendo il \Calvo\ introdotto una domanda di natura
extracontrattuale - art. 2043, 2049 e 2050 c.c., la stessa non poteva essere qualificata di
natura contrattuale. In altri termini, in presenza di una espressa menzione da parte
dell'attore delle norme relative alla responsabilità extracontrattuale (p.3 della citazione
introduttiva) sarebbe stato evidente che l'azione era solo di questa ultima natura nei
confronti di tutti i convenuti, non solo, anche perchè la sentenza impugnata ha escluso
l'antigiuridicità della condotta della struttura.
Peraltro, per ciò che riguarda l'attuazione delle garanzie previste dalla L. n. 458 del 1967,
art. 5, la assenza di decreti attuativi della legge, escludeva in radice la responsabilità sia
della Università che di qualsiasi altro soggetto convenuto.
2.-Con il secondo motivo, collegato al precedente, (violazione e falsa applicazione dell'art.
2935, 2943 e 2947 c.c., in materia di prescrizione, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3;
difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università afferma che erroneamente il
giudice del merito avrebbe respinto l'eccezione di prescrizione, che doveva decorrere dalla
data del trapianto (1986) e non già dalla data di aggravamento delle condizioni di salute
del \Calvo\ (1993-1995), nè, al riguardo, avrebbero avuto efficacia interruttiva le lettere
dell'aprile 1994 e del luglio 1995, in quanto rivolte non già alla Università, ma al Ministero e
al Policlinico *Umberto I* ed anche la richiesta di indennizzo assicurativo è diversa dalla
domanda risarcitoria (p.9-10 ricorso).
3. - Conseguente a questa censura è il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli
artt. 2935, 2943, 2947 e 2952 c.c., in materia di prescrizioni brevi del contratto di
assicurazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c.,
n. 5) con il quale la Università assume che le lettere dell'aprile 1994 e del luglio 1995 non
erano idonee ad interrompere la prescrizione perchè con esse il \Calvo\ aveva chiesto solo
chiarimenti in ordine alla stipula di apposito contratto assicurativo, riservandosi di agire
successivamente per il risarcimento (p.11 ricorso).
4. - Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2043 c.c.,
nonchè dell'art. 2697 c.c., dell'onere della prova, dei principi in materia di nesso di
causalità tra i danni lamentati ed un comportamento dell'Università *La Sapienza* in
relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università
lamenta che, essendo stato escluso un comportamento colpevole della Università nella
procedura e nell'intervento di espianto del rene, non avrebbe dovuto ad essa essere
addebitato alcun danno biologico per la mancata stipula del contratto assicurativo.
Peraltro, non essendosi attivato tempestivamente per far valere la garanzia assicurativa
entro l'anno, il \Calvo\ nulla avrebbe potuto e dovuto pretendere (p. 12 ricorso).
5. - In ordine a tutte queste censure il Collegio osserva che esse, in buona sostanza,
tendono ad affermare che l'azione del \Calvo\ sarebbe stata prescritta e in mancanza di un
nesso di causalità il \Calvo\ non avrebbe potuto nulla pretendere.
5.1. - Di vero, e venendo al primo motivo, sotto il profilo della qualificazione della
domanda, va ribadito, come da giurisprudenza costante, che la stessa rientra nel potere di
apprezzamento interpretativo del giudice del merito a prescindere dal nomen juris ad essa
attribuita dalla parte e, quindi, in ipotesi del genere nessuna violazione si rinviene nella
sentenza impugnata così come individuata dalla ricorrente, ossia la sussistenza di un
divario tra chiesto e pronunciato, e ciò, tanto meno, sotto il profilo del difetto di
motivazione.
Del resto, come evidenzia il resistente nel suo controricorso (p. 11), risulta che egli, una
volta esposto i fatti, ebbe a proporre una domanda risarcitoria facendo riferimento alle
norme anche di natura secondaria che, a suo avviso, erano state violate in sede di
procedura prodromica all'espianto e non aveva affatto specificato nella formulazione del
petitum la qualificazione giuridica della sua pretesa.
Ciò detto, deve convenirsi con la sentenza impugnata che "la qualificazione dell'azione
contrattuale non ha modificato nè il bene della vita richiesto (risarcimento del danno), nè le
ragioni della domanda (il comportamento contra legem della struttura sanitaria presso la
quale era stato eseguito l'espianto in violazione della L. n. 458 del 1967" (p.12 sentenza
impugnata).
5.2. - In merito al secondo motivo, circa la decorrenza del termine prescrizionale, corretta
si rivela la decisione impugnata nella parte in cui ha individuato l'inizio della decorrenza del
termine dalla data dell'intervento (e in ciò accogliendo la prospettazione della stessa
Università), così come pienamente aderente ai dati documentali è l'affermazione del
giudice dell'appello secondo cui le due lettere del 3 aprile indirizzata alla AUSL *Roma A* e
al Ministero della Sanità e quella del 6 luglio 1995 alla stessa Azienda e al Policlinico
*Umberto I* prospettavano in modo in equivoco la azione giudiziaria in caso di mancato
accertamento della copertura assicurativa in favore del donatore ex L. n. 458 del 1967.
Del resto, anche la seconda lettera era stata inviata al Policlinico *Umberto I* (p.14
sentenza impugnata) e su questa circostanza, oltre quanto contestato nella censura, nulla
oppone la Università nemmeno nel controricorso al ricorso incidentale del \Calvo\.
5.3. - Il terzo motivo va disatteso perchè si limita a contestare, peraltro, genericamente, la
ritenuta idoneità delle lettere inviate dal difensore del \Calvo\, non contestando, però,
quanto affermato in sentenza, ossia che almeno quella del 1995 era indirizzata alla
Università *La Sapienza di Roma*, che non poteva non essere l'unico soggetto
passivamente legittimato all'epoca dell'intervento, in quanto il Policlinico costituiva parte
integrante della Università (p.15 sentenza impugnata con puntuale richiamo a Cass. S.U.
n. 584/08, che condivide Cass. n. 4456/03 ed di recente Cass. 23098/10).
5.4. - Con il quinto motivo violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 2043 c.c., della
L. n. 458 del 1967, (art. 5 e 8) in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - difetto di motivazione ex
art. 360 c.p.c., n. 5), in estrema sintesi e sulla base della premessa mancanza delle norme
regolamentari di attuazione della L. n. 458 del 1967, la Università assume che l'obbligo
assicurativo a suo carico non era previsto, mentre lo sarebbe stato a carico di altri soggetti
(p.13 ricorso).
La censura non merita accoglimento per le considerazioni che seguono.
Di vero, una volta ritenuto che unico soggetto autorizzato ex art. 3 della legge citata era
l'Istituto Universitario, il Policlinico, che costituiva azienda dell'Università *La Sapienza*,
dotato di autonomia patrimoniale, organizzativa e contabile, ma privo di personalità
giuridica e che la domanda risarcitoria era conseguente, ma autonoma rispetto al rapporto
contrattualmente definito di espianto, ogni legittimazione passiva non poteva che
individuarsi nella Università.
E' vero, trattandosi di dato normativo testuale, che alla legge doveva seguire il
Regolamento attuativo, (art. 8, comma 1) non per questo, però, la legge, in parte qua,
doveva ritenersi sospesa nel suo vigore e nella sua efficacia.
Dal punto di vista di inquadramento della fattispecie in esame in linea di principio va
affermato che il contratto di espianto di un rene, nel suo momento genetico e funzionale, in
riferimento al rapporto tra "donatore" e struttura sanitaria specialistica, è un contratto
assimilabile a quello di prestazione d'opera, in cui la responsabilità del debitore sorge per
l'inesatto adempimento della stessa.
Si è in presenza di un contratto, però, che offre una sua peculiarità nel senso che concreta
una deroga alla norma imperativa, di ordine pubblico interno, qual è l'art. 5 c.c., anche
secondo una interpretazione costituzionalmente orientata (v. LL.PP. e dibattito di cui alla
seduta della Camera dei Deputati del 15 giugno 1967), peraltro condiviso da attenta
dottrina.
Questo contratto in tanto si perfeziona in quanto si siano osservati scrupolosamente la L.
n. 458 del 1967, artt. 2, 3, 4 e 5, e come tutti i contratti di cui sopra presenta una
obbligazione di mezzi e non di risultati, ma, diversamente da altri similari, richiede per
essere valido ed efficace una protezione del donatore per i rischi e un'assoluta gratuità (v.
L. n. 458 del 1967, artt. 6 e 7).
Infatti, l'art. 5 della legge, che di per sè mostra una cauta apertura alla indisponibilità del
proprio corpo (art. 5 c.c.), si giustifica in forza della tutela primaria della persona, che in
virtù degli artt. 2, 3 e 32 Cost., si concreta come carattere fondamentale qualificante
l'intera architettura dello Stato.
Quindi, in questo caso, l'espianto, dopo l'accertamento di tutti gli elementi prodromici alla
autorizzazione della sua effettuazione, deve anche presentare una soglia di copertura, a
garanzia dell'indubbio favor donantis, presente nella legge.
Ne consegue che tra gli elementi essenziali del contratto tra il "donatore" e la struttura
sanitaria rientra indiscutibilmente la sussistenza di una garanzia assicurativa, la cui
indispensabilità, richiesta dall'art. 5 della citata, legge, trova conforto proprio nella
peculiarità del contratto, che, riguardando l'integrità della persona, non può non essere
soggetta all'influenza dei valori costituzionali racchiusi nelle norme costituzionali sopra
indicate.
E' per questo che la norma di cui all'art. 5 della citata legge è norma di immediata
attuazione ed imperativa nel confronti della struttura sanitaria ritenuta idonea ad operare il
trapianto, come si ricava dalla sua formulazione, quando prevede che il "donatore" è
ammesso a godere dei benefici previsti da altre leggi per i lavoratori dipendenti e autonomi
in stato di infermità e recita "è altresì assicurato contro i rischi immediati e futuri, inerenti
all'intervento operatorio e alla menomazione subita".
Tale natura di norma immediatamente precettiva è ulteriormente rafforzata dal fatto che
disconosce alcuna facoltà contrattuale - assicurativa alla struttura sanitaria nè alcuna
discrezionalità è lasciata alla autorità amministrativa., configurando, al contrario, un diritto
soggettivo perfetto a tutela del donatore e che, specularmente, si concreta in un obbligo
giuridico a carico della struttura sanitaria: obbligo che è componente essenziale del
rapporto contrattuale tra struttura sanitaria e "donatore".
E' per questo che la inesistenza del Regolamento attuativo, nella specie, era ed è
irrilevante, per cui l'attesa del Regolamento non poteva a sua volta essere causa di
giustificazione nè per eventuali interventi sanitari nè per la copertura assicurativa a favore
del "donatore", non potendosi ragionevolmente ritenere da un lato che il trapianto, alle
condizioni previste dalla legge, non potesse essere effettuato dopo la sua entrata in
vigore, tanto è che fu accolta la istanza del \Calvo\ e attivata tutta la relativa procedura;
dall'altro, che si potesse effettuare l'intervento senza la obbligatoria copertura assicurativa.
In altri termini, l'art. 5 della legge era ed è di immediata applicazione, obbligando la
struttura a munirsi della copertura assicurativa in caso di rischi immediati e futuri e di
menomazione subita, conseguenti, all'intervento. Diversamente opinando, pur con la
entrata in vigore della L. n. 458 del 1967, nessun intervento avrebbe potuto e dovuto
essere eseguito anche dai Centri o Istituti specialistici Universitari, all'uopo esistenti e
deputati.
In conclusione, nessuna prestazione sanitaria di espianto del rene poteva essere fatta,
una volta ottenuto il nulla osta del Pretore, senza la completa sussistenza di tutti i benefici
e della contratta assicurazione e resi possibili dalla diligenza della struttura, destinataria di
tali obblighi.
Peraltro, come si evince dai LL.PP. il rinvio alla emanazione del Regolamento trovava la
sua giustificazione in ragione di carattere solidaristico e sociale, ossia evitare che solo gli
abbienti potessero sottoporsi ai trapianti e non già i malati di rene meno abbienti ed in tale
recupero di solidarietà si giustificava il previsto concerto ai fini dell'emanazione del
Regolamento di competenza dell'allora Ministero della Sanità con il Ministero del Lavoro
(v. resoconto stenografico della seduta della Camera dei Deputati 15 giugno 1967 di
approvazione del d.d.l. in materia).
Quindi il motivo va disatteso.
5.5. - Ne consegue che il quarto motivo va anch'esso respinto. Il giudice dell'appello, preso
atto dell'intrinseca natura contrattuale del rapporto tra il Policlinico *Umberto I* e il \Calvo\,
facendo buon governo dell'art. 1218 c.c., ha ritenuto provato da parte del \Calvo\
l'inadempimento della obbligazione, atteso che la Università non aveva disconosciuto che
la garanzia assicurativa, in quanto parte essenziale del contratto a suo tempo stipulato,
non esisteva.
In altri termini, l'unica violazione addebitabile alla struttura sanitaria nella quale venne
eseguito l'intervento è data dalla mancata stipulazione della polizza assicurativa, da cui la
sentenza impugnata ha dedotto che non poteva configurarsi un danno morale risarcibile,
riconosciuto, invece, dal primo giudice in virtù della circostanza che lesioni riportate
furono, in quella sede, attribuite al comportamento "protocollare" ritenuto antigiuridico della
struttura, perchè ad avviso della Corte territoriale tutti gli accertamenti previsti dalla legge
erano stati effettuati ed avevano dato esito favorevole all'espianto (p.15-16 sentenza
impugnata).
Di vero, se, onde attuare la prestazione contrattualmente prevista, la struttura sanitaria
doveva munirsi anche della copertura assicurativa ne consegue che, non avendo stipulato
la Università alcun contratto assicurativo, la struttura - il Policlinico *Umberto I* - si era
resa inadempiente alla complessa fattispecie contrattuale, composta da prestazioni
sanitarie interessanti ex se la salute e la dignità del "donatore" e per questo dovevano
essere coperte da apposita assicurazione.
In difetto di questo contratto nessuna decadenza poteva e può addebitarsi al C..
Nè, quindi, può seriamente mettersi in discussione la sussistenza del nesso di causalità
tra l'inadempimento degli obblighi contrattuali della struttura conia sopra precisato e la
richiesta risarcitoria.
5.6. - Di qui, l'assorbimento del sesto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt.
1218, 2043 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, - difetto di motivazione ex art. 360
c.p.c., n. 5), in quanto, pur trattandosi di obbligazione ex lege, come già posto in rilievo,
essa costituiva e costituisce uno degli elementi integranti ed indispensabili del contratto tra struttura sanitaria e "donatore" - per l'espianto del rene, cui volontariamente si
sottopose il \Calvo\, dopo i prescritti accertamenti e il nulla osta del Pretore, ora Tribunale
in funzione di giudice tutelare.
5.7. - Giunti all'esame di questi sei motivi del ricorso principale, osserva il Collegio che
occorre passare all'esame dell'unico motivo del ricorso incidentale (violazione e falsa
applicazione della L. 26 giugno 1967, n. 458, (trapianto tra persone viventi), degli artt.
2697, 1218, 2727 e 2729 c.c.; artt. 582 e 583 c.p.; omessa, insufficiente, contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo - p. 20 - 25 controricorso \Calvo\) con il
quale il \Calvo\ lamenta che l'atto dispositivo del proprio rene, come venne accertato dal
Tribunale, era invalido in quanto, così come emerso nel corso del giudizio ed in via
istruttoria non tutti gli adempimenti previsti dalla L. n. 458 del 1967, erano stati posti in
essere dal Policlinico *Umberto I*.
Aggiunge il C. che nemmeno su ordine del giudice ex art. 210 c.p.c., era stata prodotta
dall'Università la documentazione (verbale della riunione) attestante l'asserita riunione del
collegio medico che avrebbe dovuto comprendere il suo medico di fiducia e la
trasmissione del verbale al medico provinciale: circostanze non provate, a suo dire,
nemmeno dal dr. \\Cortesini\ capo dell'equipe che effettuò l'intervento.
Nè ad alcun esame di ordine psicologico egli sarebbe stato sottoposto e il tutto si sarebbe
svolto con leggerezza.
L'Università non avrebbe provato il fatto estintivo della pretesa del C. (creditore), violando
anche le norme in tema di presunzioni perchè mancava una prova documentale e a ciò
avrebbe dovuto indurre anche l'assenza del contratto assicurativo, con l'effetto che a lui
andava riconosciuto anche il danno morale ai sensi dell'art. 2059 c.c..
Ritiene il Collegio che la censura sia infondata.
Infatti, il giudice dell'appello, dopo avere ritrascritto la L. n. 458 del 1967, art. 3, (v.p. 15 16 sentenza impugnata) ha affermato che l'ottenuto nulla osta del Pretore fa
ragionevolmente ritenere che fossero state espletate tutte le fasi prodromiche di
competenza dei sanitari del Policlinico *Umberto I* "vale a dire la riunione del collegio
medico attestante l'idoneità del donatore, il giudizio tecnico favorevole, la trasmissione del
verbale al medico provinciale, la constatazione da parte di quest'ultimo dell'ottemperanza
alle condizioni attinenti alla valutazione del collegio medico e, quindi, la trasmissione degli
atti al Pretore per il nulla osta" (p. 16 sentenza impugnata).
In presenza di quel nulla osta, che, come già ritenuto dal giudice di primo grado, accertava
il giudizio favorevole al prelievo e al trapianto di rene e dava atto del referto medico
collegiale non si poteva dichiarare la assenza degli stessi accertamenti da esso attestati
(p. 16 sentenza impugnata). A fronte di questo argomentare che il ricorrente incidentale
senza allegare almeno stralci del nulla osta, censura di inadeguatezza o superficialità, la
doglianza non può essere accolta, non solo perchè non risulta almeno dalla sentenza, nè
lo indica il \Calvo\, che il nulla osta del Pretore sia stato contestato vivacemente in appello,
rispondendo alle censure sul punto dedotte dalla Università; ma per le considerazioni che
seguono e che il Collegio ritiene dirimenti.
In primis, e dal punto di vista formale processuale, la censura più che una doglianza di
diritto si risolve e concreta, come si può dedurre dalla sua sintetica ma fedele trascrizione,
una quaestio facti, su cui comunque il giudice a quo ha congruamente e logicamente
motivato.
In secundis per questioni di puro diritto che di seguito sono esposte.
L'intervento del Pretore (all'epoca competente), stanti la finalità della legge, la sua ratio
ispiratrice, come si desume dai lavori preparatori, non può considerarsi un mero intervento
burocratico e ampiamente discrezionale, come pure stigmatizza parte della dottrina.
Esso è stato previsto dal legislatore perchè si tratta nel caso di trapianto tra viventi di atto
che incide sul diritto integrità della persona, come diritto della personalità, con effetti
eventuali, ma possibili, di natura psicologica, sul "donatore", che si sottopone a rigorosi
accertamenti di varia natura al punto che:
a) il Pretore può rifiutare il nulla osta anche in presenza di parere favorevole;
b) il Pretore deve accertare che la procedura seguita sia stata rigorosa e non sbrigativa;
c) il consenso del "donatore" può essere revocato fino a poco prima dell'intervento.
Quindi, il provvedimento giudiziale è un provvedimento non di mera delibazione, ma
penetrante nella regolarità, non solo formale, di una procedura sanitaria complessa e
completa e che fa ragionevolmente presumere, essendo autorizzatorio, che tutti gi ostacoli
prevedibili e possibili siano stati esclusi "allo stato", ossia che tutto si sia svolto nel pieno
rispetto del "protocollo" previsto, con l'effetto che il giudice avrà fatto presente al donatore
le caratteristiche del suo atto e delle conseguenze che gliene possono derivare sulla base
del giudizio formato dal collegio medico.
In altri termini, la presenza del giudice in questa vicenda non è una presenza rogante, ma
una presenza di assunzione di responsabilità dell'atto da parte dell'organo giudiziario a
fronte di una realtà che,comunque motivata, non è indifferente alla collettività, che non può
tollerare arbitri, leggerezze, ragioni di ogni genere che possano arrecare danni alla
persona umana, che, anche se eroica, ha comunque il diritto, non disponibile, a viver in
modo integro dal punto di vista psicofisico.
Nel bilanciamento tra spinta di alta solidarietà sociale (artt. 2 e 3 Cost.) e diritto alla salute
(art. 32 Cost.), quest'ultimo inteso come diritto alla integrità fisica del proprio corpo, in
quanto facente parte dei diritti della personalità, la prudentia legislatoris propende per la
seconda, senza disdegnare di favorire la prima, affidando al giudice, che, per sua natura, è
il garante dei dritti, così come dell'adempimento dei doveri, non una mera attività rogante
bensì coinvolgendolo nella sua funzione istituzionale, per cui il suo provvedimento, se
favorevole, non è reclamabile, per la presunzione juris et de jure della sua conformità ai
rigidi parametri legislativamente previsti, ma non per questo può essere ignorato dal
"donatore" fino a poco prima dell'intervento, diversamente da quanto avviene in caso di
rifiuto del nulla osta.
In tal senso, il diritto del "donatore" a revocare il suo consenso alla donazione esercitabile
anche poco prima dell'intervento, e legislativamente previsto, è emblematico della
sovranità attribuita dalla legge alla sua autodeterminazione libera e consapevole circa
l'esercizio del diritto all'integrità psicofisica del disporre del suo corpo.
5.8.- Con il settimo motivo (violazione e falsa applicazione dei principi di cui all'art. 106
c.p.c., e della chiamata in garanzia della società di assicurazione, nonchè del generale
principio di economia dei giudizi e di economia delle attività processuali, in relazione all'art.
360 c.p.c., n. 3) la Università lamenta che il giudice dell'appello abbia respinto la domanda
di manleva da essa proposta nel confronti dell'INA ASSITALIA. La censura è infondata, per
la semplice ragione che, come si è verificato, sebbene autorizzata a chiamare in causa la
Compagnia Assicuratrice, la Università non aveva chiamato in garanzia la suddetta
compagnia entro il termine di cui all'art. 163 bis c.p.c..
Nel caso in esame si tratta di garanzia impropria, perchè fondata su di un titolo distinto da
quello relativo alla domanda principale, il cui collegamento con il rapporto principale è
meramente occasionale ed estrinseco, ferma restando la opportunità di un simultaneus
processus, che per la suddetta attività omissiva, è rimasto precluso (Cass. 10210/01).
Conclusivamente i due riuniti ricorsi vanno respinti e le spese vanno interamente
compensate tra le parti, ricorrendovi giusti motivi, dati dalla peculiarità della vicenda, dalla
novità delle questioni affrontate.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa integralmente tra le parti le spese del
presente giudizio di cassazione.
DATA DEPOSITO 28 GENNAIO 2013
Cassazione civile, sez. un., 3 giugno 2013, n. 13905
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE SEZIONI UNITE
CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Primo Presidente f.fDott. RORDORF Renato- rel. Presidente Dott. SEGRETO Antonio - Consigliere Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere –
Dott. CHIARINI Maria Margherita - Consigliere –
Dott. MAMMONE Giovanni - Consigliere Dott. VIRGILIO Biagio - Consigliere Dott. D'ASCOLA Pasquale - Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 4521/2011 proposto da:
BANCA MEDIOLANUM S.P.A., in persona del
legale
rappresentante
pro
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARDINAL DE LUCA 22, presso lo
tempore,
studio
dell'avvocato SIGGIA FABRIZIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DANISI
IGNAZIO, per delega in calce al ricorso;
- ricorrente Contro
B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato TODARO CALOGERO, per delega in calce
al controricorso;
- controricorrente
avverso la sentenza n. 954/2010 della CORTE D'APPELLO di PALERMO, depositata il
06/07/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/05/2013 dal Presidente Dott.
RENATO RORDORF;
udito l'Avvocato Ignazio DANISI;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto notificato il 26 maggio 2005 il sig. B.S. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo
la Banca Mediolanum s.p.a. (in prosieguo indicata come Mediolanum) riferendo di aver
sottoscritto, a seguito delle sollecitazioni di un promotore di detta banca, obbligazioni emesse dalla
società Giacomelli Sport Finance per il prezzo complessivo di Euro 49.560,00. Ciò premesso, e
premesso altresì che le obbligazioni erano poi risultate di fatto inesigibili a causa del sopravvenuto
fallimento dell'emittente, l'attore dedusse la nullità dell'acquisto per diverse ragioni, tra cui la
mancata previsione nel contratto del diritto di recesso che il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30,
comma 6, (conosciuto come testo unico della finanza ed in prosieguo indicato con la sigla tuf)
attribuisce all'investitore in strumenti finanziari collocati dall'intermediario al di fuori della propria
sede. Chiese, pertanto, che la banca convenuta fosse condannata a restituirgli le somme investite.
La domanda fu accolta in primo grado e la pronuncia del tribunale venne poi confermata in secondo
grado dalla Corte d'appello di Palermo con sentenza resa pubblica il 6 luglio 2010.
La corte palermitana, infatti, ritenne che lo jus poenitendi previsto dalla citata disposizione dell'art.
30, comma 6, del tuf e la nullità dei contratti che non contemplino la clausola di recesso, sancita
dal successivo settimo comma dello stesso articolo, trovino applicazione non solo nel caso di
offerta pubblica di strumenti finanziari dei quali l'intermediario abbia curato il collocamento per
esserne stato incaricato dall'emittente o dall'offerente, ma anche in ogni altro caso di
negoziazione di tali strumenti al di fuori dalla sede dell'intermediario: ragione per la quale il
contratto di cui si discute in causa, per essere valido, avrebbe dovuto prevedere la facoltà di
recesso dell'acquirente nei sette giorni successivi alla stipulazione.
Avverso tale sentenza la Mediolanum ha proposto ricorso per cassazione dolendosi, sotto diversi
profili, della ritenuta applicabilità al caso di specie delle citate disposizioni dell'art. 30 del tuf che,
a suo giudizio, nel menzionare i "contratti di collocamento" (oltre alla gestione di portafogli),
farebbe riferimento alle sole operazioni ricollegabili all'espletamento del servizio di
collocamento, quale definito dal precedente art. 1, comma 5, lett. c), ossia all'offerta al pubblico
di strumenti finanziari effettuata dall'intermediario in esecuzione di un contratto da esso stipulato
con l'emittente o con l'offerente, su incarico e per conto di quest'ultimo ed alle condizioni da lui
indicate.
L'intimato si è difeso con controricorso.
La prima sezione civile, con ordinanza n. 10376 del 2012, avendo rilevato l'esistenza in dottrina ed
in giurisprudenza di opinioni diverse sulla portata delle disposizioni normative sopra menzionate
ed avendo stimato comunque che la questione sia di massima di particolare importanza, ne ha
sollecitato la rimessione alle sezioni unite.
Il ricorso è stato perciò assegnato alle sezioni unite e discusso all'odierna udienza.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La questione sulla quale le sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi investe, come già
accennato, l'interpretazione da dare all'art. 30 del tuf, il cui sesto comma prevede che l'efficacia dei
contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali conclusi al
di fuori della sede dell'intermediario autorizzato sia sospesa per la durata di sette giorni, decorrenti
dalla data di sottoscrizione da parte dell'investitore, e che entro il medesimo termine l'investitore
possa comunicare il proprio recesso, senza spese nè corrispettivo, al promotore finanziario o
all'intermediario. Occorre inoltre che tale facoltà di recesso sia espressamente indicata nei moduli
o formulari consegnati all'investitore e nelle proposte contrattuali effettuate fuori sede, ed il
successivo settimo comma commina la sanzione della nullità, deducibile solo da parte del cliente,
per i contratti che questa indicazione non rechino.
