Anno Accademico 2014-2015 Corso di Diritto Civile – M/Z ESERCITAZIONI 1) Cass. Civ., 19 giugno 2014, n. 14006 2) Cass. Civ., 19 giugno 2009, n. 14343 3) Cass. Civ., 28 gennaio 2013, n. 1874 4) Cass. Civ., Sez. Unite, 03 giugno 2013, n. 13905 Cass. Civ. ,03 aprile 2014, n. 7776 5) Corte di Giustizia, 21 gennaio 2015 6) Corte Cost., ord. 24 ottobre 2013, n. 248 Corte Cost., ord. 2 aprile 2014, n.77 7) Cass. Civ., 18 settembre 2009, n. 20106 Cass. Civ., 23 luglio 2014, n. 16787 8) Cass. Civ., Sez. Unite, 6 marzo 2015, n. 4628 Sentenza 19 giugno 2014 n. 14006 Sez. II CONTRATTI - CONTRATTO PRELIMINARE - Condizione sospensiva Mancato avveramento della condizione - Domanda di risoluzione per inadempimento - Ammissibilità - Esclusione - Motivi. Ente Giudicante: Cassazione Civile Presidente: Pres. GOLDONI Umberto; Rel. FALASCHI Milena avverso la sentenza della Corte d'appello di Perugia n. 140 depositata il 10 maggio 2007; Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 27 febbraio 2014 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi; uditi gli Avv.ti (......), per parte ricorrente, (......) e (......), per parti resistenti, nonché ricorrenti incidentali; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale della società cooperativa (......), assorbito il ricorso incidentale condizionato della società (......). Svolgimento del processo La ITALCOSTRUZIONI s.p.a. con due distinti contratti preliminari di compravendita stipulati il 3.4.1996 si impegnava ad acquistare dalla GESQUAR s.r.l. e dalla SEGIPA s.p.a., che si obbligavano a vendere, terreni siti nel Comune di (OMISSIS) aventi, rispettivamente, una superficie di mq. 28.000, il primo atto, e mq. 7.840, il secondo contratto, entrambi i contratti venivano sottoposti alla condizione sospensiva del rilascio, entro il 31.12.1996, di concessioni per la demolizione del fabbricato adibito a discoteca (nota come Quasar) e per la costruzione sui terreni oggetto del preliminare e su altri finitimi di un immobile con destinazione commerciale. Il successivo 4.4.1996 la ITALCOSTRUZIONI stipulava con LA RINASCENTE s.p.a. contratto preliminare di compravendita del centro commerciale condizionandolo alla realizzazione da parte della promittente venditrice sulla medesima area di cui ai preliminari del 3.4.1996. Nella stessa data LA RINASCENTE stipulava con la SEGIPA un preliminare di cessione di rami d'azienda - comprensivi di licenze commerciali - concluso il contratto definitivo nel luglio 1996. Con atto del 30.9.1996 I.E., in forza di mandato con rappresentanza della SEGIPA, concedeva alla PROMOS s.r.l. - o a soggetto cessionario da PROMOS - un'opzione per un preliminare avente ad oggetto la compravendita della medesima area, nel quale veniva indicato il vincolo assunto in favore della ITALCOSTRUZIONI, seppure erroneamente indicato quale diritto di opzione, da esercitarsi entro il 31.1.1997, senza possibilità di proroga; la opzione in favore della PROMOS era condizionata a che la SEGIPA non comunicasse, entro il 1.2.1997, che la ITALCOSTRUZIONI aveva esercitato la sua opzione. In data 16.12.1996 la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA prorogavano il termine per l'avveramento delle condizioni sospensive al 30.6.1997; altrettanto facevano LA RINASCENTE e la ITALCOSTRUZIONI 5 giorni dopo. Il 22.1.1997 l' I. comunicava alla PROMOS che l'opzione concessa era risolta per non avere la ITALCOSTRUZIONI rinunciato all'opzione, ma il 1.2.1997 la PROMOS cedeva la sua opzione alla PAC 2000, la quale ultima il 5.2.1997 comunicava alla SEGIPA di accettare la proposta di preliminare. Tanto premesso, con atto di citazione notificato il 5 febbraio 1997 la PAC 2000 evocava, dinanzi al Tribunale di Perugia, la SEGIPA, la PROMOS e l' I., chiedendo la pronuncia di trasferimento degli immobili, subordinatamente al versamento del residuo prezzo, corrisposto acconto per L. 100.000.000. Instaurato il contraddittorio, la SEGIPA eccepiva che l' I. aveva ecceduto i limiti del mandato, quanto alla indicazione di un rapporto diverso da quello realmente esistente con la ITALCOSTRUZIONI, e comunque alla PROMOS era stata data tempestiva notizia dell'efficacia del rapporto con la ITALCOSTRUZIONI, con lettera del 22.1.1997, e spiegava riconvenzionale per il risarcimento dei danni nei confronti sia della PAC 2000, sia della PROMOS, sia della ITALCOSTRUZIONI; la PROMOS deduceva di avere agito solo quale mandataria di PAC 2000, nei cui confronti svolgeva domanda riconvenzionale di manleva dall'azione di danni; l' I., infine, eccepiva il suo difetto di legittimazione passiva. A detto giudizio veniva riunita altra causa introdotta da LA RINASCENTE nei confronti della SEGIPA, della PROMOS, della PAC 2000, dell' I. e della ITALCOSTRUZIONI, con la quale parte attrice, dopo avere chiesto il sequestro conservativo dei beni della SEGIPA (peraltro richiesto, con analogo ricorso, anche dalla ITALCOSTRUZIONI), domandava la risoluzione di tutti i contratti che vedevano come controparti la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA, nonchè quelli stipulati tra la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA, con condanna della SEGIPA alla restituzione della somma di L. 600.000.000 versata in esecuzione del contratto di cessione dei rami d'azienda, nonchè la condanna di tutti i convenuti - esclusa la sola ITALCOSTRUZIONI - al risarcimento dei danni. In quest'ultimo giudizio si costituiva la ITALCOSTRUZIONI, chiedendo la risoluzione del preliminare del 3.4.1996 stipulato con la SEGIPA, oltre al risarcimento dei danni; nonchè la SEGIPA, la quale eccepiva la carenza di legittimazione attiva, per non essere LA RINASCENTE parte di alcuno dei contratti in questione, di cui era parte la SEGIPA, oltre a ribadire la domanda risarcitoria nei confronti della PAC 2000; quest'ultima, nel chiedere il rigetto della domanda attorea, assumeva di avere legittimamente esercitato il diritto di opzione una volta scaduto il termine concesso alla ITALCOSTRUZIONI per l'esercizio dell'opzione. Istruite le cause, la controversia veniva conciliata tra la PAC 2000 e LA RINASCENTE con la cessione alla prima dei diritti oggetto delle pretese avanzate in giudizio dalla seconda, che perciò diveniva concessionaria di LA RINASCENTE. Il Tribunale adito, dichiarata cessata la materia del contendere fra PAC 2000 e LA RINASCENTE, respingeva tutte le restanti domande proposte dalle parti. In virtù di rituale appello interposto dalla ITALCOSTRUZIONI, cui veniva riunito quello proposto dalla PAC 2000, la Corte di appello di Perugia, nella resistenza degli appellati SEGIPA ed I., respingeva i gravami e per l'effetto confermava la decisione impugnata. A sostegno della decisione adottata la corte territoriale evidenziava - preliminarmente esaminata l'impugnazione proposta dalla PAC 2000 - che andava condiviso il giudizio del giudice di prime cure quanto all'avere l' I. superato i limiti del mandato con procura nella stipulazione dell'opzione in favore della PROMOS, come si evinceva dal tenore del medesimo mandato, di cui alla scrittura del 20.1.1996, laddove era previsto che l'incarico conferito dovesse avere pieno rispetto di quanto pattuito dalla SEGIPA con la ITALCOSTRUZIONI, incarico che sarebbe cessato automaticamente nel caso in cui la ITALCOSTRUZIONE avesse esercitato la propria opzione nei termini convenuti, di nessuna rilevanza la data del 20.1.1997, verosimilmente legata alla scadenza, nell'anno precedente, di altro mandato rinnovato per un anno solare. Concludeva che non essendo riferibile l'opzione alla pretesa rappresentata, cadevano tutte le domande e gli ulteriori rilievi formulati dalla PAC 2000 circa la riferibilità alla SEGIPA dell'opzione dalla stessa esercitata. Quanto all'appello proposto dalla ITALCOSTRUZIONI, osservava la corte distrettuale che intrinsecamente contraddittorio si presentava il motivo relativo alla prospettazione secondo cui sarebbe bastato, ai fini dell'avveramento della condizione, l'ottenimento di un nulla osta per 2.400 mq., a fronte dei 5.800 mq. previsti nel preliminare, nel senso che avrebbe potuto dichiarare la sua volontà in tal senso alla SEGIPA, senza peraltro temere alcuna conseguenza dannosa, pur in presenza dell'azione della PAC 2000, dichiarazione che avrebbe avuto l'effetto di eliminare l'efficacia delle condizioni sospensive apposte ai contratti preliminari, rendendo immediatamente attuale l'obbligazione della SEGIPA di trasferire l'immobile. Concludeva che il contratto preliminare non aveva spiegato efficacia per il concorso di due sole circostanze: il mancato avveramento delle condizioni sospensive, da un lato, la volontà della promissaria acquirente di non rinunciare all'avveramento delle stesse; non essendo la prima circostanza frutto dell'attività dell' I. o della PROMOS, della PAC 2000 e della SEGIPA, non essendolo neppure la seconda, non era configurabile alcun rapporto di causa - effetto tra le condotte di questi soggetti e l'inefficacia del preliminare. Per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Perugia agisce la ITALCOSTRUZIONE, in base a cinque motivi, nonchè la PAC 2000, con ricorso affidato a due motivi, cui replica la SEGIPA s.r.l. con controricorso, proponendo anche ricorso incidentale articolando un unico motivo. Al ricorso incidentale della SEGIPA replica la ricorrente principale con controricorso. In data 27.6.2008 l'Avv.to Carlo De Marchis Gomez Borrero ha prodotto comunicazione L. 9 febbraio 1982, n. 31, ex art. 9, di attuazione della Direttiva Europea 77/249/CEE. La ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA hanno depositato memorie illustrative. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE Va preliminarmente disposta, ai sensi dell'art. 335 c.p.c., la riunione del ricorso principale e dei ricorsi incidentali siccome proposti avverso la stessa sentenza. In relazione ai due ricorsi autonomamente proposti, rispettivamente, dalla ITALCOSTRUZIONI e dalla PAC 2000 occorre osservare che, come è pacifico nella giurisprudenza di legittimità, per il principio dell'unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza, dopo la notifica del primo ricorso (principale) tutte le altre impugnazioni devono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e, perciò, nel caso del ricorso per cassazione, nell'atto contenente il controricorso indipendentemente dalla forma espressa dalla parte ed ancorchè proposto con atto a sè stante: tale modalità non è però essenziale, per cui si verifica la conversione di ogni ricorso successivo al primo in ricorso incidentale, la cui ammissibilità è condizionata al rispetto del termine di quaranta giorni (venti più venti), risultante dal combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c., indipendentemente dai termini (l'abbreviato e l'annuale) di impugnazione in astratto operativi. Detto termine decorre dall'ultima notificazione dell'impugnazione principale nel caso (come nella specie) in cui tale impugnazione sia stata notificata anche alla parte che propone l'impugnazione incidentale (Cass. 2 agosto 2002 n. 11602; Cass. 6 dicembre 2005 n. 26622). Nel caso in cui i ricorsi siano stati notificati nella stessa data, l'individuazione, tra essi, del ricorso principale e di quelli incidentali va effettuata con riferimento alle date di deposito dei ricorsi, considerandosi principale il ricorso depositato per primo e incidentale quello depositato successivamente. Nella specie i due ricorsi della ITALCOSTRUZIONI s.p.a. e della PAC 2000 soc. coop. a r.l., proposti come impugnazioni autonome, sono stati notificati, il primo, il 16 maggio 2008 ed il secondo il 16 giugno 2008, oltre ad essere stati depositati in differente data, per cui va considerato come principale quello della ITALCOSTRUZIONI, mentre quello della PAC 2000 si converte in ricorso incidentale, al pari di quello della SEGIPA, espressamente definito come tale dalla stessa parte. Venendo ora all'esame del ricorso principale, con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1358 e 1458 c.c., in relazione ai principi generali che presiedono al rapporto tra tutela giurisdizionale ed effetti del contratto preliminare condizionato, per avere la corte di merito ritenuto che il mancato avveramento della condizione sospensiva, avveramento al quale era subordinata la efficacia del contratto preliminare stipulato fra la ITALCOSTRUZIONI e la SEGIPA, nonchè quello collegato intercorso fra la prima e RINASCENTE, abbia privato di ogni effetto il contratto medesimo, sull'erroneo presupposto che solo il consolidamento della efficacia di tale contratto fosse compatibile con le domande di ITALCOSTRUZIONI. Ad avviso della ricorrente la soluzione offerta dalla sentenza impugnata postulerebbe che i contraenti "sotto condizione sospensiva" sarebbero dispensati dalla osservanza dei propri obblighi e dall'esercizio dei propri diritti, tesi che colliderebbe con il disposto dell'art. 1358 c.c.. Infatti se l'obbligo di comportarsi secondo buona fede caratterizza il periodo di pendenza, ogni valutazione circa l'osservanza o la violazione di tale obbligo deve prescindere dalla questione dell'avveramento della condizione medesima. A conclusione del mezzo è posto il seguente quesito di diritto: "dica la Corte se la domanda di risoluzione che postuli, quale inadempimento di contratto preliminare sotto condizione sospensiva, la creazione, da parte del promittente venditore, di situazioni giuridiche in capo a terzi incompatibili con le legittime aspettative del promissario acquirente, sia autonomamente valutabile quale fattispecie di inadempimento indifferente al successivo mancato avveramento della condizione". Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatto controverso e decisivo per il giudizio quanto alla clausola contenuta al punto 7) del contratto preliminare ITALCOSTRUZIONI - SEGIPA, laddove la promittente venditrice dichiara e afferma di garantire che quanto oggetto del contratto è nella sua piena ed esclusiva disponibilità, esente da oneri, vincoli e diritti di terzi in genere, da cui la promissaria acquirente vorrebbe far discendere una obbligazione attuale della SEGIPA, immediatamente produttiva di effetti, non condizionata a sua volta. Chiarisce la ricorrente principale che il fatto controverso e decisivo attiene alla produzione di effetti (immediati o viceversa dilazionati nel tempo) del contratto preliminare (sospensivamente) condizionato intercorso tra ITALCOSTRUZIONI e SEGIPA, per avere la corte di merito ritenuto che una volta non avveratasi la condizione, il contratto preliminare fosse totalmente improduttivo di effetti. Infatti a corollario del mezzo formula il seguente momento di sintesi (omologo del quesito di diritto): "il Giudice di appello ha omesso di considerare la clausola (di cui al punto 7) del contratto inter partes Italcostruzione - Segipa la quale, in accordo con le norme di legge, profila un diritto di Italcostruzioni al quale corrisponde una obbligazione di Segipa già attuale (i.e.: immediatamente produttiva di effetti)". Con il terzo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione dell'artt. 1356 e 1458 c.c., per avere la corte di merito ritenuto che la Italcostruzioni non poteva pretendere alcunchè una volta accertato il mancato avveramento della condizione prevista in preliminare. Aggiunge la ricorrente che erroneamente la corte territoriale avrebbe obliterato la circostanza che nel momento in cui era stata adottata la delibera della Giunta Regionale n. 5713/1997 essa aveva perso interesse all'avveramento della condizione. In sintesi, la corretta interpretazione dell'art. 1356 c.c. quale norma conferente tutela giurisdizionale in presenza di condizione sospensiva, rapportata al caso di specie, conduce alla formulazione del seguente quesito di diritto: "dica la Corte se il successivo mancato avveramento della condizione sospensiva si rifletta sulla esperibilità dell'azione risolutivo risarcitoria, motivata alla alterazione unilaterale dello status del bene promesso ed esercitata dal promissario acquirente in pendenza della condizione". I primi tre motivi di ricorso principale vanno esaminati congiuntamente, stante la loro connessione in merito alla definizione dei confini della clausola generale di buona fede nei rapporti contrattuali. Essi sono infondati. La sentenza impugnata è, infatti, del tutto corretta e si sottrae alle critiche di cui è stata oggetto. Bisogna premettere che, come è noto, il contratto sottoposto a condizione sospensiva si perfeziona immediatamente ma è inefficace fino a quando la condizione non si avvera: il negozio esiste - esistendo i suoi elementi strutturali - ma non è ancora efficace e solo con il verificarsi della condizione spiega la sua efficacia ex tunc, mentre cessa di esistere se la condizione non si avvera. Così, ad esempio, nella vendita è differito non solo il trasferimento ma ogni effetto (finale) tipico del negozio. L'efficacia di tale contratto è paralizzata durante la pendenza del termine per il verificarsi della condizione. Durante il detto periodo di pendenza - su cui retroagiscono l'avveramento o il mancato avveramento della condizione - le parti si trovano in una posizione di aspettativa che è fonte di effetti preliminari. In particolare, in pendenza della condizione sospensiva, il contratto a prestazioni corrispettive produce i suoi normali effetti e vincola i contraenti al puntuale ed esatto adempimento delle obbligazioni rispettivamente assunte: la condizione, infatti, rende incerto il negozio, ma è già fermo ed irrevocabile il vincolo negoziale. Nessun effetto riferito alla situazione finale può però verificarsi finchè dura la pendenza salvo alcune eccezioni derivanti dall'applicazione dei principi ricavabili dalle disposizioni dettate dall'art. 1358 c.c.: da dette disposizioni è possibile individuare il contenuto delle aspettative delle parti del contratto condizionato, ossia delle situazioni soggettive che nascono dal contratto condizionato. Tale contratto fa sorgere diritti ed obblighi preliminari che possono dar luogo a risoluzione per inadempimento alla specifica obbligazione - prevista dal citato art. 1358 c.c. - di ciascun contraente di comportarsi in pendenza della condizione "secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte", cioè di osservare i doveri di lealtà e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., in modo da non influire sul verificarsi dell'evento condizionante pendente. Al riguardo questa Corte ha avuto modo di precisare che il contratto pur inefficace per il mancato avveramento della condizione, può essere risolto in danno della parte colpevole di aver violato il dovere di comportarsi in buona fede: è di conseguenza ammissibile la risoluzione - di un contratto divenuto inefficace per il mancato avveramento della condizione - per inadempimento dell'obbligo di comportarsi, in pendenza della condizione, secondo buona fede nonchè di astenersi da quanto possa pregiudicare gli interessi dell'altro contraente e di compiere quanto sia del caso necessario affinchè l'evento condizionante si verifichi (in tali sensi, tra le tante, Cass. 22 marzo 2001 n. 4110 e Cass. 18 marzo 2002 n. 3942). Il contratto sottoposto a condizione sospensiva, quindi, può ritenersi perfettamente concluso e, anche se non ancora efficace, già produce obbligazioni preliminari o prodromiche - da osservarsi dai contraenti durante la pendenza della condizione - il cui inadempimento può dar luogo ad una responsabilità contrattuale e ad una pronuncia di risoluzione per mancato rispetto degli obblighi di cui al citato art. 1358 c.c.. Nella specie, però, la violazione degli obblighi assunti dalle promittenti venditrici con i rispettivi contratti preliminari, sottoposti a condizione sospensiva, non ha comportato secondo l'incensurabile valutazione in fatto operata dalla corte di merito con ineccepibile e congrua motivazione - un danno irrimediabile alla promissaria acquirente e la menomazione delle ragioni di quest'ultima, nè ha avuto alcuna incidenza sul mancato verificarsi della condizione e sulla definitiva inefficacia del contratto (non attribuibile a colpa delle promittenti alienanti che non avevano impedito o ostacolato il verificarsi dell'evento condizionante), nonchè sulla connessa caducazione di tutti i contratti a detto accordo collegati, divenuti incompatibili con la definitiva inefficacia dei primi due negozi, compresa l'opzione per un preliminare concordata dall' I. (in forza di mandato con rappresentanza della SEGIPA) a favore della PROMOS o soggetto cessionario di quest'ultima, operativa solo se la condizione sospensiva si fosse verificata, non esercitati dalla Italcostruzioni i diritti nascenti dai preliminari stipulati. Quindi, al di fuori delle ipotesi di cui all'art. 1358 c.c., l'eventuale domanda di risoluzione per inadempimento delle obbligazioni rispettivamente assunte dalle parti con il contratto sottoposto a condizione sospensiva deve essere rigettata nel caso in cui la condizione non si sia verificata. Intanto si può parlare di inadempimento contrattuale in quanto sussista un contratto efficace: il mancato avveramento della condizione impedisce al contratto di produrre i propri effetti con conseguente impossibilità di parlare di inadempimento. Peraltro le argomentazioni svolte dal giudice del gravame quanto al mancato avveramento della condizione vanno lette in collegamento con l'accertamento contenuto nella sentenza relativamente al motivo di appello per il quale sarebbe bastato l'ottenimento del nulla osta per 2.400 mq., a fronte dei 5.800 mq. previsti nel contratto preliminare, per determinare l'efficacia dell'accordo, richiamato a pagg. 15 e 16 della decisione impugnata secondo cui la Italcostruzione, dopo aver appreso del rilascio del nulla osta per la minore superficie, avrebbe dovuto esprimere la volontà di dare comunque corso al preliminare. Orbene, come è stato affermato da questa Corte, colui che si è obbligato o ha alienato un bene sotto la condizione sospensiva del rilascio di determinate autorizzazioni amministrative necessarie per la realizzazione delle finalità economiche che l'altra parte si propone, ha il dovere di compiere, per conservarne integre le ragioni, comportandosi secondo buona fede (art. 1358 c.c.), tutte le attività che da lui dipendono per l'avveramento di siffatta condizione, in modo da non impedire che la P.A. provveda sul rilascio delle autorizzazioni; con la conseguenza che deve rispondere delle conseguenze dell'inadempimento di questa sua obbligazione contrattuale nei confronti dell'altra parte, alla quale è possibile chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento dei danni conseguenti, da accertare secondo il criterio della regolarità causale, che consente di riconoscere il danno nel caso in cui (avuto riguardo alla situazione di fatto esistente nel momento in cui si è verificato l'inadempimento) debba ritenersi che la condizione avrebbe potuto avverarsi, essendo possibile il legittimo rilascio delle autorizzazioni amministrative con riguardo alla normativa applicabile (Cass. 2 giugno 1992 n. 6676; Cass. 15 giugno 2011 n. 13099). E' evidente che tale giudizio deve essere condotto verificando se sussistessero circostanze tali da fare ragionevolmente presumere che il procedimento amministrativo avrebbe avuto esito favorevole. In altri termini, nell'ipotesi di cui all'art. 1359 c.c., il giudice deve indagare se l'inadempimento sia imputabile al debitore e deve esaminare il comportamento dell'obbligato potendo dichiarare la risoluzione del contratto solo se sussista la colpa di quest'ultimo per il mancato avveramento della condizione. Si tratta di attività di accertamento preclusa nella specie per avere la stessa ricorrente principale riconosciuto che il rilascio di autorizzazione era intervenuto per la realizzazione di un centro commerciale di estensione ben inferiore rispetto a quella prevista in contratto, con conseguente definitiva inefficacia del negozio medesimo (per il mancato verificarsi della condizione sospensiva) e cessazione dell'esistenza del contratto, nonchè di tutte le relative pattuizioni. Del resto per potere essere riconosciuto il risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, in ipotesi di violazione del generale canone della buona fede, in presenza di contratto sottoposto a condizione sospensiva, occorre fornire la prova non solo di una condotta negligente e dell'esistenza di danni, ma anche di un nesso di causalità, ossia dell'incidenza della prima nella produzione dei secondi, non potendo certo il risarcimento essere riconducibile al mero non avveramento della condizione. E nella specie la corte di merito ha positivamente accertato che l'unico comportamento colpevole era stato quello dell' I., che comunque non aveva inciso sul mancato avveramento della condizione. Deve poi essere segnalato - con riferimento alle censure relative al lamentato errore che sarebbe stato commesso dalla corte di appello nell'interpretare le clausole del contratto preliminare in questione e nell'obliterarne il contenuto e la portata - che costituisce principio comunemente recepito quello secondo cui, in tema di interpretazione dei contratti e delle clausole contrattuali, l'accertamento della volontà dei contraenti si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di insufficienza o contraddittorietà di motivazione tale da non consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, ovvero per il caso di violazione delle regole ermeneutiche. Pertanto in questa sede di legittimità la censura dell'interpretazione data dal giudici di merito al contratto ed alle clausole che lo compongono, può essere formulata sotto due distinte angolazioni: denunciando l'errore di diritto sostanziale per non essere state rispettate le regole di ermeneutica dettate dall'art. 1362 c.c. e ss.; ovvero investendo la coerenza formale del ragionamento attraverso il quale la sentenza impugnata è pervenuta a ricostruire la comune intenzione delle parti. E' infine compito del giudice del merito valutare il contenuto del contratto al fine di identificarne l'oggetto: il risultato di tale indagine è soggetto al sindacato della cassazione solo sotto il profilo della logicità e della congruità della motivazione. Nella specie la corte di appello ha esaminato i principali obblighi assunti dalle parti ed ha evidenziato gli aspetti più rilevanti e caratterizzanti dei contratti in questione con riferimento alla previsione della condizione sospensiva, agli obblighi assunti dai promittenti venditori, all'individuazione dell'assetto degli interessi perseguiti dai contraenti con il regolamento negoziale. All'esito di tale indagine e di tale attività interpretativa la corte territoriale, prendendo le mosse dall'esame dei fatti e delle risultanze istruttorie, ha coerentemente concluso affermando che i promittenti alienanti non avevano violato l'obbligo di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte, nè la loro condotta aveva reso impossibile la stipula del contratto definitivo di vendita. La corte distrettuale è pervenuta alle riportate conclusioni attraverso argomentazioni complete ed appaganti nonchè improntate a retti criteri logici e giuridici. Il giudice di appello ha dato conto delle proprie valutazioni, circa i riportati accertamenti in fatto, esponendo adeguatamente le ragioni del suo convincimento. Alle dette valutazioni la ricorrente principale contrappone le proprie, ma della maggiore o minore attendibilità di queste rispetto a quelle compiute dal giudice del merito non è certo consentito discutere in questa sede di legittimità, ciò comportando un nuovo autonomo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione. Dalla motivazione della sentenza impugnata risulta chiaro che la corte di appello, nel porre in evidenza gli elementi favorevoli alle tesi delle promittenti venditrici, ha implicitamente espresso una valutazione negativa delle contrapposte tesi della promissaria acquirente. Sono pertanto insussistenti gli asseriti vizi di motivazione e le dedotte violazioni di legge che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito. In particolare le dette censure - con le quali la società ricorrente mira ad ottenere un riesame del merito circa l'interpretazione del contratto stipulato dalle parti tenendo conto della volontà comune dei contraenti - risultano inammissibili in quanto volte ad una rivalutazione dei fatti di causa non consentita nel giudizio di cassazione: in effetti i rilievi al riguardo mossi dalla ITALCOSTRUZIONI urtano contro valutazioni ed apprezzamenti di merito che, in quanto sorretti da adeguata e coerente motivazione, si sottraggono a qualsiasi critica in questa sede. Con il quarto motivo viene dedotta la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, giacchè essendo pacifico che la condizione de qua era stata in contratto a solo favore della Italcostruzioni, la corte di appello rimprovera alla ricorrente principale di non avere formalmente dichiarato alla controparte la sua volontà di dare per avverate le condizioni che erano poste a suo unico interesse. Giudizio che viene definito dalla ricorrente principale intensamente contraddittorio per avere la stessa agito per la risoluzione del contratto e non già per il suo adempimento. Viene indicato il seguente momento di sintesi: "il giudice di appello ha omesso di considerare che, proponendo la domanda giudiziale di risoluzione, Italcostruzioni aveva mostrato in maniera univoca di non avere più interesse all'effetto legato all'avveramento della condizione". Con il quinto motivo la ricorrente principale nel denunciare la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione censura la decisione impugnata laddove ha ritenuto neutra l'azione intrapresa dalla PAC 2000 rispetto alle aspirazioni e agli interessi della Italcostruzioni, giacchè se fosse stata accolta avrebbe posto nel nulla il suo titolo. Aggiunge la ricorrente che comunque detta azione costituiva un vulnus nell'affidamento sull'assetto dei diritti in gioco provocato dalla creazione (da parte della Segipa) di pretese in capo a terzi e delle iniziative giudiziarie che ne erano scaturite. L'illustrazione del mezzo pone a conclusione il seguente momento di sintesi: "il Giudice di appello ha contraddittoriamente ed illogicamente affermato che, se Italcostruzioni avesse dichiarato di rinunziare alla condizione non avrebbe avuto da temere alcuna conseguenza dannosa, pur in presenza dell'azione della Pac (quando l'azione della Pac, se accolta, avrebbe in ogni caso condotto alla nullificazione del titolo di Italcostruzioni). Il Giudice di appello ha contraddittoriamente ed illogicamente affermato ancora che, gravato l'immobile dalla trascrizione della domanda giudiziale della PAC, liberarlo sarebbe stato onere della venditrice Segipa". Anche gli ulteriori motivi del ricorso principale - che vanno trattati congiuntamente per la contiguità argomentativa - non sono da accogliere, perchè si basano sul fraintendimento del senso delle affermazioni che censurano. La Corte d'appello, infatti, ha accertato, nel respingere l'impugnazione della Italcostruzioni, che l'inefficacia del contratto preliminare di compravendita era dipeso dal mancato avveramento della condizione sospensiva, la quale non si era realizzata per fatti non riferibili a parte promittente venditrice. Di qui la conclusione secondo cui la condotta della SEGIPA non poteva essere considerata contraria a buona fede, essendo inidonea, ai sensi dell'art. 1453 c.c., a legittimare la proposizione della domanda di inadempimento. Ciò posto, si osserva che, nell'ambito di tale percorso argomentativo, l'ulteriore rilievo contenuto in sentenza, secondo cui "L'Italcostruzioni - se fosse stata interessata effettivamente all'acquisto del terreno in assenza delle autorizzazioni contemplate nel contratto - avrebbe potuto dichiarare la sua volontà alla Segipa, senza temere nessuna conseguenza dannosa, pur in presenza dell'azione della PAC", è svolto chiaramente ad abundantiam, e non incide sulla reale ratio decidendi, che è rappresentata dall'acclarata conformità a buona fede del comportamento tenuto dalla promittente venditrice, tale da non legittimare la proposizione della domanda di inadempimento. Orbene, costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censuri una argomentazione della sentenza impugnata svolta ad abundantiam e che, pertanto, non costituisce una ratio decidendi della medesima. Una affermazione, infatti, contenuta nella motivazione della sentenza di appello, che non abbia spiegato alcuna influenza sul dispositivo della stessa, essendo improduttiva di effetti giuridici, non può essere oggetto di ricorso per cassazione, per difetto di interesse (tra le tante v. Cass. 22 novembre 2010 n. 23635; Cass. 19 febbraio 2009 n. 4053; Cass. 5 giugno 2007 n. 13068; Cass. 14 novembre 2006 n. 24209; Cass. 23 novembre 2005 n. 24591). Passando all'esame del ricorso (convertito, a seguito di riunione, in incidentale) proposto dalla PAC 2000, il primo ed il secondo motivo, con i quali viene denunciato il difetto di esame, illogicità manifesta e contraddittorietà su punti decisivi della controversia, in particolare viene criticato l'assunto del giudice di appello secondo cui la priorità della trattativa con Italcostruzioni dovesse vincolare il mandatario oltre il limite cronologico del 31.12.1996 previsto e pattuito nel contratto preliminare prioritario, nonchè mancato esame della circostanza secondo la quale la dedotta prorogabilità del preliminare non era a lei opponibile per difetto di data certa, patto che peraltro non era sottoposto a registrazione, indicano quali punti decisivi: "se la priorità degli accordi raggiunti tra la società mandante e la promittente acquirente implichi o meno, in difetto di esplicito patto, la prorogabilità dei termini fissati negli accordi stessi"; "se la eccezione di difetto di opponibilità del patto di proroga privo di data certa meritasse, o meno, di essere esaminata e valutata ai fini della congrua valutazione delle domande avanzate da PAC 2000 nei confronti di Segipa". Tali motivi sono inammissibili per sopravvenuta carenza di interesse. Come emerge chiaramente dal contenuto della sentenza impugnata dianzi sintetizzato (cfr., supra, Svolgimento del processo), la reiezione della domanda di risoluzione del preliminare di compravendita si fonda sulla ratio decidendi, idonea, di per se sola, a sorreggerla, della inefficacia definitiva del contratto per mancata realizzazione della condizione sospensiva. E' da sottolineare che tale decisum non risulta sindacato, per cui sono inammissibili le censure relative alle singole ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l'intervenuta definitività della pronuncia, alla cassazione della decisione stessa (Cass. 24 maggio 2006 n. 12372; Cass. 16 agosto 2006 n. 18170; Cass. 29 settembre 2005 n. 19161). Infine la censura posta a fondamento dei due motivi del ricorso incidentale (formulato in via condizionata) della SEGIPA (con cui lamenta che il giudice del gravame non abbia tenuto conto della sua eccezione di inammissibilità relativa al fatto che la Italcostruzioni aveva introdotto la medesima domanda prima con comparsa di costituzione e risposta del 4.6.1997 nel giudizio introdotto da RINASCENTE e poi con atto introduttivo autonomo della stessa Italcostruzioni notificato il 14.10.2003) è assorbita dal rigetto del ricorso principale. Conclusivamente, il ricorso principale e quello incidentale della PAC 2000 vanno rigettati, con assorbimento di quello incidentale condizionato della SEGIPA. Stante la complessità della vicenda in fatto, ricorrono giusti motivi per dichiarate interamente compensate fra le parti le spese del giudizio di legittimità. PQM La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta quello principale e quello incidentale della PAC 2000, assorbito quello incidentale condizionato della SEGIPA; dichiara interamente compensate fra tutte le parti le spese del giudizio di Cassazione. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 27 febbraio 2014. DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 19 GIUGNO 2014 Sentenza 19 giugno 2009 n. 14343 Sez. III LOCAZIONE - DISCIPLINA DELLE LOCAZIONI DI IMMOBILI URBANI (LEGGE 27 LUGLIO 1978 N. 392, COSIDDETTA SULL'EQUO CANONE) PATTI CONTRARI ALLA LEGGE - Clausola di contratto di locazione relativa alla previsione cumulativa del divieto di sublocazione e di ospitalità non temporanea di terzi - Nullità Sussistenza - Fondamento. Ente Giudicante: Cassazione Civile Presidente: Pres. VITTORIA Paolo; Rel. D'AMICO Paolo SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso in riassunzione depositato il 20.3.1998 l'INPDAI agiva nei confronti di L.D.B. e B.D. esponendo di essere proprietario di un appartamento sito in (......), concesso in locazione abitativa alla L.. Precisava l'attore che da tempo quest'ultima non occupava più l'immobile e che, in contrasto con quanto disposto dal contratto di locazione, ne aveva ceduto il godimento alla B.. Tanto premesso parte attrice chiedeva dichiararsi risolto il contratto di locazione concluso con L.D.B.; dichiararsi la B. occupante senza titolo dell'immobile; condannarsi la L. e la B. al rilascio dell'appartamento ed al pagamento dell'indennità di occupazione, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio. Mentre B.D. rimaneva contumace, L.D.B. resisteva alla domanda sostenendo di aver avuto e di avere ancora la disponibilità dell'immobile; che lì era indirizzata la sua corrispondenza e lì era telefonicamente rintracciabile; che la B. era stata soltanto un'ospite; che i propri impegni lavorativi e familiari ne rendevano discontinua la presenza nell'appartamento; che le modalità di godimento della cosa locata appartenevano ad una dimensione sua personale non sindacabile in alcun modo dal locatore. La convenuta non negava dunque d'aver ospitato la B., nè d'aver abitato in modo non continuativo l'appartamento; sosteneva però di non averlo mai abbandonato e concludeva per il rigetto dell'avversa pretesa sostenendo: a) l'inefficacia della clausola 15 del contratto nella parte in cui vieta "di ospitare non temporaneamente persone estranee al nucleo familiare anagrafico", in quanto la clausola stessa non era stata specificamente approvata per iscritto ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2, art. 1342 c.c. e art. 1469 quinquies c.c., ed era da presumere vessatoria a norma dell'art. 1469 bis c.c., n. 18; b) la nullità della medesima clausola in quanto tesa a limitare "anche la libertà personale, delle relazioni personali e del domicilio, in contrasto con l'art. 3 Cost., comma 2, artt. 13 e 14 Cost.". La ricorrente precisava infine che nessun danno era stato comunque cagionato all'ente ricorrente. Con sentenza n. 36653/2000 il Tribunale di Roma, disattesa l'eccezione di nullità della clausola 15 del contratto inter partes; ritenuta inapplicabile in quanto posteriore al contratto de quo la norma dell'art. 1469 bis c.c.; ritenuta sussistente la perdurante violazione, per circa un quinquennio, della suddetta clausola; rilevata la sussistenza degli estremi per la risoluzione del rapporto ed il risarcimento del danno, così provvedeva: 1) dichiarava risolto per effetto di clausola risolutiva espressa il contratto di locazione concluso tra l'INPDAI e L.D. B.; 2) dichiarava B.D. occupante senza titolo dell'immobile; 3) condannava L.D.B. e B.D. al rilascio in favore dell'INPS dell'appartamento; 4) condannava L.D.B. e B.D. in solido al risarcimento dei danni da liquidare in separato giudizio. Proponeva appello la sola L.B. talchè la sentenza passava in giudicato per la B.. L'appellante insisteva sull'eccezione di nullità della clausola contrattuale ex art. 15, non approvata ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2 e comunque ritenuta in contrasto con la norma dell'art. 1469 bis c.c. considerato applicabile al caso anche se posteriore alla stipulazione del contratto; negava che sussistessero gli estremi per la risoluzione del contratto; deduceva la mancanza di prova del danno considerato del tutto inesistente. Resisteva l'INPDAI. A seguito della soppressione dell'INPDAI da parte della L. n. 289 del 2002 e della successione a titolo universale dell'INPS nei relativi rapporti, la causa era interrotta e quindi riassunta nei confronti dello stesso INPS che però non si costituiva. La Corte d'appello, in accoglimento del gravame ed a parziale riforma dell'impugnata sentenza: a) rigettava la domanda di risarcimento danni nei confronti dell'appellante; b) confermava per il resto la sentenza impugnata. Proponeva ricorso per cassazione L.D.B.. Resisteva con controricorso e proponeva ricorso incidentale l'INPS e per esso la Romeo Gestioni s.p.a.. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - Ricorso principale e ricorso incidentale, rivolti contro la stessa sentenza, debbono essere decisi insieme. Il primo è fondato, non lo è l'altro. 2. - L'art. 15 del contratto di locazione dispone che "E' fatto assoluto divieto, sotto comminatoria di risoluzione di diritto del presente contratto e pagamento integrale del deposito cauzionale, e salvo il diritto al risarcimento dei maggiori danni subiti, di sublocare i beni locati anche in parte o di cedere il contratto, sia a titolo oneroso che gratuito, con o senza mobili. Detto divieto è esteso anche al caso in cui i sublocatari risultino affini del conduttore. E' altresì vietato, sotto le comminatorie tutte sopra riportate, ospitare non temporaneamente persone estranee al nucleo familiare anagrafico, quale risulta essere indicato all'atto della stipula del contratto. I divieti sono validi ed operanti anche se l'Istituto non pone in essere atti diretti a farli rispettare". L'impugnata sentenza ha ritenuto valida ed efficace tale clausola perchè, secondo la corte d'appello, a) è connaturale alla locazione, specie abitativa, essendo quest'ultima un rapporto fondato sull'intuitus personae; b) si colloca nella fisiologia del contratto di locazione e non può pertanto considerarsi, ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2 vessatoria e soggetta a specifica approvazione per iscritto. Anzi, prosegue la sentenza, un'ospitalità protratta per un lungo lasso di tempo finisce per assumere i caratteri della sublocazione invito domino in conflitto con la L. n. 392 del 1978, art. 2 (seppure non con l'art. 1594 c.c.). Data l'anteriorità della clausola in esame rispetto alla data di entrata in vigore dell'art. 1469 bis c.c. non è conferente, si ritiene infine, il richiamo a quest'ultima disposizione (Cass., 17.7.2003, n. 11200). Le tesi della corte d'appello sono contestate da L.D. B., con il ricorso principale in cui sono svolti tre motivi nei quali si denunzia rispettivamente: 1) "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1571 e 1587 c.c., L. n. 392 del 1978, art. 2, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5"; 2) "Violazione e falsa applicazione degli artt. 1341, 1342, 1469 bis, 1469 quinquies c.c., anche in combinato disposto con l'art. 3 Cost., comma 2, artt. 13 e 14 Cost., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Omessa e contraddittoria motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5"; 3) "Omessa pronuncia sul contrasto, immediato o mediato, del regime convenzionale (art. 15 del modulo contrattuale I.N.P.D.A.I./ L.) con l'art. 3 Cost., comma 2, artt. 13 e 14 Cost., in relazione, all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 e omessa motivazione in relazione all'art. 360 c.p.c. n. 5". Con il primo motivo la ricorrente critica in particolare la tesi secondo la quale il rapporto di locazione "si fonda sull'intuitus personae" e il ritenuto carattere "connaturale alla locazione" del contenuto della clausola n. 15. Secondo la ricorrente le affermazioni della corte d'appello sono apodittiche e controvertibili e quest'ultima ha erroneamente postulato l'equivalenza fra "ospitalità protratta" e "sublocazione", inferendone l'estensione alla ospitalità del divieto di sublocazione non parziale di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 2. Tale equivalenza (fra "ospitalità protratta" e "sublocazione"), prosegue la ricorrente, è smentita dall'insegnamento dalla stessa Cassazione secondo la quale il titolo dell'occupazione (sublocazione, comodato, ospitalità) è tanto rilevante da essere materia di prova. Con il secondo motivo la L. critica ancora la corte d'appello per essersi questa "sbarazzata" della disciplina dei "contratti col consumatore", contenuta nel capo 14 bis c.c. (ed ora nel "Codice del consumo"), e ritiene che nessun dubbio può sussistere circa l'applicabilità degli artt. 1469 bis e 1469 quinquies c.c. ad un contratto di locazione stipulato fra un ente (I.N.P.D.A.I) che gestisce il proprio patrimonio immobiliare ricorrendo a modalità di contrattazione in serie e per adesione ed un privato (L.) il quale, sottostando a condizioni contrattuali unilateralmente predisposte dalla controparte, si procura l'accesso ad un bene fondamentale della vita quale l'abitazione. Con il terzo motivo la ricorrente segnala infine la mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato in relazione all'omessa pronuncia sul conflitto tra l'art. 15 del contratto e la disciplina costituzionale; e sostiene che la clausola contrattuale in forza della quale è stata confermata la risoluzione pronunciata in prime cure è priva d'effetto perchè in diretto contrasto con le norme della costituzione citate nell'epigrafe del motivo in esame. Orbene, ai fini del decidere si deve escludere che la clausola in discussione -che equipara la prolungata ospitalità a sublocazione -sia riconducibile ad alcuna delle figure previste dall'art. 1341 c.c.. Nè al caso si può ritenere applicabile la norma dettata dall'art. 1469 bis c.c. introdotto con L. 6 febbraio 1996, n. 52, perchè la disposizione è priva di effetto retroattivo e non si applica ai negozi conclusi in epoca antecedente alla sua entrata in vigore, stante il generale principio di irretroattività della legge (Cass. 23.12.2004 n. 23965; Cass. 17.7.2003 n. 11200; Cass. 29.11.1999 n. 13339). Tanto premesso, ritenuti non applicabili gli artt. 1341 e 1469 bis c.c., la disciplina della fattispecie per cui è causa va ricercata nell'ordinamento unitariamente considerato, quale insieme di fonti eterogenee ma reciprocamente armonizzate seppur non in senso paritario bensì secondo un rigoroso rapporto gerarchico al cui vertice è la costituzione che, in modo diretto o indiretto, assegna a ciascuna di esse la propria funzione normativa. In tale struttura gerarchica una posizione preminente hanno quelle norme che attengono ai valori inviolabili della persona umana ed il cui dettato non si esaurisce in formule meramente programmatiche, ma è dotato d'un valore precettivo che le rende direttamente applicabili anche ai rapporti intersoggettivi (Cass. 15.7.2005 n. 15022; Cass. 31.5.2003, n. 8828; Cass. 31.5.2003, n. 8827). In questo quadro, come i osserva in dottrina, l'autonomia negoziale