L'interrogativo che la presente causa pone è se la nozione di "contratti di collocamento", cui la
citata disposizione si riferisce ed ai quali quindi si applica la prescrizione concernente l'inserimento
a pena di nullità della clausola di recesso in favore del cliente, sia da intendere come circoscritta ai
contratti strettamente connessi e conseguenti alla prestazione del "servizio di collocamento",
menzionato dall'art. 1, comma 5, lett. c) (ed ora anche lett. c bis), del tuf, o se invece comprenda
qualsiasi operazione in virtù della quale l'intermediario offra in vendita a clienti non professionali
strumenti finanziari al di fuori della propria sede, anche nell'espletamento di servizi d'investimento
diversi, quali ad esempio quelli di negoziazione o di esecuzione di ordini enunciati all'art. 1, stesso
comma 5, lett. a) e b).
In argomento la giurisprudenza di merito si è in passato divisa, ma in due precedenti occasioni,
nelle quali si discuteva della validità dell'acquisto di strumenti finanziari operato a seguito di ordini
impartiti da clienti nel quadro di contratti d'intermediazione finanziaria in precedenza stipulati con
l'intermediario, questa corte ha affermato che il diritto di recesso previsto a favore dell'investitore
per i contratti conclusi fuori sede e la connessa sanzione della nullità in caso di mancata
comunicazione all'investitore del suindicato diritto di recesso sono circoscritti ai soli contratti
di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali, trattandosi di una
disciplina peculiare che, come tale, non potrebbe essere applicata alla diversa ipotesi di contratti
concernenti la prestazione del servizio di negoziazione di strumenti finanziari oppure di raccolta
e trasmissione di ordini (Cass. n. 2065 del 2012 e n. 4564 del 2012).
Rispetto a tale orientamento può sembrare per certi versi distonica un'ulteriore decisione, assunta
nello stesso torno di tempo in una particolare fattispecie (Cass. n. 1584 del 2012), che, tuttavia, non
ha affrontato in modo esplicito la questione ora in esame.
Tali pronunce non hanno sopito il dibattito in dottrina, ed anche questo ha indotto ad investire
le sezioni unite della questione.
2. Per dare una risposta corretta al quesito è indispensabile una breve premessa ed una sintetica
ricognizione delle norme che rilevano ai fini della risoluzione del problema.
2.1. I servizi d'investimento finanziario, com'è noto, sono alquanto minuziosamente elencati
nell'art. 1, comma 5, del tuf, dalla lett. a) sino alla g). Al tempo dei fatti di causa, prima delle
modifiche apportate dal D.Lgs. n. 164 del 2007, l'elenco si arrestava alla lett. c), e non
comprendeva la lett. c bis), ma tali innovazioni normative non sono particolarmente interessanti
ai fini della risoluzione della presente vertenza. Di maggiore interesse è osservare come, tra detti
servizi, quello di collocamento figuri indicato distintamente (lett. c, ed ora anche lett. c bis), sia
rispetto alla negoziazione per conto proprio ed all'esecuzione di ordini per conto dei clienti (prima
denominata negoziazione per conto terzi: lett. a e b) sia rispetto alla ricezione e trasmissione di
ordini (lett. e).
Mentre, nel caso della negoziazione per conto proprio, l'intermediario si pone come controparte
diretta del cliente nell'acquisto o nella vendita di strumenti finanziari, normalmente destinata
ad aver luogo sul mercato secondario, nel caso dell'esecuzione di ordini d'acquisto o vendita
impartitigli dal cliente egli opera sul medesimo mercato in veste di mandatario, oppure, nel
caso della ricezione e trasmissione di ordini, quale mero tramite delle disposizioni del cliente in
rapporti di compravendita destinati ad intercorrere tra quest'ultimo e soggetti terzi. Tutte queste
situazioni, peraltro, implicano l'instaurazione di rapporti individuali tra intermediario e cliente,
nell'interesse del quale l'intermediario stesso è tenuto ad operare.
Il servizio di collocamento si caratterizza invece per essere prestato dall'intermediario in favore del
soggetto che emette gli strumenti finanziari, o che comunque li offre in vendita al pubblico,
di regola sul mercato primario, onde è con quest'ultimo soggetto che l'intermediario medesimo
anzitutto instaura un rapporto contrattuale e nell'interesse del quale presta il servizio (che assuma
o meno egli stesso un impegno diretto di acquisto o una qualche forma di garanzia), addossandosi
il compito di promuovere l'acquisto da parte dei terzi investitori degli strumenti finanziari offerti
in vendita o in sottoscrizione. Naturalmente, perchè il collocamento abbia poi effettivamente
luogo, occorrerà pur sempre che esso metta capo alla stipulazione di ulteriori atti negoziali,
mediante i quali gli strumenti finanziari da collocare sono acquistati o sottoscritti dagli investitori;
ma in questo caso la vendita avviene all'esito di un'offerta al pubblico e, quindi, in base a
condizioni predeterminate, senza di regola alcuno spazio di negoziazione individuale tra il
collocatore e colui che aderisce all'offerta.
2.2. L'art. 30 del tuf (anch'esso oggetto di successive modifiche ad opera del citato D.Lgs. n. 164
del 2007, che qui non sono tuttavia rilevanti) disciplina la "offerta fuori sede", che storicamente
deriva dalla figura della sollecitazione al pubblico risparmio c.d.
"a domicilio (o "porta a porta"), considerata dalla L. n. 1 del 1991, art. 1, lett. f), come un'autonoma
attività d'intermediazione mobiliare (accanto alla negoziazione ed al collocamento di valori
mobiliari, alla raccolta d'ordini, alla gestione di patrimoni ed alla consulenza), ed in seguito
disciplinata, invece, già dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 22, alla stregua di una particolare modalità
di svolgimento di servizi d'investimento diversi.
Il citato art. 30, comma 1, definisce "offerta fuori sede" la promozione ed il collocamento presso il
pubblico: a) di strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle
dipendenze
dell'emittente, del proponente l'investimento o del soggetto incaricato della promozione o del
collocamento; b) di servizi ed attività di investimento in luogo diverso dalla sede legale o dalle
dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio.
2.3. L'esame del citato art. 30 evidenzia subito come il sostantivo "collocamento" ed il verbo
"collocare" sembrano adoperati nel primo comma in un'accezione non perfettamente coincidente
con quella suggerita dalla nozione di "servizio di collocamento", cui sopra s'è fatto cenno.
Se, infatti, può essere coerente con quella definizione il parlare, nell'ipotesi considerata sub
a), di collocamento di strumenti finanziari presso il pubblico, intendendosi con tale espressione
l'attività di distribuzione al pubblico degli strumenti finanziari in base all'impegno in questo senso
assunto dall'intermediario collocatore nei confronti dell'emittente o dell'offerente per il quale
egli presta l'anzidetto servizio, meno agevole è ricondurre nel medesimo alveo il collocamento
di servizi ed attività d'investimento di cui fa menzione la lett. b). Il servizio di collocamento in
senso proprio, svolto dal collocatore in favore di un emittente o di un offerente, sembra concepibile
solo se avente ad oggetto dei prodotti finanziari da altri emessi o offerti in vendita, non se invece
ad esser "collocati" siano a loro volta altri servizi d'investimento di vario genere. Con riferimento
a questi ultimi il collocamento fuori sede di cui parla il citato art. 30, comma 1, lett. b), sta quindi
presumibilmente ad indicare ogni forma di sollecitazione che l'intermediario rivolga a propri clienti
affinchè questi si avvalgano del servizio d'investimento loro proposto, senza che tra l'offerente ed
il collocatore del servizio vi sia un pregresso rapporto riconducibile alla figura giuridica del
"servizio di collocamento" definito dalla precedenti già citate disposizioni dell'art. 1, comma 5.
Nasce da ciò il dubbio che nell'intero art. 30 l'espressione "collocamento" sia stata adoperata
dal legislatore con un significato più ampio e generico, quasi come sinonimo di qualsiasi
operazione volta ad immettere sul mercato prodotti finanziari o servizi d'investimento.
L'accennata ambiguità terminologica è accresciuta dalle disposizioni dettate dal sesto e settimo
comma del medesimo art. 30, che contemplano il già ricordato jus poenitendi in favore
dell'investitore e la nullità dei contratti di collocamento fuori sede che non prevedano il recesso.
Anche a tal riguardo non può non rilevarsi come la menzione dei "contratti di collocamento" sia,
se non imprecisa, quanto meno non del tutto univoca. Il servizio di collocamento, come si è
appena ricordato, è infatti scomponibile in due fasi diverse, che entrambe danno vita a rapporti
contrattuali: il primo che s'instaura tra l'emittente o l'offerente degli strumenti finanziari da
collocare, da un lato, e l'intermediario collocatore dall'altro; il secondo che si realizza in un
momento successivo ed intercorre tra l'intermediario collocatore ed i singoli investitori disposti ad
aderire all'offerta.
In dottrina v'è perciò chi ha distinto tra il "contratto per il servizio di collocamento", stipulato
dall'emittente o offerente dei medesimi prodotti finanziari con l'intermediario che s'incarica della
loro distribuzione sul mercato, ed il "contratto di collocamento", che è invece quello volto a
disciplinare il rapporto tra l'intermediario distributore dei prodotti finanziari ed il cliente che
li sottoscrive.
E' certo da escludere che lo jus poenitendi menzionato dal sesto comma del citato art. 30 riguardi
la prima delle due figure contrattuali sopra accennate; appare viceversa evidente che esso si
riferisce ai rapporti contrattuali intrecciati dall'intermediario collocatore, al di fuori della propria
sede o dalle dipendenze dell'emittente o dell'offerente, con i destinatari dell'offerta, come dimostra
il fatto che il diritto di recesso è espressamente previsto in favore dello "investitore", sicchè anche
il "cliente" legittimato a far valere la nullità del contratto che non rechi la clausola di recesso
altri non può essere se non il sottoscrittore o l'acquirente degli strumenti finanziari collocati (cioè
pubblicamente offerti in sottoscrizione o in vendita) fuori sede dall'intermediario.
Resta però da chiedersi se la portata delle disposizioni in tema di recesso e di eventuale nullità
sia circoscritta ai soli contratti stipulati fuori sede a mezzo di promotori da intermediari impegnati
nella prestazione di veri e propri servizi di collocamento, quali sopra definiti (oltre che nel
servizio di gestione di portafogli), oppure se anche qui, come già s'è visto a proposito della
definizione dell'offerta fuori sede contenuta nel primo comma, la parola "collocamento" sia da
intendere in un'accezione più ampia ed in qualche misura atecnica, cioè come sinonimo di qualsiasi
operazione implicante la vendita all'investitore di strumenti finanziari, anche nell'espletamento di
servizi d'investimento diversi (negoziazione, esecuzione, ricezione o trasmissione di ordini), se
effettuata dall'intermediario al di fuori della propria sede.
3. Una risposta soddisfacente non sembra ricavabile dal mero dato letterale.
Se è vero, infatti, che l'espressione "contratti di collocamento", figurante nel sesto comma del citato
art. 30, può indurre intuitivamente a ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi a contratti la cui
stipulazione sia legata alla prestazione del servizio di collocamento (e non ad altri, salvo la gestione
di portafogli), è altresì vero che, come si è già dianzi osservato, nel medesimo articolo - o quanto
meno nel suo primo comma - la parola "collocamento" ha anche sicuramente un'accezione che va
al di là della prestazione di quello specifico servizio. Il solo criterio d'interpretazione letterale
non si rivela perciò decisivo.
Neppure sembra dirimente il dato storico - che potrebbe far propendere per un'interpretazione
restrittiva, derivando l'attuale normativa da esigenze di tutela manifestatesi originariamente
nel campo della sollecitazione al pubblico risparmio, di cui il collocamento è un momento
attuativo -, perchè la disciplina ha conosciuto nel tempo un'evidente evoluzione, ed il primo
comma dell'articolo in esame, benchè rechi traccia di quell'origine (in particolare laddove fa
menzione di "collocamento presso il pubblico") palesemente ne ha travalicato i limiti, com'è
agevole dedurre dal fatto che l'offerta fuori sede può oggi avere ad oggetto non solo prodotti
finanziari, ma qualsiasi servizio d'investimento (art. cit.
comma 1, lett. b).
Difficile è anche trarre argomento dalla direttiva Europea n. 85/577, in tema di tutela dei
consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, il cui art. 3 prevede sì
il diritto di recesso del consumatore, ma lo esclude per quelli aventi ad oggetto valori mobiliari
(comma 2, lett. e). Tale direttiva cesserà comunque di essere in vigore a partire dal 13 giugno 2014,
in forza di quanto disposto dall'art. 31 della successiva direttiva n. 2011/83, che all'art. 16, lett.
b), espressamente esclude il diritto di recesso del consumatore per i contratti stipulati fuori dai
locali commerciali aventi ad oggetto la fornitura di beni o servizi il cui prezzo sia legato a
fluttuazioni nel mercato finanziario, quando siffatte fluttuazioni non siano controllabili da parte del
professionista e possano verificarsi durante il periodo di recesso (analoga disposizione è
contenuta nell'art. 6 della direttiva n. 65/2002, in tema di commercializzazione a distanza dei
servizi finanziari, che ha trovato attuazione nell'art. 67 duodecies del codice del consumo).
4. E' allora soprattutto alla ratio legis che conviene guardare, per intendere meglio il senso della
norma e poterne definire, di conseguenza, la portata applicativa.
Sulla ragion d'essere dello jus poenitendi di cui si discute le opinioni degli interpreti e degli studiosi
sono sufficientemente univoche: è la circostanza che l'operazione d'investimento si sia perfezionata
al di fuori dalle sede dell'intermediario a rendere necessaria una speciale tutela per l'investitore
al dettaglio (la normativa non si applica agli investitori professionali, come chiarisce il secondo
comma del citato art. 30), perchè ciò significa che, di regola, l'iniziativa non proviene da lui.
E' logico cioè presumere che, in simili casi, l'investimento non sia conseguenza di una
premeditata decisione dello stesso investitore, il quale a tale scopo si sia recato presso la sede
dell'intermediario, ma costituisca invece il frutto di una sollecitazione, proveniente da promotori
della cui opera l'intermediario si avvale; sollecitazione che, perciò stesso, potrebbe aver colto
l'investitore impreparato ed averlo indotto ad una scelta negoziale non sufficientemente meditata.
Il differimento dell'efficacia del contratto, con la possibilità di recedere nel frattempo senza oneri
per il cliente, vale appunto a ripristinare, a posteriori, quella mancanza di adeguata riflessione
preventiva che la descritta situazione potrebbe aver causato.
Se questa, come pare difficilmente contestabile, è l'esigenza di tutela in vista della quale il
legislatore ha introdotto la disciplina del recesso nei contratti di collocamento di
strumenti
finanziari stipulati fuori sede dall'intermediario, è arduo negare che la medesima esigenza si ponga
non soltanto per le operazioni compiute nell'ambito della prestazione di un servizio di collocamento
in senso proprio, nell'accezione già prima richiamata, ma anche per qualsiasi altra ipotesi in
cui l'intermediario venda fuori sede strumenti finanziari ad investitori al dettaglio, sia pure
nell'espletamento di un servizio d'investimento diverso. La differenza tra le due descritte situazioni,
in questa ottica, appare davvero poco significativa, specie ove si consideri che nel servizio
di collocamento "con assunzione a fermo" l'intermediario piazza sul mercato prodotti finanziari
rispetto ai quali la sua posizione ed il suo interesse alla vendita sono del tutto analoghi a quelli
di una vendita in proprio. Il che avvalora l'opinione secondo cui la parola "collocamento", nel
testo dell'articolo in esame, è da intendere in senso ampio, come sinonimo di atto negoziale
mediante il quale lo strumento finanziario vien fatto acquisire al cliente e quindi inserito nel suo
patrimonio (o, come nel linguaggio del mercato finanziario si usa dire, nel suo portafoglio), a
prescindere dalla tipologia del servizio d'investimento che abbia dato luogo a tale operazione.
5. Nessuna delle obiezioni che potrebbero essere mosse - e che sono state mosse - a questa
conclusione sembra davvero dirimente.
Non lo è quella che fa leva sul fatto che nel vero e proprio collocamento l'offerta in vendita degli
strumenti finanziari agli investitori ha luogo a condizioni uniformi e predeterminate, dovendo
l'intermediario attenersi in proposito alle condizioni dettate dall'offerente, onde non v'è di regola
alcuno spazio per forme di negoziazione individuale che potrebbero invece essere presenti quando
l'acquisto dei medesimi strumenti finanziari avvenga nell'ambito della prestazione di un servizio
d'investimento diverso; nè lo è la circostanza che, in questa seconda evenienza, l'acquisto
normalmente si realizza in base alle previsioni di un c.d. contratto-quadro, in precedenza stipulato
tra l'intermediario e l'investitore.
Il fatto che il prezzo e le altre condizioni di vendita siano più o meno predefiniti non toglie che si
è comunque in presenza, di volta in volta, di una decisione d'investimento, di modo che solo quando
l'investitore abbia assunto egli stesso l'iniziativa di recarsi presso la sede dell'intermediario, o in un
luogo di pertinenza del proponente, è lecito presumere che la sua scelta sia stata preceduta da
una natura riflessione; e quando invece così non sia, sussiste in ogni caso - indipendentemente
dalla fissità delle condizioni di vendita - il rischio che il medesimo investitore si sia trovato ad
essere destinatario di una proposta che potrebbe averlo colto di sorpresa. S'intende, poi, che la
disciplina del recesso di cui si sta parlando non può che riguardare i singoli rapporti negoziali in
base ai quali, di volta in volta, l'investitore si trovi a sottoscrivere uno strumento finanziario
offertogli dall'intermediario fuori sede, e non la stipulazione del c.d. contratto-quadro, che di
per sè non implica l'acquisto di strumenti finanziari ed è perciò sicuramente estranea alla nozione
di "collocamento", sia pur latamente intesa.
Nemmeno la circostanza che l'ordine di acquisto possa essere riconducibile ad un siffatto contrattoquadro, cioè ad un pregresso impianto contrattuale volto a disciplinare in via generale le modalità
della prestazione del servizio, fa venir meno il rischio che il cliente venga colto di sorpresa, quando
il singolo ordine sia frutto di una sollecitazione posta in essere dall'intermediario fuori dalla propria
sede; ed è quel rischio che giustifica la già ricordata esigenza della tutela supplementare apprestata
dal citato art. 30, commi 6 e 7, del tuf. D'altronde, non va trascurato che parte della dottrina e
la stessa autorità di vigilanza (si veda la comunicazione della Consob n. DIN/12030993 del 19
aprile 2012, che pure si pronuncia in favore di un'interpretazione restrittiva della citata disposizione
dell'art. 30) sono propense ad ammettere la possibilità che anche nell'espletamento del servizio
di collocamento si realizzi talvolta un rapporto di durata tra il prestatore del servizio ed il cliente,
nel cui ambito le singole operazioni siano perciò disciplinate da un contratto-quadro; il che
difficilmente però basterebbe, stante il testo della norma, ad escludere in siffatti casi l'applicazione
dello ius poenitendi agli specifici atti negoziali mediante i quali il collocamento fuori sede
in concreto sia realizzato.
Neppure il rilievo per cui durante il periodo di sospensione degli effetti del contratto le condizioni
di mercato potrebbero mutare, prestandosi così a comportamenti opportunistici da parte
dell'investitore, sembra rivestire carattere decisivo ai fini della questione di cui si sta qui discutendo.
Si consideri che neanche la normale fissità del prezzo di collocamento di strumenti finanziari
in pendenza dell'offerta al pubblico basta del tutto ad escludere la possibilità che nel medesimo
lasso di tempo (vuoi per fatti influenti in generale sull'andamento del mercato, vuoi per eventi
riferibili alla situazione particolare dell'emittente) si determinino oscillazioni di valore in grado
d'influenzare la decisione dell'investitore di recedere dall'acquisto. Ma, anche a prescindere da
tale rilievo, va osservato che il rischio di un utilizzo non corretto del diritto di recesso potrà
eventualmente, ove si dia il caso, essere neutralizzato invocando il principio generale di buona
fede, che deve presidiare qualsiasi rapporto contrattuale, ma non vale certo a negare il
fondamento stesso sul quale il riconoscimento di quel diritto riposa. D'altronde, è inevitabile che
il riconoscimento di una maggior tutela in favore dell'investitore che acquista si traduca in una
posizione meno vantaggiosa per l'intermediario che vende, ma questa è la naturale contropartita
dei vantaggi che, su più larga scala, lo stesso intermediario si ripromette di conseguire utilizzando
per la vendita dei prodotti finanziari un sistema di commercializzazione capillare esterna, per certi
versi più aggressivo ("porta a porta"), anzichè attendere che i clienti vengano ad acquistare quei
medesimi prodotti in sede.
6. A favore di un'interpretazione estensiva della citata disposizione dell'art. 30 del tuf, che sia
in grado di meglio assicurare la tutela del consumatore, militano d'altro canto i principi
generali desumibili dallo stesso testo unico, sicuramente ispirati all'esigenza di effettività
dell'indicata tutela, cui da ulteriore rinforzo la previsione dell'art. 38 della Carta dei diritti
fondamentali dell'UE, che, nel garantire "un livello elevato di protezione dei consumatori", per ciò
stesso impone d'interpretare le norme ambigue nel senso più favorevole a questi ultimi. Ma,
soprattutto, milita in tal senso la difficoltà di giustificare, anche sul piano costituzionale, una
disparità di trattamento tra l'ipotesi di offerta fuori sede di strumenti finanziari che sia fondata sulla
diversa tipologia di servizio d'investimento reso dall'intermediario, quando, per le ragioni già sopra
indicate, del tutto analoga è la situazione di maggiore vulnerabilità in cui viene comunque a trovarsi
il cliente per il fatto stesso che l'offerta lo raggiunge fuori dalla sede dell'intermediario o degli altri
soggetti indicati dal primo comma del citato art. 30.
7. L'orientamento in precedenza espresso da questa corte sulla questione in esame non può essere
dunque ulteriormente seguito ed occorre invece enunciare il principio secondo cui il diritto
di recesso accordato all'investitore dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, e la previsione
di nullità dei contratti in cui quel diritto non sia contemplato, contenuta nel successivo comma
7, trovano applicazione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari
da parte dell'intermediario sia intervenuta nell'ambito di un servizio di collocamento prestato
dall'intermediario medesimo in favore dell'emittente o dell'offerente di tali strumenti, ma anche
quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio
d'investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela.
8. Alla stregua di tale principio il ricorso non appare meritevole di accoglimento.
9. Essendo stato il ricorso deciso sulla base di un orientamento diverso da quello in precedenza
assunto da questa corte, appare equo compensare le spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, il 14 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2013
Sentenza 03 aprile 2014 n. 7776 Sez. III
Contratti finanziari - Negoziazione di titoli fuori sede del proponente Collocamento di strumenti finanziari - Prospetto informativo sul diritto
di recesso ex art. 30 d lgs 58/98 - Ambiguità della norma
Ente Giudicante: Cassazione Civile
Presidente: Pres. BERRUTI Giuseppe M.; Rel. ROSSETTI Marco
avverso la sentenza n. 920/2010 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA,
depositata il 04/11/2010 R.G.N. 1499/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/02/2014 dal
Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI;
udito l'Avvocato ARTURO ANTONUCCI;
udito l'Avvocato FABRIZIO CARBONETTI per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE
Giovanni che ha concluso per il rinvio pregiudiziale alla C.G.U.E. e in subordine
l'accoglimento del 1 motivo, assorbiti gli altri.
Svolgimento del processo
1. Nel 2000 il sig. L.D.R.L. accettò nel proprio studio privato una proposta
contrattuale sottopostagli da un funzionario della Banca Monte dei Paschi di
Siena s.p.a. (d'ora innanzi, per brevità, "MPS").
2. Il contratto in tal modo concluso aveva ad oggetto una articolata operazione
finanziaria, denominata "Visione Europa", costituita dalla giustapposizione di tre
diverse operazioni:
(a) la formale concessione da parte della banca di un finanziamento al cliente,
per l'importo di L. 100.000.000;
(b) il contestuale acquisto da parte della MPS e per conto del cliente, con parte
della provvista derivante da tale finanziamento, di titoli obbligazionari c.d. zero
coupon (ovvero titoli il cui rendimento è pari alla differenza tra la somma che il
sottoscrittore riceve alla scadenza e la somma che versa al momento della
sottoscrizione) emessi dalla MPS e non quotati;
(c) il contestuale acquisto, con la parte restante della provvista derivante dal
finanziamento, sempre da parte della MPS e per conto del cliente, di quote di un
fondo d'investimento a carattere azionario denominato "Ducato Azionario
Europa"; tale fondo fu istituito dalla Ducato Gestioni s.p.a., società controllata
dalla MPS, e le quote di esso erano collocate presso il pubblico dalla stessa
MPS. L'operazione era completata dalla previsione che i titoli sub (b) e (c)
fossero costituiti in pegno in favore della banca a garanzia della restituzione del
finanziamento, e dall'assunzione dell'obbligo da parte del risparmiatore di
restituire il capitale in rate trimestrali per il periodo di 15 anni ed al saggio di
poco meno dell'8%.
3. Dopo che il contratto ebbe esecuzione per circa due anni, nel 2003
l'investitore convenne la MPS dinanzi il Tribunale di Mantova, allegando che:
(a) aveva manifestato alla MPS la volontà di recedere dal contratto;
(b) solo in seguito a tale manifestazione di volontà aveva appreso che il valore
delle quote dei fondi comuni d'investimento acquistate in esecuzione del
suddetto contratto era diminuito notevolmente; che le obbligazioni "zero coupon"
acquistate sempre in esecuzione del suddetto contratto non erano quotate e
potevano essere vendute solo alla stessa MPS, la quale ne determinava
unilateralmente il prezzo.
Sulla base principalmente di tali allegazioni l'attore formulò una serie di
domande tra loro subordinate, ma tutte comunque volte a privare il contratto
della sua efficacia, e cioè:
(a) la dichiarazione di nullità ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 51, art. 30,
comma 7, per non avere ricevuto l'avviso della facoltà di recesso entro i sette
giorni successivi alla stipula;
(b) la dichiarazione di nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c., sul presupposto che il
contratto integrasse gli estremi d'una truffa penalmente rilevante;
(c) la dichiarazione di annullamento del contratto per dolo determinante;
(d) la dichiarazione di annullamento o di risoluzione del contratto per la
violazione da parte della MPS degli obblighi precontrattuali di informazione del
cliente e di offerta di prodotti adeguati, ai sensi degli artt. 21, 27, 28 e 29 del
Regolamento Consob 1 luglio 1998, n. 11522.
3. Il Tribunale di Mantova, con sentenza 13.7.2005 n. 886, ritenne il contratto
stipulato tra il sig. L.D.R.L. e la MPS nullo per violazione del D.Lgs. 24 febbraio
1998, n. 58, art. 30, comma 7, ovvero per non essere stato il risparmiatore
informato dell'esistenza della facoltà di recesso entro sette giorni dalla stipula.