non può essere disancorata dalla natura degli interessi sui quali una data disposizione è destinata ad incidere. E poichè ogni interesse è correlabile ad un valore, attraverso l'analisi degli interessi si dovrà individuare quali fra essi estrinsecano valori che hanno nella Carta costituzionale il loro riconoscimento e la loro tutela. In altri termini, il fondamento costituzionale dell'autonomia negoziale va individuato alla luce di molteplici supporti normativi, in ragione della natura degli interessi affidati alle singole esplicazioni di autonomia e dei valori costituzionali ai quali questi interessi sono riconducibili. I fondamenti costituzionali dell'autonomia negoziale offrono all'interprete le indispensabili coordinate, alle quali attingere per esprimere sui singoli e concreti atti di autonomia quei giudizi di valore che l'ordinamento affida loro. Ci si riferisce ai controlli di "meritevolezza di tutela degli interessi" (art. 1322 c.c.) e di "liceità" (spec. art. 1343 c.c.) che devono essere condotti, per quanto qui interessa, alla stregua dell'art. 2 Cost. il quale tutela i diritti inviolabili dell'uomo e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. Quest'ultima, supremo principio costituzionale, esprime cooperazione e si caratterizza per una valenza etica, identificandosi con un "ideale di partecipazione piena all'altrui vicenda" che non può non assumere aspetti di reciprocità. La persona è inseparabile dalla solidarietà che non può essere pertanto limitata alla sfera dei rapporti economici dato che il principio solidaristico, oltre a svolgere una funzione emancipatoria ed a garantire l'adempimento dei doveri del singolo verso la comunità, assume rilevanza anche nell'ambito dei rapporti interindividuali. In altre parole, il principio solidaristico non è più soltanto caratterizzato in senso economico, rivolto a scopi nazionalistici, di efficientismo del sistema o di aumento della produttività, ma ha fini ad un tempo politici, economici, sociali. Nell'art. 2 Cost. (oltre che negli artt. 29 e 30 cost.) trovano così il loro sostegno le esplicazioni di autonomia, a contenuto patrimoniale e non, che hanno la loro ragion d'essere nella famiglia (ad es., accordi sull'indirizzo della vita familiare, convenzioni matrimoniali, contratti stipulati nell'interesse della famiglia), alla quale è devoluto l'essenziale compito di realizzare le istanze più profonde della persona. Alla stregua di queste premesse deve rilevarsi che i divieti di cui all'art. 15 del contratto di locazione confliggono proprio con l'adempimento dei doveri di solidarietà che si può manifestare attraverso l'ospitalità offerta per venire incontro ad altrui difficoltà e possono altresì confliggere con la tutela dei rapporti sia all'interno della famiglia fondata sul matrimonio sia di una convivenza di fatto tutelata in quanto formazione sociale, o con l'esplicazione di rapporti amicizia. D'altra parte, considerato il superamento del tradizionale modo di intendere i diritti della personalità e l'esigenza di tutelare la vita privata dall'altrui ingerenza, è lecito individuare nella clausola generale di cui all'art. 2 Cost. una tutela contro le lesioni della personalità che si potrebbero verificare anche attraverso l'intrusione nelle mura domestiche del conduttore. E una tale violazione certo consente l'art. 15 Cost. attraverso quei possibili controlli sullo svolgimento di relazioni individuali all'interno dell'immobile, finalizzati ad impedire forme di ospitalità non temporanea. In conclusione, per le ragioni sin qui esposte, rilevato il contrasto fra il suddetto art. 15 Cost. e la disciplina dell'art. 2 Cost. il ricorso principale è fondato. 3. - Si deve allora esaminare il ricorso incidentale, che come si è anticipato non è fondato. L'Inps con un motivo denuncia vizi di violazione di norme sul procedimento (art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all'art. 418 c.p.c.) e di difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5): sostiene che la questione della inefficacia della clausola di cui all'art. 15 Cost. del contratto di locazione avrebbe dovuto essere introdotta in giudizio nel rispetto dell'art. 418 cod. proc. civ., perchè la sua deduzione avrebbe la natura di domanda riconvenzionale e che questa difesa, già opposta in primo grado non è stata presa in esame. Se non che la questione dell'inefficacia della clausola, come dimostrano le ragioni che hanno condotto ad affermarla, aveva invece la natura processuale di un'eccezione rilevabile di ufficio sottratta alla operatività dell'art. 418 c.p.c.. 4. - Accolto il ricorso principale e rigettato quello incidentale, siccome non sono richiesti altri accertamenti di fatto la causa si presta ad essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. 5. - La novità della questione decisa giustifica che le spese dell'intero processo siano dichiarate compensate per l'intero. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso principale, rigetta l'incidentale, cassa la sentenza impugnata e pronunciando nel merito rigetta la domanda, compensa le spese dell'intero giudizio. DATA DEPOSITO 19 GIUGNO 2009 Sentenza 28 gennaio 2013 n. 1874 Sez. III RESPONSABILITÀ CIVILE - PROFESSIONISTI - ATTIVITÀ MEDICOCHIRURGICA - Espianto del rene - Consenso del donante Provvedimento di autorizzazione del giudice - Effetti. Ente Giudicante: Cassazione Civile Sentenza Svolgimento del processo Il 5 marzo 2004 il Tribunale, adito con citazioni 20-22 maggio 1999 da Alfredo@Calvo, che si era sottoposto ad una operazione di espianto di rene per donarlo a \Vito @Giacaruni\ il *15 dicembre 1986*: a) dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Gestione Liquidatoria della ex USL *Roma A* e della Regione Lazio, in quanto il Policlinico Umberto *I di Roma*, prima della riforma ex legge n.453/99 costituiva unità organica con la Università *La Sapienza* ed era estranea al S.S.N., pur concorrendo alle sue prestazioni; b) dichiarava il difetto di legittimazione passiva della Azienda Policlinico *Umberto I* perchè la neocostituita Azienda era succeduta alla precedente Azienda Universitaria Policlinico *Umberto I* solo nei rapporti in corso e non già nei rapporti esauriti già definiti alla data della istituzione dell'Azienda Policlinico, trattandosi di azione di risarcimento danni a seguito di inesatto adempimento di prestazione sanitaria; c) dichiarava prescritto il diritto al risarcimento nei soli confronti del Ministero della Salute, in carenza di atto interruttivo, mentre rigettava la eccezione di prescrizione dell'Azienda Universitaria; d) accoglieva la domanda risarcitoria proposta dal C. nei confronti dell'Azienda Universitaria per inadempimento contrattuale solo per danni biologico e morale, escludendo, perchè non dimostrato, il danno patrimoniale; e) rigettava la domanda di garanzia impropria assicurativa, proposta nei confronti della Assitalia dalla Azienda Policlinico *Umberto I* e la domanda di garanzia proposta dalla Azienda universitaria nei confronti della stessa Compagnia, essendo rimasto senza esito (successivo alla notifica) il differimento della udienza di comparizione. In punto di fatto, il C. aveva citato, con gli atti di cui sopra, il Ministero della Sanità (ora Ministero della Salute), la Regione Lazio, la ex USL *ROMA 4* (in realtà USL *ROMA 2*)), ex artt. 2043, 2049 e 2050 c.c., e a vario titolo, onde sentirli condannare al risarcimento dei danni, che assumeva avere riportato a seguito di un intervento di espianto di un rene, come donatore, presso il Reparto di patologia speciale chirurgica del Policlinico *Umberto I*. Asseriva che a seguito di quell'intervento, aveva riportato gravi sofferenze (spondilosi lombare, discopatia, stati depressivi e schizofrenia), cronicizzate, tali da impedirgli lo svolgimento di qualunque attività lavorativa e lamentava di avere riportato danni anche alla sfera psicologica perchè erano state omesse o eseguite in modo errato le indagini richieste dalla legge n.458/67 atte ad accertare l'attitudine psicologica del donatore ad essere spiantato. Su gravame principale della Università *La Sapienza* ed incidentale dell'Assitalia la Corte di appello di Roma il 21 dicembre 2009 ha accolto per quanto di ragione l'appello principale, segnatamente disconoscendo il danno morale risarcibile per inesistenza di un comportamento antigiuridico direttamente riferibile ai sanitari (p.17 sentenza impugnata) e ha dichiarato assorbito l'appello incidentale della Assitalia, governando variamente le spese. Avverso siffatta decisione propone ricorso principale per cassazione la Università degli Studi di Roma, affidandosi a sette motivi, di cui tre incentrati sulla disconosciuta prescrizione, altri su profili processuali (uno e sette), altri su questioni di diritto sostanziale. Al ricorso principale resistono con controricorso l'Assitalia, che propone poi ricorso incidentale in parte adesivo al ricorso della Università, l'Azienda Policlinico *Umberto I* e il \Calvo\, che propone ricorso incidentale, con un unico motivo che con cui contesta la ritualità, rinvenuta dal giudice dell'appello, delle modalità con cui è stato raccolto dal Pretore il suo consenso ai sensi della L. n. 458 del 1967, art. 3. Al ricorso incidentale del C. resiste con controricorso l'Università *La Sapienza*. L'INA ASSITALIA ha depositato memoria. Motivi della decisione I due ricorsi sono riuniti ex art. 335 c.p.c.. In merito alle questioni sottoposte dalle parti all'esame di questa Corte il Collegio osserva quanto segue. 1.Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell'art. 99 c.p.c., e del principio della domanda - ultrapetizione -, nonchè di quello della corrispondenza tra chiesto - petitum - e pronunciato in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università lamenta che, avendo il \Calvo\ introdotto una domanda di natura extracontrattuale - art. 2043, 2049 e 2050 c.c., la stessa non poteva essere qualificata di natura contrattuale. In altri termini, in presenza di una espressa menzione da parte dell'attore delle norme relative alla responsabilità extracontrattuale (p.3 della citazione introduttiva) sarebbe stato evidente che l'azione era solo di questa ultima natura nei confronti di tutti i convenuti, non solo, anche perchè la sentenza impugnata ha escluso l'antigiuridicità della condotta della struttura. Peraltro, per ciò che riguarda l'attuazione delle garanzie previste dalla L. n. 458 del 1967, art. 5, la assenza di decreti attuativi della legge, escludeva in radice la responsabilità sia della Università che di qualsiasi altro soggetto convenuto. 2.-Con il secondo motivo, collegato al precedente, (violazione e falsa applicazione dell'art. 2935, 2943 e 2947 c.c., in materia di prescrizione, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università afferma che erroneamente il giudice del merito avrebbe respinto l'eccezione di prescrizione, che doveva decorrere dalla data del trapianto (1986) e non già dalla data di aggravamento delle condizioni di salute del \Calvo\ (1993-1995), nè, al riguardo, avrebbero avuto efficacia interruttiva le lettere dell'aprile 1994 e del luglio 1995, in quanto rivolte non già alla Università, ma al Ministero e al Policlinico *Umberto I* ed anche la richiesta di indennizzo assicurativo è diversa dalla domanda risarcitoria (p.9-10 ricorso). 3. - Conseguente a questa censura è il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2935, 2943, 2947 e 2952 c.c., in materia di prescrizioni brevi del contratto di assicurazione, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3; difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) con il quale la Università assume che le lettere dell'aprile 1994 e del luglio 1995 non erano idonee ad interrompere la prescrizione perchè con esse il \Calvo\ aveva chiesto solo chiarimenti in ordine alla stipula di apposito contratto assicurativo, riservandosi di agire successivamente per il risarcimento (p.11 ricorso). 4. - Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 2043 c.c., nonchè dell'art. 2697 c.c., dell'onere della prova, dei principi in materia di nesso di causalità tra i danni lamentati ed un comportamento dell'Università *La Sapienza* in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) la Università lamenta che, essendo stato escluso un comportamento colpevole della Università nella procedura e nell'intervento di espianto del rene, non avrebbe dovuto ad essa essere addebitato alcun danno biologico per la mancata stipula del contratto assicurativo. Peraltro, non essendosi attivato tempestivamente per far valere la garanzia assicurativa entro l'anno, il \Calvo\ nulla avrebbe potuto e dovuto pretendere (p. 12 ricorso). 5. - In ordine a tutte queste censure il Collegio osserva che esse, in buona sostanza, tendono ad affermare che l'azione del \Calvo\ sarebbe stata prescritta e in mancanza di un nesso di causalità il \Calvo\ non avrebbe potuto nulla pretendere. 5.1. - Di vero, e venendo al primo motivo, sotto il profilo della qualificazione della domanda, va ribadito, come da giurisprudenza costante, che la stessa rientra nel potere di apprezzamento interpretativo del giudice del merito a prescindere dal nomen juris ad essa attribuita dalla parte e, quindi, in ipotesi del genere nessuna violazione si rinviene nella sentenza impugnata così come individuata dalla ricorrente, ossia la sussistenza di un divario tra chiesto e pronunciato, e ciò, tanto meno, sotto il profilo del difetto di motivazione. Del resto, come evidenzia il resistente nel suo controricorso (p. 11), risulta che egli, una volta esposto i fatti, ebbe a proporre una domanda risarcitoria facendo riferimento alle norme anche di natura secondaria che, a suo avviso, erano state violate in sede di procedura prodromica all'espianto e non aveva affatto specificato nella formulazione del petitum la qualificazione giuridica della sua pretesa. Ciò detto, deve convenirsi con la sentenza impugnata che "la qualificazione dell'azione contrattuale non ha modificato nè il bene della vita richiesto (risarcimento del danno), nè le ragioni della domanda (il comportamento contra legem della struttura sanitaria presso la quale era stato eseguito l'espianto in violazione della L. n. 458 del 1967" (p.12 sentenza impugnata). 5.2. - In merito al secondo motivo, circa la decorrenza del termine prescrizionale, corretta si rivela la decisione impugnata nella parte in cui ha individuato l'inizio della decorrenza del termine dalla data dell'intervento (e in ciò accogliendo la prospettazione della stessa Università), così come pienamente aderente ai dati documentali è l'affermazione del giudice dell'appello secondo cui le due lettere del 3 aprile indirizzata alla AUSL *Roma A* e al Ministero della Sanità e quella del 6 luglio 1995 alla stessa Azienda e al Policlinico *Umberto I* prospettavano in modo in equivoco la azione giudiziaria in caso di mancato accertamento della copertura assicurativa in favore del donatore ex L. n. 458 del 1967. Del resto, anche la seconda lettera era stata inviata al Policlinico *Umberto I* (p.14 sentenza impugnata) e su questa circostanza, oltre quanto contestato nella censura, nulla oppone la Università nemmeno nel controricorso al ricorso incidentale del \Calvo\. 5.3. - Il terzo motivo va disatteso perchè si limita a contestare, peraltro, genericamente, la ritenuta idoneità delle lettere inviate dal difensore del \Calvo\, non contestando, però, quanto affermato in sentenza, ossia che almeno quella del 1995 era indirizzata alla Università *La Sapienza di Roma*, che non poteva non essere l'unico soggetto passivamente legittimato all'epoca dell'intervento, in quanto il Policlinico costituiva parte integrante della Università (p.15 sentenza impugnata con puntuale richiamo a Cass. S.U. n. 584/08, che condivide Cass. n. 4456/03 ed di recente Cass. 23098/10). 5.4. - Con il quinto motivo violazione e falsa applicazione degli artt. 1219 e 2043 c.c., della L. n. 458 del 1967, (art. 5 e 8) in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3 - difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5), in estrema sintesi e sulla base della premessa mancanza delle norme regolamentari di attuazione della L. n. 458 del 1967, la Università assume che l'obbligo assicurativo a suo carico non era previsto, mentre lo sarebbe stato a carico di altri soggetti (p.13 ricorso). La censura non merita accoglimento per le considerazioni che seguono. Di vero, una volta ritenuto che unico soggetto autorizzato ex art. 3 della legge citata era l'Istituto Universitario, il Policlinico, che costituiva azienda dell'Università *La Sapienza*, dotato di autonomia patrimoniale, organizzativa e contabile, ma privo di personalità giuridica e che la domanda risarcitoria era conseguente, ma autonoma rispetto al rapporto contrattualmente definito di espianto, ogni legittimazione passiva non poteva che individuarsi nella Università. E' vero, trattandosi di dato normativo testuale, che alla legge doveva seguire il Regolamento attuativo, (art. 8, comma 1) non per questo, però, la legge, in parte qua, doveva ritenersi sospesa nel suo vigore e nella sua efficacia. Dal punto di vista di inquadramento della fattispecie in esame in linea di principio va affermato che il contratto di espianto di un rene, nel suo momento genetico e funzionale, in riferimento al rapporto tra "donatore" e struttura sanitaria specialistica, è un contratto assimilabile a quello di prestazione d'opera, in cui la responsabilità del debitore sorge per l'inesatto adempimento della stessa. Si è in presenza di un contratto, però, che offre una sua peculiarità nel senso che concreta una deroga alla norma imperativa, di ordine pubblico interno, qual è l'art. 5 c.c., anche secondo una interpretazione costituzionalmente orientata (v. LL.PP. e dibattito di cui alla seduta della Camera dei Deputati del 15 giugno 1967), peraltro condiviso da attenta dottrina. Questo contratto in tanto si perfeziona in quanto si siano osservati scrupolosamente la L. n. 458 del 1967, artt. 2, 3, 4 e 5, e come tutti i contratti di cui sopra presenta una obbligazione di mezzi e non di risultati, ma, diversamente da altri similari, richiede per essere valido ed efficace una protezione del donatore per i rischi e un'assoluta gratuità (v. L. n. 458 del 1967, artt. 6 e 7). Infatti, l'art. 5 della legge, che di per sè mostra una cauta apertura alla indisponibilità del proprio corpo (art. 5 c.c.), si giustifica in forza della tutela primaria della persona, che in virtù degli artt. 2, 3 e 32 Cost., si concreta come carattere fondamentale qualificante l'intera architettura dello Stato. Quindi, in questo caso, l'espianto, dopo l'accertamento di tutti gli elementi prodromici alla autorizzazione della sua effettuazione, deve anche presentare una soglia di copertura, a garanzia dell'indubbio favor donantis, presente nella legge. Ne consegue che tra gli elementi essenziali del contratto tra il "donatore" e la struttura sanitaria rientra indiscutibilmente la sussistenza di una garanzia assicurativa, la cui indispensabilità, richiesta dall'art. 5 della citata, legge, trova conforto proprio nella peculiarità del contratto, che, riguardando l'integrità della persona, non può non essere soggetta all'influenza dei valori costituzionali racchiusi nelle norme costituzionali sopra indicate. E' per questo che la norma di cui all'art. 5 della citata legge è norma di immediata attuazione ed imperativa nel confronti della struttura sanitaria ritenuta idonea ad operare il trapianto, come si ricava dalla sua formulazione, quando prevede che il "donatore" è ammesso a godere dei benefici previsti da altre leggi per i lavoratori dipendenti e autonomi in stato di infermità e recita "è altresì assicurato contro i rischi immediati e futuri, inerenti all'intervento operatorio e alla menomazione subita". Tale natura di norma immediatamente precettiva è ulteriormente rafforzata dal fatto che disconosce alcuna facoltà contrattuale - assicurativa alla struttura sanitaria nè alcuna discrezionalità è lasciata alla autorità amministrativa., configurando, al contrario, un diritto soggettivo perfetto a tutela del donatore e che, specularmente, si concreta in un obbligo giuridico a carico della struttura sanitaria: obbligo che è componente essenziale del rapporto contrattuale tra struttura sanitaria e "donatore". E' per questo che la inesistenza del Regolamento attuativo, nella specie, era ed è irrilevante, per cui l'attesa del Regolamento non poteva a sua volta essere causa di giustificazione nè per eventuali interventi sanitari nè per la copertura assicurativa a favore del "donatore", non potendosi ragionevolmente ritenere da un lato che il trapianto, alle condizioni previste dalla legge, non potesse essere effettuato dopo la sua entrata in vigore, tanto è che fu accolta la istanza del \Calvo\ e attivata tutta la relativa procedura; dall'altro, che si potesse effettuare l'intervento senza la obbligatoria copertura assicurativa. In altri termini, l'art. 5 della legge era ed è di immediata applicazione, obbligando la struttura a munirsi della copertura assicurativa in caso di rischi immediati e futuri e di menomazione subita, conseguenti, all'intervento. Diversamente opinando, pur con la entrata in vigore della L. n. 458 del 1967, nessun intervento avrebbe potuto e dovuto essere eseguito anche dai Centri o Istituti specialistici Universitari, all'uopo esistenti e deputati. In conclusione, nessuna prestazione sanitaria di espianto del rene poteva essere fatta, una volta ottenuto il nulla osta del Pretore, senza la completa sussistenza di tutti i benefici e della contratta assicurazione e resi possibili dalla diligenza della struttura, destinataria di tali obblighi. Peraltro, come si evince dai LL.PP. il rinvio alla emanazione del Regolamento trovava la sua giustificazione in ragione di carattere solidaristico e sociale, ossia evitare che solo gli abbienti potessero sottoporsi ai trapianti e non già i malati di rene meno abbienti ed in tale recupero di solidarietà si giustificava il previsto concerto ai fini dell'emanazione del Regolamento di competenza dell'allora Ministero della Sanità con il Ministero del Lavoro (v. resoconto stenografico della seduta della Camera dei Deputati 15 giugno 1967 di approvazione del d.d.l. in materia). Quindi il motivo va disatteso. 5.5. - Ne consegue che il quarto motivo va anch'esso respinto. Il giudice dell'appello, preso atto dell'intrinseca natura contrattuale del rapporto tra il Policlinico *Umberto I* e il \Calvo\, facendo buon governo dell'art. 1218 c.c., ha ritenuto provato da parte del \Calvo\ l'inadempimento della obbligazione, atteso che la Università non aveva disconosciuto che la garanzia assicurativa, in quanto parte essenziale del contratto a suo tempo stipulato, non esisteva. In altri termini, l'unica violazione addebitabile alla struttura sanitaria nella quale venne eseguito l'intervento è data dalla mancata stipulazione della polizza assicurativa, da cui la sentenza impugnata ha dedotto che non poteva configurarsi un danno morale risarcibile, riconosciuto, invece, dal primo giudice in virtù della circostanza che lesioni riportate furono, in quella sede, attribuite al comportamento "protocollare" ritenuto antigiuridico della struttura, perchè ad avviso della Corte territoriale tutti gli accertamenti previsti dalla legge erano stati effettuati ed avevano dato esito favorevole all'espianto (p.15-16 sentenza impugnata). Di vero, se, onde attuare la prestazione contrattualmente prevista, la struttura sanitaria doveva munirsi anche della copertura assicurativa ne consegue che, non avendo stipulato la Università alcun contratto assicurativo, la struttura - il Policlinico *Umberto I* - si era resa inadempiente alla complessa fattispecie contrattuale, composta da prestazioni sanitarie interessanti ex se la salute e la dignità del "donatore" e per questo dovevano essere coperte da apposita assicurazione. In difetto di questo contratto nessuna decadenza poteva e può addebitarsi al C.. Nè, quindi, può seriamente mettersi in discussione la sussistenza del nesso di causalità tra l'inadempimento degli obblighi contrattuali della struttura conia sopra precisato e la richiesta risarcitoria. 