Condannò, di conseguenza, la MPS a restituire all'attore la somma di Euro
13.635,03.
4. La sentenza venne impugnata dalla MPS dinanzi la Corte d'appello di
Brescia.
Il giudice d'appello accolse l'appello con la sentenza 4.11.2010 n. 920.
La Corte d'appello di Brescia escluse che il contratto stipulato tra il sig. L.D.R.L.
e la MPS potesse ritenersi nullo per mancanza dell'avviso sul diritto di recesso.
La sentenza di secondo grado fu motivata con un ragionamento così
riassumibile:
(a) l'operazione finanziaria oggetto del giudizio era rappresentata dalla
giustapposizione di tre diversi contratti: un contratto di mutuo, un contratto di
acquisto di obbligazioni ed un contratto di acquisto di quote di un fondo
d'investimento;
(b) l'obbligo di informare il risparmiatore del diritto di ripensamento, di cui al
D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, sussiste soltanto nel caso di stipula
fuori sede dei contratti di collocamento di strumenti finanziari. Nel caso di
specie, dunque, quell'obbligo informativo doveva essere osservato solo per la
vendita delle quote del fondo di investimento "Ducato", e non per la vendita di
obbligazioni, e tanto meno per l'erogazione del mutuo;
(c) nel caso di specie, la MPS prima della stipula del contratto di collocamento
delle quote del fondo d'investimento aveva fornito al cliente il prospetto
informativo, nel quale era contenuta l'informazione sul diritto di ripensamento.
La Corte d'appello soggiunse che l'informazione sul diritto di ripensamento, pur
se contenuta nel solo prospetto informativo concernente l'operazione di acquisto
di quote di fondo d'investimento, era idonea a salvaguardare l'interesse del
risparmiatore: se, infatti, egli avesse scelto di recedere dal contratto di
collocamento di strumenti finanziari, l'intera operazione sarebbe venuta meno, a
causa della intima connessione dei tre contratti che la componevano.
5. La sentenza della Corte d'appello di Brescia è stata impugnata per
cassazione dal sig. L.D.R.L., sulla base di otto motivi. La MPS ha resistito con
controricorso; ambo le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378
c.p.c., e partecipato alla discussione in pubblica udienza.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso.
1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata
sarebbe incorsa nel vizio di violazione di legge (di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3).
Si assume in particolare che essa avrebbe violato il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n.
58, art. 30, comma 6, là dove ha ritenuto che la MPS abbia assolto l'onere previsto dalla legge a pena di nullità - di informare il cliente del diritto di
ripensamento.
1.2. Espone, al riguardo, il ricorrente che il piano finanziario "Visione Europa"
costituiva uno strumento contrattuale essenzialmente unitario, sebbene
composto dalle tre distinte operazioni di finanziamento, acquisto di obbligazioni
e sottoscrizione di quote del fondo "Ducato".
Dalla natura unitaria dell'operazione discenderebbe la necessità che
l'informazione sull'esistenza del diritto di ripensamento da un lato doveva essere
contenuta non già nel prospetto informativo concernente l'acquisto delle quote
del fondo "Ducato", ma nel modulo contrattuale relativo all'intero piano
finanziario; e dall'altro tale informazione avrebbe dovuto prevedere
espressamente che l'esercizio del diritto di ripensamento avrebbe avuto per
effetto lo scioglimento dell'intero rapporto contrattuale, e non solo del contratto di
acquisto delle quote del fondo d'investimento "Ducato". Soggiunge, infine, il
ricorrente che in ogni caso l'obbligo di informare il risparmiatore del diritto di
ripensamento sussiste non solo nell'ipotesi di stipula fuori sede di operazioni di
collocamento di strumenti finanziari, ma anche nell'ipotesi di vendita fuori sede
di obbligazioni, pur essa rientrante nelle operazioni di "collocamento" di cui al
D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30.
1.3. Il motivo è fondato.
La sentenza della Corte d'appello è incorsa infatti in tre errori di diritto:
(a) avere ritenuto inapplicabile il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, ai
contratti di negoziazione di strumenti finanziari conclusi al di fuori di un servizio
di collocamento per conto terzi;
(b) avere escluso che il contratto denominato "Visione Europa" costituisse di per
sè e nel suo complesso un servizio di investimento, consistente nella vendita di
strumenti finanziari;
(c) avere ritenuto che nell'ambito del contratto denominato "Visione Europa" la
banca potesse assolvere il proprio obbligo di informare il cliente del diritto di
recesso limitandosi ad inserire la relativa clausola non già nel testo del contratto,
ma nel prospetto informativo concernente la sola operazione di vendita di quote
del fondo d'investimento.
1.4. Il primo errore commesso dalla Corte d'appello è consistito nella violazione
del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7.
Il giudice di secondo grado ha infatti affermato che "la clausola relativa al diritto
di ripensamento doveva essere prevista unicamente quanto alla sottoscrizione
delle quote del fondo comune di investimento". E poichè il prospetto informativo
concernente la suddetta sottoscrizione prevedeva l'informazione sul diritto di
recesso, nessuna nullità si era verificata nel caso di specie.
Questa decisione tuttavia non è conforme all'interpretazione che del D.Lgs. n. 58
del 1998, art. 30, comma 7, hanno dato le Sezioni Unite della Corte di
cassazione, sia pure in epoca successiva alla pronuncia della Corte bresciana.
1.4.1. Il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, nel testo applicabile ratione
temporis prevedeva che nel caso di stipula di contratti di "collocamento di
strumenti finanziari" al di fuori della sede del proponente o dell'intermediario,
"l'omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la
nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente".
Le Sezioni Unite di questa Corte, componendo il contrasto sorto in seno alla
Prima sezione, con sentenza n. 13905 del 03/06/2013 hanno chiarito il senso da
attribuire alla norma sopra trascritta.
Essa deve trovare applicazione, attesa la evidente identità di ratio, sia ai
contratti stipulati in esecuzione di un contratto di collocamento in senso stretto,
stipulato tra l'emittente del titolo e l'intermediario che in tal modo si obbliga alla
rivendita di esso al pubblico; sia a tutti gli altri contratti di vendita di strumenti
finanziari conclusi nell'ambito di un "servizio di investimento" come definito dal
D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 5.
Tra i "servizi di investimento" di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, citato art. 1, comma
5, rientra anche la vendita per conto proprio o per conto di terzi di obbligazioni
D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 3, lett. (b); di quote di fondi comuni
d'investimento D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 3, lett. (c), e le combinazioni
dei contratti appena ricordati D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 3, lett. (j).
Ergo, l'informazione sul diritto di recesso deve essere fornita a pena di nullità
anche nel caso di vendita per conto proprio o di terzi di obbligazioni o quote di
fondi comuni.
1.4.2. Le Sezioni Unite sono pervenute a tale conclusione sulla base di due
argomenti:
(a) l'interpretazione finalistica;
(b) l'interpretazione comunitariamente orientata.
Sotto il primo aspetto, le Sezioni Unite hanno ritenuto che lo scopo della norma
sul diritto di recesso dell'investitore nel caso di contratti stipulati fuori sede è
evitare che esso possa trovarsi vincolato da contratti sui quali non abbia potuto
adeguatamente riflettere; adeguata riflessione che deve per contro presumersi
già avvenuta quando sia il risparmiatore a recarsi di propria iniziativa nei locali
dell'intermediario o della banca (ovvero, come si esprime oggi il D.Lgs. n. 58 del
1998, d'un "soggetto abilitato" a svolgere servizi di investimento).
Questo essendo lo scopo della norma, l'esigenza di tutela da essa sottesa
sussiste tanto nell'ipotesi in cui il risparmiatore sia raggiunto, fuori sede, da una
proposta contrattuale avente ad oggetto titoli che l'intermediario possiede od
acquista da terzi (c.d.
"negoziazione"); quanto nella diversa ipotesi in cui siano offerti in vendita al
risparmiatore strumenti finanziari che l'intermediario si sia previamente obbligato
nei confronti dell'emittente a "collocare" (ovvero rivendere a terzi, ove si volesse
prescindere dal lessema linguisticamente inappropriato coniato dalla prassi e
prescelto dal legislatore, il quale etimologicamente deriva da locus, e non
esprime un concetto di trasferimento, ma il ben diverso concetto di "assegnare",
"attribuire", "sistemare").
Sotto il secondo aspetto (l'interpretazione "comunitariamente orientata") le
Sezioni Unite di questa Corte hanno osservato come anche a prescindere dalla
ratio del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, comunque non vi può essere
dubbio che la lettera di essa sia ambigua. Infatti, se si aderisse alla tesi
restrittiva (secondo cui l'obbligo di informazione varrebbe solo per i contratti
stipulati nell'ambito di servizi di collocamento), dovrebbe pervenirsi alla
inaccettabile conclusione che il legislatore avrebbe usato il lemma
"collocamento" con significati diversi nel primo e nel settimo comma della norma
in esame.
Di fronte a questa ambiguità, ed al cospetto di interpretazioni divergenti ma tutte
teoricamente consentite dal testo della norma, l'interprete - proseguono le
SS.UU. - ha l'obbligo di adottare l'interpretazione maggiormente coerente con i
precetti del diritto comunitario. E poichè l'art. 38 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione Europea sancisce il principio per cui è compiuto
dell'Unione garantire "un livello elevato di protezione dei consumatori", tra due
interpretazioni alternative ed ambedue plausibili sul piano letterale, l'interprete
ha il dovere di preferire quella in grado di apprestare un più elevato livello di
protezione al risparmiatore.
1.4.3. Questa Sezione condivide e ribadisce la lettura del D.Lgs. n. 58 del 1998,
art. 30, comma 7, compiuta dalle Sezioni Unite, e ritiene che anche ulteriori
ragioni ostino all'accoglimento dell'interpretazione adottata dalla sentenza qui
impugnata.
Se, infatti, si interpretasse il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, nel
restrittivo senso fatto proprio dalla Corte d'appello, esso sarebbe di fatto
inapplicabile.
La norma, infatti, accorda al risparmiatore il diritto di recesso dai "contratti di
collocamento". Ma contratti di collocamento in senso tecnico sono soltanto gli
accordi tra intermediario ed emittente, e nei rapporti tra investitori professionali il
diritto di recesso è espressamente escluso dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30,
comma 2.
Da ciò discendono due conseguenze sul piano della logica formale.
La prima è che l'adesione alla lettura restrittiva del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30,
comma 6, renderebbe la norma inutile, perchè non potrebbe darsi alcun caso in
cui un "contratto di collocamento" sia stipulato tra l'emittente ed un
risparmiatore. Ed il canone interpretativo dell'interpretazione utile vieta
all'interprete di adottare soluzioni ermeneutiche che annullino la portata
precettiva della norma.
La seconda conseguenza è che l'interpretazione qui contestata pretende di
interpretare la medesima norma con diverso rigore sintattico a seconda del fine
cui è preordinata l'interpretazione.
Quando si tratta di escludere che il diritto di recesso si applichi ai contratti di
negoziazione di titoli, si assume che il legislatore abbia usato un lessico rigoroso
e tecnico, e che pertanto il recesso non spetti nel caso di negoziazione perchè
quest'ultima è contratto ben diverso da quello di collocamento.
Quando, invece, si tratta di replicare all'obiezione secondo cui il contratto di
"collocamento di strumenti finanziari" è quello stipulato tra emittente e
intermediario (sicchè la norma non potrebbe essere interpretata in senso stretto
a pena di inapplicabilità), l'orientamento qui in contestazione ammette che
l'espressione "collocamento di strumenti finanziari" sia stata usata nel D.Lgs. n.
58 del 1998, art. 30, comma 6, in senso atecnico.
La tesi qui in contestazione, in definitiva, perviene all'inaccettabile risultato di
usare due pesi e due misure nell'interpretare il medesimo lemma, ritenendo a
certi fini che sia stato usato in modo calzante, e ad altri fini che sia stato usato in
modo atecnico e generico.
1.5. Il secondo errore in iure commesso dalla Corte d'appello è stato il ritenere
che il contratto denominato "Visione Europa" non costituisse di per sè e nel suo
complesso un servizio di investimento, consistente nella vendita di strumenti
finanziari, e che pertanto l'informazione sul recesso potesse legittimamente
essere contenuta nel solo prospetto informativo concernente l'operazione di
acquisto di quote del fondo d'investimento "Ducato".
1.5.1. Si sono già descritte supra, al p. 2 dello "Svolgimento del processo", le
caratteristiche del contratto in esame, che non sono in contestazione tra le parti.
A parte varie ipotesi di nullità di singole clausole che non rilevano in questa sede
(si veda, a mero titolo d'esempio, l'art. 6 della Sezione 2^, il quale prevedendo
che gli eredi del risparmiatore siano obbligati "con vincolo di solidarietà ed
indivisibilità" verso la banca contiene un palese patto successorio, nullo ai sensi
dell'art. 458 c.c.), ai fini che in questa sede rilevano, le caratteristiche essenziali
dell'operazione consistevano in una stretta ed indissolubile connessione tra le
tre operazioni nelle quali il contratto formalmente si scomponeva.
Ed infatti:
(a) il finanziamento formalmente concesso dalla banca al risparmiatore non
poteva essere utilizzato per altro scopo che l'acquisto dei titoli (e solo di quei
titoli) già predeterminati dalla banca;
(b) il risparmiatore non aveva alcuna possibilità di scelta dei titoli da acquistare;
(c) nessun effettivo passaggio di denaro avveniva di fatto dalla banca verso il
risparmiatore, posto che la prima si obbligava formalmente ad usare proprio
denaro per acquistare per conto del cliente proprie obbligazioni e quote di un
fondo istituito da una propria controllata;
(d) il cliente non acquisiva nemmeno il possesso dei titoli sub (c, i quali venivano
immediatamente costituiti in pegno a favore della banca ed a garanzia della
restituzione del finanziamento.
1.5.2. Un contratto che presenti le caratteristiche appena descritte è un contratto
unitario, perchè unitaria ne fu la causa. E ciò tanto nell'ipotesi in cui si volesse
intendere tale nozione in senso astratto come "funzione economico-sociale del
contratto"; quanto nell'ipotesi in cui la si volesse intendere in senso concreto
quale scopo avuto di mira dai contraenti (questione sulla quale non mette conto
in questa sede intervenire), come già ritenuto da questa Corte in fattispecie
identica (Sez. 1, Sentenza n. 1584 del 03/02/2012, Rv. 622621).
Ed infatti ove si intendesse la causa negoziale nel senso tradizionale di
"funzione economico-sociale" del contratto, è agevole rilevare che il contratto
"Visione Europa" si fonda su un do ut facias, in virtù del quale il risparmiatore si
obbligava a pagare 61 rate in 15 anni, e la banca ad acquistare titoli
remunerativi i cui frutti sarebbero andati a pro del cliente. Questo era il nucleo
dell'operazione, e la sua scomposizione in tre contratti non è che fittizia ed
apparente, e come tale giuridicamente irrilevante, alla luce del secolare principio
plus valet quod agitur, quam quod simulate concipitur.
Ove, per contro, si intendesse la causa quale scopo concreto avuto di mira dalle
parti, secondo il più recente orientamento di questa Corte (ex aliis, Sez. 3,
Sentenza n. 23941 del 12/11/2009, Rv. 610016; Sez. 3, Sentenza n. 10490 del
08/05/2006, Rv. 592154), il contratto "Visione Europa" non cesserebbe per ciò
solo di costituire un negozio unitario. Scopo concreto delle parti fu infatti quello,
con ogni evidenza, di garantire una remunerazione ai risparmi dell'investitore, e
quindi uno scopo di investimento.
Scopo di investimento che, è bene ricordare, non può mai sottrarre il contratto
che lo persegue alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 58 del 1998 sol perchè le
parti lo abbiano qualificato in altre e talora fantasiose guise, atteso che la
nozione di contratto di investimento costituisce uno schema atipico, la quale
comprende "ogni forma di investimento finanziario, ai sensi del D.Lgs. 24
febbraio 1998, n. 58, art. 1, comma 1, lett. u), riflettendo la natura aperta ed a
tecnica di prodotto finanziario, la quale rappresenta la risposta legislativa alla
creatività del mercato ed alla molteplicità degli strumenti offerti al pubblico,
nonchè all'esigenza di tutela degli investitori" (sono parole, qui pienamente
condivise, di Sez. 2, Sentenza n. 2736 del 05/02/2013, Rv. 625071).
Nel caso di specie non ci troviamo dunque al cospetto di un collegamento
negoziale (genetico o funzionale che fosse), perchè le singole operazioni
previste per raggiungere lo scopo finale dell'investimento non avevano alcuna
autonomia concettuale, giuridica o pratica. Non solo, infatti, esse erano tutte
coessenziali al conseguimento dello scopo (elemento ovviamente sussistente
anche nelle ipotesi di collegamento negoziale di tipo funzionale), ma ciascuna di
esse era altresì inutile ed inconcepibile senza la contestuale stipula delle altre.
1.5.3. Pertanto, avendo il contratto "Visione Europa" natura e funzione unitaria,
e costituendo per quanto già detto un "servizio di investimento" ai fini di cui al
D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, esso avrebbe dovuto prevedere nelle
sue condizioni generali, a pena di nullità, l'informazione al cliente dell'esistenza
del diritto di recesso.
1.6. Vi è stato infine, come accennato, un terzo error iuris nella decisione
impugnata.
La Corte d'appello di Brescia, con motivazione ad abundantiam (aveva infatti
ritenuto non necessaria l'informazione sul diritto di recesso data la natura del
contratto, e ciò sarebbe bastato per accogliere il gravame sul punto), ha ritenuto
di soggiungere che comunque nel caso di specie l'onere informativo a carico
della MPS era stato da questa adempiuto.
L'informazione sul diritto di recesso era infatti contenuta nel prospetto
informativo concernente l'acquisto delle quote del fondo di investimento, ed "in
relazione all'inscindibilità dei componenti della proposta e delle modalità attuatile
(...) l'esercizio del diritto di ripensamento previsto quanto alla sottoscrizione di
quote del fondo di investimento avrebbe necessariamente travolto tutta la
proposta".
Sicchè - questa sembra essere la conclusione implicita, ma chiara, della Corte
d'appello - l'informazione sul recesso contenuta nel prospetto informativo
concernente il fondo "Ducato" bastava a salvare dalla nullità l'intera operazione.
Tale affermazione non può essere condivisa per due indipendenti ragioni.
1.6.1. La prima ragione è che il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, impone
che l'informazione sulla facoltà di recesso sia contenuta nei "moduli o formulari"
dei contratti stipulati fuori sede.
L'espressione "moduli o formulari" compare due volte nel codice civile: nell'art.
1342 c.c., il quale stabilisce che nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione
di moduli o formulari le clausole aggiunte al modulo o al formulario prevalgono
su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse; e
nell'art. 1370 c.c., il quale stabilisce che le clausole inserite nelle condizioni
generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti
s'interpretano, nel dubbio, a favore dell'altro.
Le due norme rendono edotti che i "moduli e formulari" di cui in esse si fa
menzione non coincidono con le condizioni generali di contratto, ma
costituiscono il documento nel quale è consacrato il testo contrattuale: quello,
per intenderci, destinato alla sottoscrizione per adesione. Questi principi generali
vanno coordinati, nella nostra materia, con le previsioni del D.Lgs. n. 58 del
1998 e dei regolamenti amministrativi che l'hanno attuato od integrato.
A livello della fonte primaria viene in rilievo il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, il
quale prescrive che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento
"sono redatti per iscritto" a pena di nullità. A livello della fonte secondaria l viene
in rilievo la Delib. Consob 1 luglio 1998, n. 11522, art. 36 (nel testo applicabile
ratione temporis, e cioè dopo le modifiche introdotte dall'art. unico della Delib.
Consob 1 marzo 2000, n. 12409, e prima dell'abrogazione disposta dall'art. 113,
comma 7, della Delib. Consob 29 ottobre 2007, n. 16190), il quale stabiliva
all'epoca dei fatti che nel caso di offerta fuori sede di strumenti finanziari
all'investitore devono essere consegnati sia "i documenti contrattuali per la
fornitura dei servizi di investimento", sia il "documento di acquisto o di
sottoscrizione" degli strumenti finanziari.
Nel nostro caso, in virtù della già illustrata natura unitaria del contratto "Visione
Europa", è dunque evidente che il "modulo o formulario" cui fa riferimento il
D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, è costituito, alternativamente:
(a) o dal documento che esprime ex art. 1321 c.c. l'accordo sull'intera
operazione di finanziamento, ai sensi del D.Lgs. n. 258 del 1998, art. 23;
(b) ovvero dal documento che ne illustra il contenuto e le condizioni generali, ai
sensi dell'art. 36, comma 1, lett. (b), Reg. Consob 11522/98. L'informazione
contenuta nel prospetto informativo relativo all'acquisto di quote di fondi comuni
non è dunque idonea a soddisfare l'onere posto a carico dell'intermediario dal
D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, perchè quel prospetto - relativo ad un
solo segmento dell'operazione finanziaria - non può farsi rientrare tra i "moduli o
formulari" di cui è menzione nell'art. 30 cit., posto che - per quanto detto - per tali
devono intendersi quelli riguardanti il complesso dell'operazione, e non un
frammento di essa.
1.6.2. V'è poi, come accennato, una seconda ed indipendente ragione per la
quale l'inserimento dell'informazione sul recesso nel solo prospetto informativo
concernente l'acquisto delle quote del fondo comune non soddisfa l'onere
imposto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, e non salva dalla nullità
l'intero contratto: e tale ragione consiste nella violazione dell'obbligo di
chiarezza.
Le regole tanto comunitarie, quanto nazionali, che disciplinano il contenuto e la
forma dei contratti di investimento impongono all'intermediario ed all'emittente il
dovere del dare loqui, ovvero di "parlare chiaro".
Il dovere di chiarezza è imposto, in primo luogo, dal diritto comunitario. Lo era
all'epoca dei fatti di causa (2000), per effetto dell'art. 11 della Direttiva
93/22/CEE del Consiglio, del 10 maggio 1993, relativa ai servizi di investimento
nel settore dei valori mobiliari, il quale imponeva agli Stati membri l'obbligo di
prevedere a carico delle "imprese di investimento" il duplice obbligo sia di "agire
in modo leale ed equo"; sia di "trasmettere adeguatamente le informazioni utili
nell'ambito dei negoziati con i suoi clienti". Ed ovviamente va da sè che una
informazione "adeguata" non può non essere anche "chiara", per la
contraddizione che non lo consente.
Dovere di chiarezza, vale la pena aggiungere, ribadito e rafforzato dall'art. 19,
comma 2, della Direttiva 2004/39/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio,
del 21 aprile 2004 (c.d. "Direttiva MiFID"), il quale stabilisce che "tutte le
informazioni (...) indirizzate dalle imprese di investimento a clienti (...) sono
corrette, chiare e non fuorvianti".
Tali principi sono ribaditi, a livello di legislazione nazionale, in primo luogo dagli
artt. 1175 e 1375 c.c., i quali pacificamente pongono a carico dei contraenti un
obbligo di informazione e chiarezza. In secondo luogo, l'obbligo di chiarezza dei
testi contrattuali è desumibile sia dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, nella parte in
cui impone agli intermediari di "operare in modo che i clienti siano sempre
adeguatamente informati"; sia dal Regolamento Consob 11522/98 e
dall'Allegato 7 ad esso, ove si impone all'intermediario di "illustrare all'investitore
in modo chiaro ed esauriente (...) gli elementi essenziali dell'operazione, del
servizio o del prodotto".
Il dovere di chiarezza ovviamente non è fine a sè stesso: esso è un corollario
indefettibile del dovere di informazione, e l'uno e l'altro hanno lo scopo di
colmare le "asimmetrie informative" tra risparmiatore ed intermediario.
L'uno, infatti, è titolare del diritto di scegliere se, come, quando e quanto
investire dei propri risparmi; ma di norma non è in possesso delle nozioni che gli
consentano di effettuare tali scelte con cognizione di causa. L'altro possiede tali
nozioni, ma non è titolare del diritto di disporre dei risparmi del cliente.
Il risparmiatore è dunque titolare di un diritto il cui corretto e proficuo esercizio
dipende dal possesso di informazioni che gli debbono essere fornite da altri. Un
esercizio, quindi, che esige un "consenso informato".
L'obbligo di informazione si ridurrebbe tuttavia ad una lustra se, come non di
rado avviene nella prassi, fosse assolto in modo puramente formale. Ad
esempio, attraverso la sottoposizione al risparmiatore di profluvi di documenti
disseminati di tecnicismi e solecismi, senza che alcuno si prenda la briga di
fargliene chiaro il senso. Adempiuto in tal guisa, l'obbligo di informazione non
potrebbe mai raggiungere lo scopo di consentire al risparmiatore una scelta
consapevole: e dunque non potrebbe dirsi davvero adempiuto.
Un testo contrattuale non chiaro è un testo che non informa; ed un testo che non
informa non mette il risparmiatore in condizione di prestare un valido consenso
informato.
Il requisito di chiarezza prescritto dalle norme sopra ricordate può mancare sia
sul piano morfologico (ad esempio, impiego di lemmi di uso non comune); sia
sul piano sintattico (ad esempio, per l'adozione di periodi oscuri, rinvii, ipotassi,
anacoluti).
Sul piano sintattico la forma più tipica di mancanza di chiarezza è l'ambiguità,
ovvero la possibilità che il testo sia interpretato in modi alternativi e divergenti.
Si applichino ora i seguenti principi al caso di specie.
Il contratto "Visione Europa" non conteneva alcuna informazione sul diritto di
recesso.
Il prospetto informativo sull'acquisto delle quote del fondo "Ducato", che
costituiva come già detto un segmento soltanto dell'intera operazione di
investimento, conteneva quell'avviso, ovviamente riferito alla sola facoltà di
recedere dall'acquisto delle quote del fondo.
Un simile testo contrattuale è di per sè ambiguo. Esso lasciava infatti al
risparmiatore il dubbio se il diritto di recesso avrebbe riguardato solo
l'investimento in quote del fondo, ovvero l'intera operazione; nè può esigersi dal
risparmiatore che questi provveda di per sè ad un'analisi del testo contrattuale
alla luce della legislazione comunitaria e della giurisprudenza, per trarne le
necessarie informazioni sulla portata del diritto di recesso.
Da quanto esposto consegue che, anche ad ammettere che la MPS abbia
fornito l'informazione sul diritto di recesso, essa non l'ha fatto in modo chiaro, e
dunque la suddetta informazione è tamquam non esset.
2. I rilievi svolti dalla MPS nel controricorso e nella memoria ex art. 378 c.p.c.
non scalfiscono le osservazioni che precedono. La maggior parte di essi trova
risposta in quanto già esposto; agli ulteriori rilievi svolti dalla MPS va replicato
che:
(a) stupefacente, prima ancora che infondata, è l'affermazione secondo cui le
singole operazione che componevano il contratto "Visione Europa" restavano
"nettamente distinte e separate tra loro" (così il controricorso, pag. 9), alla luce
delle caratteristiche del contratto come descritte al p. 2 dello "Svolgimento del
processo", ed al p.1.5.1 dei "Motivi della decisione";
(b) che l'attività svolta dalla MPS nei confronti del sig. L. D.R.L. non potesse
qualificarsi come "attività di collocamento" (a prescindere da qualsiasi giudizio
su tale affermazione, di cui a pag. 10 del controricorso) è irrilevante, posto che
per quanto detto l'obbligo di informazione sul diritto di recesso riguarda anche i
contratti stipulati al di fuori dei servizi di collocamento in senso stretto;
(c) la MPS non era affatto un "intermediario negoziatore" (come si afferma,
richiamando giurisprudenza di merito, a pag. 13 del controricorso), se non da un
punto di vista puramente formale, per l'ovvia considerazione che in attuazione
del contratto "Visione Europa" il cliente poteva acquistare solo quei determinati
titoli, e tutti emessi dalla stessa MPS o da società del gruppo;
(d) singolare è poi il capovolgimento dei rapporti fra legge e cittadini
nell'affermazione compiuta a pag. 6 della memoria ex art. 378 c.p.c. della MPS,
secondo cui le Sezioni Unite della Corte di cassazione, stabilendo che il diritto di
recesso D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 30, comma 7, si applichi anche ai contratti
di negoziazione, "si sono poste in aperta antitesi con la prassi consolidata degli
intermediari", posto che è la prassi commerciale a doversi adeguare alla legge
per come interpretata dall'organo giurisdizionale di vertice, e non il contrario;
(e) la MPS ha poi sostenuto che l'applicazione della sospensione D.Lgs. n. 58
del 1998, ex art. 30, comma 6, ai contratti di negoziazione impedirebbe
l'esecuzione immediata dell'ordine del cliente, con i conseguenti rischi di
fluttuazioni legate alle oscillazioni dei valori di riferimento (monetari, azionari o di
altro tipo; così la memoria ex art. 378 c.p.c., pag. 8); tale rilievo è inconferente
nel presente giudizio, nel quale il contratto non prevedeva una esecuzione
immediata, e comunque è superato dall'osservazione svolta dalle Sezioni Unite
nella sentenza sopra ricordata, secondo cui - ammesso che di inconveniente si
tratti - esso è il necessario prezzo da pagare per salvaguardare il superiore
principio di tutela del risparmiatore.
3. Infine, alle pagg. 10 e ss. della memoria ex art. 378 c.p.c., la MPS ha
sostenuto che la correttezza del principio affermato dalla sentenza impugnata è
stata ora esplicitamente confermata dal D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 56
quater (convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2013, n. 98, c.d. "decreto
del fare").
Questa norma ha infatti inserito una interpolazione nel D.Lgs. n. 58 del 1998,
art. 30, comma 6, la quale così recita: "ferma restando l'applicazione della
disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui
all'art. 1, comma 5, lett. c), c- bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1
settembre 2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di
investimento di cui all'art. 1, comma 5, lett. a)".
Il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 5, lett. (a) prevede un solo tipo di "servizi
di investimento", e cioè la negoziazione per conto proprio di strumenti finanziari.
La MPS interpreta dunque la norma appena trascritta nel senso che essa
avrebbe introdotto un discrimine:
(a) le vendite di strumenti finanziari per conto proprio, stipulate fuori sede a
partire dal 1.9.2013 debbono contenere, a pena di nullità, l'informazione sul
diritto di recesso del risparmiatore;
b) le vendite di strumenti finanziari per conto proprio, stipulate fuori sede fino al
31.8.2013 non debbono contenere, a pena di nullità, l'informazione sul diritto di
recesso del risparmiatore.
La norma, soggiunge la MPS, avrebbe natura di norma interpretativa;
essa sarebbe di conseguenza retroattiva, ed ha avuto il solo scopo di dissipare i
dubbi su quale fosse la volontà del legislatore allorchè scrisse il D.Lgs. n. 58 del
1998, art. 30, comma 6.
3.1. La lettura che la controricorrente MPS invoca del D.L. n. 69 del 2013, art. 56
quater non può essere condivisa. La suddetta norma, infatti, non ha natura
interpretativa.
Depongono univocamente in tal senso l'interpretazione logica, quella finalistica e
quella costituzionalmente orientata.
3.2. Dal punto di vista dell'interpretazione logica, va rilevato come il precetto
contenuto nel D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater affermi che il diritto di recesso
si applica ai contratti di negoziazione titoli stipulati dopo il 1.9.2013.
La norma non nega il contrario, e cioè che il diritto di recesso non si applichi ai
contratti stipulati prima di tale data.
Ci troviamo dunque dinanzi ad una norma che afferma il precetto "A", ma non
nega affatto il precetto "non-A".
Se il legislatore avesse davvero inteso escludere il diritto di recesso per i
contratti stipulati prima di settembre 2013, non avrebbe dovuto stabilire che il
diritto "A" si applica ai contratti stipulati dopo: avrebbe dovuto sancire che il
diritto "A" non si applica ai contratti stipulati prima.
Sul piano della logica formale ne discende una importante conseguenza.
La regola ermeneutica classica dell'inclusio unius, exclusio alterius, trova
applicazione quando la norma scelga tra due soluzioni possibili e tra loro
alternative, cioè legate da un nesso di esclusione reciproca. Così, ad esempio,
una norma che sancisse l'invalidità dei contratti stipulati dopo una certa data non
consente dubbi sul fatto che quei contratti non possano essere efficaci.
Non è questo il nostro caso. Individuato il discrimine temporale del 1.9.2013, la
legge dichiara che ai contratti dopo tale data si applica il diritto di recesso: ma
tale affermazione non è legata da un nesso di esclusione reciproca rispetto al
suo contrario: e cioè che ai contratti stipulati prima di tale data il diritto di recesso
non si applichi.
Nel nostro caso dunque delle quattro soluzioni teoricamente possibili del
problema, e cioè:
(a) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati prima di settembre, ma non
a quelli dopo;
(b) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati dopo settembre, ma non a
quelli prima;
(c) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati sia prima che dopo
settembre;
(d) il diritto di recesso non si applica nè ai contratti stipulati prima di settembre,
nè a quelli stipulati dopo;
la lettera della legge per come è stata concepita consente di escludere con
certezza la prima e l'ultima, ma lascia impregiudicate le altre due.
3.3. Sul piano dell'interpretazione finalistica, la controricorrente MPS da per
scontato che il legislatore sia intervenuto col D.L. n. 69 del 2013 per ristabilire
una situazione di certezza, la quale sarebbe venuta meno in seguito
all'intervento delle Sezioni Unite (così la memoria ex art. 378 c.p.c., pag. 12).
Questa lettura della nuova norma non ha alcuna solida base. Il presupposto che
legittima l'intervento del legislatore attraverso una norma di interpretazione
autentica è la situazione di incertezza che il legislatore intende eliminare.
Nel nostro ordinamento questa situazione di incertezza non solo non esisteva,
ma anzi era stata esclusa proprio dall'intervento delle Sezioni Unite, cui l'art. 65
dell'Ordinamento giudiziario attribuisce il compito di rimuoverle, le incertezze, e
non di crearle. Nè, ovviamente, potrebbe spacciarsi per "incertezza del diritto"
l'eventuale malumore ingenerato da una decisione della Corte di cassazione
confliggente con (pur legittimi) interessi od aspettative privati.
Dunque il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater non può ritenersi una norma
interpretativa perchè dell'interpretazione autentica mancava il primo e principale
presupposto, ovvero la possibilità di letture contrastanti. Possibilità venuta meno
proprio in seguito all'intervento delle Sezioni Unite più volte ricordato, alla luce
del combinato disposto degli artt. 65 ord. giud. e 374 c.p.c..
3.4. Oltre che per la mancanza del presupposto della oggettiva incertezza, l'art.
56 quater d.l. cit. non può essere qualificato come "norma interpretativa"
nemmeno alla luce dei lavori preparatori, che non contengono alcuna
indicazione in tal senso. Anzi, se mai vi fu norma oscura nella genesi e negli
intenti, questa è il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater.
Non presente nel testo originario del decreto presentato alle Camere per la
conversione in legge, la norma di cui si discorre fu introdotta nel corso
dell'esame al Senato (dopo che già l'altro ramo del Parlamento aveva approvato
il disegno di legge di conversione del decreto), per effetto dell'emendamento 56ter.0.1000 presentato dal Governo.
Durante l'esame dinanzi alle Commissioni 1^ e 5^ riunite del Senato,
l'emendamento venne esaminato nella 10^ seduta, svoltasi lunedì 5 agosto
2013.
In quella seduta nessuno si peritò di illustrare l'emendamento di cui si discorre;
nessuno ne spiegò il senso o gli scopi, nessuno ne rese manifesta l'utilità. Dal
resoconto della seduta si apprende unicamente che a un certo punto venne
"posto in votazione, con il parere favorevole dei relatori, l'emendamento 56ter.0.1000, che è accolto" (cfr. resoconto sommario n. 5 del 5.8.2013).
Non diverso fu l'iter di approvazione della norma in esame da parte
dell'assemblea. Nella 91^ seduta pubblica del 7.8.2013 nè il governo, nè alcun
Senatore ha illustrato senso, scopi e ragione della nuova norma. Si legge infatti
nel resoconto stenografico n. 91 del 7.8.2013: "PRESIDENTE. Passiamo alla
votazione dell'emendamento 56-ter.0.1000. Votazione nominale con scrutinio
simultaneo.
PRESIDENTE. Indico la votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante
procedimento elettronico, dell'emendamento 56-ter.0.1000, presentato dalle
Commissioni riunite. Dichiaro aperta la votazione.
(Segue la votazione). Il Senato approva".
Il giorno dopo il D.D.L. di conversione del D.L. n. 69 del 2013 passò (per la
seconda volta) alla Camera, dove l'intera discussione verte unicamente sulla
bizzarra circostanza che il testo del D.D.L. trasmesso alla Camera non
coincideva con quello approvato dal Senato.
Nè nel resoconto stenografico dell'Assemblea relativo alla seduta n. 68 di
giovedì 8 agosto 2013; nè in quello n. 69 di venerdì 9 agosto 2013 si rinviene un
solo intervento, del relatore o d'altri, che spieghi lo scopo dell'emendamento.
Questo essendo stato l'iter di formazione del D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater,
non è chiaro donde la controricorrente tragga la convinzione che la norma sia
stata approvata per "ristabilire la certezza", a suo dire infranta dall'intervento
delle Sezioni Unite. E comunque, a tutto concedere, in ogni caso "l'intenzione
del legislatore" di cui è menzione nell'art. 12 preleggi va intesa - per risalente
tradizione - come volontà oggettiva della norma (c.d.
voluntas legis), e non certo come volontà dei singoli partecipanti al processo
formativo di essa (c.d. voluntas legislatoris) (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 3550
del 21/05/1988, Rv. 458871; Sez. L, Sentenza n. 3276 del 08/06/1979, Rv.
399660; Sez. 2, Sentenza n. 1955 del 19/05/1975, Rv. 375656; Sez. 1,
Sentenza n. 937 del 13/03/1975, Rv. 374322).
Infine, e sempre con riferimento all'intenzione del legislatore, è appena il caso di
rilevare che gli atti normativi debbono presumersi voluti dal legislatore in senso
conforme alle regole ed ai principi dell'ordinamento: sicchè non può certo
presumersi che il Governo, con l'emendamento introduttivo del D.L. n. 69 del
2013, art. 56 quater, abbia avuto il poco commendevole intento di porre in non
cale una sentenza delle Sezioni Unite, e scardinare in tal modo il principio di
separazione tra i poteri dello Stato.
3.5. Il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater, in secondo luogo, non può essere
considerato una norma di interpretazione autentica in base all'interpretazione
costituzionalmente orientata.
Se, infatti, la norma in esame si interpretasse nel senso propugnato dalla
controricorrente, essa entrerebbe in conflitto con molteplici precetti di rango
costituzionale.
In primo luogo, l'interpretazione qui contestata si porrebbe in conflitto con l'art.
47 Cost., comma 1, nella parte in cui introdurrebbe un regime di favore per gli
istituti di credito i quali abbiano stipulato contratti di negoziazione titoli fuori sede
prima del 1.9.2013.
La suddetta distinzione inoltre, essendo rimasto immutato il resto della norma,
sarebbe difficilmente compatibile col principio di uguaglianza di cui all'art. 3
Cost., posto che non esiste alcuna circostanza idonea a giustificare una più
solida tutela per i risparmiatori che abbiano stipulato i loro contratti dopo una
certa data, rispetto a quelli che l'abbiano fatto prima.
In terzo luogo, l'interpretazione caldeggiata dalla MPS potrebbe porre la norma
in contrasto con gli artt. 101 e 104 Cost., nella parte in cui finirebbe per
vanificare con effetto retroattivo il dictum delle Sezioni Unite già più volte
ricordato.
4. La sentenza impugnata deve, in definitiva, essere cassata con rinvio sulla
base dei seguenti principi di diritto:
(A) L'operazione finanziaria consistente nell'erogazione al cliente, da parte d'una
banca, d'un mutuo contestualmente impiegato per acquistare per conto del
cliente strumenti finanziari predeterminati ed emessi dalla banca stessa, a loro
volta contestualmente costituiti in pegno in favore della banca a garanzia della
restituzione del finanziamento, da vita ad un contratto atipico unico ed unitario,
la cui causa concreta risiede nella realizzazione di un lucro finanziario, e che va
sussunto tra i "servizi di investimento" di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58,
art. 1, comma 5.
(B) Il diritto di recesso previsto in favore del risparmiatore dal D.Lgs. 24 febbraio
1998, n. 58, art. 30, comma 7, nel caso di contratti stipulati fuori sede si applica
sia nel caso di vendita di strumenti finanziari per i quali l'intermediario ha
assunto un obbligo di collocamento nei confronti dell'emittente) sia nel caso di
mera negoziazione di titoli.
(C) Il D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 56 quater, il quale - novellando il D.Lgs. 24
febbraio 1998, n. 58, art. 30, comma 6, - ha previsto che il diritto di recesso del
risparmiatore dai contratti di investimento stipulati fuori sede spetti anche nel
caso di operazioni di negoziazione di titoli per conto proprio stipulate dopo il 1
settembre 2013 non è una norma di interpretazione autentica, e non ha avuto
l'effetto di sanare l'eventuale nullità dei suddetti contratti, se privi dell'avviso al
risparmiatore dell'esistenza del diritto di recesso e stipulati prima del 1 settembre
2013.
Il giudice del rinvio provvederà, una volta applicati i suddetti principi, a statuire
sulle domande restitutorie scaturenti dalla nullità del contratto.
4. Gli altri motivi di ricorso.
4.1. Gli ulteriori motivi di ricorso proposti dal ricorrente restano assorbiti
dall'accoglimento del primo.
5. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno
liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 3.
P.Q.M.
la Corte di cassazione, visto l'art. 383 c.p.c., comma 1:
-) accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri;
-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte
d'appello di Brescia;
-) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità
e di quelle dei gradi di merito.
Così deciso in Roma, 11 febbraio 2014.
DATA DEPOSITO 3 APRILE 2014
SENTENZA DELLA CORTE
(Prima Sezione)
21 gennaio 2015 (*)
«Rinvio pregiudiziale – Direttiva 93/13/CEE – Contratti conclusi tra consumatori e
professionisti – Contratti di mutuo ipotecario – Clausola relativa agli interessi di mora –
Clausole abusive – Procedimento di esecuzione ipotecaria – Moderazione dell’importo
degli interessi – Competenze del giudice nazionale»
Nelle cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13,
aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi
dell’articolo 267 TFUE, dal Juzgado de Primera Instancia e Instrucción de Marchena (Spagna),
con decisioni del 12 agosto 2013, pervenute in cancelleria il 10 settembre 2013, nei
procedimenti
Unicaja Banco, SA
contro
José Hidalgo Rueda,
María del Carmen
Vega Martín, Gestión
Patrimonial Hive SL,
Francisco Antonio
López Reina,
Rosa María Hidalgo
Vega (C-482/13), e
Caixabank SA
contro
Manuel María Rueda Ledesma, (C-484/13)
Rosario Mesa Mesa (C-484/13),
José Labella Crespo,
(C-485/13) Rosario
Márquez Rodríguez,
(C-485/13) Rafael
Gallardo Salvat, (C485/13)
Manuela Márquez Rodríguez (C-485/13),
Alberto Galán Luna, (C-487/13)
Domingo Galán Luna (C-487/13),
LA CORTE (Prima Sezione),
composta da A. Tizzano, presidente di sezione, S. Rodin, E. Levits (relatore), M. Berger e F.
Biltgen(giudici),
avvocato generale: N. Wahl
cancelliere: M. Ferreira, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 10
settembre 2014,considerate le osservazioni presentate:
–
per l’Unicaja Banco SA, da J. Almoguera Valencia, abogado,
–
per la Caixabank SA, da J. Rodríguez Cárcamo, e da B. García Gómez,
abogados,
–
per il governo spagnolo, da A. Rubio González e S. Centeno Huerta, in qualità di
agenti,
–
per la Commissione europea, da J. Rius, M. van Beek e G. Valero
Jordana, in qualità di agenti,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 16
ottobre 2014,ha pronunciato la seguente
Sentenza
1
Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 6
della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole
abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GU L 95, pag. 29).
2
Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che oppongono,
da una parte, l’Unicaja Banco SA (in prosieguo: l’«Unicaja Banco») al sig. Hidalgo
Rueda, alla sig.ra del CarmenVega Martín, alla Gestión Patrimonial Hive SL, al
sig. López Reina e alla sig.ra Hidalgo Vega, dall’altra, la Caixabank SA (in
prosieguo: la «Caixabank»), in primo luogo, ai sigg. Rueda Ledesma e Mesa Mesa,
in secondo luogo, al sig. Labella Crespo, alla sig.ra Márquez Rodríguez, al
sig. Gallardo Salvat e alla sig.ra M. Márquez Rodríguez nonché, in terzo luogo,
ai sigg. A. GalánLuna e D. Galán Luna, in merito alla riscossione di debiti non
pagati derivanti da contratti di mutuoipotecario stipulati tra tali parti del procedimento
principale.
Contesto normativo
La direttiva 93/13
3
L’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 93/13 prevede quanto segue:
«Le clausole contrattuali che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative
e
disposizioni o principi di convenzioni internazionali, in particolare nel settore dei trasporti,
dellequali gli Stati membri o la Comunità sono parte, non sono soggette alle disposizioni della
presentedirettiva».
4
L’articolo 3, paragrafo 1, di questa direttiva così recita:
«Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera
abusiva se,malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un
significativosquilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto».
5
L’articolo 4, paragrafo 1, di detta direttiva precisa che:
«(…) il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei
beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del
contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole
del contratto o diun altro contratto da cui esso dipende».
6
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 dispone che:
«Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un
consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle
loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi
termini,sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».
7
In base all’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva:
«Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a
fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti
stipulati tra un professionista e dei consumatori».
Il diritto spagnolo
8
Nel diritto spagnolo la tutela dei consumatori contro le clausole abusive è stata
garantita inizialmente dalla legge generale 26/1984, sulla tutela dei consumatori e
degli utenti (Ley General26/1984 para la Defensa de los Consumidores y Usuarios),
del 19 luglio 1984 (BOE n. 176, del 24luglio 1984, pag. 21686).
9
La legge generale 26/1984 è stata in seguito modificata dalla legge 7/1998, relativa
alle condizioni generali di contratto (Ley 7/1998 sobre condiciones generales de la
contratación), del 13 aprile 1998(BOE n. 89, del 14 aprile 1998, pag. 12304), che
ha recepito la direttiva nel diritto interno spagnolo.
10
Tali disposizioni sono state riprodotte nel regio decreto legislativo n. 1/2007, che
approva la versione consolidata della legge generale sulla tutela di consumatori e
utenti e altre leggi complementari (Real Decreto Legislativo 1/2007 por el que se
aprueba el texto refundido de la Ley General para la Defensa de los Consumidores
y Usuarios y otras leyes complementarias), del 16 novembre 2007 (BOE n. 287 del
30 novembre 2007, pag. 49181).
11
Ai sensi dell’articolo 83 del regio decreto legislativo 1/2007:
«1. Le clausole abusive sono nulle di pieno diritto e si considerano non
apposte.
2. La parte del contratto colpita da nullità è integrata conformemente all’articolo 1258 del
codice
civile e al principio di buona fede oggettiva.
A tali effetti, il giudice che dichiara la nullità di dette clausole integra il contratto e dispone di
poteri di moderazione rispetto ai diritti e obblighi delle parti, nel caso di sopravvivenza del
contratto, erispetto alle conseguenze della sua inefficacia in caso di apprezzabile pregiudizio
per il consumatoreo utente. Soltanto qualora le clausole sussistenti determinino una situazione
iniqua rispetto allaposizione delle parti, che non può essere sanata, il giudice può dichiarare
l’inefficacia del contratto».
12
A seguito della sentenza Aziz (C-415/11, EU:C:2013:164), la normativa spagnola
relativa alla tutela dei consumatori è stata modificata dalla legge 1/2013, relativa alle
misure volte a incrementare la protezione dei debitori ipotecari, alla ristrutturazione
del debito e al canone sociale
(Ley de medidas para reforzar la protección a los deudores hipotecarios, reestructuración de
deuda yalquiler social), del 14 maggio 2013 (BOE n. 116 del 15 maggio 2013, pag. 36373).
Tale legge modifica segnatamente talune disposizioni della legge 1/2000 relativa al codice di
procedura civile(Ley 1/2000 de Enjuiciamiento Civil), del 7 gennaio 2000 (BOE n. 7,
dell’8 gennaio 2000, pag. 575).
13
Così, l’articolo 552, paragrafo 1, del codice di procedura civile come modificato
dall’articolo 7, paragrafo 1, della legge 1/2013, dispone che:
«Se il giudice ritiene che una delle clausole contenute in un titolo esecutivo di cui all’articolo
557,paragrafo 1, possa essere qualificata come abusiva, esso ascolta le parti entro un termine
di cinquegiorni. Sentite le parti esso statuisce entro i successivi cinque giorni, conformemente
all’articolo 561, paragrafo 1, punto 3».
14
L’articolo 7, paragrafo 3, della legge 1/2013 ha aggiunto un punto 3 all’articolo
561, paragrafo 1, del codice di procedura civile che è redatto come segue:
«Qualora venga accertato il carattere abusivo di una o più clausole, l’ordinanza specifica le
conseguenze di tale accertamento, dichiarando l’improcedibilità dell’esecuzione o disponendo la
medesima senza applicazione delle clausole considerate abusive».
15
L’articolo 7, paragrafo 14, della legge 1/2013 modifica l’articolo 695 del codice di
procedura civile precisando che l’esistenza di clausole abusive costituisce un motivo
di opposizione nei termini seguenti:
«1. Nei procedimenti di cui al presente capo il debitore esecutato può presentare opposizione
solo per i seguenti motivi:
(...)
4. il carattere abusivo di una clausola contrattuale costituente il fondamento dell’esecuzione
o cheabbia determinato l’importo esigibile».
16
L’articolo 3, paragrafo 2, della legge 1/2013 modifica anche l’articolo 114 della
legge sull’ipoteca (Ley Hipotecaria), aggiungendovi un terzo comma redatto come
segue:
«Gli interessi di mora relativi a contratti di mutuo o credito per l’acquisto dell’abitazione
principale, garantiti da ipoteche costituite sulla medesima, non possono essere superiori al
triplo del tasso di interesse legale e possono maturare solo sulla somma principale insoluta.
Tali interessi di mora nonpossono in alcun caso essere capitalizzati, fatto salvo quanto previsto
dall’articolo 579, paragrafo 2, lettera a), del codice di procedura civile».
17
Infine, la seconda disposizione transitoria della legge n. 1/2013 aggiunge:
«La limitazione degli interessi di mora relativi ad ipoteche sugli immobili destinati ad
abitazione principale prevista all’articolo 3, paragrafo 2, si applica alle ipoteche costituite
successivamenteall’entrata in vigore della presente legge.
Detta limitazione si applica altresì agli interessi di mora previsti da contratti di mutuo con
garanziaipotecaria sull’abitazione principale, stabiliti anteriormente alla data in cui la presente
legge è entrata in vigore e maturati successivamente a tale data, nonché agli interessi scaduti
alla suddetta data e non corrisposti.
Nei procedimenti di esecuzione forzata o di vendita stragiudiziale già avviati ma non ancora
conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, e nei quali sia già stato
determinato l’importo per il quale viene chiesta l’esecuzione o la vendita stragiudiziale, il
cancelliere o il notaioimpartisce all’esecutante un termine di dieci giorni per ricalcolare detto
importo in conformità con ilparagrafo precedente».
Procedimenti principali e questioni pregiudiziali
18
I procedimenti principali riguardano procedimenti di esecuzione ipotecaria avviati
dall’Unicaja Banco e dalla Caixabank per l’esecuzione forzata di varie ipoteche,
costituite tra il 5 gennaio 2007 eil 20 agosto 2010 per importi compresi tra EUR 47
000 e EUR 249 000.
19
Nella causa C-482/13, il mutuo ipotecario era soggetto ad un tasso di interesse
moratorio del 18%, che era suscettibile di aumento, qualora dalla maggiorazione di
quattro punti del tasso di interesse modificato fosse risultato un tasso di interesse
superiore, entro i limiti del massimale del 25% nominale annuo. Nelle cause C484/13, C-485/13 e C-487/13, i mutui ipotecari erano soggetti ad un tasso di
interesse moratorio del 22,5%
20
Inoltre, tutti i contratti di mutuo interessati nei procedimenti principali contenevano
una clausola che consentiva, in caso di inadempimento del mutuatario ai suoi
obblighi di pagamento, al mutuante di anticipare la data di esigibilità inizialmente
pattuita e di richiedere il pagamento dell’interocapitale dovuto, maggiorato degli
interessi di mora, delle commissioni e delle spese concordati.
21
L’Unicaja Banco e la Caixabank hanno presentato, dinanzi al giudice del rinvio,
tra il 21 marzo 2012 e il 3 aprile 2013 domande di esecuzione forzata sugli importi
dovuti in applicazione dei tassid’interesse di mora previsti dai contratti di mutuo
ipotecario di cui trattasi. Nell’ambito di taliricorsi, detto giudice si è concentrato
sulla questione del carattere «abusivo» ai sensi dell’articolo 3,paragrafo 1, della
direttiva 93/13, delle clausole relative ai tassi d’interessi di mora nonché
dell’applicazione di detti tassi al capitale la cui esigibilità anticipata è dovuta al
ritardo nel pagamento.
22
A tal proposito il giudice del rinvio avanza tuttavia dubbi in merito alle conseguenze
da trarre dal carattere abusivo di dette clausole alla luce della seconda disposizione
transitoria della legge 1/2013.Se dovesse applicare tale disposizione, spetterebbe
così al medesimo far ricalcolare gli interessi dimora conformemente al terzo comma
di tale disposizione.
23
Ciò premesso lo Juzgado de Primera Instancia e Instrucción de Marchena ha deciso
di sospendere la pronuncia e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni
pregiudiziali:
«1) Se, conformemente alla [direttiva 93/13] in particolare all’articolo 6, paragrafo 1,
di detta direttiva, e al fine di garantire la tutela dei consumatori e degli utenti
secondo i principi di equivalenza e di effettività, un giudice nazionale, qualora
accerti l’esistenza in un contratto di mutuo ipotecario di una clausola abusiva
relativa agli interessi di mora, debba dichiarare tale clausola nulla e non vincolante
o, al contrario, debba moderarne l’impatto concedendo all’esecutante o mutuante
la possibilità di adeguare gli interessi.