5.6. - Di qui, l'assorbimento del sesto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, - difetto di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5), in quanto, pur trattandosi di obbligazione ex lege, come già posto in rilievo, essa costituiva e costituisce uno degli elementi integranti ed indispensabili del contratto tra struttura sanitaria e "donatore" - per l'espianto del rene, cui volontariamente si sottopose il \Calvo\, dopo i prescritti accertamenti e il nulla osta del Pretore, ora Tribunale in funzione di giudice tutelare. 5.7. - Giunti all'esame di questi sei motivi del ricorso principale, osserva il Collegio che occorre passare all'esame dell'unico motivo del ricorso incidentale (violazione e falsa applicazione della L. 26 giugno 1967, n. 458, (trapianto tra persone viventi), degli artt. 2697, 1218, 2727 e 2729 c.c.; artt. 582 e 583 c.p.; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo - p. 20 - 25 controricorso \Calvo\) con il quale il \Calvo\ lamenta che l'atto dispositivo del proprio rene, come venne accertato dal Tribunale, era invalido in quanto, così come emerso nel corso del giudizio ed in via istruttoria non tutti gli adempimenti previsti dalla L. n. 458 del 1967, erano stati posti in essere dal Policlinico *Umberto I*. Aggiunge il C. che nemmeno su ordine del giudice ex art. 210 c.p.c., era stata prodotta dall'Università la documentazione (verbale della riunione) attestante l'asserita riunione del collegio medico che avrebbe dovuto comprendere il suo medico di fiducia e la trasmissione del verbale al medico provinciale: circostanze non provate, a suo dire, nemmeno dal dr. \\Cortesini\ capo dell'equipe che effettuò l'intervento. Nè ad alcun esame di ordine psicologico egli sarebbe stato sottoposto e il tutto si sarebbe svolto con leggerezza. L'Università non avrebbe provato il fatto estintivo della pretesa del C. (creditore), violando anche le norme in tema di presunzioni perchè mancava una prova documentale e a ciò avrebbe dovuto indurre anche l'assenza del contratto assicurativo, con l'effetto che a lui andava riconosciuto anche il danno morale ai sensi dell'art. 2059 c.c.. Ritiene il Collegio che la censura sia infondata. Infatti, il giudice dell'appello, dopo avere ritrascritto la L. n. 458 del 1967, art. 3, (v.p. 15 16 sentenza impugnata) ha affermato che l'ottenuto nulla osta del Pretore fa ragionevolmente ritenere che fossero state espletate tutte le fasi prodromiche di competenza dei sanitari del Policlinico *Umberto I* "vale a dire la riunione del collegio medico attestante l'idoneità del donatore, il giudizio tecnico favorevole, la trasmissione del verbale al medico provinciale, la constatazione da parte di quest'ultimo dell'ottemperanza alle condizioni attinenti alla valutazione del collegio medico e, quindi, la trasmissione degli atti al Pretore per il nulla osta" (p. 16 sentenza impugnata). In presenza di quel nulla osta, che, come già ritenuto dal giudice di primo grado, accertava il giudizio favorevole al prelievo e al trapianto di rene e dava atto del referto medico collegiale non si poteva dichiarare la assenza degli stessi accertamenti da esso attestati (p. 16 sentenza impugnata). A fronte di questo argomentare che il ricorrente incidentale senza allegare almeno stralci del nulla osta, censura di inadeguatezza o superficialità, la doglianza non può essere accolta, non solo perchè non risulta almeno dalla sentenza, nè lo indica il \Calvo\, che il nulla osta del Pretore sia stato contestato vivacemente in appello, rispondendo alle censure sul punto dedotte dalla Università; ma per le considerazioni che seguono e che il Collegio ritiene dirimenti. In primis, e dal punto di vista formale processuale, la censura più che una doglianza di diritto si risolve e concreta, come si può dedurre dalla sua sintetica ma fedele trascrizione, una quaestio facti, su cui comunque il giudice a quo ha congruamente e logicamente motivato. In secundis per questioni di puro diritto che di seguito sono esposte. L'intervento del Pretore (all'epoca competente), stanti la finalità della legge, la sua ratio ispiratrice, come si desume dai lavori preparatori, non può considerarsi un mero intervento burocratico e ampiamente discrezionale, come pure stigmatizza parte della dottrina. Esso è stato previsto dal legislatore perchè si tratta nel caso di trapianto tra viventi di atto che incide sul diritto integrità della persona, come diritto della personalità, con effetti eventuali, ma possibili, di natura psicologica, sul "donatore", che si sottopone a rigorosi accertamenti di varia natura al punto che: a) il Pretore può rifiutare il nulla osta anche in presenza di parere favorevole; b) il Pretore deve accertare che la procedura seguita sia stata rigorosa e non sbrigativa; c) il consenso del "donatore" può essere revocato fino a poco prima dell'intervento. Quindi, il provvedimento giudiziale è un provvedimento non di mera delibazione, ma penetrante nella regolarità, non solo formale, di una procedura sanitaria complessa e completa e che fa ragionevolmente presumere, essendo autorizzatorio, che tutti gi ostacoli prevedibili e possibili siano stati esclusi "allo stato", ossia che tutto si sia svolto nel pieno rispetto del "protocollo" previsto, con l'effetto che il giudice avrà fatto presente al donatore le caratteristiche del suo atto e delle conseguenze che gliene possono derivare sulla base del giudizio formato dal collegio medico. In altri termini, la presenza del giudice in questa vicenda non è una presenza rogante, ma una presenza di assunzione di responsabilità dell'atto da parte dell'organo giudiziario a fronte di una realtà che,comunque motivata, non è indifferente alla collettività, che non può tollerare arbitri, leggerezze, ragioni di ogni genere che possano arrecare danni alla persona umana, che, anche se eroica, ha comunque il diritto, non disponibile, a viver in modo integro dal punto di vista psicofisico. Nel bilanciamento tra spinta di alta solidarietà sociale (artt. 2 e 3 Cost.) e diritto alla salute (art. 32 Cost.), quest'ultimo inteso come diritto alla integrità fisica del proprio corpo, in quanto facente parte dei diritti della personalità, la prudentia legislatoris propende per la seconda, senza disdegnare di favorire la prima, affidando al giudice, che, per sua natura, è il garante dei dritti, così come dell'adempimento dei doveri, non una mera attività rogante bensì coinvolgendolo nella sua funzione istituzionale, per cui il suo provvedimento, se favorevole, non è reclamabile, per la presunzione juris et de jure della sua conformità ai rigidi parametri legislativamente previsti, ma non per questo può essere ignorato dal "donatore" fino a poco prima dell'intervento, diversamente da quanto avviene in caso di rifiuto del nulla osta. In tal senso, il diritto del "donatore" a revocare il suo consenso alla donazione esercitabile anche poco prima dell'intervento, e legislativamente previsto, è emblematico della sovranità attribuita dalla legge alla sua autodeterminazione libera e consapevole circa l'esercizio del diritto all'integrità psicofisica del disporre del suo corpo. 5.8.- Con il settimo motivo (violazione e falsa applicazione dei principi di cui all'art. 106 c.p.c., e della chiamata in garanzia della società di assicurazione, nonchè del generale principio di economia dei giudizi e di economia delle attività processuali, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3) la Università lamenta che il giudice dell'appello abbia respinto la domanda di manleva da essa proposta nel confronti dell'INA ASSITALIA. La censura è infondata, per la semplice ragione che, come si è verificato, sebbene autorizzata a chiamare in causa la Compagnia Assicuratrice, la Università non aveva chiamato in garanzia la suddetta compagnia entro il termine di cui all'art. 163 bis c.p.c.. Nel caso in esame si tratta di garanzia impropria, perchè fondata su di un titolo distinto da quello relativo alla domanda principale, il cui collegamento con il rapporto principale è meramente occasionale ed estrinseco, ferma restando la opportunità di un simultaneus processus, che per la suddetta attività omissiva, è rimasto precluso (Cass. 10210/01). Conclusivamente i due riuniti ricorsi vanno respinti e le spese vanno interamente compensate tra le parti, ricorrendovi giusti motivi, dati dalla peculiarità della vicenda, dalla novità delle questioni affrontate. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione. DATA DEPOSITO 28 GENNAIO 2013 Cassazione civile, sez. un., 3 giugno 2013, n. 13905 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Primo Presidente f.fDott. RORDORF Renato- rel. Presidente Dott. SEGRETO Antonio - Consigliere Dott. CECCHERINI Aldo - Consigliere Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere – Dott. CHIARINI Maria Margherita - Consigliere – Dott. MAMMONE Giovanni - Consigliere Dott. VIRGILIO Biagio - Consigliere Dott. D'ASCOLA Pasquale - Consigliere – ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 4521/2011 proposto da: BANCA MEDIOLANUM S.P.A., in persona del legale rappresentante pro elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARDINAL DE LUCA 22, presso lo tempore, studio dell'avvocato SIGGIA FABRIZIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DANISI IGNAZIO, per delega in calce al ricorso; - ricorrente Contro B.S., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato TODARO CALOGERO, per delega in calce al controricorso; - controricorrente avverso la sentenza n. 954/2010 della CORTE D'APPELLO di PALERMO, depositata il 06/07/2010; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/05/2013 dal Presidente Dott. RENATO RORDORF; udito l'Avvocato Ignazio DANISI; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto notificato il 26 maggio 2005 il sig. B.S. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo la Banca Mediolanum s.p.a. (in prosieguo indicata come Mediolanum) riferendo di aver sottoscritto, a seguito delle sollecitazioni di un promotore di detta banca, obbligazioni emesse dalla società Giacomelli Sport Finance per il prezzo complessivo di Euro 49.560,00. Ciò premesso, e premesso altresì che le obbligazioni erano poi risultate di fatto inesigibili a causa del sopravvenuto fallimento dell'emittente, l'attore dedusse la nullità dell'acquisto per diverse ragioni, tra cui la mancata previsione nel contratto del diritto di recesso che il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, (conosciuto come testo unico della finanza ed in prosieguo indicato con la sigla tuf) attribuisce all'investitore in strumenti finanziari collocati dall'intermediario al di fuori della propria sede. Chiese, pertanto, che la banca convenuta fosse condannata a restituirgli le somme investite. La domanda fu accolta in primo grado e la pronuncia del tribunale venne poi confermata in secondo grado dalla Corte d'appello di Palermo con sentenza resa pubblica il 6 luglio 2010. La corte palermitana, infatti, ritenne che lo jus poenitendi previsto dalla citata disposizione dell'art. 30, comma 6, del tuf e la nullità dei contratti che non contemplino la clausola di recesso, sancita dal successivo settimo comma dello stesso articolo, trovino applicazione non solo nel caso di offerta pubblica di strumenti finanziari dei quali l'intermediario abbia curato il collocamento per esserne stato incaricato dall'emittente o dall'offerente, ma anche in ogni altro caso di negoziazione di tali strumenti al di fuori dalla sede dell'intermediario: ragione per la quale il contratto di cui si discute in causa, per essere valido, avrebbe dovuto prevedere la facoltà di recesso dell'acquirente nei sette giorni successivi alla stipulazione. Avverso tale sentenza la Mediolanum ha proposto ricorso per cassazione dolendosi, sotto diversi profili, della ritenuta applicabilità al caso di specie delle citate disposizioni dell'art. 30 del tuf che, a suo giudizio, nel menzionare i "contratti di collocamento" (oltre alla gestione di portafogli), farebbe riferimento alle sole operazioni ricollegabili all'espletamento del servizio di collocamento, quale definito dal precedente art. 1, comma 5, lett. c), ossia all'offerta al pubblico di strumenti finanziari effettuata dall'intermediario in esecuzione di un contratto da esso stipulato con l'emittente o con l'offerente, su incarico e per conto di quest'ultimo ed alle condizioni da lui indicate. L'intimato si è difeso con controricorso. La prima sezione civile, con ordinanza n. 10376 del 2012, avendo rilevato l'esistenza in dottrina ed in giurisprudenza di opinioni diverse sulla portata delle disposizioni normative sopra menzionate ed avendo stimato comunque che la questione sia di massima di particolare importanza, ne ha sollecitato la rimessione alle sezioni unite. Il ricorso è stato perciò assegnato alle sezioni unite e discusso all'odierna udienza. Entrambe le parti hanno depositato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. La questione sulla quale le sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi investe, come già accennato, l'interpretazione da dare all'art. 30 del tuf, il cui sesto comma prevede che l'efficacia dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali conclusi al di fuori della sede dell'intermediario autorizzato sia sospesa per la durata di sette giorni, decorrenti dalla data di sottoscrizione da parte dell'investitore, e che entro il medesimo termine l'investitore possa comunicare il proprio recesso, senza spese nè corrispettivo, al promotore finanziario o all'intermediario. Occorre inoltre che tale facoltà di recesso sia espressamente indicata nei moduli o formulari consegnati all'investitore e nelle proposte contrattuali effettuate fuori sede, ed il successivo settimo comma commina la sanzione della nullità, deducibile solo da parte del cliente, per i contratti che questa indicazione non rechino. L'interrogativo che la presente causa pone è se la nozione di "contratti di collocamento", cui la citata disposizione si riferisce ed ai quali quindi si applica la prescrizione concernente l'inserimento a pena di nullità della clausola di recesso in favore del cliente, sia da intendere come circoscritta ai contratti strettamente connessi e conseguenti alla prestazione del "servizio di collocamento", menzionato dall'art. 1, comma 5, lett. c) (ed ora anche lett. c bis), del tuf, o se invece comprenda qualsiasi operazione in virtù della quale l'intermediario offra in vendita a clienti non professionali strumenti finanziari al di fuori della propria sede, anche nell'espletamento di servizi d'investimento diversi, quali ad esempio quelli di negoziazione o di esecuzione di ordini enunciati all'art. 1, stesso comma 5, lett. a) e b). In argomento la giurisprudenza di merito si è in passato divisa, ma in due precedenti occasioni, nelle quali si discuteva della validità dell'acquisto di strumenti finanziari operato a seguito di ordini impartiti da clienti nel quadro di contratti d'intermediazione finanziaria in precedenza stipulati con l'intermediario, questa corte ha affermato che il diritto di recesso previsto a favore dell'investitore per i contratti conclusi fuori sede e la connessa sanzione della nullità in caso di mancata comunicazione all'investitore del suindicato diritto di recesso sono circoscritti ai soli contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli individuali, trattandosi di una disciplina peculiare che, come tale, non potrebbe essere applicata alla diversa ipotesi di contratti concernenti la prestazione del servizio di negoziazione di strumenti finanziari oppure di raccolta e trasmissione di ordini (Cass. n. 2065 del 2012 e n. 4564 del 2012). Rispetto a tale orientamento può sembrare per certi versi distonica un'ulteriore decisione, assunta nello stesso torno di tempo in una particolare fattispecie (Cass. n. 1584 del 2012), che, tuttavia, non ha affrontato in modo esplicito la questione ora in esame. Tali pronunce non hanno sopito il dibattito in dottrina, ed anche questo ha indotto ad investire le sezioni unite della questione. 2. Per dare una risposta corretta al quesito è indispensabile una breve premessa ed una sintetica ricognizione delle norme che rilevano ai fini della risoluzione del problema. 2.1. I servizi d'investimento finanziario, com'è noto, sono alquanto minuziosamente elencati nell'art. 1, comma 5, del tuf, dalla lett. a) sino alla g). Al tempo dei fatti di causa, prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 164 del 2007, l'elenco si arrestava alla lett. c), e non comprendeva la lett. c bis), ma tali innovazioni normative non sono particolarmente interessanti ai fini della risoluzione della presente vertenza. Di maggiore interesse è osservare come, tra detti servizi, quello di collocamento figuri indicato distintamente (lett. c, ed ora anche lett. c bis), sia rispetto alla negoziazione per conto proprio ed all'esecuzione di ordini per conto dei clienti (prima denominata negoziazione per conto terzi: lett. a e b) sia rispetto alla ricezione e trasmissione di ordini (lett. e). Mentre, nel caso della negoziazione per conto proprio, l'intermediario si pone come controparte diretta del cliente nell'acquisto o nella vendita di strumenti finanziari, normalmente destinata ad aver luogo sul mercato secondario, nel caso dell'esecuzione di ordini d'acquisto o vendita impartitigli dal cliente egli opera sul medesimo mercato in veste di mandatario, oppure, nel caso della ricezione e trasmissione di ordini, quale mero tramite delle disposizioni del cliente in rapporti di compravendita destinati ad intercorrere tra quest'ultimo e soggetti terzi. Tutte queste situazioni, peraltro, implicano l'instaurazione di rapporti individuali tra intermediario e cliente, nell'interesse del quale l'intermediario stesso è tenuto ad operare. Il servizio di collocamento si caratterizza invece per essere prestato dall'intermediario in favore del soggetto che emette gli strumenti finanziari, o che comunque li offre in vendita al pubblico, di regola sul mercato primario, onde è con quest'ultimo soggetto che l'intermediario medesimo anzitutto instaura un rapporto contrattuale e nell'interesse del quale presta il servizio (che assuma o meno egli stesso un impegno diretto di acquisto o una qualche forma di garanzia), addossandosi il compito di promuovere l'acquisto da parte dei terzi investitori degli strumenti finanziari offerti in vendita o in sottoscrizione. Naturalmente, perchè il collocamento abbia poi effettivamente luogo, occorrerà pur sempre che esso metta capo alla stipulazione di ulteriori atti negoziali, mediante i quali gli strumenti finanziari da collocare sono acquistati o sottoscritti dagli investitori; ma in questo caso la vendita avviene all'esito di un'offerta al pubblico e, quindi, in base a condizioni predeterminate, senza di regola alcuno spazio di negoziazione individuale tra il collocatore e colui che aderisce all'offerta. 2.2. L'art. 30 del tuf (anch'esso oggetto di successive modifiche ad opera del citato D.Lgs. n. 164 del 2007, che qui non sono tuttavia rilevanti) disciplina la "offerta fuori sede", che storicamente deriva dalla figura della sollecitazione al pubblico risparmio c.d. "a domicilio (o "porta a porta"), considerata dalla L. n. 1 del 1991, art. 1, lett. f), come un'autonoma attività d'intermediazione mobiliare (accanto alla negoziazione ed al collocamento di valori mobiliari, alla raccolta d'ordini, alla gestione di patrimoni ed alla consulenza), ed in seguito disciplinata, invece, già dal D.Lgs. n. 415 del 1996, art. 22, alla stregua di una particolare modalità di svolgimento di servizi d'investimento diversi. Il citato art. 30, comma 1, definisce "offerta fuori sede" la promozione ed il collocamento presso il pubblico: a) di strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze dell'emittente, del proponente l'investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento; b) di servizi ed attività di investimento in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio. 2.3. L'esame del citato art. 30 evidenzia subito come il sostantivo "collocamento" ed il verbo "collocare" sembrano adoperati nel primo comma in un'accezione non perfettamente coincidente con quella suggerita dalla nozione di "servizio di collocamento", cui sopra s'è fatto cenno. Se, infatti, può essere coerente con quella definizione il parlare, nell'ipotesi considerata sub a), di collocamento di strumenti finanziari presso il pubblico, intendendosi con tale espressione l'attività di distribuzione al pubblico degli strumenti finanziari in base all'impegno in questo senso assunto dall'intermediario collocatore nei confronti dell'emittente o dell'offerente per il quale egli presta l'anzidetto servizio, meno agevole è ricondurre nel medesimo alveo il collocamento di servizi ed attività d'investimento di cui fa menzione la lett. b). Il servizio di collocamento in senso proprio, svolto dal collocatore in favore di un emittente o di un offerente, sembra concepibile solo se avente ad oggetto dei prodotti finanziari da altri emessi o offerti in vendita, non se invece ad esser "collocati" siano a loro volta altri servizi d'investimento di vario genere. Con riferimento a questi ultimi il collocamento fuori sede di cui parla il citato art. 30, comma 1, lett. b), sta quindi presumibilmente ad indicare ogni forma di sollecitazione che l'intermediario rivolga a propri clienti affinchè questi si avvalgano del servizio d'investimento loro proposto, senza che tra l'offerente ed il collocatore del servizio vi sia un pregresso rapporto riconducibile alla figura giuridica del "servizio di collocamento" definito dalla precedenti già citate disposizioni dell'art. 1, comma 5. Nasce da ciò il dubbio che nell'intero art. 30 l'espressione "collocamento" sia stata adoperata dal legislatore con un significato più ampio e generico, quasi come sinonimo di qualsiasi operazione volta ad immettere sul mercato prodotti finanziari o servizi d'investimento. L'accennata ambiguità terminologica è accresciuta dalle disposizioni dettate dal sesto e settimo comma del medesimo art. 30, che contemplano il già ricordato jus poenitendi in favore dell'investitore e la nullità dei contratti di collocamento fuori sede che non prevedano il recesso. Anche a tal riguardo non può non rilevarsi come la menzione dei "contratti di collocamento" sia, se non imprecisa, quanto meno non del tutto univoca. Il servizio di collocamento, come si è appena ricordato, è infatti scomponibile in due fasi diverse, che entrambe danno vita a rapporti contrattuali: il primo che s'instaura tra l'emittente o l'offerente degli strumenti finanziari da collocare, da un lato, e l'intermediario collocatore dall'altro; il secondo che si realizza in un momento successivo ed intercorre