2)
Se la seconda disposizione transitoria della [legge n. 1/2013] comporti solo una
chiara limitazione della tutela degli interessi del consumatore, in quanto
impone implicitamente algiudice di moderare una clausola relativa agli interessi
di mora che sia qualificata come abusiva, adeguando gli interessi pattuiti e
mantenendo una stipulazione che presentava un carattere abusivo anziché
dichiararla nulla e non vincolante per il consumatore.
3)
Se la seconda disposizione transitoria della [legge n. 1/2013] contravvenga alla
[direttiva 93/13], e in particolare all’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva, in
quanto osta all’applicazione dei principi di equivalenza e di effettività in
materia di tutela dei consumatoried impedisce l’applicazione della sanzione
della nullità e dell’esclusione dell’efficacia vincolante alle clausole relative
agli interessi di mora qualificate come abusive, previste dacontratti di mutuo
ipotecario conclusi anteriormente all’entrata in vigore della [legge n.
1/2013] (…)».
24
Con ordinanza del presidente della Corte in data 10 ottobre 2013, le cause da C-482/13
a C-487/13 sono state riunite ai fini della fase scritta e orale del procedimento nonché
della sentenza.
25
Le cause C-486/13 e C-483/13 sono state separate, rispettivamente, con le ordinanze
del presidente della Corte del 13 marzo e del 3 ottobre 2014, a causa della loro
cancellazione.
Sulle questioni pregiudiziali
26
Con le sue questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio
chiede, in sostanza, se l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debba essere
interpretato nel senso cheosta ad una disposizione nazionale in virtù della quale il
giudice nazionale, investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria, è tenuto
a far ricalcolare le somme dovute a titolo dellaclausola di un contratto di mutuo
ipotecario che prevede interessi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso
legale, mediante l’applicazione di un tasso di interesse moratorio che non ecceda
tale soglia.
27
A tal proposito occorre innanzitutto constatare che, secondo il giudice del rinvio, le
clausole relative agli interessi di mora dei contratti di mutuo ipotecario per
l’esecuzione dei quali è stato adito sono «abusive», ai sensi dell’articolo 3 della
direttiva 93/13.
28
In tale contesto, occorre ricordare che, quanto alle conseguenze da trarre dalla
constatazione del carattere abusivo di una disposizione di un contratto che vincola un
consumatore ad un professionista, dal tenore letterale dell’articolo 6, paragrafo 1,
della direttiva 93/13 risulta che i giudici nazionali sono tenuti unicamente ad
escludere l’applicazione di una clausola contrattuale abusiva affinché non produca
effetti vincolanti nei confronti dei consumatori, senza essere autorizzati a rivedere
il contenuto della medesima. Infatti, detto contratto deve sussistere, in linea di
principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle
clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile
sopravvivenza del contratto siagiuridicamente possibile (sentenze Banco Español de
Crédito, C-618/10, EU:C:2012:349, punto 65,nonché Asbeek Brusse e de Man
Garabito, C-488/11, EU:C:2013:341, punto 57).
29
In particolare, tale disposizione non può essere interpretata nel senso che consente al
giudice nazionale, qualora quest’ultimo accerti il carattere abusivo di una clausola
penale in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di ridurre
l’importo della penale imposta a caricodel consumatore anziché di disapplicare
integralmente la clausola in esame nei confronti di quest’ultimo (sentenza Asbeek
Brusse e de Man Garabito, EU:C:2013:341, punto 59).
30
Inoltre, data la natura e l’importanza dell’interesse pubblico sul quale si basa la
tutela assicurata ai consumatori, che si trovano in una situazione d’inferiorità rispetto
ai professionisti, la direttiva 93/13 impone agli Stati membri, come risulta dal suo
articolo 7, paragrafo 1, in combinato disposto con il ventiquattresimo considerando
della medesima, di fornire mezzi adeguati ed efficaci per farcessare l’inserzione
di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori
(sentenze Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 68, nonché Kásler e
Káslerné Rábai,EU:C:2014:282, punto 78).
31
Di fatto, se il giudice nazionale potesse rivedere il contenuto delle clausole abusive,
una tale facoltà potrebbe compromettere la realizzazione dell’obiettivo di lungo
termine di cui all’articolo 7 delladirettiva 93/13. Infatti tale facoltà contribuirebbe
ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato suiprofessionisti dalla pura e semplice non
applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive, dal momento
che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoliche, quand’anche
esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto
necessario, dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti
professionisti (sentenze Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 69, nonché
Kásler eKáslerné Rábai, EU:C:2014:282, punto 79).
32
Sulla scorta delle considerazioni che precedono la Corte ha affermato che l’articolo
6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 osta ad una normativa nazionale che consente al
giudice nazionale, qualora accerti la nullità di una clausola abusiva in un contratto
stipulato tra un professionista ed un consumatore, di integrare detto contratto
rivedendo il contenuto di tale clausola (sentenze Banco Español de Crédito,
EU:C:2012:349, punto 73, nonché Kásler et Káslerné Rábai, EU:C:2014:282,punto
77).
33
La Corte ha certamente anche riconosciuto la possibilità per il giudice nazionale di
sostituire ad una clausola abusiva una disposizione nazionale di natura suppletiva,
a condizione che tale sostituzionesia conforme all’obiettivo dell’articolo 6, paragrafo
1, della direttiva 93/13 e consenta di ripristinareun equilibrio reale tra i diritti e gli
obblighi delle parti contraenti. Tuttavia, tale possibilità è limitata ai casi in cui
l’invalidazione della clausola abusiva obbligherebbe il giudice ad annullare il
contratto nel suo insieme, esponendo così il consumatore a conseguenze tali da
esserne penalizzato (v., in talsenso, Kásler et Káslerné Rábai, EU:C:2014:282, punti
da 82 a 84).
34
Tuttavia, nei procedimenti principali, e salve le verifiche che deve effettuare, a
tal proposito, il giudice del rinvio, l’annullamento delle clausole contrattuali di
cui trattasi non può avereconseguenze negative per il consumatore, in quanto gli
importi per i quali i procedimenti di esecuzione ipotecaria sono stati avviati sarebbero
necessariamente minori in assenza di maggiorazione dovuta all’applicazione degli
interessi moratori previsti da dette clausole.
35
Rammentati tali principi, emerge dalle decisioni di rinvio che la seconda
disposizione transitoria della legge 1/2013 prescrive una moderazione degli
interessi di mora per i mutui o i crediti volti all’acquisto di un’abitazione principale
e garantiti da ipoteche costituite sull’abitazione in questione. Tale disposizione
prevede così che, per i procedimenti di esecuzione forzata o di vendita
stragiudiziale già avviati ma non conclusi alla data di entrata in vigore di tale legge,
vale a dire il 15maggio 2013, e nei quali sia già stato determinato l’importo per il
quale è chiesta l’esecuzione o lavendita stragiudiziale, tale importo deve essere
ricalcolato mediante l’applicazione di un interessemoratorio il cui tasso non sia
superiore al triplo di quello dell’interesse legale quando il tasso degli interessi
moratori previsto dal contratto di mutuo ipotecario è maggiore di tale tasso.
36
Pertanto, come è stato sottolineato dal governo spagnolo, nelle sue memorie e in
udienza nonché dall’avvocato generale ai paragrafi 38 e 39 delle sue conclusioni,
l’ambito di applicazione dellaseconda disposizione transitoria della legge 1/2013 si
estende a qualsiasi contratto di mutuo ipotecario e si distingue così da quello
della direttiva 93/13 che riguarda unicamente le clausole abusive incluse nei
contratti stipulati tra un professionista e un consumatore. Ne consegue chel’obbligo
di rispettare la soglia corrispondente al tasso degli interessi di mora equivalente al
triplodel tasso d’interesse legale, quale prevista dal legislatore, non pregiudica in
alcun modo la valutazione, da parte del giudice, del carattere abusivo di una clausola
che fissa gli interessi di mora.
37
Ciò premesso occorre ricordare che, conformemente all’articolo 4, paragrafo 1, della
direttiva 93/13, il carattere abusivo di una clausola contrattuale dev’essere valutato
tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo
riferimento, al momento della conclusionedel contratto, a tutte le circostanze che
accompagnano detta conclusione. Ne discende che, in questo contesto, devono
altresì essere valutate le conseguenze che la suddetta clausola può avere
nell’ambito del diritto applicabile al contratto, il che implica un esame del sistema
giuridiconazionale (v. ordinanza Sebestyén, C-342/13, EU:C:2014:1857, punto 29 e
la giurisprudenza ivi
citata).
38
Occorre inoltre ricordare al riguardo che un giudice nazionale cui venga sottoposta
una controversia intercorrente esclusivamente tra privati deve, quando applica le
norme del diritto interno, prendere in considerazione l’insieme delle norme del
diritto nazionale ed interpretarle, perquanto possibile, alla luce del testo e della
finalità di tale direttiva per giungere ad una soluzione conforme all’obiettivo
perseguito da quest’ultima (sentenza Kásler et Káslerné Rábai, EU:C:2014:282, punto
64).
39
Pertanto, occorre considerare che, nei limiti in cui la seconda disposizione
transitoria della legge 1/2013 non impedisce che il giudice nazionale, di fronte ad
una clausola abusiva, possa esercitare lesue funzioni eliminando detta clausola, la
direttiva 93/13 non osta all’applicazione di una taledisposizione nazionale.
40
Ciò implica, in particolare, da un lato, che, quando il giudice nazionale si trovi di
fronte ad una clausola di un contratto relativo a interessi di mora il cui tasso è
inferiore a quello previsto dallaseconda disposizione transitoria della legge 1/2013,
la fissazione di tale soglia legislativa non impedisce a detto giudice di valutare il
carattere eventualmente abusivo di tale clausola, ai sensi dell’articolo 3 della
direttiva 93/13. Pertanto, un tasso di interessi di mora inferiore al triplo deltasso
legale non può essere considerato necessariamente equo ai sensi di detta direttiva.
41
Dall’altro lato, quando il tasso degli interessi moratori previsti da una clausola di
un contratto di mutuo ipotecario è superiore a quello previsto dalla seconda
disposizione transitoria della legge1/2013 e, conformemente a detta disposizione,
deve essere oggetto di una limitazione, una tale circostanza non deve impedire al
giudice nazionale, al di là di tale misura di moderazione, di trarre tutte le
conseguenze dall’eventuale carattere abusivo alla luce della direttiva 93/13 della
clausolache contiene tale tasso, procedendo, eventualmente, al suo annullamento.
Di conseguenza, da tutte le considerazioni che precedono risulta che l’articolo 6, paragrafo 1,
della
direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una disposizione nazionale
in virtùdella quale il giudice nazionale, investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria,
è tenuto a farricalcolare le somme dovute a titolo di una clausola di un contratto di mutuo
ipotecario che prevedeinteressi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale,
affinché l’importo di detti interessi non ecceda tale soglia, purché l’applicazione di detta
disposizione nazionale:
non pregiudichi la valutazione da parte di tale giudice nazionale del carattere abusivo di
suddetta clausola, e
non impedisca al giudice nazionale di disapplicare detta clausola ove dovesse concludere per
il carattere «abusivo» della medesima, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di detta direttiva.
Sulle spese
Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un
incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le
spese sostenute daaltri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a
rifusione.
Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:
L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993,
concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere
interpretato nel senso che non osta ad una disposizione nazionale in virtù della quale il
giudicenazionale investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria è tenuto a far
ricalcolare lesomme dovute a titolo di una clausola di un contratto di mutuo ipotecario che
prevede interessi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale, affinché
l’importo di dettiinteressi non ecceda tale soglia, purché l’applicazione di detta disposizione
nazionale:
non pregiudichi la valutazione da parte di tale giudice nazionale del carattere abusivo
di suddetta clausola, e
non impedisca al giudice nazionale, di disapplicare detta clausola ove dovesse concludere
per il carattere «abusivo» della medesima, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo1, di detta
direttiva.
Firme
* Lingua processuale: lo spagnolo.
ORDINANZA N. 248
ANNO 2013
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Gaetano
SILVESTRI
Presidente
- Paolo Maria
NAPOLITANO
- Giuseppe
FRIGO
”
- Alessandro
CRISCUOLO
”
- Paolo
GROSSI
”
- Giorgio
LATTANZI
”
- Aldo
CAROSI
”
- Sergio
MATTARELLA
”
- Mario Rosario
MORELLI
”
- Giancarlo
CORAGGIO
”
- Giuliano
AMATO
”
Giudice
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile,
promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento vertente tra P. S. ed altro e C. C. ed
altro, con ordinanza del 10 ottobre 2012, iscritta al n. 2 del registro ordinanze 2013 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 settembre 2013 il Giudice relatore Mario Rosario
Morelli.
Ritenuto che − in un giudizio civile promosso per ottenere la restituzione di somma
che gli attori assumevano versata come anticipo (in misura di circa un terzo del pattuito) per
l’acquisto di un immobile, che non aveva poi potuto, però, aver luogo per la mancata erogazione,
ad essi, di un mutuo bancario destinato a coprire il residuo prezzo − l’adito Tribunale ordinario
di Tivoli, premesso che nel preliminare di vendita, l’importo corrisposto dai promissari acquirenti,
era stato testualmente qualificato come
“caparra confirmatoria”, ha sollevato d’ufficio, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità
costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui non
dispone che – nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può
recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte
che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra – il giudice
possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta
sproporzione o ove […] sussistano giustificati motivi»;
che, ad avviso del rimettente, si prospetta, nella specie, una esigenza di bilanciata tutela del
diritto della parte non inadempiente (cioè del venditore), a percepire la caparra, e dell’opposto
interesse di quella inadempiente (cioè del promissario acquirente) a non perdere un capitale
notevole, ed eccessivo nella sua quantificazione, a fronte di un (proprio) inadempimento che,
«seppur colposo, certamente non è stato voluto e rispetto al quale si è adoperato in ogni modo per
trovare una soluzione»;
che, però, l’automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non
lascerebbe spazio al giudice per alcun rimedio ripristinatorio dell’equità oggettiva e del
complessivo equilibrio contrattuale; dal che il dubbio, appunto, della sua “irragionevolezza”;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità della questione, per
omessa espressa indicazione dei parametri costituzionali violati; e, in subordine, per la sua non
fondatezza.
Considerato che, dal contesto dell’ordinanza di rimessione, è chiaramente individuabile,
nell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il giudice a quo
sollecita la verifica di costituzionalità della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua
«intrinseca incoerenza […] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore», per cui
non risulta fondata l’eccezione di inammissibilità come sopra formulata dall’Avvocatura;
che la questione in esame è, però, comunque, manifestamente inammissibile per difetto di
motivazione, in punto sia di non manifesta infondatezza che di rilevanza;
che, infatti, per il primo profilo, nel presupporre un oggettivo ed insuperabile
automatismo tra l’inadempimento del tradens e la ritenzione della caparra confirmatoria da parte
dell’accipiens (e, specularmente, tra l’inadempimento dell’accipiens e il diritto
della controparte ad esigerne il doppio), il rimettente omette di considerare che ciò che viene in
rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’articolo 1385 del codice civile,
è comunque un inadempimento «gravemente colpevole, […] cioè imputabile (ex art. 1218 c.c.
e art. 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)», come ben posto in evidenza
nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009;
che, in punto poi di rilevanza, il Tribunale rimettente, per un verso, trascura di indagare
compiutamente la reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali, così da poter esprimere
un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione
della caparra confirmatoria; per altro verso, non tiene conto dei possibili margini di intervento
riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come, nella specie, egli
prospetta) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di
una parte. E ciò in ragione della rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o parziale) ex articolo
1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’articolo 2 Cost., (per il
profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel
contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa,
«funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner
negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato» (Corte di
cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a sezioni unite, n. 18128
del 2005 e n. 20106 del 2009).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle
norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all’articolo 3,
secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21
ottobre 2013.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Mario Rosario MORELLI, Redattore Gabriella
MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24
ottobre 2013. Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
Ordinanza 02 aprile 2014 n. 77
Contratto, atto e negozio giuridico - Caparra confirmatoria - Ritenzione,
ovvero obbligo di restituzione del doppio, in caso di inadempimento Potere (d'ufficio) del giudice di ridurre equamente la somma da ritenere
o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o se
ricorrano giustificati motivi - Omessa previsione - Questione identica
già dichiarata manifestamente inammissibile - Manifesta
inammissibilità.
Ente Giudicante: Corte Costituzionale
Presidente: Pres. Gaetano Silvestri; Rel. Mario Rosario Morelli
Ordinanza
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1385, secondo comma, del
codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento civile
tra L.C. e M.P., con ordinanza del 3 aprile 2013, iscritta al n. 181 del registro
ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35,
prima serie speciale, dell'anno 2013.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2014 il Giudice relatore Mario
Rosario Morelli.
Ritenuto che con l'ordinanza in epigrafe - emessa nel corso di un giudizio civile
promosso, dalla promissaria acquirente di un immobile, per ottenere, in ragione
della mancata stipula del contratto definitivo, la condanna del promittente
venditore a restituirle il doppio della caparra già versata - l'adito Tribunale
ordinario di Tivoli ha sollevato, sotto il profilo della irragionevolezza, intesa come
«intrinseca incoerenza, contraddittorietà od illogicità», questione di legittimità
costituzionale dell'art. 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in
cui non dispone che - nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra è
inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella
ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra può
recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra - il giudice possa
equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di
manifesta sproporzione o ove sussistano giustificati motivi», tenendo conto della
natura dell'affare e delle prassi commerciali;
che, ad avviso del rimettente, l'automatismo della disciplina recata dalla
disposizione denunciata non lascerebbe spazio al giudice per alcun rimedio
ripristinatorio dell'equità oggettiva e del complessivo equilibrio contrattuale in
fattispecie - come quella al suo esame - in cui sussista una «evidente
sproporzione che porterebbe ad una restituzione complessiva di somme,
addirittura superiori al valore stesso dell'affare»;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per
l'inammissibilità della questione, per omessa espressa indicazione dei parametri
costituzionali evocati, e, in subordine, per la sua infondatezza.
Considerato, che, dal contesto dell'ordinanza di rimessione, è chiaramente
individuabile, nell'art. 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro
rispetto al quale il giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalità della
disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua «intrinseca incoerenza
[...] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore», per cui non
risulta fondata l'eccezione di inammissibilità come sopra formulata
dall'Avvocatura;
che, comunque, questione identica a quella odierna - già sollevata dal
medesimo Tribunale ordinario di Tivoli in fattispecie speculare, di ritenzione della
caparra da parte del promittente del venditore - con sentenza di questa Corte n.
248 del 2013, è stata dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di
motivazione sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza. Quanto
al primo profilo, perché - nel presupporre un oggettivo ed insuperabile
automatismo tra l'inadempimento dell'accipiens o del tradens, e, rispettivamente,
la restituzione del doppio, ovvero la ritenzione, della caparra confirmatoria - il
rimettente aveva omesso di considerare, al fine del decidere, che ciò che viene
in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall'art. 1385 del
codice civile, è comunque un inadempimento «"gravemente colpevole [...], cioè
imputabile (ex artt. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456
c.c.)" come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte
di cassazione n. 533 del 2009». E, quanto al secondo profilo, perché quel
Tribunale non aveva tenuto conto dei possibili margini di intervento riconoscibili
al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua
prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente
sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della
nullità (totale o parziale), ex art. 1418 cod. civ., della clausola stessa, per
contrasto con il precetto dell'art. 2 Cost. (per il profilo dell'adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in
combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa,
«"funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse
del partner negoziale nella misura in cui non collida con l'interesse proprio
dell'obbligato" (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994
e, in prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)»;
che - stante l'assoluta identità di contenuto tra l'ordinanza di rimessione oggetto
della richiamata sentenza n. 248 del 2013 e quella odierna - la questione da
quest'ultima riproposta (in relazione a fattispecie analoga, ancorché a parti
invertite, rispetto a quella precedente) va, conseguentemente, a sua volta,
dichiarata, per le stesse ragioni, manifestamente inammissibile.
Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9,
commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale.
P.Q.M.
La Corte Costituzionale
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
dell'art. 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all'art.
3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con
l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, il 26 marzo 2014.
DATA DEPOSITO 2 APRILE 2014.
Sentenza 18 settembre 2009 n. 20106 Sez. III
CONTRATTO - EFFETTI - Abuso del diritto in materia contrattuale - Ne
rispondono le aziende, per lo più le multinazionali che si trovano in
posizione dominante, che, senza violare direttamente la legge,
utilizzano in modo "alterato" gli schemi contrattuali "per conseguire
obiettivi diversi e ulteriori rispetto a quelli indicati dal legislatore.
Ente Giudicante: Cassazione Civile
Presidente: Pres. VARRONE Michele; Rel. URBAN Giancarlo
SENTENZA
sul ricorso 10065-2005 proposto da:
AL. GI., SP. AN., in qualita' di cessionari di tutti i diritti e crediti della NO. AU.
S.R.L., NU. BO. CA. SRL nella persona del cessionario del credito e della
posizione, ossia As.Con. Rev. nella persona del suo Presidente S. A., RE. CA.
S.R.L. in liquidazione nella persona del suo Liquidatore legale rappresentante
pro tempore GI. MA., LU. RO. &. C. SNC in persona del suo legale
rappresentante pro tempore, dott. RO. LU., MA. BR. quale cessionario di tutti i
diritti e crediti della RE. SRL, AU. TR. DI. GR. TR. &. C. SNC, in persona del suo
legale rappresentante pro tempore, TR. GR., TU. CA. SRL in persona del suo
legale rappresentante pro tempore, sign. R. E., AS. CO. RE. nella persona del
suo Presidente S. A., AU. SNC in persona del suo legale rappresentante protempore R. A., AU. &. C. SAS in persona del suo legale rappresentante pro
tempore sig. M. L., AU. TI. SNC in persona del suo legale rappresentante pro
tempore AN. SI., BA. ER. quale cessionario dei diritti della BA. ER. &. C. SAS,
BA. AU. SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore B. G., CO.
SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore CO. GI., CO. &. VA.
SNC IN LIQUIDAZIONE nelle persone dei suoi legali rappresentanti pro
tempore, C. G. E VA. FR., EU. FE. SRL nella persona del suo legale
rappresentante pro tempore, FE. GI., GI. VI. DITTA (gia' Gi. Au. & C. S.r.l.) nella
persona del legale rappresentante pro tempore sig. GI. VI., GI. SRL nella
persona del suo legale rappresentante pro tempore, OL. MA., FALLIMENTO
GR. CA. SRL nella persona del suo curatore legale rappresentante pro tempore,
Dott. TO.SI., GR. SRL nella persona del suo legale rappresentante pro tempore
G. N., LI. SRL IN LIQUIDAZIONE (gia' P. Di. Gi. s.r.l.) nella persona del suo
legale rappresentante pro tempore Sig.ra A. E., FR. ME. SNC nella persona del
suo legale rappresentante pro tempore, Sig. M.M., FR. ME. &. C. SNC nella
persona del suo legale rappresentante pro tempore, Sig. ME.LE., LE. DA. quale
cessionario dei diritti di Ne. Ca. S.r.l. in liquidazione, elettivamente domiciliati in
ROMA, PIAZZA PRATI DEGLI STROZZI 30, presso lo studio dell'avvocato
MOLFESE FRANCESCO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato
GALGANO FRANCESCO; come da separate procure speciali;
- ricorrenti contro
RE. IT. SPA;
- intimati sul ricorso 13817-2005 proposto da:
RE. IT. SPA, in persona del suo legale rappresentante pro tempore Signor
DA.Ph., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio
dell'avvocato BATTAGLIA EMILIO, che la rappresenta e difende unitamente
all'avvocato DI AMATO ASTOLFO per delega a margine del controricorso con
ricorso incidentale;
- ricorrente contro
AS. CO. RE., AU. SNC, AU. &. C. SAS, AU. TI. SNC, BE. ER., BA. AU. SRL,
CO. SRL, CO. &. VA. SNC IN LIQ, IN. EU. FE. SRL, GI. VI. DITTA, GI. SRL,
FALL GR. CA. SRL, GR. SRL, LIQUIDAUTO SRL IN LIQ, F. ME. SNC, FR. ME.
&. C. SNC, LE. DA., AL. GI., SP. AN., NU. BO. CA. SRL, MA. BR., RE. CA. SRL
IN LIQ, LU. RO. &. C. SNC, SO. SPA, FALL SU. SRL, AU. TR. DI. GR. TR. &.
C. SNC, TU. CA. SRL;
- intimati avverso la sentenza n. 136/2005 della CORTE D'APPELLO di ROMA, Sezione
11 Civile emessa il 28/09/2004, depositata il 13/01/2005; R.G.N. 6835/2002.
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2009 dal
Consigliere Dott. GIANCARLO URBAN;
udito l'Avvocato Francesco GALGANO;
udito l'Avvocato Emilio BATTAGLIA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO
CARLO che ha chiesto il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Tra il 1992 ed il 1996 gli attuali ricorrenti, tutti ex concessionari della Re. It. spa,
furono revocati dalla stessa societa', sulla base della facolta' di recesso ad
nutum previsto dall'art. 12 del contratto di concessione di vendita.
Poiche' in tale condotta fu ravvisato un comportamento abusivo, e comunque
illecito da parte della Re. It. spa, fu fondata la As. Co. Re., con lo scopo di
"programmare, provvedere, sviluppare, organizzare, gestire ogni iniziativa ed
attivita' idonea alla tutela e difesa, nonche' alla rappresentanza, dei diritti dei
Concessionari d'auto revocati dalle case automobilistiche (concessionari) aventi
sede nel territorio (........)".
L'Associazione ed i concessionari revocati convenivano, quindi, la Re. It. spa
davanti al tribunale di Roma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimita'
del recesso per abuso del diritto, e la conseguente condanna della Re. It. spa al
risarcimento dei danni subiti per effetto dell'abusivo recesso.
Re. It. spa si costituiva chiedendo il rigetto della domanda, con la condanna alle
spese.
Il tribunale, con sentenza in data 11.6.2001, rigettava la domanda compensando
le spese.
Ad eguale conclusione perveniva la Corte d'Appello che, con sentenza del
13.1.2005, rigettava gli appelli proposti dall'Associazione e dai concessionari,
che condannava al pagamento delle spese.
Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad
nutum in favore della Re. It. rendesse superfluo ogni controllo causale
sull'esercizio di tale potere.
Hanno proposto ricorso principale per cassazione affidato a cinque motivi
illustrati da memoria i soggetti indicati in epigrafe.
Resiste con controricorso la Re. It. spa che ha, anche, proposto ricorso
incidentale affidato ad un motivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi
dell'art. 335 c.p.c..
Ricorso principale.
Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la violazione e falsa
applicazione dell'art. 216 c.p.c. in relazione all'art. 158 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n.
4).
Sostengono che la sentenza impugnata sia affetta da nullita' per vizi relativi alla
costituzione del giudice, vale a dire per "mancanza di collegialita' nella decisione
testimoniata dal fatto che la sentenza impugnata risulta estesa il 28 settembre
2004, ossia molto prima che fosse tenuta la camera di consiglio del 12 ottobre
2004".
Il motivo non e' fondato.
L'apposizione in calce alla sentenza della data del 28 settembre 2004, invece di
quella del 12 ottobre 2004 (data in cui si e' tenuta la camera di consiglio) risulta
frutto di un semplice errore materiale, posto che - come risulta dagli atti - nella
data del 28 settembre 2004 la Corte di merito si era gia' riunita in camera di
consiglio per l'esame dell'appello.
Peraltro, l'errore materiale commesso e' stato emendato attraverso il
procedimento di correzione ex articoli 287 e 288 c.p.c., con ordinanza emessa in
data 25.5.2005 - a seguito di scioglimento della riserva adottata all'udienza
collegiale del 24.5.2005 - del seguente tenore " corregge la sentenza della Corte
di Appello di Roma n. 136 depositata il 13 gennaio 2005 nel senso che dove e'
scritto, alla fine della sentenza e dopo la parola Roma, "28 settembre 2004"
deve intendersi scritto "12 ottobre 2004", disponendo che la cancelleria effettui
l'annotazione di rito".
La correzione cosi' effettuata rende inammissibile la censura, posto che i
ricorrenti non denunciano la correttezza del procedimento adottato, di correzione
dell'errore materiale contenuto nella sentenza impugnata.
Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle
clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilita'
degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilita' della figura
dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in
relazione agli articoli 1175 e 1375 c.c.).
Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043
c.c.; contraddittorieta' della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5).
Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle
disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in
materia (art. 360 c.p.c., n. 3).
Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi
in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente.
Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono.
Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la
parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della
correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire
secondo buona fede (art. 1375 c.c.).
In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioe' della reciproca
lealta' di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, cosi' come alla
sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in
ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476).
Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza e' operante,
tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del
singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del
complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art.
1375 cod. civ.).
I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto
connettivo dell'ordinamento giuridico.
L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo
dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarieta' sociale, la
cui costituzionalizzazione e' ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass.
15.2.2007 n. 3462).
Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale,
poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili
doveri di solidarieta' sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica
nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in
modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di
specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole
norme di legge.
In questa prospettiva, si e' pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede
costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso
modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del
giusto equilibrio degli opposti interessi.
La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, cosi' si esprimeva: (il
principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la
considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto
riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di
reciprocita'.
In sintesi, disporre di un potere non e' condizione sufficiente di un suo legittimo
esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto puo' essere
superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in
modo piu' proporzionato.
In questa ottica la clausola generale della buona fede ex articoli 1175 e 1375
c.c. e' stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per
es. gli abusi di posizione dominante.
La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari
dell'equilibrio e della proporzione.
Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva e' quello
dell'abuso del diritto.
Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto
dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarita' di un diritto
soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilita' che il concreto esercizio di
quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralita' di modalita' non
rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche
se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto
secondo modalita' censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od
extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalita' di esercizio, si
verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il
sacrifico cui e' soggetta la controparte.
L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale,
delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al
conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal
Legislatore.
E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia
conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione
obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede.
Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola
generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in
violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti
contrari alla buona fede oggettiva.
E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalita' di impedire che possano
essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi attraverso atti di per se' strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da
alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che e' regola cui
l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia
privata.
Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso
del diritto.
La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, piu' che su di un
principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza
che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di
sanzione giuridica.
Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o
quantomeno prevedibilita' del diritto -, in considerazione della grande latitudine
di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe
attribuito al giudice, impedi che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice
civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che
proclamava, in termini generali, che "nessuno puo' esercitare il proprio diritto in
contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli e' stato riconosciuto"
(cosi' ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es.
tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere
generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione
a particolari categorie di diritti.
Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di cosi'
pregnante rilevanza e' stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte
di legittimita' (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass.
20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass.
11.5.2007 n. 10838).
Cosi', in materia societaria e' stato sindacato, in una deliberazione assembleare
di scioglimento della societa', l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto
dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche
al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con
approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle
delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola
generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale).
In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e
correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli articoli 1175 e 1375 c.c., la
cui funzione e' integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto
degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici.
E la conseguenza e' quella della invalidita' della delibera, se e' raggiunta la
prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi
degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare
ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in
violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v.
Cass. 11.6.2003 n. 9353).
Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un
comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno
all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli
opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387).
Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto e' stata
esaminata con riferimento alla qualita' di socio ed all'adempimento secondo
buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla societa'
(Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalita'
giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la piu' rigida
applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n.
11258).
In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sara' possibile, per cosi' dire, il suo
"disvelamento" (piercing the corporate veil).
Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari e' stato piu' volte riconosciuto che, in
ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona
fede (art. 1375 cod. civ.), non puo' escludersi che il recesso di una banca dal
rapporto di apertura di credito, benche' pattiziamente consentito anche in difetto
di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati
del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n.
9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642).
E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, e' stato ritenuto che, in presenza
di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di
credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti
intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di
preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta
operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente
informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze
pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della
banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione
del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a
carico della banca, di una responsabilita' per risarcimento dei danni (Cass.
28.9.2005 n. 18947).
In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare,
con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto
di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744
c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n.
6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio
doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n.
5273).
Del principio dell'abuso del diritto e' stato, da ultimo, fatto frequente uso in
materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale
principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057).
Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato
che anche il principio dell'abuso del diritto e' uno dei criteri di selezione, con
riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di
autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed
esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano.
Deve, con cio', pervenirsi a questa conclusione.
Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono
essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale
ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti.
In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona
fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un
rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e,
prospettando l'abuso, la necessita' di una correlazione tra i poteri conferiti e lo
scopo per i quali essi sono conferiti.
Qualora la finalita' perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avra'
abuso.
In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto
ne determinera' il suo abusivo esercizio.
Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la
sentenza, in questa sede, impugnata.
La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti
passaggi logici:
1) il giudice non ha alcuna possibilita' di controllo sull'atto di autonomia privata;
"2) la previsione contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente,
quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo necessario
alcun controllo causale circa l'esercizio del potere, perche' un tale potere rientra
nella liberta' di scelta dell'operatore economico in un libero mercato; 3) La Re. It.
non doveva tenere conto anche dell'interesse della controparte o di interessi
diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto"; 4) la
insussistenza di un'ipotesi di recesso illegittimo comporta la non pertinenza del
richiamo agli articoli 1175 e 1375 c.c.; 5) i principii di correttezza e buona fede
non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale
adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) Non sono
presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di
abuso del diritto; e cio' perche' "La sussistenza di un atto di abuso del diritto
(speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il concorso di un elemento
oggettivo, consistente nell'assenza di utilita' per il titolare del diritto, e di un
elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere
o di recare molestia ad altri"; 7) "Il mercato, concepito quale luogo della liberta'
di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l'esistenza di
soggetti economici in grado di esercitare i diritti di liberta' in questione e cioe'
soggetti effettivamente responsabili delle scelte d'impresa ad essi formalmente
imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della
concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi"; 8) Alla
liberta' di modificare l'assetto di vendita, da parte della Re. It. spa, conseguiva
che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facolta', il mezzo piu'
conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l'abuso"; 9) La
impossibilita' di ipotizzare "un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di
autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare
tale astratta tutela", produce, come effetto, quello della introduzione di "un
controllo di opportunita' e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso;
al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell'atto"; 10) La
impossibilita' di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico
e, particolarmente, "in ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono
unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene
proprio seguendo i parametri legali dell'incontro delle volonta' su una causa
eletta dall'ordinamento come meritevole di tutela" fa si' che "Solo allorche'
ricorrono contrasti con norme imperative, puo' essere sanzionato l'esercizio di
una facolta', ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste,
residua la piu' ampia liberta' della autonomia privata".
Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto
diversi profili.
Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse e' quello che non e'
compito del giudice valutare le scelte imprenditoriali delle parti in causa che
siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del sindacato
giurisdizionale.
Diversamente, quando, nell'ambito dell'attivita' imprenditoriale, vengono posti in
essere atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa gli interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali.
In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia
richiesto l'intervento del giudice, a quest'ultimo spetta di interpretare il contratto,
ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti.
Cio' vuoi significare che l'atto di autonomia privata e', pur sempre, soggetto al
controllo giurisdizionale.
Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal
senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente
preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volonta'
delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e
sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volonta' diversa; con
l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura
sussidiaria.
Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. debbono essere interpretati anche secondo buona fede.
Non soltanto.
Il principio della buona fede oggettiva, cioe' della reciproca lealta' di condotta,
deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione
all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarieta' fondato
sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire
nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere
dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche.
La sua violazione, pertanto, costituisce di per se' inadempimento e puo'
comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U.
15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass.
27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264).
Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice,
finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto
negoziale; e cio' quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v.
S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti).
Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve
operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi.
Ed e' su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed
interpretare le clausole del contratto - in particolare quella che prevedeva il
recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere l'eventuale diritto al risarcimento
del danno per l'esercizio di tale facolta' in modo non conforme alla correttezza
ed alla buona fede.
Sotto questo profilo, pertanto, dovra' essere riesaminato il materiale probatorio
acquisito.
In sostanza la Corte di merito - di fronte ad un recesso non qualificato - non
poteva esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell'atto di
recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto al
risarcimento per il suo abusivo esercizio.
Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di
merito non possono essere seguite.
Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata e'
stato pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte
di legittimita', cui si e' fatto cenno.
La conseguenza e' l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte
in tema di liberta' economica e di libero mercato.
Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto
di sindacato giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore
operante nel mercato, che si assume il rischio economico delle scelte effettuate.
Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli
dall'autonomia privata, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati
canoni generali - quali quello appunto della buona fede oggettiva, della lealta'
dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere
interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale.
Ed il fine da perseguire e' quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a
qualunque consociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell'arbitrio.
Da cio' il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto.
La liberta' di scelta economica dell'imprenditore, pertanto, in se' e per se', non e'
minimamente scalfita; cio' che e' censurato e' l'abuso, ma non di tale scelta,
sebbene dell'atto di autonomia contrattuale che, in virtu' di tale scelta, e' stato
posto in essere.
L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed
esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi
prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l'esercizio della
facolta' riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva
dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealta' e
della correttezza.
Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo
esercizio del diritto - ai canoni generali di interpretazione contrattuale.
Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata
dovra' essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di
valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza,
anche economica, dell'altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in
essere per raggiungere i fini che la parte si e' prefissata.
Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia
privata, deve operare ed interpretare l'atto anche in funzione del
contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali.
Erra, pertanto, il giudice di merito quando afferma che vi e' un'impossibilita' di
procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo
che lo stesso possa controllare l'esercizio del potere di recesso; ritenendo che,
diversamente si tratterebbe di una valutazione politica.
Il problema non e' politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro
l'abuso dell'autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi
che sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a
causa dell'incremento delle situazioni di disparita' di forze fra gli operatori
economici.
Al giudicante e' richiesta, attraverso il controllo e l'interpretazione dell'atto di
recesso - al fine di affermarne od escluderne il suo esercizio abusivo, condotto
alla luce dei principii piu' volte enunciati - proprio ed esclusivamente una
valutazione giuridica.
Le considerazioni tutte effettuate consentono, quindi, di concludere che la Corte
di merito abbia errato quando ha adottato le seguenti proposizioni
argomentative: 1) che la sussistenza di un atto di abuso del diritto sia soltanto
speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di un elemento oggettivo,
consistente nell'assenza di utilita' per il titolare del diritto, e di un elemento
soggettivo costituito dall'animus nocendi; 2) che, stabilito che la Re. It. era libera
di modificare l'assetto di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo piu'
conveniente per realizzare tale fine; al che conseguirebbe l'insussistenza
dell'abuso; 3) che, una volta che l'ordinamento abbia apprestato un dato istituto,
spetta all'autonomia delle parti utilizzarlo o meno; 4) che non sussista la
possibilita' di utilizzare un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico - in
particolare contrattuale - in cui i valori di riferimento non solo non sono unitari,
ma sono addirittura contrapposti; 5) che nessuna valutazione delle posizioni
contrattuali delle parti - soggetti deboli e soggetti economicamente "forti" -,
anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale,
rientri nella sfera di valutazione complessiva del Giudicante.
La Corte di merito ha affermato che l'abuso fosse configurabile in termini di
volonta' di nuocere, ovvero in termini di "neutralita'"; nel senso cioe' che, una
volta che l'ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso) per
conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto di concessione di vendita),
erano indifferenti le modalita' del suo concreto esercizio.
Ma il problema non e' questo.
Il problema e' che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini
di "conflittualita'". Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di
cui erano portatrici le parti, il punto rilevante e' quello della proporzionalita' dei
mezzi usati.
Proporzionalita' che esprime una certa procedimentalizzazione nell'esercizio del
diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento
di indennita' ecc.).
In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo
condotto, secondo le linee guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo
dell'eventuale abuso del diritto di recesso, come operato.
In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice del
rinvio - se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato
attuato con modalita' e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli
consentiti.
Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio
acquisito, esaminato e valutato alla luce dei principii oggi indicati, al fine di
valutare - anche sotto il profilo del suo abuso - l'esercizio del diritto riconosciuto.
In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparita' di forze fra i contraenti, la verifica
giudiziale del carattere abusivo o meno del recesso deve essere piu' ampia e
rigorosa, e puo' prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere:
elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di
potere contrattuale o di dipendenza economica.
Le conseguenze, cui condurrebbe l'interpretazione proposta dalla sentenza
impugnata, sono inaccettabili.
La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e
della rilevanza anche dell'eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti,
consentirebbero che il recesso ad nutum si trasformi in un recesso, arbitrario,
cioe' ad libitum, di sicuro non consentito dall'ordinamento giuridico.
Il giudice del rinvio, quindi, dovra' riesaminare la questione, tenendo conto delle
indicazioni fornite e dei principii enunciati, al fine di riconoscere o meno il
carattere abusivo del recesso e l'eventuale, consequenziale diritto al
risarcimento del danni subiti.
Tutto cio' in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in
causa, in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti
economici.
Le conclusioni raggiunte consentono di ritenere irrilevante, e, quindi, superfluo
l'esame degli ulteriori profili di censura proposti.
I temi dell'abuso di dipendenza economica e della applicabilita' analogica od
estensiva della normativa in materia di subfornitura (in particolare Legge 18
giugno 1998, n. 172, art. 9) non hanno costituito oggetto di specifica censura
contenuta nei motivi di ricorso.
Quanto alle analogie riscontrate dai ricorrenti fra il contratto di concessione di
vendita e quella di agenzia, ai fini del riconoscimento del diritto dei concessionari
a percepire una somma a titolo di indennita', poi, ad un sommario esame - il
quale, peraltro, si presenterebbe superfluo ai fini che qui interessano, per le
conclusioni raggiunte sui temi in precedenza trattati - si presentano di dubbia
praticabilita'.
Il contratto di concessione di vendita, infatti, per la sua struttura e la sua
funzione economico-sociale, presenta aspetti che lo avvicinano al contratto di
somministrazione, ma non puo', pero' essere inquadrato in uno schema
contrattuale tipico, trattandosi, invece, di un contratto innominato, che si
caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e
consiste, sul piano strutturale, in un contratto - quadro o contratto normativo
(Cass. 17 dicembre 1990, n. 11960), dal quale deriva l'obbligo di stipulare
singoli contratti di compravendita, ovvero l'obbligo di concludere contratti di puro
trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell'accordo iniziale (v. anche
Cass. 22.2.1999 n. 1469; Cass. 11.6.2009 n. 13568).
Proprio una tale struttura e funzione economica, che esclude profili rilevanti di
collaborazione, sembra doverlo porre al di fuori dell'area di affinita' con il
contratto di agenzia (v. anche Cass. 21.7.1994 n. 6819).
Con il quinto motivo (subordinato) i ricorrenti principali denunciano la mancata
compensazione delle spese relative al giudizio di appello da parte della Corte di
merito.
Il motivo resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi che
precedono. Ricorso incidentale Con unico motivo la resistente e ricorrente
incidentale denuncia la omessa motivazione sull'appello incidentale proposto
dalla Re. It. spa, relativamente alla liquidazione delle spese del giudizio di primo
grado.
Anche questo motivo, in materia di spese, resta assorbito dalle conclusioni
raggiunte in ordine ai motivi del ricorso principale che precedono.
Il giudice del rinvio, dovra', infatti, procedere ad una nuova ed autonoma
regolamentazione delle spese del processo.
Conclusivamente, va rigettato il primo motivo del ricorso principale; vanno
accolti, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo; vanno
dichiarati assorbiti il quinto motivo ed il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi, come accolti, e la
causa va rimessa alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
Il giudice del rinvio si pronuncera' anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale. Accoglie, nei limiti
di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo. Dichiara assorbiti il
quinto, nonche' il ricorso incidentale. Cassa in relazione e rinvia, anche per le
spese, alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.
DATA DEPOSITO 18 SETTEMBRE 2009.
Sentenza 23 luglio 2014 n. 16787 Sez. III
Ente Giudicante: Cassazione Civile
Presidente: Pres. RUSSO Libertino Alberto; Rel. LANZILLO Raffaella
avverso la sentenza n. 743/2008 della CORTE D'APPELLO di TORINO,
depositata il 22/01/2008 R.G.N. 336/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/05/2014 dal
Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;
udito l'Avvocato MASSIMO MANFREDONIA;
udito l'Avvocato PIERLUIGI LUCATTONI in proprio per il FALLIMENTO LA
VETRINA DELL'AUTO e per delega per AUTOPANIGALE SRL;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE
Ignazio che ha concluso per il rigetto del ricorso principale MAZDA,
inammissibilità ricorso SIDAUTO per tardività.
Svolgimento del processo
Nel 1996 fra Mazda Corporation (d'ora in avanti Mazda Co.) e la s.p.a. Sidauto è
stato concluso un contratto di importazione e distribuzione in Italia dei veicoli
Mazda. La Sidauto ha concluso a sua volta contratti di concessione di vendita
degli stessi veicoli con una catena di distributori, fra cui le s.r.l. Autopanigale e
La Vetrina dell'Auto. I contratti di concessione prevedevano il diritto di recesso
della concedente con 24 mesi di preavviso, e la cessazione immediata del
rapporto nel caso in cui fosse venuto meno il contratto di importazione fra
Sidauto e la casa produttrice. Nel 1999 Mazda Co.
ha costituito una propria società per l'importazione e la distribuzione in Italia dei
suoi prodotti e ha negoziato con Sidauto la cessazione del rapporto, dietro
pagamento di un corrispettivo in favore della stessa di L. 8 miliardi.
Nel dicembre 1999 Sidauto ha comunicato ai suoi concessionari la cessazione
del rapporto a decorrere dal 1 febbraio 2000, mentre la nuova società
importatrice costituita da Mazda Co. (Mazda Motor Italia) ha comunicato agli
stessi le sue condizioni per la prosecuzione dei rapporti di concessione:
condizioni molto più onerose di quelle già convenute con Sidauto.
Parte dei distributori ha accettato le nuove condizioni, mentre altri, fra cui la s.r.l.
Auotpanigale e la s.r.l. La Vetrina dell'auto (oggi fallita) le hanno rifiutate,
denunciando la nullità- inefficacia della clausola relativa al recesso immediato,
anche in relazione all'art. 1341 cod. civ., )è rivendicando il diritto alla
prosecuzione del precedente rapporto.
Ne sono nate due cause:
con atto di citazione notificato il 4-8 marzo 2000 la s.p.a. Mazda Motor Italia
(d'ora in avanti Mazda Italia) ha convenuto davanti al Tribunale di Torino Sidauto
e 38 concessionarie, fra cui le due sopra indicate, chiedendone la condanna al
risarcimento dei danni per l'illecito uso dei propri segni distintivi a decorrere dal 1
febbraio 2000 e per avere esse indebitamente continuato a presentarsi al
pubblico come soggetti inseriti nella rete di distribuzione della Mazda. Le
convenute hanno resistito, rivendicando il loro diritto alla prosecuzione del
rapporto per il periodo di preavviso. Con atto di citazione notificato il 3 maggio
2000 Autopanigale e La Vetrina dell'Auto hanno convenuto davanti al Tribunale
di Roma Sidauto e Mazda Motor Italia, per sentirle condannare alla
prosecuzione del rapporto di concessione alle precedenti condizioni, previo
accertamento della nullità della clausola 1.5 - Parte 3^ - del contratto di
concessione, e in ogni caso al risarcimento dei danni per responsabilità
contrattuale ed extracontrattuale.
Le convenute si sono costituite ed hanno eccepito la continenza della causa
rispetto a quella pendente a Torino: eccezione accolta dal Tribunale di Roma, a
cui ha fatto seguito la riassunzione della causa a Torino e la sua riunione con
quella ivi pendente.
Le convenute hanno fatto valere, a fondamento delle loro domande anche la
violazione dell'art. 5 del Regolamento CE n. 1475 del 1995;
delle norme in tema di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 cod.
civ.); della L. 18 giugno 1998, n. 192, art. 9 sui contratti di subfornitura,
concernente il divieto di abuso di dipendenza economica. Hanno quantificato i
danni subiti in Euro 619.750,00 per Autopanigale ed in Euro 387.340,00 per la
Vetrina dell'Auto. Con sentenza 7 giugno - 4 agosto 2005 n. 5177 il Tribunale di
Torino ha accolto le domande di Mazda, dichiarando valida la clausola
contrattuale sulla cessazione immediata del rapporto.
Proposto appello da Autopanigale e dal Fallimento della Vetrina dell'Auto, a cui
hanno resistito Sidauto e Mazda Italia, restando contumaci le altre società, con
sentenza 11 gennaio - 28 maggio 2008 n. 743, notificata ai difensori delle
appellate il 20 giugno 2008 e a Sidauto personalmente il 26 giugno successivo,
la Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, ha
accertato la nullità-inefficacia delle clausole n. 1.5 e 1.6 del contratto di
concessione, quanto alla previsione del diritto della concedente di recedere con
effetto immediato; ha riconosciuto alle appellanti il diritto alla prosecuzione del
rapporto per il periodo di preavviso di 24 mesi e ha condannato le società
appellate al risarcimento dei danni nella misura di Euro 100.000,00 in favore di
Autopanigale, e di Euro 31.000,00 in favore del Fallimento della Vetrina
dell'Auto;
oltre interessi e spese dei due gradi di giudizio.
Con atto notificato il 3 ottobre 2008 Mazda Italia ha proposto cinque motivi di
ricorso per cassazione.
Con altro atto, notificato il 7-8 ottobre 2008, Sidauto ha proposto anch'essa
quattro motivi di ricorso per cassazione.
Resistono ad ognuno dei due ricorsi, con controricorsi illustrati da memorie,
Autopanigale e il Fallimento La Vetrina dell'Auto.
Motivi della decisione
Deve essere preliminarmente disposta la riunione dei due ricorsi (art. 335 cod.
proc. civ).
1.- RICORSO della s.p.a. SIDAUTO. 1.- Sarebbe opportuno prendere anzitutto
in esame il ricorso di Sidauto, pur se (di poco) successivo a quello di Mazda
Italia, trattandosi del soggetto che è stato parte diretta dei contratti di
concessione oggetto di controversia.
2.- E' tuttavia fondata l'eccezione delle resistenti di inammissibilità del ricorso
medesimo, perchè tardivo. La ricorrente ha calcolato la decorrenza del termine
per l'impugnazione dal 26 giugno 2008: data in cui la sentenza impugnata è
stata notificata ad essa personalmente. Ma il termine rilevante agli effetti
dell'impugnazione è quello della notificazione della sentenza al difensore
costituito per il giudizio di appello, o indicato nella relazione di notificazione della
sentenza, notificazione che nella specie è avvenuta il 20 giugno 2008, nel
domicilio eletto dalla ricorrente in Torino per il giudizio di appello presso l'avv.
Roberta Moderiano.
Il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione
veniva quindi a scadere - tenuto conto della sospensione feriale dei termini
processuali - il 4 ottobre 2008, mentre il ricorso è stato notificato il giorno 8
ottobre successivo.
Nè è valsa ad evitare la decadenza l'impugnazione tempestivamente proposta
da Mazda, trattandosi di cause scindibili.
Mazda Italia e Sidauto sono condebitrici solidali nei confronti delle appellanti e
titolari di rapporti distinti ed autonomi l'una rispetto all'altra, sia quanto al titolo
delle rispettive responsabilità, sia quanto ai comportamenti di cui sono chiamate
a rispondere.
Anche la sentenza quindi - pur se formalmente unica - si risolve in tante
pronunce quante sono le posizioni giuridiche decise, che rimangono fra loro
indipendenti anche in sede di gravame (Cass. civ. Sez. 1, 22 maggio 1991 n.
5773). Pertanto, se uno dei litisconsorti facoltativi non propone tempestivamente
impugnazione, la sentenza passa in giudicato nei suoi confronti, nonostante
l'eventuale impugnazione proposta dalla condebitrice solidale (cfr. Cass. civ.
Sez. 1, 22 dicembre 1993 n. 12703; cfr. anche Cass. civ. Sez. 3, 19 luglio 2004
n. 13334).
3.- Nè è il caso di porsi il problema - prospettato dalle resistenti - dell'ipotetica
efficacia del ricorso principale tardivo di Sidauto come ricorso incidentale,
rispetto al ricorso principale di Mazda Italia, notificato in data anteriore.
3.1.- In primo luogo il ricorso di Sidauto non sarebbe comunque qualificabile
come ricorso incidentale in senso proprio - cioè proposto dalla parte contro cui
sia diretto il ricorso principale - trattandosi di ricorso adesivo alle ragioni della
ricorrente principale, in relazione a cause scindibili.
In questi casi il ricorso incidentale tardivo è ritenuto in linea di principio
inammissibile, poichè l'adesione e la non contrapposizione ai motivi del ricorso
principale dimostra che l'interesse ad impugnare è stato determinato dalla
sentenza; non dalla proposizione dell'appello principale. Donde il venir meno di
ogni giustificazione alla tardività dell'impugnazione (Cass. civ. S.U. 9 agosto
1996 n. 7339; Cass. civ. 25 gennaio 2008 n. 1610; Cass. civ. 7 settembre 2009
n. 19286). Tale principio risulta oggi attenuato, nel senso che anche
l'impugnazione incidentale tardiva e adesiva è ritenuta ammissibile, a tutela
della reale utilità della parte, quando l'impugnazione principale metta in
discussione l'assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale il
coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza. Si è rilevato infatti che, anche
in relazione alle cause scindibili, l'interesse a proporre impugnazione incidentale
può sorgere dall'impugnazione principale qualora quest'ultima, se accolta,
comporterebbe la modifica dell'assetto delle situazioni giuridiche originariamente
accettate dal coobbligato solidale (Cass. civ. S.U. 27 novembre 2007 n. 24627;
Cass. civ. Sez. 3, 30 aprile 2009 n. 10125; Cass. civ. S.U. 4 agosto 2010 n.
18049; Cass. civ. Sez. Lav. 29 marzo 2012 n. 5086, ed altre).
A conferma di tale indirizzo, è stata ritenuta inammissibile l'impugnazione
incidentale adesiva, nei casi in cui l'impugnazione principale non sia idonea ad
alterare l'assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale l'impugnante
incidentale aveva prestato acquiescenza (Cass. civ. S.U. 7 agosto 2013 n.
18752).