tra l'intermediario collocatore ed i singoli investitori disposti ad aderire all'offerta. In dottrina v'è perciò chi ha distinto tra il "contratto per il servizio di collocamento", stipulato dall'emittente o offerente dei medesimi prodotti finanziari con l'intermediario che s'incarica della loro distribuzione sul mercato, ed il "contratto di collocamento", che è invece quello volto a disciplinare il rapporto tra l'intermediario distributore dei prodotti finanziari ed il cliente che li sottoscrive. E' certo da escludere che lo jus poenitendi menzionato dal sesto comma del citato art. 30 riguardi la prima delle due figure contrattuali sopra accennate; appare viceversa evidente che esso si riferisce ai rapporti contrattuali intrecciati dall'intermediario collocatore, al di fuori della propria sede o dalle dipendenze dell'emittente o dell'offerente, con i destinatari dell'offerta, come dimostra il fatto che il diritto di recesso è espressamente previsto in favore dello "investitore", sicchè anche il "cliente" legittimato a far valere la nullità del contratto che non rechi la clausola di recesso altri non può essere se non il sottoscrittore o l'acquirente degli strumenti finanziari collocati (cioè pubblicamente offerti in sottoscrizione o in vendita) fuori sede dall'intermediario. Resta però da chiedersi se la portata delle disposizioni in tema di recesso e di eventuale nullità sia circoscritta ai soli contratti stipulati fuori sede a mezzo di promotori da intermediari impegnati nella prestazione di veri e propri servizi di collocamento, quali sopra definiti (oltre che nel servizio di gestione di portafogli), oppure se anche qui, come già s'è visto a proposito della definizione dell'offerta fuori sede contenuta nel primo comma, la parola "collocamento" sia da intendere in un'accezione più ampia ed in qualche misura atecnica, cioè come sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all'investitore di strumenti finanziari, anche nell'espletamento di servizi d'investimento diversi (negoziazione, esecuzione, ricezione o trasmissione di ordini), se effettuata dall'intermediario al di fuori della propria sede. 3. Una risposta soddisfacente non sembra ricavabile dal mero dato letterale. Se è vero, infatti, che l'espressione "contratti di collocamento", figurante nel sesto comma del citato art. 30, può indurre intuitivamente a ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi a contratti la cui stipulazione sia legata alla prestazione del servizio di collocamento (e non ad altri, salvo la gestione di portafogli), è altresì vero che, come si è già dianzi osservato, nel medesimo articolo - o quanto meno nel suo primo comma - la parola "collocamento" ha anche sicuramente un'accezione che va al di là della prestazione di quello specifico servizio. Il solo criterio d'interpretazione letterale non si rivela perciò decisivo. Neppure sembra dirimente il dato storico - che potrebbe far propendere per un'interpretazione restrittiva, derivando l'attuale normativa da esigenze di tutela manifestatesi originariamente nel campo della sollecitazione al pubblico risparmio, di cui il collocamento è un momento attuativo -, perchè la disciplina ha conosciuto nel tempo un'evidente evoluzione, ed il primo comma dell'articolo in esame, benchè rechi traccia di quell'origine (in particolare laddove fa menzione di "collocamento presso il pubblico") palesemente ne ha travalicato i limiti, com'è agevole dedurre dal fatto che l'offerta fuori sede può oggi avere ad oggetto non solo prodotti finanziari, ma qualsiasi servizio d'investimento (art. cit. comma 1, lett. b). Difficile è anche trarre argomento dalla direttiva Europea n. 85/577, in tema di tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali, il cui art. 3 prevede sì il diritto di recesso del consumatore, ma lo esclude per quelli aventi ad oggetto valori mobiliari (comma 2, lett. e). Tale direttiva cesserà comunque di essere in vigore a partire dal 13 giugno 2014, in forza di quanto disposto dall'art. 31 della successiva direttiva n. 2011/83, che all'art. 16, lett. b), espressamente esclude il diritto di recesso del consumatore per i contratti stipulati fuori dai locali commerciali aventi ad oggetto la fornitura di beni o servizi il cui prezzo sia legato a fluttuazioni nel mercato finanziario, quando siffatte fluttuazioni non siano controllabili da parte del professionista e possano verificarsi durante il periodo di recesso (analoga disposizione è contenuta nell'art. 6 della direttiva n. 65/2002, in tema di commercializzazione a distanza dei servizi finanziari, che ha trovato attuazione nell'art. 67 duodecies del codice del consumo). 4. E' allora soprattutto alla ratio legis che conviene guardare, per intendere meglio il senso della norma e poterne definire, di conseguenza, la portata applicativa. Sulla ragion d'essere dello jus poenitendi di cui si discute le opinioni degli interpreti e degli studiosi sono sufficientemente univoche: è la circostanza che l'operazione d'investimento si sia perfezionata al di fuori dalle sede dell'intermediario a rendere necessaria una speciale tutela per l'investitore al dettaglio (la normativa non si applica agli investitori professionali, come chiarisce il secondo comma del citato art. 30), perchè ciò significa che, di regola, l'iniziativa non proviene da lui. E' logico cioè presumere che, in simili casi, l'investimento non sia conseguenza di una premeditata decisione dello stesso investitore, il quale a tale scopo si sia recato presso la sede dell'intermediario, ma costituisca invece il frutto di una sollecitazione, proveniente da promotori della cui opera l'intermediario si avvale; sollecitazione che, perciò stesso, potrebbe aver colto l'investitore impreparato ed averlo indotto ad una scelta negoziale non sufficientemente meditata. Il differimento dell'efficacia del contratto, con la possibilità di recedere nel frattempo senza oneri per il cliente, vale appunto a ripristinare, a posteriori, quella mancanza di adeguata riflessione preventiva che la descritta situazione potrebbe aver causato. Se questa, come pare difficilmente contestabile, è l'esigenza di tutela in vista della quale il legislatore ha introdotto la disciplina del recesso nei contratti di collocamento di strumenti finanziari stipulati fuori sede dall'intermediario, è arduo negare che la medesima esigenza si ponga non soltanto per le operazioni compiute nell'ambito della prestazione di un servizio di collocamento in senso proprio, nell'accezione già prima richiamata, ma anche per qualsiasi altra ipotesi in cui l'intermediario venda fuori sede strumenti finanziari ad investitori al dettaglio, sia pure nell'espletamento di un servizio d'investimento diverso. La differenza tra le due descritte situazioni, in questa ottica, appare davvero poco significativa, specie ove si consideri che nel servizio di collocamento "con assunzione a fermo" l'intermediario piazza sul mercato prodotti finanziari rispetto ai quali la sua posizione ed il suo interesse alla vendita sono del tutto analoghi a quelli di una vendita in proprio. Il che avvalora l'opinione secondo cui la parola "collocamento", nel testo dell'articolo in esame, è da intendere in senso ampio, come sinonimo di atto negoziale mediante il quale lo strumento finanziario vien fatto acquisire al cliente e quindi inserito nel suo patrimonio (o, come nel linguaggio del mercato finanziario si usa dire, nel suo portafoglio), a prescindere dalla tipologia del servizio d'investimento che abbia dato luogo a tale operazione. 5. Nessuna delle obiezioni che potrebbero essere mosse - e che sono state mosse - a questa conclusione sembra davvero dirimente. Non lo è quella che fa leva sul fatto che nel vero e proprio collocamento l'offerta in vendita degli strumenti finanziari agli investitori ha luogo a condizioni uniformi e predeterminate, dovendo l'intermediario attenersi in proposito alle condizioni dettate dall'offerente, onde non v'è di regola alcuno spazio per forme di negoziazione individuale che potrebbero invece essere presenti quando l'acquisto dei medesimi strumenti finanziari avvenga nell'ambito della prestazione di un servizio d'investimento diverso; nè lo è la circostanza che, in questa seconda evenienza, l'acquisto normalmente si realizza in base alle previsioni di un c.d. contratto-quadro, in precedenza stipulato tra l'intermediario e l'investitore. Il fatto che il prezzo e le altre condizioni di vendita siano più o meno predefiniti non toglie che si è comunque in presenza, di volta in volta, di una decisione d'investimento, di modo che solo quando l'investitore abbia assunto egli stesso l'iniziativa di recarsi presso la sede dell'intermediario, o in un luogo di pertinenza del proponente, è lecito presumere che la sua scelta sia stata preceduta da una natura riflessione; e quando invece così non sia, sussiste in ogni caso - indipendentemente dalla fissità delle condizioni di vendita - il rischio che il medesimo investitore si sia trovato ad essere destinatario di una proposta che potrebbe averlo colto di sorpresa. S'intende, poi, che la disciplina del recesso di cui si sta parlando non può che riguardare i singoli rapporti negoziali in base ai quali, di volta in volta, l'investitore si trovi a sottoscrivere uno strumento finanziario offertogli dall'intermediario fuori sede, e non la stipulazione del c.d. contratto-quadro, che di per sè non implica l'acquisto di strumenti finanziari ed è perciò sicuramente estranea alla nozione di "collocamento", sia pur latamente intesa. Nemmeno la circostanza che l'ordine di acquisto possa essere riconducibile ad un siffatto contrattoquadro, cioè ad un pregresso impianto contrattuale volto a disciplinare in via generale le modalità della prestazione del servizio, fa venir meno il rischio che il cliente venga colto di sorpresa, quando il singolo ordine sia frutto di una sollecitazione posta in essere dall'intermediario fuori dalla propria sede; ed è quel rischio che giustifica la già ricordata esigenza della tutela supplementare apprestata dal citato art. 30, commi 6 e 7, del tuf. D'altronde, non va trascurato che parte della dottrina e la stessa autorità di vigilanza (si veda la comunicazione della Consob n. DIN/12030993 del 19 aprile 2012, che pure si pronuncia in favore di un'interpretazione restrittiva della citata disposizione dell'art. 30) sono propense ad ammettere la possibilità che anche nell'espletamento del servizio di collocamento si realizzi talvolta un rapporto di durata tra il prestatore del servizio ed il cliente, nel cui ambito le singole operazioni siano perciò disciplinate da un contratto-quadro; il che difficilmente però basterebbe, stante il testo della norma, ad escludere in siffatti casi l'applicazione dello ius poenitendi agli specifici atti negoziali mediante i quali il collocamento fuori sede in concreto sia realizzato. Neppure il rilievo per cui durante il periodo di sospensione degli effetti del contratto le condizioni di mercato potrebbero mutare, prestandosi così a comportamenti opportunistici da parte dell'investitore, sembra rivestire carattere decisivo ai fini della questione di cui si sta qui discutendo. Si consideri che neanche la normale fissità del prezzo di collocamento di strumenti finanziari in pendenza dell'offerta al pubblico basta del tutto ad escludere la possibilità che nel medesimo lasso di tempo (vuoi per fatti influenti in generale sull'andamento del mercato, vuoi per eventi riferibili alla situazione particolare dell'emittente) si determinino oscillazioni di valore in grado d'influenzare la decisione dell'investitore di recedere dall'acquisto. Ma, anche a prescindere da tale rilievo, va osservato che il rischio di un utilizzo non corretto del diritto di recesso potrà eventualmente, ove si dia il caso, essere neutralizzato invocando il principio generale di buona fede, che deve presidiare qualsiasi rapporto contrattuale, ma non vale certo a negare il fondamento stesso sul quale il riconoscimento di quel diritto riposa. D'altronde, è inevitabile che il riconoscimento di una maggior tutela in favore dell'investitore che acquista si traduca in una posizione meno vantaggiosa per l'intermediario che vende, ma questa è la naturale contropartita dei vantaggi che, su più larga scala, lo stesso intermediario si ripromette di conseguire utilizzando per la vendita dei prodotti finanziari un sistema di commercializzazione capillare esterna, per certi versi più aggressivo ("porta a porta"), anzichè attendere che i clienti vengano ad acquistare quei medesimi prodotti in sede. 6. A favore di un'interpretazione estensiva della citata disposizione dell'art. 30 del tuf, che sia in grado di meglio assicurare la tutela del consumatore, militano d'altro canto i principi generali desumibili dallo stesso testo unico, sicuramente ispirati all'esigenza di effettività dell'indicata tutela, cui da ulteriore rinforzo la previsione dell'art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, che, nel garantire "un livello elevato di protezione dei consumatori", per ciò stesso impone d'interpretare le norme ambigue nel senso più favorevole a questi ultimi. Ma, soprattutto, milita in tal senso la difficoltà di giustificare, anche sul piano costituzionale, una disparità di trattamento tra l'ipotesi di offerta fuori sede di strumenti finanziari che sia fondata sulla diversa tipologia di servizio d'investimento reso dall'intermediario, quando, per le ragioni già sopra indicate, del tutto analoga è la situazione di maggiore vulnerabilità in cui viene comunque a trovarsi il cliente per il fatto stesso che l'offerta lo raggiunge fuori dalla sede dell'intermediario o degli altri soggetti indicati dal primo comma del citato art. 30. 7. L'orientamento in precedenza espresso da questa corte sulla questione in esame non può essere dunque ulteriormente seguito ed occorre invece enunciare il principio secondo cui il diritto di recesso accordato all'investitore dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, e la previsione di nullità dei contratti in cui quel diritto non sia contemplato, contenuta nel successivo comma 7, trovano applicazione non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dell'intermediario sia intervenuta nell'ambito di un servizio di collocamento prestato dall'intermediario medesimo in favore dell'emittente o dell'offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio d'investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela. 8. Alla stregua di tale principio il ricorso non appare meritevole di accoglimento. 9. Essendo stato il ricorso deciso sulla base di un orientamento diverso da quello in precedenza assunto da questa corte, appare equo compensare le spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio. Così deciso in Roma, il 14 maggio 2013. Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2013 Sentenza 03 aprile 2014 n. 7776 Sez. III Contratti finanziari - Negoziazione di titoli fuori sede del proponente Collocamento di strumenti finanziari - Prospetto informativo sul diritto di recesso ex art. 30 d lgs 58/98 - Ambiguità della norma Ente Giudicante: Cassazione Civile Presidente: Pres. BERRUTI Giuseppe M.; Rel. ROSSETTI Marco avverso la sentenza n. 920/2010 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 04/11/2010 R.G.N. 1499/06; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/02/2014 dal Consigliere Dott. MARCO ROSSETTI; udito l'Avvocato ARTURO ANTONUCCI; udito l'Avvocato FABRIZIO CARBONETTI per delega; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni che ha concluso per il rinvio pregiudiziale alla C.G.U.E. e in subordine l'accoglimento del 1 motivo, assorbiti gli altri. Svolgimento del processo 1. Nel 2000 il sig. L.D.R.L. accettò nel proprio studio privato una proposta contrattuale sottopostagli da un funzionario della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. (d'ora innanzi, per brevità, "MPS"). 2. Il contratto in tal modo concluso aveva ad oggetto una articolata operazione finanziaria, denominata "Visione Europa", costituita dalla giustapposizione di tre diverse operazioni: (a) la formale concessione da parte della banca di un finanziamento al cliente, per l'importo di L. 100.000.000; (b) il contestuale acquisto da parte della MPS e per conto del cliente, con parte della provvista derivante da tale finanziamento, di titoli obbligazionari c.d. zero coupon (ovvero titoli il cui rendimento è pari alla differenza tra la somma che il sottoscrittore riceve alla scadenza e la somma che versa al momento della sottoscrizione) emessi dalla MPS e non quotati; (c) il contestuale acquisto, con la parte restante della provvista derivante dal finanziamento, sempre da parte della MPS e per conto del cliente, di quote di un fondo d'investimento a carattere azionario denominato "Ducato Azionario Europa"; tale fondo fu istituito dalla Ducato Gestioni s.p.a., società controllata dalla MPS, e le quote di esso erano collocate presso il pubblico dalla stessa MPS. L'operazione era completata dalla previsione che i titoli sub (b) e (c) fossero costituiti in pegno in favore della banca a garanzia della restituzione del finanziamento, e dall'assunzione dell'obbligo da parte del risparmiatore di restituire il capitale in rate trimestrali per il periodo di 15 anni ed al saggio di poco meno dell'8%. 3. Dopo che il contratto ebbe esecuzione per circa due anni, nel 2003 l'investitore convenne la MPS dinanzi il Tribunale di Mantova, allegando che: (a) aveva manifestato alla MPS la volontà di recedere dal contratto; (b) solo in seguito a tale manifestazione di volontà aveva appreso che il valore delle quote dei fondi comuni d'investimento acquistate in esecuzione del suddetto contratto era diminuito notevolmente; che le obbligazioni "zero coupon" acquistate sempre in esecuzione del suddetto contratto non erano quotate e potevano essere vendute solo alla stessa MPS, la quale ne determinava unilateralmente il prezzo. Sulla base principalmente di tali allegazioni l'attore formulò una serie di domande tra loro subordinate, ma tutte comunque volte a privare il contratto della sua efficacia, e cioè: (a) la dichiarazione di nullità ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 51, art. 30, comma 7, per non avere ricevuto l'avviso della facoltà di recesso entro i sette giorni successivi alla stipula; (b) la dichiarazione di nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c., sul presupposto che il contratto integrasse gli estremi d'una truffa penalmente rilevante; (c) la dichiarazione di annullamento del contratto per dolo determinante; (d) la dichiarazione di annullamento o di risoluzione del contratto per la violazione da parte della MPS degli obblighi precontrattuali di informazione del cliente e di offerta di prodotti adeguati, ai sensi degli artt. 21, 27, 28 e 29 del Regolamento Consob 1 luglio 1998, n. 11522. 3. Il Tribunale di Mantova, con sentenza 13.7.2005 n. 886, ritenne il contratto stipulato tra il sig. L.D.R.L. e la MPS nullo per violazione del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 30, comma 7, ovvero per non essere stato il risparmiatore informato dell'esistenza della facoltà di recesso entro sette giorni dalla stipula. Condannò, di conseguenza, la MPS a restituire all'attore la somma di Euro 13.635,03. 4. La sentenza venne impugnata dalla MPS dinanzi la Corte d'appello di Brescia. Il giudice d'appello accolse l'appello con la sentenza 4.11.2010 n. 920. La Corte d'appello di Brescia escluse che il contratto stipulato tra il sig. L.D.R.L. e la MPS potesse ritenersi nullo per mancanza dell'avviso sul diritto di recesso. La sentenza di secondo grado fu motivata con un ragionamento così riassumibile: (a) l'operazione finanziaria oggetto del giudizio era rappresentata dalla giustapposizione di tre diversi contratti: un contratto di mutuo, un contratto di acquisto di obbligazioni ed un contratto di acquisto di quote di un fondo d'investimento; (b) l'obbligo di informare il risparmiatore del diritto di ripensamento, di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, sussiste soltanto nel caso di stipula fuori sede dei contratti di collocamento di strumenti finanziari. Nel caso di specie, dunque, quell'obbligo informativo doveva essere osservato solo per la vendita delle quote del fondo di investimento "Ducato", e non per la vendita di obbligazioni, e tanto meno per l'erogazione del mutuo; (c) nel caso di specie, la MPS prima della stipula del contratto di collocamento delle quote del fondo d'investimento aveva fornito al cliente il prospetto informativo, nel quale era contenuta l'informazione sul diritto di ripensamento. La Corte d'appello soggiunse che l'informazione sul diritto di ripensamento, pur se contenuta nel solo prospetto informativo concernente l'operazione di acquisto di quote di fondo d'investimento, era idonea a salvaguardare l'interesse del risparmiatore: se, infatti, egli avesse scelto di recedere dal contratto di collocamento di strumenti finanziari, l'intera operazione sarebbe venuta meno, a causa della intima connessione dei tre contratti che la componevano. 5. La sentenza della Corte d'appello di Brescia è stata impugnata per cassazione dal sig. L.D.R.L., sulla base di otto motivi. La MPS ha resistito con controricorso; ambo le parti hanno depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c., e partecipato alla discussione in pubblica udienza. Motivi della decisione 1. Il primo motivo di ricorso. 1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe incorsa nel vizio di violazione di legge (di cui all'art. 360 c.p.c., n. 3). Si assume in particolare che essa avrebbe violato il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 30, comma 6, là dove ha ritenuto che la MPS abbia assolto l'onere previsto dalla legge a pena di nullità - di informare il cliente del diritto di ripensamento. 1.2. Espone, al riguardo, il ricorrente che il piano finanziario "Visione Europa" costituiva uno strumento contrattuale essenzialmente unitario, sebbene composto dalle tre distinte operazioni di finanziamento, acquisto di obbligazioni e sottoscrizione di quote del fondo "Ducato". Dalla natura unitaria dell'operazione discenderebbe la necessità che l'informazione sull'esistenza del diritto di ripensamento da un lato doveva essere contenuta non già nel prospetto informativo concernente l'acquisto delle quote del fondo "Ducato", ma nel modulo contrattuale relativo all'intero piano finanziario; e dall'altro tale informazione avrebbe dovuto prevedere espressamente che l'esercizio del diritto di ripensamento avrebbe avuto per effetto lo scioglimento dell'intero rapporto contrattuale, e non solo del contratto di acquisto delle quote del fondo d'investimento "Ducato". Soggiunge, infine, il ricorrente che in ogni caso l'obbligo di informare il risparmiatore del diritto di ripensamento sussiste non solo nell'ipotesi di stipula fuori sede di operazioni di collocamento di strumenti finanziari, ma anche nell'ipotesi di vendita fuori sede di obbligazioni, pur essa rientrante nelle operazioni di "collocamento" di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30. 1.3. Il motivo è fondato. La sentenza della Corte d'appello è incorsa infatti in tre errori di diritto: (a) avere ritenuto inapplicabile il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, ai contratti di negoziazione di strumenti finanziari conclusi al di fuori di un servizio di collocamento per conto terzi; (b) avere escluso che il contratto denominato "Visione Europa" costituisse di per sè e nel suo complesso un servizio di investimento, consistente nella vendita di strumenti finanziari; (c) avere ritenuto che nell'ambito del contratto denominato "Visione Europa" la banca potesse assolvere il proprio obbligo di informare il cliente del diritto di recesso limitandosi ad inserire la relativa clausola non già nel testo del contratto, ma nel prospetto informativo concernente la sola operazione di vendita di quote del fondo d'investimento. 1.4. Il primo errore commesso dalla Corte d'appello è consistito nella violazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7. Il giudice di secondo grado ha infatti affermato che "la clausola relativa al diritto di ripensamento doveva essere prevista unicamente quanto alla sottoscrizione delle quote del fondo comune di investimento". E poichè il prospetto informativo concernente la suddetta sottoscrizione prevedeva l'informazione sul diritto di recesso, nessuna nullità si era verificata nel caso di specie. Questa decisione tuttavia non è conforme all'interpretazione che del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, hanno dato le Sezioni Unite della Corte di cassazione, sia pure in epoca successiva alla pronuncia della Corte bresciana. 1.4.1. Il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, nel testo applicabile ratione temporis prevedeva che nel caso di stipula di contratti di "collocamento di strumenti finanziari" al di fuori della sede del proponente o dell'intermediario, "l'omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente". Le Sezioni Unite di questa Corte, componendo il contrasto sorto in seno alla Prima sezione, con sentenza n. 13905 del 03/06/2013 hanno chiarito il senso da attribuire alla norma sopra trascritta. Essa deve trovare applicazione, attesa la evidente identità di ratio, sia ai contratti stipulati in esecuzione di un contratto di collocamento in senso stretto, stipulato tra l'emittente del titolo e l'intermediario che in tal modo si obbliga alla rivendita di esso al pubblico; sia a tutti gli altri contratti di vendita di strumenti finanziari conclusi nell'ambito di un "servizio di investimento" come definito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 5. Tra i "servizi di investimento" di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, citato art. 1, comma 5, rientra anche la vendita per conto proprio o per conto di terzi di obbligazioni D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 3, lett. (b); di quote di fondi comuni d'investimento D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 3, lett. (c), e le combinazioni dei contratti appena ricordati D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 3, lett. (j). Ergo, l'informazione sul diritto di recesso deve essere fornita a pena di nullità anche nel caso di vendita per conto proprio o di terzi di obbligazioni o quote di fondi comuni. 1.4.2. Le Sezioni Unite sono pervenute a tale conclusione sulla base di due argomenti: (a) l'interpretazione finalistica; (b) l'interpretazione comunitariamente orientata. Sotto il primo aspetto, le Sezioni Unite hanno ritenuto che lo scopo della norma sul diritto di recesso dell'investitore nel caso di contratti stipulati fuori sede è evitare che esso possa trovarsi vincolato da contratti sui quali non abbia potuto adeguatamente riflettere; adeguata riflessione che deve per contro presumersi già avvenuta quando sia il risparmiatore a recarsi di propria iniziativa nei locali dell'intermediario o della banca (ovvero, come si esprime oggi il D.Lgs. n. 58 del 1998, d'un "soggetto abilitato" a svolgere servizi di investimento). Questo essendo lo scopo della norma, l'esigenza di tutela da essa sottesa sussiste tanto nell'ipotesi in cui il risparmiatore sia raggiunto, fuori sede, da una proposta contrattuale avente ad oggetto titoli che l'intermediario possiede od acquista da terzi (c.d. "negoziazione"); quanto nella diversa ipotesi in cui siano offerti in vendita al risparmiatore strumenti finanziari che l'intermediario si sia previamente obbligato nei confronti dell'emittente a "collocare" (ovvero rivendere a terzi, ove si volesse prescindere dal lessema linguisticamente inappropriato coniato dalla prassi e prescelto dal legislatore, il quale etimologicamente deriva da locus, e non esprime un concetto di trasferimento, ma il ben diverso concetto di "assegnare", "attribuire", "sistemare"). Sotto il secondo aspetto (l'interpretazione "comunitariamente orientata") le Sezioni Unite di questa Corte hanno osservato come anche a prescindere dalla ratio del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, comunque non vi può essere dubbio che la lettera di essa sia ambigua. Infatti, se si aderisse alla tesi restrittiva (secondo cui l'obbligo di informazione varrebbe solo per i contratti stipulati nell'ambito di servizi di collocamento), dovrebbe pervenirsi alla inaccettabile conclusione che il legislatore avrebbe usato il lemma "collocamento" con significati diversi nel primo e nel settimo comma della norma in esame. Di fronte a questa ambiguità, ed al cospetto di interpretazioni divergenti ma tutte teoricamente consentite dal testo della norma, l'interprete - proseguono le SS.UU. - ha l'obbligo di adottare l'interpretazione maggiormente coerente con i precetti del diritto comunitario. E poichè l'art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea sancisce il principio per cui è compiuto dell'Unione garantire "un livello elevato di protezione dei consumatori", tra due interpretazioni alternative ed ambedue plausibili sul piano letterale, l'interprete ha il dovere di preferire quella in grado di apprestare un più elevato livello di protezione al risparmiatore. 1.4.3. Questa Sezione condivide e ribadisce la lettura del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, compiuta dalle Sezioni Unite, e ritiene che anche ulteriori ragioni ostino all'accoglimento dell'interpretazione adottata dalla sentenza qui impugnata. Se, infatti, si interpretasse il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, nel restrittivo senso fatto proprio dalla Corte d'appello, esso sarebbe di fatto inapplicabile. La norma, infatti, accorda al risparmiatore il diritto di recesso dai "contratti di collocamento". Ma contratti di collocamento in senso tecnico sono soltanto gli accordi tra intermediario ed emittente, e nei rapporti tra investitori professionali il diritto di recesso è espressamente escluso dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 2. Da ciò discendono due conseguenze sul piano della logica formale. La prima è che l'adesione alla lettura restrittiva del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, renderebbe la norma inutile, perchè non potrebbe darsi alcun caso in cui un "contratto di collocamento" sia stipulato tra l'emittente ed un risparmiatore. Ed il canone interpretativo dell'interpretazione utile vieta all'interprete di adottare soluzioni ermeneutiche che annullino la portata precettiva della norma. La seconda conseguenza è che l'interpretazione qui contestata pretende di interpretare la medesima norma con diverso rigore sintattico a seconda del fine cui è preordinata l'interpretazione. Quando si tratta di escludere che il diritto di recesso si applichi ai contratti di negoziazione di titoli, si assume che il legislatore abbia usato un lessico rigoroso e tecnico, e che pertanto il recesso non spetti nel caso di negoziazione perchè quest'ultima è contratto ben diverso da quello di collocamento. Quando, invece, si tratta di replicare all'obiezione secondo cui il contratto di "collocamento di strumenti finanziari" è quello stipulato tra emittente e intermediario (sicchè la norma non potrebbe essere interpretata in senso stretto a pena di inapplicabilità), l'orientamento qui in contestazione ammette che l'espressione "collocamento di strumenti finanziari" sia stata usata nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, in senso atecnico. La tesi qui in contestazione, in definitiva, perviene all'inaccettabile risultato di usare due pesi e due misure nell'interpretare il medesimo lemma, ritenendo a certi fini che sia stato usato in modo calzante, e ad altri fini che sia stato usato in modo atecnico e generico. 1.5. Il secondo errore in iure commesso dalla Corte d'appello è stato il ritenere che il contratto denominato "Visione Europa" non costituisse di per sè e nel suo complesso un servizio di investimento, consistente nella vendita di strumenti finanziari, e che pertanto l'informazione sul recesso potesse legittimamente essere contenuta nel solo prospetto informativo concernente l'operazione di acquisto di quote del fondo d'investimento "Ducato". 1.5.1. Si sono già descritte supra, al p. 2 dello "Svolgimento del processo", le caratteristiche del contratto in esame, che non sono in contestazione tra le parti. A parte varie ipotesi di nullità di singole clausole che non rilevano in questa sede (si veda, a mero titolo d'esempio, l'art. 6 della Sezione 2^, il quale prevedendo che gli eredi del risparmiatore siano obbligati "con vincolo di solidarietà ed indivisibilità" verso la banca contiene un palese patto successorio, nullo ai sensi dell'art. 458 c.c.), ai fini che in questa sede rilevano, le caratteristiche essenziali dell'operazione consistevano in una stretta ed indissolubile connessione tra le tre operazioni nelle quali il contratto formalmente si scomponeva. Ed infatti: (a) il finanziamento formalmente concesso dalla banca al risparmiatore non poteva essere utilizzato per altro scopo che l'acquisto dei titoli (e solo di quei titoli) già predeterminati dalla banca; (b) il risparmiatore non aveva alcuna possibilità di scelta dei titoli da acquistare; (c) nessun effettivo passaggio di denaro avveniva di fatto dalla banca verso il risparmiatore, posto che la prima si obbligava formalmente ad usare proprio denaro per acquistare per conto del cliente proprie obbligazioni e quote di un fondo istituito da una propria controllata; (d) il cliente non acquisiva nemmeno il possesso dei titoli sub (c, i quali venivano immediatamente costituiti in pegno a favore della banca ed a garanzia della restituzione del finanziamento. 1.5.2. Un contratto che presenti le caratteristiche appena descritte è un contratto unitario, perchè unitaria ne fu la causa. E ciò tanto nell'ipotesi in cui si volesse intendere tale nozione in senso astratto come "funzione economico-sociale del contratto"; quanto nell'ipotesi in cui la si volesse intendere in senso concreto quale scopo avuto di mira dai contraenti (questione sulla quale non mette conto in questa sede intervenire), come già ritenuto da questa Corte in fattispecie identica (Sez. 1, Sentenza n. 1584 del 03/02/2012, Rv. 622621). Ed infatti ove si intendesse la causa negoziale nel senso tradizionale di "funzione economico-sociale" del contratto, è agevole rilevare che il contratto "Visione Europa" si fonda su un do ut facias, in virtù del quale il risparmiatore si obbligava a pagare 61 rate in 15 anni, e la banca ad acquistare titoli remunerativi i cui frutti sarebbero andati a pro del cliente. Questo era il nucleo dell'operazione, e la sua scomposizione in tre contratti non è che fittizia ed apparente, e come tale giuridicamente irrilevante, alla luce del secolare principio plus valet quod agitur, quam quod simulate concipitur. Ove, per contro, si intendesse la causa quale scopo concreto avuto di mira dalle parti, secondo il più recente orientamento di questa Corte (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 23941 del 12/11/2009, Rv. 610016; Sez. 3, Sentenza n. 10490 del 08/05/2006, Rv. 592154), il contratto "Visione Europa" non cesserebbe per ciò solo di costituire un negozio unitario. Scopo concreto delle parti fu infatti quello, con ogni evidenza, di garantire una remunerazione ai risparmi dell'investitore, e quindi uno scopo di investimento. Scopo di investimento che, è bene ricordare, non può mai sottrarre il contratto che lo persegue alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 58 del 1998 sol perchè le parti lo abbiano qualificato in altre e talora fantasiose guise, atteso che la nozione di contratto di investimento costituisce uno schema atipico, la quale comprende "ogni forma di investimento finanziario, ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 1, comma 1, lett. u), riflettendo la natura aperta ed a tecnica di prodotto finanziario, la quale rappresenta la risposta legislativa alla creatività del mercato ed alla molteplicità degli strumenti offerti al pubblico, nonchè all'esigenza di tutela degli investitori" (sono parole, qui pienamente condivise, di Sez. 2, Sentenza n. 2736 del 05/02/2013, Rv. 625071). Nel caso di specie non ci troviamo dunque al cospetto di un collegamento negoziale (genetico o funzionale che fosse), perchè le singole operazioni previste per raggiungere lo scopo finale dell'investimento non avevano alcuna autonomia concettuale, giuridica o pratica. Non solo, infatti, esse erano tutte coessenziali al conseguimento dello scopo (elemento ovviamente sussistente anche nelle ipotesi di collegamento negoziale di tipo funzionale), ma ciascuna di esse era altresì inutile ed inconcepibile senza la contestuale stipula delle altre. 1.5.3. Pertanto, avendo il contratto "Visione Europa" natura e funzione unitaria, e costituendo per quanto già detto un "servizio di investimento" ai fini di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, esso avrebbe dovuto prevedere nelle sue condizioni generali, a pena di nullità, l'informazione al cliente dell'esistenza del diritto di recesso. 1.6. Vi è stato infine, come accennato, un terzo error iuris nella decisione impugnata. La Corte d'appello di Brescia, con motivazione ad abundantiam (aveva infatti ritenuto non necessaria l'informazione sul diritto di recesso data la natura del contratto, e ciò sarebbe bastato per accogliere il gravame sul punto), ha ritenuto di soggiungere che comunque nel caso di specie l'onere informativo a carico della MPS era stato da questa adempiuto. L'informazione sul diritto di recesso era infatti contenuta nel prospetto informativo concernente l'acquisto delle quote del fondo di investimento, ed "in relazione all'inscindibilità dei componenti della proposta e delle modalità attuatile (...) l'esercizio del diritto di ripensamento previsto quanto alla sottoscrizione di quote del fondo di investimento avrebbe necessariamente travolto tutta la proposta". Sicchè - questa sembra essere la conclusione implicita, ma chiara, della Corte d'appello - l'informazione sul recesso contenuta nel prospetto informativo concernente il fondo "Ducato" bastava a salvare dalla nullità l'intera operazione. Tale affermazione non può essere condivisa per due indipendenti ragioni. 1.6.1. La prima ragione è che il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, impone che l'informazione sulla facoltà di recesso sia contenuta nei "moduli o formulari" dei contratti stipulati fuori sede. L'espressione "moduli o formulari" compare due volte nel codice civile: nell'art. 1342 c.c., il quale stabilisce che nei contratti conclusi mediante la sottoscrizione di moduli o formulari le clausole aggiunte al modulo o al formulario prevalgono su quelle del modulo o del formulario qualora siano incompatibili con esse; e nell'art. 1370 c.c., il quale stabilisce che le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s'interpretano, nel dubbio, a favore dell'altro. Le due norme rendono edotti che i "moduli e formulari" di cui in esse si fa menzione non coincidono con le condizioni generali di contratto, ma costituiscono il documento nel quale è consacrato il testo contrattuale: quello, per intenderci, destinato alla sottoscrizione per adesione. Questi principi generali vanno coordinati, nella nostra materia, con le previsioni del D.Lgs. n. 58 del 1998 e dei regolamenti amministrativi che l'hanno attuato od integrato. A livello della fonte primaria viene in rilievo il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, il quale prescrive che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento "sono redatti per iscritto" a pena di nullità. A livello della fonte secondaria l viene in rilievo la Delib. Consob 1 luglio 1998, n. 11522, art. 36 (nel testo applicabile ratione temporis, e cioè dopo le modifiche introdotte dall'art. unico della Delib. Consob 1 marzo 2000, n. 12409, e prima dell'abrogazione disposta dall'art. 113, comma 7, della Delib. Consob 29 ottobre 2007, n. 16190), il quale stabiliva all'epoca dei fatti che nel caso di offerta fuori sede di strumenti finanziari all'investitore devono essere consegnati sia "i documenti contrattuali per la fornitura dei servizi di investimento", sia il "documento di acquisto o di sottoscrizione" degli strumenti finanziari. Nel nostro caso, in virtù della già illustrata natura unitaria del contratto "Visione Europa", è dunque evidente che il "modulo o formulario" cui fa riferimento il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 7, è costituito, alternativamente: (a) o dal documento che esprime ex art. 1321 c.c. l'accordo sull'intera operazione di finanziamento, ai sensi del D.Lgs. n. 258 del 1998, art. 23; (b) ovvero dal documento che ne illustra il contenuto e le condizioni generali, ai sensi dell'art. 36, comma 1, lett. (b), Reg. Consob 11522/98. L'informazione contenuta nel prospetto informativo relativo all'acquisto di quote di fondi comuni non è dunque idonea a soddisfare l'onere posto a carico dell'intermediario dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, perchè quel prospetto - relativo ad un solo segmento dell'operazione finanziaria - non può farsi rientrare tra i "moduli o formulari" di cui è menzione nell'art. 30 cit., posto che - per quanto detto - per tali devono intendersi quelli riguardanti il complesso dell'operazione, e non un frammento di essa. 1.6.2. V'è poi, come accennato, una seconda ed indipendente ragione per la quale l'inserimento dell'informazione sul recesso nel solo prospetto informativo concernente l'acquisto delle quote del fondo comune non soddisfa l'onere imposto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, e non salva dalla nullità l'intero contratto: e tale ragione consiste nella violazione dell'obbligo di chiarezza. Le regole tanto comunitarie, quanto nazionali, che disciplinano il contenuto e la forma dei contratti di investimento impongono all'intermediario ed all'emittente il dovere del dare loqui, ovvero di "parlare chiaro". Il dovere di chiarezza è imposto, in primo luogo, dal diritto comunitario. Lo era all'epoca dei fatti di causa (2000), per effetto dell'art. 11 della Direttiva 93/22/CEE del Consiglio, del 10 maggio 1993, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, il quale imponeva agli Stati membri l'obbligo di prevedere a carico delle "imprese di investimento" il duplice obbligo sia di "agire in modo leale ed equo"; sia di "trasmettere adeguatamente le informazioni utili nell'ambito dei negoziati con i suoi clienti". Ed ovviamente va da sè che una informazione "adeguata" non può non essere anche "chiara", per la contraddizione che non lo consente. Dovere di chiarezza, vale la pena aggiungere, ribadito e rafforzato dall'art. 19, comma 2, della Direttiva 2004/39/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004 (c.d. "Direttiva MiFID"), il quale stabilisce che "tutte le informazioni (...) indirizzate dalle imprese di investimento a clienti (...) sono corrette, chiare e non fuorvianti". Tali principi sono ribaditi, a livello di legislazione nazionale, in primo luogo dagli artt. 1175 e 1375 c.c., i quali pacificamente pongono a carico dei contraenti un obbligo di informazione e chiarezza. In secondo luogo, l'obbligo di chiarezza dei testi contrattuali è desumibile sia dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, nella parte in cui impone agli intermediari di "operare in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati"; sia dal Regolamento Consob 11522/98 e dall'Allegato 7 ad esso, ove si impone all'intermediario di "illustrare all'investitore in modo chiaro ed esauriente (...) gli elementi essenziali dell'operazione, del servizio o del prodotto". Il dovere di chiarezza ovviamente non è fine a sè stesso: esso è un corollario indefettibile del dovere di informazione, e l'uno e l'altro hanno lo scopo di colmare le "asimmetrie informative" tra risparmiatore ed intermediario. L'uno, infatti, è titolare del diritto di scegliere se, come, quando e quanto investire dei propri risparmi; ma di norma non è in possesso delle nozioni che gli consentano di effettuare tali scelte con cognizione di causa. L'altro possiede tali nozioni, ma non è titolare del diritto di disporre dei risparmi del cliente. Il risparmiatore è dunque titolare di un diritto il cui corretto e proficuo esercizio dipende dal possesso di informazioni che gli debbono essere fornite da altri. Un esercizio, quindi, che esige un "consenso informato". L'obbligo di informazione si ridurrebbe tuttavia ad una lustra se, come non di rado avviene nella prassi, fosse assolto in modo puramente formale. Ad esempio, attraverso la sottoposizione al risparmiatore di profluvi di documenti disseminati di tecnicismi e solecismi, senza che alcuno si prenda la briga di fargliene chiaro il senso. Adempiuto in tal guisa, l'obbligo di informazione non potrebbe mai raggiungere lo scopo di consentire al risparmiatore una scelta consapevole: e dunque non potrebbe dirsi davvero adempiuto. Un testo contrattuale non chiaro è un testo che non informa; ed un testo che non informa non mette il risparmiatore in condizione di prestare un valido consenso informato. Il requisito di chiarezza prescritto dalle norme sopra ricordate può mancare sia sul piano morfologico (ad esempio, impiego di lemmi di uso non comune); sia sul piano sintattico (ad esempio, per l'adozione di periodi oscuri, rinvii, ipotassi, anacoluti). Sul piano sintattico la forma più tipica di mancanza di chiarezza è l'ambiguità, ovvero la possibilità che il testo sia interpretato in modi alternativi e divergenti. Si applichino ora i seguenti principi al caso di specie. Il contratto "Visione Europa" non conteneva alcuna informazione sul diritto di recesso. Il prospetto informativo sull'acquisto delle quote del fondo "Ducato", che costituiva come già detto un segmento soltanto dell'intera operazione di investimento, conteneva quell'avviso, ovviamente riferito alla sola facoltà di recedere dall'acquisto delle quote del fondo. Un simile testo contrattuale è di per sè ambiguo. Esso lasciava infatti al risparmiatore il dubbio se il diritto di recesso avrebbe riguardato solo l'investimento in quote del fondo, ovvero l'intera operazione; nè può esigersi dal risparmiatore che questi provveda di per sè ad un'analisi del testo contrattuale alla luce della legislazione comunitaria e della giurisprudenza, per trarne le necessarie informazioni sulla portata del diritto di recesso. Da quanto esposto consegue che, anche ad ammettere che la MPS abbia fornito l'informazione sul diritto di recesso, essa non l'ha fatto in modo chiaro, e dunque la suddetta informazione è tamquam non esset. 