Nella specie è tanto evidente che l'interesse di Sidauto ad impugnare sia stato
sollecitato dalle disposizioni della sentenza di appello, e non dai possibili effetti
del ricorso proposto da Mazda Italia, che essa ha addirittura qualificato il suo
ricorso come principale, notificandolo quasi contestualmente all'altro.
In secondo luogo Sidauto nulla ha replicato all'eccezione di inammissibilità
sollevata dalle resistenti; non ha depositato memoria, nè ha espressamente
chiesto che il suo ricorso sia ritenuto ammissibile come ricorso incidentale
tardivo, allegando la sussistenza dei presupposti richiesti a tale effetto.
La "conversione di ufficio" dell'atto in forma diversa, al fine di attribuirgli
forzosamente effetti indipendentemente dalla domanda di parte, è da ritenere
quindi inammissibile, non potendosi escludere che il comportamento della parte
corrisponda ad una scelta consapevole, legata alla sua attuale strategia
difensiva.
4.- Il ricorso di Sidauto deve essere quindi dichiarato inammissibile.
2.- RICORSO della s.p.a. MAZDA MOTOR ITALIA. 1.- La Corte di appello ha
così motivato l'accoglimento delle domande delle appellanti:
a) la clausola n. 1.5 - Parte 3 - del contratto di concessione stipulato da Sidauto
con le concessionarie di vendita è da ritenere nulla, limitatamente alla parte in
cui ha disposto la cessazione del rapporto con effetto immediato, poichè è in
contrasto con l'art. 5 punto 2) del Regolamento CEE n. 1475/1995, il quale
attribuisce agli operatori del settore automobilistico il potere di sottrarre i loro
accordi di distribuzione ai divieti stabiliti dall'allora art. 85 Trattato CE, a
condizione che tali accordi si uniformino alle condizioni dettate dal Regolamento.
Fra tali condizioni rientra quella per cui il recesso dagli accordi stipulati a tempo
indeterminato può avvenire solo con la concessione di un termine di preavviso di
almeno due anni (riducibile ad un anno, in casi particolari); donde l'obbligo di
Sidauto di rispettare il contratto di concessione per almeno due anni dopo la
comunicazione del recesso;
b) il comportamento di Mazda Italia ha configurato, in concorso con quello di
Sidauto, abuso di dipendenza economica in danno delle concessionarie, ai sensi
della L. 18 giugno 1998, n. 192, art. 9, in quanto ha offerto alle concessionarie
condizioni fortemente peggiorative rispetto a quelle di Sidauto, approfittando
delle difficoltà in cui esse sono venute a trovarsi nei confronti della clientela, a
seguito della sospensione senza preavviso delle forniture di automobili e di
pezzi di ricambio, tramite l'illegittimo recesso senza preavviso di Sidauto;
c) il suddetto comportamento di Mazda ha configurato altresì, sempre in
concorso con Sidauto, violazione del dovere di buona fede nei rapporti
commerciali, ai sensi degli artt. 1337 e 2043 cod. civ..
1.- Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 81 del Trattato UE e
dell'art. 5 del Regolamento comunitario n. 1475/1995, la ricorrente lamenta che
la Corte di appello abbia considerato come norme imperative, tali da comportare
la nullità delle pattuizioni difformi, le norme del citato Regolamento, il quale
invece è un mero Regolamento di esenzione: si limita cioè a disporre il venir
meno dell'esenzione dal divieto di stipulare intese restrittive della concorrenza,
di cui all'art. 85 p. 1 del Trattato CE, agli accordi di distribuzione degli autoveicoli
che si uniformino alle condizioni stabilite nel Regolamento stesso, fra cui quelle
contenute nell'art. 5 n. 2 circa la durata minima dei contratti di distribuzione e la
necessità di subordinare il recesso ad un congruo termine di preavviso
(normalmente due anni ed in casi particolari almeno uno).
La clausola 1.5 del contratto in oggetto avrebbe quindi potuto essere dichiarata
nulla non in relazione alle norme del Regolamento, ma solo ai sensi dell'art. 85
p. 2 del Trattato, previa dimostrazione di tutti i presupposti a cui l'art. 85 p. 1
subordina la nullità degli accordi restrittivi della concorrenza: accertamento che
la Corte di appello non ha compiuto.
2.- Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione dell'art. 1972 cod. civ.,
D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 20, 21 e 23 - Codice della proprietà
industriale, nella parte in cui la Corte di appello - attribuendo alle appellanti il
diritto alla prosecuzione del rapporto per due anni - ha indebitamente attribuito al
contratto di concessione, intercorso fra Sidauto e le concessionarie, effetti anche
nei confronti di Mazda Italia, che vi è invece estranea, in violazione della norma
per cui il contratto produce effetti solo fra le parti. Parimenti censurabile sarebbe
da ritenere l'attribuzione alle concessionarie del diritto di uso dei segni distintivi
dei prodotti Mazda - diritto non più spettante a Sidauto, dopo la risoluzione del
rapporto di importazione con la casa madre - con efficacia anche nei suoi
confronti.
3.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione della L. 18 giugno 1998,
n. 192, artt. 1 e 9 sulla subfornitura nelle attività produttive, ed omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione, nel capo in cui la sentenza impugnata
le ha addebitato l'abuso di dipendenza economica in danno delle
concessionarie, trascurando anche qui di considerare che essa Mazda Italia è
estranea ai contratti di concessione e non ha mai intrattenuto alcun rapporto con
Autopanigale e con la Vetrina dell'Auto.
Assume che gli artt. 1 e 9 legge cit. sono applicabili solo ai rapporti contrattuali
fra fornitori e clienti ed agli inadempimenti ad essi connessi, quali il rifiuto di
vendere o di comprare, l'interruzione arbitraria delle relazioni commerciali, ecc, e
presuppongono la preesistenza di rapporti commerciali con il soggetto
"abusato", rapporti che nei suoi confronti non sussistono.
Denuncia vizi di motivazione, nella parte in cui la Corte di appello ha omesso di
trarre argomento dalla corrispondenza da essa intrattenuta con le appellanti e
odierne resistenti, dopo la cessazione dei rapporti con Sidauto, da cui risulta che
le concessionarie non hanno mai denunciato il carattere oppressivo delle
condizioni da essa offerte per l'instaurazione di un nuovo rapporto, lamentando
solo che le proposte non fossero complete di tutte le clausole e debitamente
sottoscritte dalla proponente, sì da poter essere ritenute affidabili e definitive.
Rileva ancora che Mazda Co. - negli originari accordi con Sidauto - si era
riservata il diritto di importazione diretta in Italia delle autovetture; che pertanto
non necessitava del consenso di Sidauto per entrare nel mercato italiano tramite
Mazda Italia, nè questa aveva bisogno di imporre le sue condizioni ad alcuno.
4.- Con il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 1337 e 2043 cod. civ.,
nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nel capo in cui la
Corte di appello l'ha ritenuta responsabile a titolo contrattuale ed
extracontrattuale per il solo fatto di avere offerto alle concessionarie nuove
condizioni, senza indicare la fonte normativa dalla quale avrebbe desunto una
tale responsabilità ed il suo obbligo di tenere un comportamento diverso, ed ha
qualificato abusivo e di mala fede il suo comportamento, trascurando di
considerare che la maggior parte dei concessionari ha accettato le condizioni da
essa proposte.
5.- I motivi - che vanno esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di
connessione, in quanto tutti attengono al problema della liceità del
comportamento di Mazda ed all'ammissibilità di istanze risarcitorie nei suoi
confronti - non sono fondati.
5.1.- Vanno condivise le censure rivolte alla sentenza impugnata dal primo
motivo.
Il Regolamento CEE n. 1475/1992 introduce effettivamente solo una serie di
norme dirette a stabilire le condizioni in presenza delle quali gli accordi di
distribuzione automobilistica sono esentati da ogni addebito di violazione dell'art.
85 p. 1 del Trattato CE, quali intese restrittive della concorrenza.
Non è sufficiente, quindi, dimostrare che detti accordi si discostino dall'una o
dall'altra delle prescrizioni del Regolamento, per desumerne la nullità della
clausola difforme, ma occorre dimostrare che - venuta meno l'esenzione a
causa della suddetta difformità - il contratto è da ritenere nullo perchè pregiudica
il commercio fra gli Stati membri, od ha per oggetto o per effetto di impedire,
restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune.
La sentenza impugnata non ha compiuto alcun accertamento in tal senso,
desumendo erroneamente la nullità (parziale) della clausola n. 1.5 dall'asserito
carattere imperativo delle norme del Regolamento: norme che invece potevano
essere derogate, qualora le parti fossero disposte a correre il rischio di essere
dichiarate inosservanti ai divieti di cui all'art. 85 del Trattato.
La fondatezza delle censure di cui al primo motivo non giustifica, tuttavia,
l'annullamento della sentenza impugnata, a fronte delle ulteriori, assorbenti
argomentazioni con cui la Corte di appello ha motivato la sua decisione.
5.2.- Correttamente ha rilevato la Corte di appello che è configurabile a carico di
Mazda Italia, oltre che a carico di Sidauto, l'abuso di dipendenza economica in
danno delle concessionarie, nonchè la violazione del dovere di buona fede nei
rapporti contrattuali e commerciali, a norma della L. n. 192 del 1998 cit., art. 9 e
dell'art. 1337 c.c. (quanto a Sidauto) e art. 2043 c.c. (quanto a Mazda).
L'art. 9 vieta l'abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza
economica in cui si trovi nei loro confronti un'impresa cliente o fornitrice:
situazione che va ravvisata allorchè l'una sia in grado di determinare nei
confronti dell'altra un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi, tramite
l'imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o tramite
l'interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, anche in
considerazione della difficoltà, per la vittima dell'abuso di reperire sul mercato
alternative soddisfacenti.
Ha rilevato la Corte di merito che l'abuso rilevante ai sensi dell'art. 9 è consistito
nel fatto che Sidauto, in accordo con Mazda Italia e facendosi da questa
corrispondere un congruo indennizzo, ha interrotto i rapporti di concessione di
vendita con le sue concessionarie e segnatamente con Autopanigale e con La
Vetrina dell'Auto, senza alcun termine di preavviso, mentre Mazda Italia approfittando di tale circostanza - ha cercato di subentrare nei contratti di
concessione già facenti capo a Sidauto, imponendo alle concessionarie
condizioni molto più onerose (richiedendo cioè obiettivi e target di vendita più
elevati; un impegno di esclusiva prima inesistente; il sostanziale ampliamento
dei locali adibiti alla vendita, un maggior numero di addetti alle vendite, nonchè il
rilascio di un ingente fideiussione bancaria), così abusando della evidente
posizione di dipendenza delle concessionarie nei confronti di essa Mazda, quale
unico soggetto che poteva consentire loro di continuare a vendere le automobili
con quel marchio e di effettuare le sostituzioni dei pezzi di ricambio nelle
automobili già vendute.
La violazione dei doveri di buona fede è stata poi ravvisata nel fatto che Sidauto,
pur avendo ricevuto da Mazda un congruo indennizzo per recedere dal rapporto
di importazione, ha preteso di sciogliere i rapporti con le concessionarie senza
preavviso e senza alcun indennizzo sostitutivo.
Trattasi di motivazione più che sufficiente ed adeguata a giustificare la
decisione. I contratti di concessione di vendita possono includersi, nel caso in
esame, nell'ambito dei rapporti di subfornitura di cui alla L. n. 192 del 1998, art.
1, considerato che il concessionario si impegna a fornire alla casa madre
"...servizi di distribuzione destinati ad essere...utilizzati nell'ambito dell'attività
economica del committente...".
In quanto tali, sono soggetti all'art. 6, comma 2, della legge stessa, che nei
contratti di subfornitura ad esecuzione continuata o periodica dispone la nullità
dei patti mediante i quali sia concessa ad una delle parti la facoltà di recesso
senza preavviso.
Tale deve considerarsi la clausola 1.5. del contratto di concessione, se
interpretata nel senso voluto dalla ricorrente, per cui la cessazione del rapporto
di importazione giustificherebbe il recesso anche se provocata da fatto proprio
del concedente.
Ed invero, nella specie la cessazione del rapporto con la casa madre non è
dipesa da una causa di forza maggiore alla quale la concedente non avrebbe
potuto opporsi, sì da configurare una fattispecie di impossibilità sopravvenuta
della prestazione, tale da liberare Sidauto dai suoi obblighi contrattuali nei
confronti delle concessionarie.
E' stata invece un evento al quale essa ha prestato adesione, dietro congruo
corrispettivo in denaro (L. 8 miliardi), così sacrificando deliberatamente gli
impegni assunti nei confronti dei suoi concessionari.
5.3.- In secondo luogo e soprattutto, anche indipendentemente dalla sanzione di
nullità della clausola di cui alla L. n. 192 del 1998 cit., art. 6, comma 2, il
comportamento di Sidauto ha comunque comportato inadempimento degli
obblighi assunti nei confronti dei concessionari di concedere loro 24 mesi di
preavviso nel caso di recesso dal contratto, considerato che la cessazione del
rapporto di importazione non può considerarsi valida giustificazione del recesso
medesimo, essendosi verificata, come si è detto, (anche) per fatto proprio della
parte che l'ha invocata a sua discolpa.
Vale a dire, la condizione apposta ai contratti di concessione circa il diritto della
concedente di recedere, nel caso di cessazione del rapporto di importazione,
non può ritenersi avverata in danno dei concessionari essendo il suo
avveramento imputabile alla stessa parte recedente, come si desume dal
principio di cui all'art. 1359 cod. civ., che a sua volta costituisce applicazione dei
principi generali circa il dovere di comportarsi secondo buona fede, sia
nell'esecuzione dei contratti, sia in pendenza della condizione (artt. 1358 e 1375
cod. civ.).
In definitiva, pur ritenuta inapplicabile la sanzione della nullità della clausola in
questione con riferimento alle sole norme del Regolamento CEE, la decisione
della Corte di appello si giustifica sulla base dei diversi principi da essa
richiamati, ed in particolare in relazione alla norma della L. n. 192 del 1998, art.
6, comma 2, ed alle norme che sanciscono il dovere di uniformare il proprio
comportamento ai principi della buona fede, nell'esecuzione del rapporto
contrattuale.
5.4.- La ricorrente Mazda Italia eccepisce la propria estraneità al comportamento
di Sidauto e ad ogni ipotetico rapporto di subfornitura, quindi l'insussistenza di
un qualunque inadempimento o violazione di legge a suo carico, non essendo
essa parte dei contratti di concessione. Le eccezioni non sono fondate.
In primo luogo il divieto di abuso di dipendenza economica di cui alla legge sulla
subfornitura costituisce peculiare applicazione di un principio generale che si
vorrebbe caratterizzasse l'intero sistema dei rapporti di mercato. Non a caso il
comma 3-bis, art. 9 richiama l'applicabilità della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art.
3, per i casi in cui l'abuso di dipendenza economica assuma un rilievo che va
oltre gli interessi coinvolti nel singolo rapporto contrattuale, mettendo in
questione in termini più ampi le esigenze di tutela della concorrenza.
L'abuso di dipendenza economica di cui alla L. n. 192 cit., art. 9 può quindi
venire in considerazione in un ambito più ampio di quello formato dalle parti del
singolo contratto, per estendersi al rapporto commerciale più complesso in cui
esso si inserisca, qualora proprio tramite un tale rapporto si realizzi l'abuso.
In ogni caso, la responsabilità per induzione all'inadempimento o per complicità
nell'inadempimento altrui è da tempo riconosciuta e sanzionata nel nostro
ordinamento, quale peculiare fattispecie di responsabilità per illecito civile, che
obbliga al risarcimento dei danni.
La sentenza impugnata ha per l'appunto preso in considerazione il complesso
rapporto Mazda-Sidauto-concessionari ed ha ravvisato a carico di Mazda Italia
un comportamento di complicità negli illeciti e negli inadempimenti di Sidauto,
che ha ritenuto giustificarne la condanna solidale al risarcimento dei danni.
Ha richiamato il fatto che Mazda Co. - pur se titolare del diritto di importare
direttamente le sue automobili in Italia ha negoziato con Sidauto la cessazione
del contratto di importazione in corso, versandole quale corrispettivo la somma
di 8 miliardi di lire.
E' vero che Mazda Co. e, per suo tramite Mazda Italia, aveva il diritto di
importazione diretta in Italia.
Ma è anche vero che il suo diritto sarebbe stato ben più proficuamente
esercitato avvalendosi della penetrazione nel mercato italiano procurata dalla
catena dei concessionari di Sidauto, i quali avrebbero avuto diritto alla
continuazione del rapporto in corso quanto meno per i due anni di preavviso, e
sono stati invece messi nella difficile condizione di non poter soddisfare le
richieste della clientela a causa dell'interruzione repentina delle forniture,
artificiosamente provocata dalla manovra Mazda Co - Mazda Motor Italia
Sidauto, tale da metterli in condizione di difficoltà nel rifiutare l'offerta
peggiorativa, formulata dalla nuova importatrice.
La maggior parte delle concessionarie ha infatti aderito al cambiamento.
In questa operazione il soggetto maggiormente interessato alla riuscita
dell'operazione era quindi Mazda Italia (e la casa madre, sua controllante), più
ancora che la contraente Sidauto, la quale era stata già soddisfatta dal
corrispettivo ricevuto per l'interruzione del rapporto di importazione.
Correttamente, quindi, la Corte di appello ha ritenuto la società ricorrente
corresponsabile dei danni subiti dalle concessionarie, per la sua cooperazione
all'inadempimento di Sidauto e per la mala fede dimostrata nel prospettare alle
concessionarie insussistenti condizioni per il recesso immediato dal rapporto cioè l'interruzione dei rapporti con l'importatore - rapporti che in realtà non erano
stati interrotti, ma erano stati consensualmente risolti dietro corrispettivo.
Ricorrono pertanto anche a carico della ricorrente Mazda Italia sia gli estremi
dell'abuso di dipendenza economica, ai sensi degli artt. 1 e 9 del contratto di
subfornitura; sia la responsabilità per complicità con Sidauto nella violazione
degli obblighi contrattuali e dei doveri di buona fede nell'esecuzione de
contratto, ivi incluse le fasi del recesso e delle trattative in vista
dell'instaurazione di un nuovo rapporto.
Trattasi di responsabilità di Mazda per fatto proprio, in relazione alla quale il
principio di cui all'art. 1372 c.c., comma 2, non ha ragione di essere invocato.
6.- Infondata è anche la doglianza relativa all'asserito carattere indebito dell'uso
dei segni distintivi di Mazda da parte delle concessionarie.
Il diritto all'uso dei segni distintivi è stato loro legittimamente attribuito con i
contratti di concessione di vendita delle automobili Mazda stipulati con Sidauto,
a loro volta legittimati dal contratto di importazione a suo tempo intercorso fra
Mazda Co. e Sidauto, ed è destinato a restare in vita finchè avranno effetto i
rapporti di concessione. E' ammesso, del resto, l'uso congiunto del marchio, nel
caso di licenza non esclusiva (cfr. D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 23,
comma 2, - Codice della proprietà industriale), e Mazda Italia potrà rivalersi di
eventuali violazioni in suo danno nei confronti di Mazda Co. e di Sidauto.
1.- Il quinto motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 1226 e 2697 cod.
civ. e vizi di motivazione, sul rilievo che la Corte di appello non avrebbe potuto
procedere alla liquidazione equitativa dei danni, a fronte di specifiche richieste
risarcitorie delle appellanti, le quali hanno chiesto la condanna al pagamento per
somme non inferiori a quelle da esse quantificate in Euro 619.750,00 quanto ad
Autopanigale, ed in Euro 387.340,00, quanto al Fallimento La Vetrina dell'Auto.
Si afferma che la Corte di appello non avrebbe potuto liquidare somme inferiori;
che in ogni caso non si può ricorrere alla liquidazione equitativa quando l'entità
dei danni possa essere dimostrata, nè è possibile invocare il fatto notorio in
relazione a fatti non allegati dalle parti; che non sarebbe stato comunque
possibile ravvisare un danno da lucro cessante in favore della Vetrina dell'Auto,
che era in cronica situazione di perdita.
7.1.- Il motivo non è fondato.
L'accoglimento parziale della domanda è sempre possibile - e così ha fatto la
Corte di appello nel liquidare i danni - e la motivazione relativa alla
quantificazione (unico aspetto in relazione al quale le doglianze sono ammissibili
in questa sede) non presta il fianco a censure di sorta.
La Corte di appello ha specificamente richiamato a fondamento della sua
decisione le allegazioni e le prove delle parti, ed in particolare gli ordini di
autoveicoli Mazda già raccolti e non potuti evadere a causa dell'improvvisa
cessazione delle consegne, le perdite sulle giacenze di veicoli; i nuovi locali
acquistati per le vendite in previsione della durata del rapporto, ed altro
(sentenza, p. 34 e seg.). Ritenuti non sufficienti gli elementi raccolti per una
precisa quantificazione dei danni, ha correttamente proceduto alla valutazione
equitativa, dedicando ampia e specifica indagine ai dati economici a cui fare
riferimento per ancorare la decisione ad una valutazione realistica e non
arbitraria (cfr. pag. 37-42).
Ha tenuto conto della situazione finanziaria negativa della Vetrina dell'Auto, la
quale peraltro non esclude che anche questa società avesse diritto alla corretta
esecuzione dei contratti in corso ed al risarcimento dei danni conseguenti
all'ulteriore, ingiustificata diminuzione dei suoi introiti, derivata dagli altrui
inadempimenti.
L'opinione della ricorrente, secondo cui una società in passivo resterebbe
insensibile alle ulteriori perdite arrecate dagli illeciti altrui, non può essere
condivisa.
8.- Il ricorso di Mazda Italia deve essere rigettato.
9.- Le spese del presente giudizio, liquidate nel dispositivo, seguono la
soccombenza.
P.Q.M.
La Corte di cassazione riunisce i ricorsi.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto dalla s.p.a. Sidauto e rigetta il ricorso
proposto dalla s.p.a. Mazda Motor Italia. Condanna le ricorrenti, in via fra loro
solidale, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate
complessivamente in Euro 10.000,00 per ciascuna delle resistenti, di cui Euro
200,00 per esborsi ed Euro 9.800,00 per compensi; oltre al rimborso delle spese
generali ed agli accessori previdenziali e fiscali, ai sensi della legge in vigore.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2014.
DATA DEPOSITO 23 LUGLIO 2014
Sentenza 06 marzo 2015 n. 4628 Sez. Unite
CONTRATTI - VENDITA - vendita immobiliare - Preliminare del
preliminare - Legittimità - Sussistenza - Condizioni.
Ente Giudicante: Cassazione Civile
Presidente: Pres. ROVELLI Luigi Antonio; Rel. D'ASCOLA Pasquale
avverso la sentenza n. 1696/2007 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI,
depositata il 25/05/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/10/2014 dal
Consigliere Dott. PASQUALE D'ASCOLA;
uditi gli avvocati Modestino AGONE, Gianfranco GRELLA, Giorgio STELLA
RICHTER;
udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1) Gli odierni ricorrenti agirono nel novembre 1996 proclamandosi promittenti
venditori di una porzione di fabbricato sita in Avellino.
Chiesero l'esecuzione in forma specifica dell'accordo preliminare concluso il 9
luglio 1996 con i promissari acquirenti, i coniugi Fr.Gi. e F.M..
I convenuti resistettero sostenendo che la scrittura privata del 9 luglio costituiva
una semplice puntuazione, priva di efficacia obbligatoria, insuscettibile di
esecuzione ex art. 2932 c.c..
Il tribunale di Avellino rilevò che il contratto conteneva l'impegno a stipulare il
contratto preliminare di compravendita, allorquando il Banco di Napoli avesse
dato assenso all'esclusione della porzione venduta dall'ipoteca gravante sul
fabbricato.
Il tribunale ritenne che il contratto stipulato fosse da qualificare come
"preliminare di preliminare" e che fosse nullo per difetto originario di causa.
Pertanto respinse la domanda.
Anche la Corte di appello di Napoli ha ritenuto che al contratto preliminare può
riconoscersi funzione giuridicamente apprezzabile solo se è idoneo a produrre
effetti diversi da quelli del contratto preparatorio; che nella specie il secondo
preliminare previsto dalle parti avrebbe prodotto gli stessi effetti di impegnarsi a
stipulare alle medesime condizioni e sul medesimo bene; che pertanto l'accordo
del 1996 era nullo, per difetto di causa autonoma rispetto al contratto preliminare
da stipulare.
Ha rigettato quindi la domanda di risoluzione e risarcimento danni, introdotta nel
corso del giudizio di primo grado ex art. 1453 c.c., comma 2.
Avverso questa sentenza, i promittenti venditori signori M. - S. hanno proposto
ricorso per cassazione con unico motivo.
Gli intimati inizialmente non hanno svolto attività difensiva.
In vista della pubblica udienza, F.M. si è costituita con "memoria difensiva" del
difensore nominato con procura speciale notarile.
Con ordinanza interlocutoria 5779/14 del 12 marzo 2014 della seconda sezione
civile, la causa è stata rimessa al primo Presidente, il quale la ha assegnata alle
Sezioni Unite della Corte. Le parti costituite hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
2) Preliminarmente, con riferimento alla costituzione tardiva della intimata, va
rilevato che la parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddirvi,
deve farlo mediante controricorso contenente, ai sensi dell'art. 366 c.p.c.,
(richiamato dall'art. 370 c.p.c., comma 2), l'esposizione delle ragioni atte a
dimostrare l'infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata dal
ricorrente. In mancanza di tale atto, essa non può presentare memoria, ma
solamente partecipare alla discussione orale (Cass. 6222/12; 1737/05).
3) Con unico complesso motivo di ricorso i promittenti venditori denunciano
violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 1324, 1351, 1362 ss.,
1374, 2697 e 2932 c.c..
Invocano le opinioni dottrinali e giurisprudenziali che, contrapponendosi alla
corrente di pensiero accolta dai giudici di merito, ha riconosciuto "del tutto
ammissibile e lecita la figura del preliminare di preliminare".
Sostengono che non può essere negato che sussista un interesse delle parti a
creare un "impegno provvisorio", scindendo la contrattazione preparatoria del
contratto definitivo di vendita dell'immobile in due fasi.
Affermano che la Corte di appello si è erroneamente allineata alle tesi che
ritengono nullo per mancanza di causa il c.d. preliminare di preliminare, le quali
ignorano il concreto svolgersi delle negoziazioni immobiliari e le esigenze della
pratica.
Ricordano che il contratto per cui è causa, intitolato "dichiarazione preliminare
d'obbligo" conteneva gli elementi essenziali del negozio e prevedeva la stipula di
un "regolare preliminare di vendita", qualora il Banco di Napoli avesse dato
assenso alla liberazione dall'ipoteca.
Parte ricorrente deduce che per "regolare preliminare" doveva intendersi
"formale preliminare", espressione che assume oggi maggior significato in
relazione alla possibilità di trascrivere i preliminari redatti "in base alla L. 28
febbraio 1997, n. 30".
Evidenzia la apprezzabilità dell'interesse che le parti avevano a conoscere, nel
percorso negoziale di progressivo avvicinamento, le decisioni dell'istituto
bancario che vantava l'ipoteca.
Il ricorso, che è concluso da congruo e concreto quesito, redatto ex art. 366 bis
c.p.c., e completato da altra censura per contraddittorietà della motivazione, è
fondato.