2. I rilievi svolti dalla MPS nel controricorso e nella memoria ex art. 378 c.p.c. non scalfiscono le osservazioni che precedono. La maggior parte di essi trova risposta in quanto già esposto; agli ulteriori rilievi svolti dalla MPS va replicato che: (a) stupefacente, prima ancora che infondata, è l'affermazione secondo cui le singole operazione che componevano il contratto "Visione Europa" restavano "nettamente distinte e separate tra loro" (così il controricorso, pag. 9), alla luce delle caratteristiche del contratto come descritte al p. 2 dello "Svolgimento del processo", ed al p.1.5.1 dei "Motivi della decisione"; (b) che l'attività svolta dalla MPS nei confronti del sig. L. D.R.L. non potesse qualificarsi come "attività di collocamento" (a prescindere da qualsiasi giudizio su tale affermazione, di cui a pag. 10 del controricorso) è irrilevante, posto che per quanto detto l'obbligo di informazione sul diritto di recesso riguarda anche i contratti stipulati al di fuori dei servizi di collocamento in senso stretto; (c) la MPS non era affatto un "intermediario negoziatore" (come si afferma, richiamando giurisprudenza di merito, a pag. 13 del controricorso), se non da un punto di vista puramente formale, per l'ovvia considerazione che in attuazione del contratto "Visione Europa" il cliente poteva acquistare solo quei determinati titoli, e tutti emessi dalla stessa MPS o da società del gruppo; (d) singolare è poi il capovolgimento dei rapporti fra legge e cittadini nell'affermazione compiuta a pag. 6 della memoria ex art. 378 c.p.c. della MPS, secondo cui le Sezioni Unite della Corte di cassazione, stabilendo che il diritto di recesso D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 30, comma 7, si applichi anche ai contratti di negoziazione, "si sono poste in aperta antitesi con la prassi consolidata degli intermediari", posto che è la prassi commerciale a doversi adeguare alla legge per come interpretata dall'organo giurisdizionale di vertice, e non il contrario; (e) la MPS ha poi sostenuto che l'applicazione della sospensione D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 30, comma 6, ai contratti di negoziazione impedirebbe l'esecuzione immediata dell'ordine del cliente, con i conseguenti rischi di fluttuazioni legate alle oscillazioni dei valori di riferimento (monetari, azionari o di altro tipo; così la memoria ex art. 378 c.p.c., pag. 8); tale rilievo è inconferente nel presente giudizio, nel quale il contratto non prevedeva una esecuzione immediata, e comunque è superato dall'osservazione svolta dalle Sezioni Unite nella sentenza sopra ricordata, secondo cui - ammesso che di inconveniente si tratti - esso è il necessario prezzo da pagare per salvaguardare il superiore principio di tutela del risparmiatore. 3. Infine, alle pagg. 10 e ss. della memoria ex art. 378 c.p.c., la MPS ha sostenuto che la correttezza del principio affermato dalla sentenza impugnata è stata ora esplicitamente confermata dal D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 56 quater (convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2013, n. 98, c.d. "decreto del fare"). Questa norma ha infatti inserito una interpolazione nel D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6, la quale così recita: "ferma restando l'applicazione della disciplina di cui al primo e al secondo periodo ai servizi di investimento di cui all'art. 1, comma 5, lett. c), c- bis) e d), per i contratti sottoscritti a decorrere dal 1 settembre 2013 la medesima disciplina si applica anche ai servizi di investimento di cui all'art. 1, comma 5, lett. a)". Il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 1, comma 5, lett. (a) prevede un solo tipo di "servizi di investimento", e cioè la negoziazione per conto proprio di strumenti finanziari. La MPS interpreta dunque la norma appena trascritta nel senso che essa avrebbe introdotto un discrimine: (a) le vendite di strumenti finanziari per conto proprio, stipulate fuori sede a partire dal 1.9.2013 debbono contenere, a pena di nullità, l'informazione sul diritto di recesso del risparmiatore; b) le vendite di strumenti finanziari per conto proprio, stipulate fuori sede fino al 31.8.2013 non debbono contenere, a pena di nullità, l'informazione sul diritto di recesso del risparmiatore. La norma, soggiunge la MPS, avrebbe natura di norma interpretativa; essa sarebbe di conseguenza retroattiva, ed ha avuto il solo scopo di dissipare i dubbi su quale fosse la volontà del legislatore allorchè scrisse il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 30, comma 6. 3.1. La lettura che la controricorrente MPS invoca del D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater non può essere condivisa. La suddetta norma, infatti, non ha natura interpretativa. Depongono univocamente in tal senso l'interpretazione logica, quella finalistica e quella costituzionalmente orientata. 3.2. Dal punto di vista dell'interpretazione logica, va rilevato come il precetto contenuto nel D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater affermi che il diritto di recesso si applica ai contratti di negoziazione titoli stipulati dopo il 1.9.2013. La norma non nega il contrario, e cioè che il diritto di recesso non si applichi ai contratti stipulati prima di tale data. Ci troviamo dunque dinanzi ad una norma che afferma il precetto "A", ma non nega affatto il precetto "non-A". Se il legislatore avesse davvero inteso escludere il diritto di recesso per i contratti stipulati prima di settembre 2013, non avrebbe dovuto stabilire che il diritto "A" si applica ai contratti stipulati dopo: avrebbe dovuto sancire che il diritto "A" non si applica ai contratti stipulati prima. Sul piano della logica formale ne discende una importante conseguenza. La regola ermeneutica classica dell'inclusio unius, exclusio alterius, trova applicazione quando la norma scelga tra due soluzioni possibili e tra loro alternative, cioè legate da un nesso di esclusione reciproca. Così, ad esempio, una norma che sancisse l'invalidità dei contratti stipulati dopo una certa data non consente dubbi sul fatto che quei contratti non possano essere efficaci. Non è questo il nostro caso. Individuato il discrimine temporale del 1.9.2013, la legge dichiara che ai contratti dopo tale data si applica il diritto di recesso: ma tale affermazione non è legata da un nesso di esclusione reciproca rispetto al suo contrario: e cioè che ai contratti stipulati prima di tale data il diritto di recesso non si applichi. Nel nostro caso dunque delle quattro soluzioni teoricamente possibili del problema, e cioè: (a) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati prima di settembre, ma non a quelli dopo; (b) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati dopo settembre, ma non a quelli prima; (c) il diritto di recesso si applica ai contratti stipulati sia prima che dopo settembre; (d) il diritto di recesso non si applica nè ai contratti stipulati prima di settembre, nè a quelli stipulati dopo; la lettera della legge per come è stata concepita consente di escludere con certezza la prima e l'ultima, ma lascia impregiudicate le altre due. 3.3. Sul piano dell'interpretazione finalistica, la controricorrente MPS da per scontato che il legislatore sia intervenuto col D.L. n. 69 del 2013 per ristabilire una situazione di certezza, la quale sarebbe venuta meno in seguito all'intervento delle Sezioni Unite (così la memoria ex art. 378 c.p.c., pag. 12). Questa lettura della nuova norma non ha alcuna solida base. Il presupposto che legittima l'intervento del legislatore attraverso una norma di interpretazione autentica è la situazione di incertezza che il legislatore intende eliminare. Nel nostro ordinamento questa situazione di incertezza non solo non esisteva, ma anzi era stata esclusa proprio dall'intervento delle Sezioni Unite, cui l'art. 65 dell'Ordinamento giudiziario attribuisce il compito di rimuoverle, le incertezze, e non di crearle. Nè, ovviamente, potrebbe spacciarsi per "incertezza del diritto" l'eventuale malumore ingenerato da una decisione della Corte di cassazione confliggente con (pur legittimi) interessi od aspettative privati. Dunque il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater non può ritenersi una norma interpretativa perchè dell'interpretazione autentica mancava il primo e principale presupposto, ovvero la possibilità di letture contrastanti. Possibilità venuta meno proprio in seguito all'intervento delle Sezioni Unite più volte ricordato, alla luce del combinato disposto degli artt. 65 ord. giud. e 374 c.p.c.. 3.4. Oltre che per la mancanza del presupposto della oggettiva incertezza, l'art. 56 quater d.l. cit. non può essere qualificato come "norma interpretativa" nemmeno alla luce dei lavori preparatori, che non contengono alcuna indicazione in tal senso. Anzi, se mai vi fu norma oscura nella genesi e negli intenti, questa è il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater. Non presente nel testo originario del decreto presentato alle Camere per la conversione in legge, la norma di cui si discorre fu introdotta nel corso dell'esame al Senato (dopo che già l'altro ramo del Parlamento aveva approvato il disegno di legge di conversione del decreto), per effetto dell'emendamento 56ter.0.1000 presentato dal Governo. Durante l'esame dinanzi alle Commissioni 1^ e 5^ riunite del Senato, l'emendamento venne esaminato nella 10^ seduta, svoltasi lunedì 5 agosto 2013. In quella seduta nessuno si peritò di illustrare l'emendamento di cui si discorre; nessuno ne spiegò il senso o gli scopi, nessuno ne rese manifesta l'utilità. Dal resoconto della seduta si apprende unicamente che a un certo punto venne "posto in votazione, con il parere favorevole dei relatori, l'emendamento 56ter.0.1000, che è accolto" (cfr. resoconto sommario n. 5 del 5.8.2013). Non diverso fu l'iter di approvazione della norma in esame da parte dell'assemblea. Nella 91^ seduta pubblica del 7.8.2013 nè il governo, nè alcun Senatore ha illustrato senso, scopi e ragione della nuova norma. Si legge infatti nel resoconto stenografico n. 91 del 7.8.2013: "PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell'emendamento 56-ter.0.1000. Votazione nominale con scrutinio simultaneo. PRESIDENTE. Indico la votazione nominale con scrutinio simultaneo, mediante procedimento elettronico, dell'emendamento 56-ter.0.1000, presentato dalle Commissioni riunite. Dichiaro aperta la votazione. (Segue la votazione). Il Senato approva". Il giorno dopo il D.D.L. di conversione del D.L. n. 69 del 2013 passò (per la seconda volta) alla Camera, dove l'intera discussione verte unicamente sulla bizzarra circostanza che il testo del D.D.L. trasmesso alla Camera non coincideva con quello approvato dal Senato. Nè nel resoconto stenografico dell'Assemblea relativo alla seduta n. 68 di giovedì 8 agosto 2013; nè in quello n. 69 di venerdì 9 agosto 2013 si rinviene un solo intervento, del relatore o d'altri, che spieghi lo scopo dell'emendamento. Questo essendo stato l'iter di formazione del D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater, non è chiaro donde la controricorrente tragga la convinzione che la norma sia stata approvata per "ristabilire la certezza", a suo dire infranta dall'intervento delle Sezioni Unite. E comunque, a tutto concedere, in ogni caso "l'intenzione del legislatore" di cui è menzione nell'art. 12 preleggi va intesa - per risalente tradizione - come volontà oggettiva della norma (c.d. voluntas legis), e non certo come volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa (c.d. voluntas legislatoris) (ex multis, Sez. 3, Sentenza n. 3550 del 21/05/1988, Rv. 458871; Sez. L, Sentenza n. 3276 del 08/06/1979, Rv. 399660; Sez. 2, Sentenza n. 1955 del 19/05/1975, Rv. 375656; Sez. 1, Sentenza n. 937 del 13/03/1975, Rv. 374322). Infine, e sempre con riferimento all'intenzione del legislatore, è appena il caso di rilevare che gli atti normativi debbono presumersi voluti dal legislatore in senso conforme alle regole ed ai principi dell'ordinamento: sicchè non può certo presumersi che il Governo, con l'emendamento introduttivo del D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater, abbia avuto il poco commendevole intento di porre in non cale una sentenza delle Sezioni Unite, e scardinare in tal modo il principio di separazione tra i poteri dello Stato. 3.5. Il D.L. n. 69 del 2013, art. 56 quater, in secondo luogo, non può essere considerato una norma di interpretazione autentica in base all'interpretazione costituzionalmente orientata. Se, infatti, la norma in esame si interpretasse nel senso propugnato dalla controricorrente, essa entrerebbe in conflitto con molteplici precetti di rango costituzionale. In primo luogo, l'interpretazione qui contestata si porrebbe in conflitto con l'art. 47 Cost., comma 1, nella parte in cui introdurrebbe un regime di favore per gli istituti di credito i quali abbiano stipulato contratti di negoziazione titoli fuori sede prima del 1.9.2013. La suddetta distinzione inoltre, essendo rimasto immutato il resto della norma, sarebbe difficilmente compatibile col principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., posto che non esiste alcuna circostanza idonea a giustificare una più solida tutela per i risparmiatori che abbiano stipulato i loro contratti dopo una certa data, rispetto a quelli che l'abbiano fatto prima. In terzo luogo, l'interpretazione caldeggiata dalla MPS potrebbe porre la norma in contrasto con gli artt. 101 e 104 Cost., nella parte in cui finirebbe per vanificare con effetto retroattivo il dictum delle Sezioni Unite già più volte ricordato. 4. La sentenza impugnata deve, in definitiva, essere cassata con rinvio sulla base dei seguenti principi di diritto: (A) L'operazione finanziaria consistente nell'erogazione al cliente, da parte d'una banca, d'un mutuo contestualmente impiegato per acquistare per conto del cliente strumenti finanziari predeterminati ed emessi dalla banca stessa, a loro volta contestualmente costituiti in pegno in favore della banca a garanzia della restituzione del finanziamento, da vita ad un contratto atipico unico ed unitario, la cui causa concreta risiede nella realizzazione di un lucro finanziario, e che va sussunto tra i "servizi di investimento" di cui al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 1, comma 5. (B) Il diritto di recesso previsto in favore del risparmiatore dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 30, comma 7, nel caso di contratti stipulati fuori sede si applica sia nel caso di vendita di strumenti finanziari per i quali l'intermediario ha assunto un obbligo di collocamento nei confronti dell'emittente) sia nel caso di mera negoziazione di titoli. (C) Il D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 56 quater, il quale - novellando il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 30, comma 6, - ha previsto che il diritto di recesso del risparmiatore dai contratti di investimento stipulati fuori sede spetti anche nel caso di operazioni di negoziazione di titoli per conto proprio stipulate dopo il 1 settembre 2013 non è una norma di interpretazione autentica, e non ha avuto l'effetto di sanare l'eventuale nullità dei suddetti contratti, se privi dell'avviso al risparmiatore dell'esistenza del diritto di recesso e stipulati prima del 1 settembre 2013. Il giudice del rinvio provvederà, una volta applicati i suddetti principi, a statuire sulle domande restitutorie scaturenti dalla nullità del contratto. 4. Gli altri motivi di ricorso. 4.1. Gli ulteriori motivi di ricorso proposti dal ricorrente restano assorbiti dall'accoglimento del primo. 5. Le spese. Le spese del giudizio di legittimità e dei gradi precedenti di merito saranno liquidate dal giudice del rinvio, ai sensi dell'art. 385 c.p.c., comma 3. P.Q.M. la Corte di cassazione, visto l'art. 383 c.p.c., comma 1: -) accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti gli altri; -) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia; -) rimette al giudice del rinvio la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità e di quelle dei gradi di merito. Così deciso in Roma, 11 febbraio 2014. DATA DEPOSITO 3 APRILE 2014 SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione) 21 gennaio 2015 (*) «Rinvio pregiudiziale – Direttiva 93/13/CEE – Contratti conclusi tra consumatori e professionisti – Contratti di mutuo ipotecario – Clausola relativa agli interessi di mora – Clausole abusive – Procedimento di esecuzione ipotecaria – Moderazione dell’importo degli interessi – Competenze del giudice nazionale» Nelle cause riunite C-482/13, C-484/13, C-485/13 e C-487/13, aventi ad oggetto le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Juzgado de Primera Instancia e Instrucción de Marchena (Spagna), con decisioni del 12 agosto 2013, pervenute in cancelleria il 10 settembre 2013, nei procedimenti Unicaja Banco, SA contro José Hidalgo Rueda, María del Carmen Vega Martín, Gestión Patrimonial Hive SL, Francisco Antonio López Reina, Rosa María Hidalgo Vega (C-482/13), e Caixabank SA contro Manuel María Rueda Ledesma, (C-484/13) Rosario Mesa Mesa (C-484/13), José Labella Crespo, (C-485/13) Rosario Márquez Rodríguez, (C-485/13) Rafael Gallardo Salvat, (C485/13) Manuela Márquez Rodríguez (C-485/13), Alberto Galán Luna, (C-487/13) Domingo Galán Luna (C-487/13), LA CORTE (Prima Sezione), composta da A. Tizzano, presidente di sezione, S. Rodin, E. Levits (relatore), M. Berger e F. Biltgen(giudici), avvocato generale: N. Wahl cancelliere: M. Ferreira, amministratore principale vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 10 settembre 2014,considerate le osservazioni presentate: – per l’Unicaja Banco SA, da J. Almoguera Valencia, abogado, – per la Caixabank SA, da J. Rodríguez Cárcamo, e da B. García Gómez, abogados, – per il governo spagnolo, da A. Rubio González e S. Centeno Huerta, in qualità di agenti, – per la Commissione europea, da J. Rius, M. van Beek e G. Valero Jordana, in qualità di agenti, sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 16 ottobre 2014,ha pronunciato la seguente Sentenza 1 Le domande di pronuncia pregiudiziale vertono sull’interpretazione dell’articolo 6 della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GU L 95, pag. 29). 2 Tali domande sono state presentate nell’ambito di controversie che oppongono, da una parte, l’Unicaja Banco SA (in prosieguo: l’«Unicaja Banco») al sig. Hidalgo Rueda, alla sig.ra del CarmenVega Martín, alla Gestión Patrimonial Hive SL, al sig. López Reina e alla sig.ra Hidalgo Vega, dall’altra, la Caixabank SA (in prosieguo: la «Caixabank»), in primo luogo, ai sigg. Rueda Ledesma e Mesa Mesa, in secondo luogo, al sig. Labella Crespo, alla sig.ra Márquez Rodríguez, al sig. Gallardo Salvat e alla sig.ra M. Márquez Rodríguez nonché, in terzo luogo, ai sigg. A. GalánLuna e D. Galán Luna, in merito alla riscossione di debiti non pagati derivanti da contratti di mutuoipotecario stipulati tra tali parti del procedimento principale. Contesto normativo La direttiva 93/13 3 L’articolo 1, paragrafo 2, della direttiva 93/13 prevede quanto segue: «Le clausole contrattuali che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative e disposizioni o principi di convenzioni internazionali, in particolare nel settore dei trasporti, dellequali gli Stati membri o la Comunità sono parte, non sono soggette alle disposizioni della presentedirettiva». 4 L’articolo 3, paragrafo 1, di questa direttiva così recita: «Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se,malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativosquilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto». 5 L’articolo 4, paragrafo 1, di detta direttiva precisa che: «(…) il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o diun altro contratto da cui esso dipende». 6 L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 dispone che: «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini,sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive». 7 In base all’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva: «Gli Stati membri, nell’interesse dei consumatori e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori». Il diritto spagnolo 8 Nel diritto spagnolo la tutela dei consumatori contro le clausole abusive è stata garantita inizialmente dalla legge generale 26/1984, sulla tutela dei consumatori e degli utenti (Ley General26/1984 para la Defensa de los Consumidores y Usuarios), del 19 luglio 1984 (BOE n. 176, del 24luglio 1984, pag. 21686). 9 La legge generale 26/1984 è stata in seguito modificata dalla legge 7/1998, relativa alle condizioni generali di contratto (Ley 7/1998 sobre condiciones generales de la contratación), del 13 aprile 1998(BOE n. 89, del 14 aprile 1998, pag. 12304), che ha recepito la direttiva nel diritto interno spagnolo. 10 Tali disposizioni sono state riprodotte nel regio decreto legislativo n. 1/2007, che approva la versione consolidata della legge generale sulla tutela di consumatori e utenti e altre leggi complementari (Real Decreto Legislativo 1/2007 por el que se aprueba el texto refundido de la Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios y otras leyes complementarias), del 16 novembre 2007 (BOE n. 287 del 30 novembre 2007, pag. 49181). 11 Ai sensi dell’articolo 83 del regio decreto legislativo 1/2007: «1. Le clausole abusive sono nulle di pieno diritto e si considerano non apposte. 2. La parte del contratto colpita da nullità è integrata conformemente all’articolo 1258 del codice civile e al principio di buona fede oggettiva. A tali effetti, il giudice che dichiara la nullità di dette clausole integra il contratto e dispone di poteri di moderazione rispetto ai diritti e obblighi delle parti, nel caso di sopravvivenza del contratto, erispetto alle conseguenze della sua inefficacia in caso di apprezzabile pregiudizio per il consumatoreo utente. Soltanto qualora le clausole sussistenti determinino una situazione iniqua rispetto allaposizione delle parti, che non può essere sanata, il giudice può dichiarare l’inefficacia del contratto». 12 A seguito della sentenza Aziz (C-415/11, EU:C:2013:164), la normativa spagnola relativa alla tutela dei consumatori è stata modificata dalla legge 1/2013, relativa alle misure volte a incrementare la protezione dei debitori ipotecari, alla ristrutturazione del debito e al canone sociale (Ley de medidas para reforzar la protección a los deudores hipotecarios, reestructuración de deuda yalquiler social), del 14 maggio 2013 (BOE n. 116 del 15 maggio 2013, pag. 36373). Tale legge modifica segnatamente talune disposizioni della legge 1/2000 relativa al codice di procedura civile(Ley 1/2000 de Enjuiciamiento Civil), del 7 gennaio 2000 (BOE n. 7, dell’8 gennaio 2000, pag. 575). 13 Così, l’articolo 552, paragrafo 1, del codice di procedura civile come modificato dall’articolo 7, paragrafo 1, della legge 1/2013, dispone che: «Se il giudice ritiene che una delle clausole contenute in un titolo esecutivo di cui all’articolo 557,paragrafo 1, possa essere qualificata come abusiva, esso ascolta le parti entro un termine di cinquegiorni. Sentite le parti esso statuisce entro i successivi cinque giorni, conformemente all’articolo 561, paragrafo 1, punto 3». 14 L’articolo 7, paragrafo 3, della legge 1/2013 ha aggiunto un punto 3 all’articolo 561, paragrafo 1, del codice di procedura civile che è redatto come segue: «Qualora venga accertato il carattere abusivo di una o più clausole, l’ordinanza specifica le conseguenze di tale accertamento, dichiarando l’improcedibilità dell’esecuzione o disponendo la medesima senza applicazione delle clausole considerate abusive». 15 L’articolo 7, paragrafo 14, della legge 1/2013 modifica l’articolo 695 del codice di procedura civile precisando che l’esistenza di clausole abusive costituisce un motivo di opposizione nei termini seguenti: «1. Nei procedimenti di cui al presente capo il debitore esecutato può presentare opposizione solo per i seguenti motivi: (...) 