3) La Seconda Sezione ha ritenuto opportuno interpellare le Sezioni Unite,
svolgendo le seguenti considerazioni:
"Il collegio non ignora che questa S.C. ha già avuto occasione di affermare che il
contratto in virtù del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo
contratto ad effetti obbligatori (ovvero un contratto preliminare di preliminare) è
nullo per difetto di causa, non essendo meritevole di tutela l'interesse di
obbligarsi ad obbligarsi, in quanto produttivo di una inutile complicazione (sent.
2 aprile 2009 n. 8038, seguita, senza ulteriori approfondimenti da Cass. 10
settembre 2009) (n. 19557).
Ritiene, tuttavia, che tale orientamento, nella sua assolutezza, potrebbe essere
meritevole di precisazioni, con riferimento alle ipotesi che in concreto possono
presentarsi.
In primo luogo, potrebbe dubitarsi della nullità del contratto preliminare il quale si
limitasse a prevedere un obbligo di riproduzione del suo contenuto al verificarsi
di determinate circostanze, come nel caso di specie, in cui la stipulazione di un
"regolare contratto preliminare" era subordinata al consenso del Banco di Napoli
alla cancellazione dell'ipoteca gravante (anche) sulla porzione immobiliare
promessa in vendita.
Ma quello che più conta è che il contratto preliminare di contratto preliminare
non esaurisce il suo contenuto precettivo nell'obbligarsi ad obbligarsi, ma
contiene - come nel caso di specie - anche l'obbligo ad addivenire alla
conclusione del contratto definitivo.
Ora, appare difficile, in considerazione del principio generale di cui all'art. 1419
c.c., comma 1, ritenere che la nullità dell'obbligo di concludere un contratto
preliminare riproduttivo di un contratto preliminare già perfetto possa travolgere
anche l'obbligo, che si potrebbe definire finale, di concludere il contratto
definitivo".
3.1) La sentenza 8038/09, alla quale l'ordinanza di rimessione fa riferimento,
aveva così argomentato: "L'art. 2932 c.c., instaura un diretto e necessario
collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato
a realizzare effettivamente il risultato finale perseguito dalle parti.
Riconoscere come possibile funzione del primo anche quella di obbligarsi... ad
obbligarsi a ottenere quell'effetto, darebbe luogo a una inconcludente
superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela
secondo l'ordinamento giuridico, ben potendo l'impegno essere assunto
immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in
seguito qualcosa, anzichè prometterlo subito.
Nè sono pertinenti i contrari argomenti esposti dai ricorrenti: in parte non
attengono al reciproco rapporto tra le parti del futuro contratto definitivo, ma a
quelli tra ognuna di loro e l'intermediario che le ha messe in relazione, sicchè
non riguardano il tema in discussione; per il resto prospettano l'ipotesi di un
preliminare già riferentesi al definitivo e da rinnovare poi con un altro analogo
negozio formale, il che rappresenta una fattispecie diversa da quella del
prepreliminare, di cui si è ritenuta in sede di merito l'avvenuta realizzazione nella
specie. Correttamente, quindi, nella sentenza impugnata, esclusa la validità
dell'accordo raggiunto dalle parti, ha ritenuto che esse si trovassero, in relazione
al futuro contratto preliminare, nella fase delle trattative, sia pure nello stato
avanzato della puntuazione, destinata a fissare, ma senza alcun effetto
vincolante, il contenuto del successivo negozio".
3.2) Il confronto tra i provvedimenti soprariportati costituisce già eloquente
documentazione delle incertezze che da qualche decennio agitano la dottrina e
la giurisprudenza in ordine all'ammissibilità del c.d. contratto preliminare di
preliminare.
Si contrappongono infatti un orientamento che si può definire tradizionale,
rispecchiato da Cass. 8038/09, che diffida (di "una certa diffidenza" discute per
prima Pret. Bologna 9 aprile 1996, Giur. it., 1997, I, 2, 539) della configurabilità
di un momento contrattuale anteriore al preliminare e un orientamento più
possibilista, che considera benevolmente le ipotesi di c.d.
"preliminare aperto" e ritiene possibile una tripartizione delle fasi che conducono
alla stipula del definitivo.
Un'analisi più approfondita della esperienza giurisprudenziale e dell'evolversi del
dibattito dottrinale può consentire di svelare contrasti solo apparenti, di
riavvicinare le posizioni e di delineare senza schematismi i limiti in cui può
espandersi l'autonomia privata.
3.3) In giurisprudenza viene affermato che:
"In tema di minuta o di puntuazione del contratto, qualora l'intesa raggiunta dalle
parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto non
è configurabile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro
negozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un accordo contrattuale;
per tale valutazione, ben può il giudice far ricorso ai criteri interpretativi dettati
dall'art. 1362 c.c. e segg., i quali mirano a consentire la ricostruzione della
volontà' delle parti, operazione che non assume carattere diverso quando sia
questione, invece che di stabilirne il contenuto, di verificare anzitutto se le parti
abbiano inteso esprimere un assetto d'interessi giuridicamente vincolante,
dovendo il giudice accertare, al di là del nomen iuris e della lettera dell'atto, la
volontà negoziale con riferimento sia al comportamento, anche successivo,
comune delle parti, sia alla disciplina complessiva dettata dalle stesse,
interpretando le clausole le une per mezzo delle altre". (Cass. 2720/09).
Stabilire se la formazione di un accordo che riguardi solo i punti essenziali del
contratto di compravendita (Cass. 23949/08; 2473/13; 8810/03; 3856/83) sia
sufficiente a costituire un contratto preliminare suscettibile di esecuzione
coattiva ex art. 2932 c.c., è questione di fatto che può risultare di difficile
discernimento.
Si rinvengono infatti non poche massime secondo le quali ai fini della
configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti
sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene
ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli
essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un
tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. (Cass. 14267/06;
11371/10).
Questo secondo filone giunge ad affermare che anche in presenza del completo
ordinamento di un determinato assetto negoziale può risultare integrato un atto
meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le
parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare
concluso il contratto (910/05; 20701/07).
4) La questione rimessa oggi alla Corte non riguarda il rilievo della volontà nella
conclusione del contratto e se essa sia la sola via per stabilire quando il
preliminare venga definitivamente formato: è chiesto invece di indagare sulla
dinamica degli accordi contrattuali in tema di compravendita immobiliare. E'
infatti evidente già da questa prima ricognizione quale sia l'incertezza del
confine tra atto preparatorio e contratto preliminare, incertezza alimentata da
una accentuata polarizzazione tra contratto preliminare (vincolante) da un lato e
diniego di rilevanza negoziale, per difetto della causa, di accordi prodromici al
preliminare, i quali al più vengono qualificati semplice "puntuazione". Occorre
pertanto stabilire se e in quali limiti sia riconosciuto nell'ordinamento un accordo
negoziale che rimandi o obblighi i contraenti a un contratto preliminare
propriamente detto.
4.1) La problematica risulta affrontata più volte nella giurisprudenza di merito.
Trib. Salerno 23 luglio 1948 (Dir. Giur., 1949, 101) ebbe ad affermare che la
legge, nel fissare i due tipi fondamentali di contratti (preliminare e definitivo),
esclude l'esistenza di un contratto preliminare relativo ad altro preliminare, il
quale dovrebbe comunque rispettare il requisito di forma di cui all'art. 1351 c.c. Il
tribunale di Napoli (23.11.1982 in Giustciv. 1983, 1, 283; 21.2.1985 n. 1480 Dir
Giur. 1985, 725) ha aggiunto che il contratto con cui le parti si impegnano a
stipulare un futuro contratto preliminare di analogo contenuto è nullo per
mancanza di causa, "difettando di ogni funzione economica meritevole di tutela".
La trattatistica censisce vari altri casi (tra i quali:
App Genova 21.2.2006, Obbl e contr., 2006, 648; App. Napoli 1.10.2003, Giur.
mer. 2004, 63) che riecheggiano queste convinzioni.
4.1.1) Altre volte la giurisprudenza partenopea si è orientata in senso opposto.
App. Napoli 11 ottobre 1967, (Dir. Giur. 1968, 550) ha ritenuto che "in virtù del
principio dell'autonomia negoziale" sia ammissibile un regolamento contrattuale
che preveda, dopo la prima intesa scritta, un'ulteriore scansione temporale, con
la stipulazione del contratto preliminare, legata al versamento di una caparra.
Trib. Napoli 28 febbraio 1995 (Dir. Giur. 1995, 163) muovendo dallo stesso
presupposto ha considerato meritevole di tutela "il contratto preliminare del
preliminare qualora lo stesso costituisca un momento ben caratterizzato dell'iter
progressivo per il raggiungimento del compiuto regolamento di interessi".
In altri casi i giudici di merito hanno espressamente ritenuto di non avventurarsi
nella analisi, poichè hanno ravvisato già nel primo contratto gli elementi
sufficienti a qualificare come preliminare ex art. 1351 c.c., l'accordo
documentato (Pret. Firenze 19. 12. 1989 Giur. merito, 1990, 466) ovvero,
all'opposto, la configurabilità di una condizione sospensiva, il cui mancato
avveramento impedisce il perfezionamento della fattispecie negoziale (Trib.
Firenze 10 luglio 1999, Nuovo dir., 2000, 487).
4.2) Queste oscillazioni mettono capo, come la giurisprudenza citata sub 3.3, al
tema dell'identificazione del contratto preliminare e preannunciano il diffondersi
di problematiche relative alla contrattazione in materia di vendita immobiliare,
settore che ha segnato la fortuna del contratto preliminare nel nostro
ordinamento.
Prima di esaminare le valutazioni dottrinali in questa materia è quindi opportuno
stabilire che solo questo è il campo di indagine, restando esclusi - e da
salvaguardare - altri istituti di confine.
Intorno al 1970, nel fissare le fondamenta concettuali del contratto preliminare,
la dottrina ha avuto cura di distinguerli e di segnalare che il contratto preliminare
non è "un recipiente di comodo" in cui inserire gli istituti dagli incerti confini.
Va pertanto esemplificativamente ricordato che: la figura dell'opzione di
contratto preliminare, di origine dottrinale (ma v. Cass. 1071/67), è un'ipotesi di
"possibile allargamento della sfera di applicazione del patto di opzione" (per la
distinzione, cfr Cass. 8564/12).
Il patto di prelazione ha lo scopo essenziale di impedire che il promittente
concluda un contratto con un terzo anzichè con il beneficiario del patto: non
sembra quindi una figura diretta alla conclusione del contratto, come il
preliminare, ma alla scelta del contraente, ancorchè in giurisprudenza venga
qualificato come preliminare unilaterale (Cass. 3127/12).
Anche il patto di contrarre con il terzo non può essere confuso con le ipotesi che
ci occupano di pattuizione anteriore al preliminare, categoria al quale è
estraneo, per il motivo determinante che non vi è ancora - con questo patto una manifestazione di consenso intorno a un regolamento di interessi, ma una
volontà manifestata a un soggetto diverso dal terzo con cui si dovrà in futuro
contrarre.
4.3) Il vero insorgere della problematica è stato determinato dall'evoluzione della
contrattazione immobiliare e dell'attività di mediazione professionalmente
gestita.
La complessità dei contatti, delle verifiche da effettuare, da un lato per saggiare
la serietà dei proponenti, dall'altro per accertarsi della consistenza del bene e
dell'affidabilità dei contraenti, hanno di fatto portato a una frequente tripartizione
delle fasi contrattuali.
Una prima fase in cui, a volte con la formula, almeno dichiarata, della proposta
irrevocabile, l'aspirante acquirente offre un certo corrispettivo per l'acquisto del
bene, atto che viene riscontrato dalla accettazione o dal rifiuto del proprietario.
Una seconda, espressamente prevista, di stipula del contratto preliminare
propriamente detto. La terza, costituita dall'indispensabile rogito notarile con il
saldo del prezzo.
La pratica degli affari ci consegna una incalcolabile serie di varianti: inseguirle, è
stato spiegato, sarebbe ozioso impegno di un giurista da tavolino.
Alla variabilità della modulistica dei mediatori si aggiunge infatti la inesauribile
creatività dei contraenti, assistiti o meno da consulenti legali.
Il quesito che occorre risolvere concerne la configurabilità di due fasi anteriori al
rogito o comunque all'atto traslativo, giustificabili l'una rispetto all'altra allo
stesso modo in cui venne a suo tempo giustificata la "scissione" del contratto
preliminare rispetto al definitivo.
Si vuoi dire che la "scissione", in alcuni casi, dimostra che le parti sono incerte e
intendono meglio orientarsi, cosicchè essa risponde all'esigenza di "fermare
l'affare", ossia di dare vincoli giuridici all'operazione economica condivisa negli
elementi essenziali, restando però, per una delle parti (di regola il compratore)
l'esigenza di verificare con certezza la praticabilità dell'operazione, prima ancora
che di definirla in termini più precisi e articolati.
Ciò può avvenire sovente sui seguenti punti: a) assumere elementi di
conoscenza sulla persona della controparte (es., se è imprenditore o comunque
persona solvibile; escludere vicinanze "mafiose", etc.). Si tratta di elementi che
non potrebbero, ove conosciuti come negativi, essere addotti a motivo di
risoluzione di un contratto già concluso o forse neppure essere portati a
conoscenza della controparte stessa, ragione per cui è necessario non dare
carattere di assolutezza al vincolo.
b) verificare con precisione lo stato della cosa;
c) verificare la situazione urbanistica e svolgere le altre visure e ricerche
necessarie.
5) Il ragionamento al quale si è rifatta Cass. 8038/09, e che nega la validità di un
accordo ripetitivo, ha pregio se si ipotizza (come sembra sia stato comunque
fatto anche in quel caso) che tra il primo e il secondo preliminare vi sia identità
(bis in idem).
In tal caso, mancando un contenuto nuovo in grado di dar conto dell'interesse
delle parti e dell'utilità del contratto, si è parlato di mancanza di causa. La parte
di dottrina che è tendenzialmente contraria ad ammettere queste pattuizioni
riconosce che nelle trattative complesse il contratto si può formare
progressivamente, ma nega che si possa parlare di obbligo a contrarre,
preferendo l'aspetto descrittivo dell'obbligazione di contrattare. Nega anche
rilievo alla differenziazione basata sulla ricorribilità al rimedio di cui all'art. 2932
c.c., solo in relazione al secondo contratto.
Si pretende infatti che il rapporto tra i preliminari venga "valutato in termini di
contenuto dispositivo e non già di sanzioni".
E' già questa una significativa apertura, ancorchè sia stata limitata a quelle
fattispecie in cui le parti, impegnatesi in sede di primo accordo sui punti
essenziali della futura compravendita, abbiano solo voluto rinviare la definizione
di punti secondari.
5.1 Le Sezioni Unite della Corte intendono cogliere gli aspetti costruttivi di quel
moderno orientamento che vuole riconoscere la libertà delle parti di determinarsi
e di fissare un nucleo di interessi da trasfondere nei vari passaggi contrattuali.
Viene in primo luogo in risalto, come evidenziato dal più recente dibattito
dottrinale, la tematica della causa concreta.
Una definizione di questa Corte (Cass. 10490/06) la qualifica come "scopo
pratico del negozio...sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto
a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al
di là del modello astratto utilizzato".
Sono molti i casi in cui la Corte, dichiaratamente o meno, ha lasciato da parte la
teorica della funzione economico sociale del contratto e si è impegnata
nell'analisi dell'interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie,
cioè della ragione pratica dell'affare.
L'indagine relativa alla causa concreta, - è stato evidenziato - giova sia come
criterio d'interpretazione del contratto sia come criterio di qualificazione dello
stesso: "La rispondenza del contratto ad un determinato tipo legale o sociale
richiede infatti di accertare quale sia l'interesse che il contratto è volto a
realizzare".
Questa chiave di lettura conduce a riconsiderare gli approdi schematici ai quali
sono pervenute in passato dottrina e giurisprudenza.
E' singolare, ma non casuale, che il profilo causale del contratto sia stato inteso
in dottrina e giurisprudenza come ricerca della utilità del contratto, cioè della sua
"complessiva razionalità" ed idoneità ad espletare una funzione commisurata
sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto
contrattuale.
E' questo in fondo che la stessa Cass. 8038/09 richiede allorquando rileva che,
in caso contrario, l'obbligo di obbligarsi ad ottenere un certo effetto è "una
inconcludente superfetazione" priva di "senso pratico".
5.2 Le opinioni, pur partendo da prospettive diverse, coincidono dunque nel
definire nulla l'intesa che si risolva in un mero obbligo di obbligarsi a produrre un
vincolo che non abbia nè possa avere contenuto ulteriore o differenziato. Un
secondo punto di convergenza si rinviene allorquando l'analisi del primo accordo
conduce a ravvisare in esso i tratti del contratto preliminare, in quanto
contenente gli elementi necessari per configurare tale contratto, quali, si
osserva, l'indicazione delle parti, del bene promesso in vendita, del prezzo. La
presenza della previsione di una ulteriore attività contrattuale può rimanere
irrilevante, ma va esaminata alla luce delle pattuizioni e dei concreti interessi
che sorreggono questa seconda fase negoziale.
Giovano alcune esemplificazioni: a) Può darsi il caso che nell'accordo raggiunto
sia stata semplicemente esclusa l'applicabilità dell'art. 2932 c.c.: si tratta, è stato
osservato, di una esclusione convenzionalmente ammessa. La conseguenza
sarà che, pur ravvisandosi un contratto "preliminare" in questa scrittura che
ipotizzava un successivo accordo, si potrà far luogo, in caso di inadempimento,
solo al risarcimento del danno.
b) Può presentarsi l'ipotesi in cui la pattuizione della doppia fase risponda
all'esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, facoltà che può
essere convenzionalmente prevista nel contratto preliminare e che può anche
accompagnarsi alla prevista perdita di una modesta caparra penitenziale versata
dal proponente l'acquisto; si tratta è stato detto, del costo del recesso da un
contratto preliminare già concluso.
c) E' ipotizzabile, ed è quanto andrà vagliato con particolare attenzione dai
giudici di merito nel giudizio odierno, che le parti abbiano raggiunto un'intesa
completa, subordinandola però a una condizione.
Tutte queste ipotesi, e le altre che sono immaginabili, sono apparentate da una
conclusione che può regolare buona parte della casistica: va escluso che sia
nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un
contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del
preliminare. L'assenza di causa che è stata rilevata quando si è discusso di
"preliminare di preliminare" potrebbe in tali casi riguardare tutt'al più il secondo,
ma non certo il primo contratto.
6) Dietro la stipulazione contenente la denominazione di "preliminare del
preliminare" (nel senso che la conclusione dell'accordo precede la stipula del
contratto preliminare) si possono dare situazioni fra loro differenti, che delineano
sia figure contrattuali atipiche (quali quelle prima indicate), ma alle quali
corrisponde una "causa concreta" meritevole di tutela; sia stadi prenegoziali
molto avanzati, cui corrisponde un vincolo obbligatorio di carattere ancora
prenegoziale (almeno fra le parti del contratto in relazione al quale si assuma un
impegno volto alla successiva stipula di un contratto preliminare) che vede
intensificato e meglio praticato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c..
Certo è però, che, in linea di massima, la previsione di dover dar vita, in futuro,
all'assunzione dell'obbligo contrattuale nascente dal contratto preliminare, può
essere sintomatica del fatto che le parti hanno consapevolezza che la situazione
non è matura per l'assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio. Ciò può
dipendere segnatamente in relazione al grado di conoscenza di tutti gli elementi
di fatto che occorre aver presenti per manifestare la volontà il cui incontro da vita
all'accordo vincolante consacrato nel contratto preliminare.
Posto, come si è detto prima, che non si può assegnare utilità al "bis in idem" in
quanto volto alla mera ripetizione del primo contratto ad identici contenuti, se e
quando le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al
cambiamento di esso, l'obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il
contrarre, ma il contrattare.
6.1) Anche la dottrina più rigorosa riconosce che da gran tempo è stata discussa
la formazione progressiva del contratto e sembra ammettere che essa potrebbe
atteggiarsi configurando una tripartizione del procedimento di compravendita
immobiliare.
Secondo le Sezioni Unite si deve immaginare la pattuizione di un vincolo
contrattuale che sia finalizzato ad ulteriori accordi e che il rifiuto di contrattare
opposto nella seconda fase, se immotivato e contrario a buona fede, possa dar
luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione
specifica sorta nel corso della formazione del contratto e non propriamente ex
contractu.
E' stato però osservato che si tratterebbe di ipotesi diversa da quella del
preliminare di preliminare, che dovrebbe riguardare l'obbligo, assunto nella
prima fase, di contrarre e non di contrattare, come invece avverrebbe quando
siano state scandite solo tappe di una trattativa complessa.
Si è quindi manifestata contrarietà all'ipotesi di un "preliminare aperto" sottoscritto per lo più da parti che ancora non si conoscono o hanno
deliberatamente lasciato alla seconda fase la regolazione di alcuni profili
contrattuali - seguito da un preliminare chiuso.
Questa ritrosia può essere giustificata in alcuni casi, ma non in tutti.
E' stato in precedenza sottolineato che va dato peso alla difficoltà di configurare
come preliminare propriamente detto un rapporto obbligatorio in cui le parti non
si conoscano e non siano in grado quindi di valutare le qualità soggettive
dell'altro contraente.
Rispetto a questa frequente ipotesi, non sembra corrispondere alle reali
esigenze del traffico giuridico qualificare la prima intesa, che pur contenga gli
altri elementi essenziali, come contratto preliminare.
Vi sono esigenze, in una società complessa, interessata da pervasivi fenomeni
criminosi, da sospette manipolazioni nel tessuto economico, da un fiorire
incontrollabile di nullità contrattuali "minori", ma non per questo meno incisive
negozialmente, di riservare il consenso vincolante, sottomesso all'esecuzione
coattiva, a verifiche che sono da valutare soggettivamente.
In altri casi il contraente resta libero da vincoli stringenti e assoggettato solo alle
conseguenze risarcitorie che ha deliberamente assunto e contrattualmente
delimitato, concordando espressamente la necessità di un vero e proprio
preliminare e l'esclusione del disposto di cui all'art. 2932 c.c..
Una più esauriente determinazione del contenuto contrattuale può essere
prevista per meglio realizzare l'interesse delle parti. Se si dovesse invece
ricorrere sempre all'opzione preliminare/definitivo si dovrebbero riempire i
contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all'art. 1374, integratore
rispetto al primo accordo incompleto.
6.2) E' stato autorevolmente sostenuto che se mancano violazioni di una legge
imperativa, non v'è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali
graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano
trasparire l'interesse perseguito, in sè meritevole di tutela, a una negoziazione
consapevole e informata.
Le posizioni di coloro che pongono l'alternativa "preliminare o definitivo"
amputano le forme dell'autonomia privata, sia quando vogliono rintracciare ad
ogni costo il contratto preliminare in qualunque accordo iniziale, sia quando
ravvisano nel c.d. preliminare chiuso il contratto definitivo, passibile soltanto di
riproduzione notarile.
La procedimentalizzazione della fasi contrattuali non può di per sè essere
connotata da disvalore, se corrisponde a "un complesso di interessi che stanno
realmente alla base dell'operazione negoziale".
E' vero che occorre guardarsi da un uso "poco sorvegliato" dell'espressione
preliminare di preliminare", perchè l'argomento nominalistico non è neutro.
Tuttavia, se ci si libera dell'ipotesi in cui appare che il primo contratto è già il
contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per
la trascrizione, restano due "sequenze" variabili che si avvicinano:
A) quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di
un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di
trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico è il contenuto, tanto più
ci si avvicina al preliminare.
B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una
puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l'accordo è irrevocabilmente
raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori punti.
Si tratta di un iniziale accordo che non può configurarsi ancora come preliminare
perchè mancano elementi essenziali, ma che esclude che di quelli fissati si torni
a discutere. In questa ipotesi man mano che si impoverisce il contenuto
determinato ci si allontana dal preliminare propriamente detto.
b1) Occorre qui ulteriormente ricordare la distinzione con l'ipotesi in cui la
previsione del secondo preliminare esprime soltanto che la situazione
conoscitiva delle parti non è tale da far maturare l'accordo consapevole, ma si
vuole tuttavia "bloccare l'affare", anche a rischio del risarcimento del danno
negativo in caso di sopravvenuto disaccordo.
Ciò che conta chiarire è che, all'interno di una gamma di situazioni che ricevono
risposte diverse, quelle contrassegnate sotto la lettera b sono riconducibili a una
fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del vincolo è limitata a
una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una fase
successiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già
determinati, da luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di
un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto,
riconducibile alla terza delle categorie considerate nell'art. 1173 c.c., cioè alle
obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità
dell'ordinamento giuridico.
6.2.1) E' evidente come questa linea interpretativa impone di vagliare caso per
caso l'emergere dell'interesse delle parti, di questa loro volontà di rinviare il
momento in cui operano sia l'integrazione suppletiva ex art. 1374 c.c. sia la
cogenza del meccanismo proprio del preliminare ex art. 1351 e 2932 c.c..
Nella compravendita immobiliare l'ausilio giunge dal formalismo che
contraddistingue la materia, sì da potersi di volta in volta cogliere i profili
oggettivi non solo di una trattativa e della successiva stipula di un preliminare,
ma di una sequenza di atti caratterizzati da un contenuto differenziato e aventi
portata contrattuale con le connesse conseguenze.
7) Alla luce di questi principi il ricorso è da accogliere.
I giudici di merito hanno infatti in primo luogo omesso di valutare se il contratto
in esame, sebbene prevedesse la stipula di un successivo contratto preliminare,
avesse già le caratteristiche di un contratto preliminare completo, soltanto
subordinato ad una condizione, cioè al consenso del Banco di Napoli alla
cancellazione parziale dell'ipoteca, ipotesi da loro stessi contemplata (pag. 7
sentenza) ma scartata a causa della previsione dell'impegno a sottoscrivere un
futuro preliminare.
Hanno poi omesso di interrogarsi sulla validità del primo contratto, in ipotesi
munito di tutti gli elementi essenziali del preliminare, e sulla possibile invalidità,
in questo contesto, del secondo accordo, se meramente riproduttivo del primo.
In quest'ottica hanno rovesciato la prospettiva che le Sezioni unite ritengono
giuridicamente corretta.
Hanno infine aderito all'orientamento che sanziona come nullo per difetto di
causa un contratto che sia propedeutico al "successivo stipulando preliminare"
senza verificare la sussistenza di una causa concreta dell'accordo dichiarato
nullo tale da renderlo meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, in quanto
inserito in una sequenza procedimentale differenziata, secondo un programma
di interessi realizzato gradualmente.
Discende da quanto sposto l'accoglimento del ricorso.
La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione
della Corte di appello di Napoli per nuovo esame dell'appello e la liquidazione
delle spese di questo giudizio.
Il giudice di rinvio si atterrà al seguente principio di diritto:
In presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare
che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto
preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito
deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso
contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e
2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione
dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento.
Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i
contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare,
soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una
formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti
negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi
coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare.
La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a
responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da
qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto
nella fase precontrattuale.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra
sezione della Corte di appello di Napoli, che provvederà anche sulla liquidazione
delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2014.
DATA DEPOSITO 6 MARZO 2015