4. il carattere abusivo di una clausola contrattuale costituente il fondamento dell’esecuzione o cheabbia determinato l’importo esigibile». 16 L’articolo 3, paragrafo 2, della legge 1/2013 modifica anche l’articolo 114 della legge sull’ipoteca (Ley Hipotecaria), aggiungendovi un terzo comma redatto come segue: «Gli interessi di mora relativi a contratti di mutuo o credito per l’acquisto dell’abitazione principale, garantiti da ipoteche costituite sulla medesima, non possono essere superiori al triplo del tasso di interesse legale e possono maturare solo sulla somma principale insoluta. Tali interessi di mora nonpossono in alcun caso essere capitalizzati, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 579, paragrafo 2, lettera a), del codice di procedura civile». 17 Infine, la seconda disposizione transitoria della legge n. 1/2013 aggiunge: «La limitazione degli interessi di mora relativi ad ipoteche sugli immobili destinati ad abitazione principale prevista all’articolo 3, paragrafo 2, si applica alle ipoteche costituite successivamenteall’entrata in vigore della presente legge. Detta limitazione si applica altresì agli interessi di mora previsti da contratti di mutuo con garanziaipotecaria sull’abitazione principale, stabiliti anteriormente alla data in cui la presente legge è entrata in vigore e maturati successivamente a tale data, nonché agli interessi scaduti alla suddetta data e non corrisposti. Nei procedimenti di esecuzione forzata o di vendita stragiudiziale già avviati ma non ancora conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, e nei quali sia già stato determinato l’importo per il quale viene chiesta l’esecuzione o la vendita stragiudiziale, il cancelliere o il notaioimpartisce all’esecutante un termine di dieci giorni per ricalcolare detto importo in conformità con ilparagrafo precedente». Procedimenti principali e questioni pregiudiziali 18 I procedimenti principali riguardano procedimenti di esecuzione ipotecaria avviati dall’Unicaja Banco e dalla Caixabank per l’esecuzione forzata di varie ipoteche, costituite tra il 5 gennaio 2007 eil 20 agosto 2010 per importi compresi tra EUR 47 000 e EUR 249 000. 19 Nella causa C-482/13, il mutuo ipotecario era soggetto ad un tasso di interesse moratorio del 18%, che era suscettibile di aumento, qualora dalla maggiorazione di quattro punti del tasso di interesse modificato fosse risultato un tasso di interesse superiore, entro i limiti del massimale del 25% nominale annuo. Nelle cause C484/13, C-485/13 e C-487/13, i mutui ipotecari erano soggetti ad un tasso di interesse moratorio del 22,5% 20 Inoltre, tutti i contratti di mutuo interessati nei procedimenti principali contenevano una clausola che consentiva, in caso di inadempimento del mutuatario ai suoi obblighi di pagamento, al mutuante di anticipare la data di esigibilità inizialmente pattuita e di richiedere il pagamento dell’interocapitale dovuto, maggiorato degli interessi di mora, delle commissioni e delle spese concordati. 21 L’Unicaja Banco e la Caixabank hanno presentato, dinanzi al giudice del rinvio, tra il 21 marzo 2012 e il 3 aprile 2013 domande di esecuzione forzata sugli importi dovuti in applicazione dei tassid’interesse di mora previsti dai contratti di mutuo ipotecario di cui trattasi. Nell’ambito di taliricorsi, detto giudice si è concentrato sulla questione del carattere «abusivo» ai sensi dell’articolo 3,paragrafo 1, della direttiva 93/13, delle clausole relative ai tassi d’interessi di mora nonché dell’applicazione di detti tassi al capitale la cui esigibilità anticipata è dovuta al ritardo nel pagamento. 22 A tal proposito il giudice del rinvio avanza tuttavia dubbi in merito alle conseguenze da trarre dal carattere abusivo di dette clausole alla luce della seconda disposizione transitoria della legge 1/2013.Se dovesse applicare tale disposizione, spetterebbe così al medesimo far ricalcolare gli interessi dimora conformemente al terzo comma di tale disposizione. 23 Ciò premesso lo Juzgado de Primera Instancia e Instrucción de Marchena ha deciso di sospendere la pronuncia e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) Se, conformemente alla [direttiva 93/13] in particolare all’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva, e al fine di garantire la tutela dei consumatori e degli utenti secondo i principi di equivalenza e di effettività, un giudice nazionale, qualora accerti l’esistenza in un contratto di mutuo ipotecario di una clausola abusiva relativa agli interessi di mora, debba dichiarare tale clausola nulla e non vincolante o, al contrario, debba moderarne l’impatto concedendo all’esecutante o mutuante la possibilità di adeguare gli interessi. 2) Se la seconda disposizione transitoria della [legge n. 1/2013] comporti solo una chiara limitazione della tutela degli interessi del consumatore, in quanto impone implicitamente algiudice di moderare una clausola relativa agli interessi di mora che sia qualificata come abusiva, adeguando gli interessi pattuiti e mantenendo una stipulazione che presentava un carattere abusivo anziché dichiararla nulla e non vincolante per il consumatore. 3) Se la seconda disposizione transitoria della [legge n. 1/2013] contravvenga alla [direttiva 93/13], e in particolare all’articolo 6, paragrafo 1, di detta direttiva, in quanto osta all’applicazione dei principi di equivalenza e di effettività in materia di tutela dei consumatoried impedisce l’applicazione della sanzione della nullità e dell’esclusione dell’efficacia vincolante alle clausole relative agli interessi di mora qualificate come abusive, previste dacontratti di mutuo ipotecario conclusi anteriormente all’entrata in vigore della [legge n. 1/2013] (…)». 24 Con ordinanza del presidente della Corte in data 10 ottobre 2013, le cause da C-482/13 a C-487/13 sono state riunite ai fini della fase scritta e orale del procedimento nonché della sentenza. 25 Le cause C-486/13 e C-483/13 sono state separate, rispettivamente, con le ordinanze del presidente della Corte del 13 marzo e del 3 ottobre 2014, a causa della loro cancellazione. Sulle questioni pregiudiziali 26 Con le sue questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 debba essere interpretato nel senso cheosta ad una disposizione nazionale in virtù della quale il giudice nazionale, investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria, è tenuto a far ricalcolare le somme dovute a titolo dellaclausola di un contratto di mutuo ipotecario che prevede interessi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale, mediante l’applicazione di un tasso di interesse moratorio che non ecceda tale soglia. 27 A tal proposito occorre innanzitutto constatare che, secondo il giudice del rinvio, le clausole relative agli interessi di mora dei contratti di mutuo ipotecario per l’esecuzione dei quali è stato adito sono «abusive», ai sensi dell’articolo 3 della direttiva 93/13. 28 In tale contesto, occorre ricordare che, quanto alle conseguenze da trarre dalla constatazione del carattere abusivo di una disposizione di un contratto che vincola un consumatore ad un professionista, dal tenore letterale dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 risulta che i giudici nazionali sono tenuti unicamente ad escludere l’applicazione di una clausola contrattuale abusiva affinché non produca effetti vincolanti nei confronti dei consumatori, senza essere autorizzati a rivedere il contenuto della medesima. Infatti, detto contratto deve sussistere, in linea di principio, senz’altra modifica che non sia quella risultante dalla soppressione delle clausole abusive, purché, conformemente alle norme di diritto interno, una simile sopravvivenza del contratto siagiuridicamente possibile (sentenze Banco Español de Crédito, C-618/10, EU:C:2012:349, punto 65,nonché Asbeek Brusse e de Man Garabito, C-488/11, EU:C:2013:341, punto 57). 29 In particolare, tale disposizione non può essere interpretata nel senso che consente al giudice nazionale, qualora quest’ultimo accerti il carattere abusivo di una clausola penale in un contratto stipulato tra un professionista e un consumatore, di ridurre l’importo della penale imposta a caricodel consumatore anziché di disapplicare integralmente la clausola in esame nei confronti di quest’ultimo (sentenza Asbeek Brusse e de Man Garabito, EU:C:2013:341, punto 59). 30 Inoltre, data la natura e l’importanza dell’interesse pubblico sul quale si basa la tutela assicurata ai consumatori, che si trovano in una situazione d’inferiorità rispetto ai professionisti, la direttiva 93/13 impone agli Stati membri, come risulta dal suo articolo 7, paragrafo 1, in combinato disposto con il ventiquattresimo considerando della medesima, di fornire mezzi adeguati ed efficaci per farcessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e i consumatori (sentenze Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 68, nonché Kásler e Káslerné Rábai,EU:C:2014:282, punto 78). 31 Di fatto, se il giudice nazionale potesse rivedere il contenuto delle clausole abusive, una tale facoltà potrebbe compromettere la realizzazione dell’obiettivo di lungo termine di cui all’articolo 7 delladirettiva 93/13. Infatti tale facoltà contribuirebbe ad eliminare l’effetto dissuasivo esercitato suiprofessionisti dalla pura e semplice non applicazione nei confronti del consumatore di siffatte clausole abusive, dal momento che essi rimarrebbero tentati di utilizzare tali clausole, consapevoliche, quand’anche esse fossero invalidate, il contratto potrebbe nondimeno essere integrato, per quanto necessario, dal giudice nazionale, in modo tale, quindi, da garantire l’interesse di detti professionisti (sentenze Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 69, nonché Kásler eKáslerné Rábai, EU:C:2014:282, punto 79). 32 Sulla scorta delle considerazioni che precedono la Corte ha affermato che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 osta ad una normativa nazionale che consente al giudice nazionale, qualora accerti la nullità di una clausola abusiva in un contratto stipulato tra un professionista ed un consumatore, di integrare detto contratto rivedendo il contenuto di tale clausola (sentenze Banco Español de Crédito, EU:C:2012:349, punto 73, nonché Kásler et Káslerné Rábai, EU:C:2014:282,punto 77). 33 La Corte ha certamente anche riconosciuto la possibilità per il giudice nazionale di sostituire ad una clausola abusiva una disposizione nazionale di natura suppletiva, a condizione che tale sostituzionesia conforme all’obiettivo dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 e consenta di ripristinareun equilibrio reale tra i diritti e gli obblighi delle parti contraenti. Tuttavia, tale possibilità è limitata ai casi in cui l’invalidazione della clausola abusiva obbligherebbe il giudice ad annullare il contratto nel suo insieme, esponendo così il consumatore a conseguenze tali da esserne penalizzato (v., in talsenso, Kásler et Káslerné Rábai, EU:C:2014:282, punti da 82 a 84). 34 Tuttavia, nei procedimenti principali, e salve le verifiche che deve effettuare, a tal proposito, il giudice del rinvio, l’annullamento delle clausole contrattuali di cui trattasi non può avereconseguenze negative per il consumatore, in quanto gli importi per i quali i procedimenti di esecuzione ipotecaria sono stati avviati sarebbero necessariamente minori in assenza di maggiorazione dovuta all’applicazione degli interessi moratori previsti da dette clausole. 35 Rammentati tali principi, emerge dalle decisioni di rinvio che la seconda disposizione transitoria della legge 1/2013 prescrive una moderazione degli interessi di mora per i mutui o i crediti volti all’acquisto di un’abitazione principale e garantiti da ipoteche costituite sull’abitazione in questione. Tale disposizione prevede così che, per i procedimenti di esecuzione forzata o di vendita stragiudiziale già avviati ma non conclusi alla data di entrata in vigore di tale legge, vale a dire il 15maggio 2013, e nei quali sia già stato determinato l’importo per il quale è chiesta l’esecuzione o lavendita stragiudiziale, tale importo deve essere ricalcolato mediante l’applicazione di un interessemoratorio il cui tasso non sia superiore al triplo di quello dell’interesse legale quando il tasso degli interessi moratori previsto dal contratto di mutuo ipotecario è maggiore di tale tasso. 36 Pertanto, come è stato sottolineato dal governo spagnolo, nelle sue memorie e in udienza nonché dall’avvocato generale ai paragrafi 38 e 39 delle sue conclusioni, l’ambito di applicazione dellaseconda disposizione transitoria della legge 1/2013 si estende a qualsiasi contratto di mutuo ipotecario e si distingue così da quello della direttiva 93/13 che riguarda unicamente le clausole abusive incluse nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore. Ne consegue chel’obbligo di rispettare la soglia corrispondente al tasso degli interessi di mora equivalente al triplodel tasso d’interesse legale, quale prevista dal legislatore, non pregiudica in alcun modo la valutazione, da parte del giudice, del carattere abusivo di una clausola che fissa gli interessi di mora. 37 Ciò premesso occorre ricordare che, conformemente all’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 93/13, il carattere abusivo di una clausola contrattuale dev’essere valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusionedel contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione. Ne discende che, in questo contesto, devono altresì essere valutate le conseguenze che la suddetta clausola può avere nell’ambito del diritto applicabile al contratto, il che implica un esame del sistema giuridiconazionale (v. ordinanza Sebestyén, C-342/13, EU:C:2014:1857, punto 29 e la giurisprudenza ivi citata). 38 Occorre inoltre ricordare al riguardo che un giudice nazionale cui venga sottoposta una controversia intercorrente esclusivamente tra privati deve, quando applica le norme del diritto interno, prendere in considerazione l’insieme delle norme del diritto nazionale ed interpretarle, perquanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale direttiva per giungere ad una soluzione conforme all’obiettivo perseguito da quest’ultima (sentenza Kásler et Káslerné Rábai, EU:C:2014:282, punto 64). 39 Pertanto, occorre considerare che, nei limiti in cui la seconda disposizione transitoria della legge 1/2013 non impedisce che il giudice nazionale, di fronte ad una clausola abusiva, possa esercitare lesue funzioni eliminando detta clausola, la direttiva 93/13 non osta all’applicazione di una taledisposizione nazionale. 40 Ciò implica, in particolare, da un lato, che, quando il giudice nazionale si trovi di fronte ad una clausola di un contratto relativo a interessi di mora il cui tasso è inferiore a quello previsto dallaseconda disposizione transitoria della legge 1/2013, la fissazione di tale soglia legislativa non impedisce a detto giudice di valutare il carattere eventualmente abusivo di tale clausola, ai sensi dell’articolo 3 della direttiva 93/13. Pertanto, un tasso di interessi di mora inferiore al triplo deltasso legale non può essere considerato necessariamente equo ai sensi di detta direttiva. 41 Dall’altro lato, quando il tasso degli interessi moratori previsti da una clausola di un contratto di mutuo ipotecario è superiore a quello previsto dalla seconda disposizione transitoria della legge1/2013 e, conformemente a detta disposizione, deve essere oggetto di una limitazione, una tale circostanza non deve impedire al giudice nazionale, al di là di tale misura di moderazione, di trarre tutte le conseguenze dall’eventuale carattere abusivo alla luce della direttiva 93/13 della clausolache contiene tale tasso, procedendo, eventualmente, al suo annullamento. Di conseguenza, da tutte le considerazioni che precedono risulta che l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una disposizione nazionale in virtùdella quale il giudice nazionale, investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria, è tenuto a farricalcolare le somme dovute a titolo di una clausola di un contratto di mutuo ipotecario che prevedeinteressi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale, affinché l’importo di detti interessi non ecceda tale soglia, purché l’applicazione di detta disposizione nazionale: non pregiudichi la valutazione da parte di tale giudice nazionale del carattere abusivo di suddetta clausola, e non impedisca al giudice nazionale di disapplicare detta clausola ove dovesse concludere per il carattere «abusivo» della medesima, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di detta direttiva. Sulle spese Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute daaltri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: L’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una disposizione nazionale in virtù della quale il giudicenazionale investito di un procedimento di esecuzione ipotecaria è tenuto a far ricalcolare lesomme dovute a titolo di una clausola di un contratto di mutuo ipotecario che prevede interessi moratori il cui tasso sia superiore al triplo del tasso legale, affinché l’importo di dettiinteressi non ecceda tale soglia, purché l’applicazione di detta disposizione nazionale: non pregiudichi la valutazione da parte di tale giudice nazionale del carattere abusivo di suddetta clausola, e non impedisca al giudice nazionale, di disapplicare detta clausola ove dovesse concludere per il carattere «abusivo» della medesima, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo1, di detta direttiva. Firme * Lingua processuale: lo spagnolo. ORDINANZA N. 248 ANNO 2013 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Gaetano SILVESTRI Presidente - Paolo Maria NAPOLITANO - Giuseppe FRIGO ” - Alessandro CRISCUOLO ” - Paolo GROSSI ” - Giorgio LATTANZI ” - Aldo CAROSI ” - Sergio MATTARELLA ” - Mario Rosario MORELLI ” - Giancarlo CORAGGIO ” - Giuliano AMATO ” Giudice ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento vertente tra P. S. ed altro e C. C. ed altro, con ordinanza del 10 ottobre 2012, iscritta al n. 2 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2013. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 25 settembre 2013 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli. Ritenuto che − in un giudizio civile promosso per ottenere la restituzione di somma che gli attori assumevano versata come anticipo (in misura di circa un terzo del pattuito) per l’acquisto di un immobile, che non aveva poi potuto, però, aver luogo per la mancata erogazione, ad essi, di un mutuo bancario destinato a coprire il residuo prezzo − l’adito Tribunale ordinario di Tivoli, premesso che nel preliminare di vendita, l’importo corrisposto dai promissari acquirenti, era stato testualmente qualificato come “caparra confirmatoria”, ha sollevato d’ufficio, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui non dispone che – nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte che l’ha ricevuta, l’altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra – il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove […] sussistano giustificati motivi»; che, ad avviso del rimettente, si prospetta, nella specie, una esigenza di bilanciata tutela del diritto della parte non inadempiente (cioè del venditore), a percepire la caparra, e dell’opposto interesse di quella inadempiente (cioè del promissario acquirente) a non perdere un capitale notevole, ed eccessivo nella sua quantificazione, a fronte di un (proprio) inadempimento che, «seppur colposo, certamente non è stato voluto e rispetto al quale si è adoperato in ogni modo per trovare una soluzione»; che, però, l’automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non lascerebbe spazio al giudice per alcun rimedio ripristinatorio dell’equità oggettiva e del complessivo equilibrio contrattuale; dal che il dubbio, appunto, della sua “irragionevolezza”; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità della questione, per omessa espressa indicazione dei parametri costituzionali violati; e, in subordine, per la sua non fondatezza. Considerato che, dal contesto dell’ordinanza di rimessione, è chiaramente individuabile, nell’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalità della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua «intrinseca incoerenza […] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore», per cui non risulta fondata l’eccezione di inammissibilità come sopra formulata dall’Avvocatura; che la questione in esame è, però, comunque, manifestamente inammissibile per difetto di motivazione, in punto sia di non manifesta infondatezza che di rilevanza; che, infatti, per il primo profilo, nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l’inadempimento del tradens e la ritenzione della caparra confirmatoria da parte dell’accipiens (e, specularmente, tra l’inadempimento dell’accipiens e il diritto della controparte ad esigerne il doppio), il rimettente omette di considerare che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall’articolo 1385 del codice civile, è comunque un inadempimento «gravemente colpevole, […] cioè imputabile (ex art. 1218 c.c. e art. 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)», come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009; che, in punto poi di rilevanza, il Tribunale rimettente, per un verso, trascura di indagare compiutamente la reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali, così da poter esprimere un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria; per altro verso, non tiene conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come, nella specie, egli prospetta) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o parziale) ex articolo 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’articolo 2 Cost., (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato» (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all’articolo 3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2013. F.to: Gaetano SILVESTRI, Presidente Mario Rosario MORELLI, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2013. Il Direttore della Cancelleria F.to: Gabriella MELATTI Ordinanza 02 aprile 2014 n. 77 Contratto, atto e negozio giuridico - Caparra confirmatoria - Ritenzione, ovvero obbligo di restituzione del doppio, in caso di inadempimento Potere (d'ufficio) del giudice di ridurre equamente la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o se ricorrano giustificati motivi - Omessa previsione - Questione identica già dichiarata manifestamente inammissibile - Manifesta inammissibilità. Ente Giudicante: Corte Costituzionale Presidente: Pres. Gaetano Silvestri; Rel. Mario Rosario Morelli Ordinanza Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1385, secondo comma, del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Tivoli nel procedimento civile tra L.C. e M.P., con ordinanza del 3 aprile 2013, iscritta al n. 181 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2013. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 26 febbraio 2014 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli. Ritenuto che con l'ordinanza in epigrafe - emessa nel corso di un giudizio civile promosso, dalla promissaria acquirente di un immobile, per ottenere, in ragione della mancata stipula del contratto definitivo, la condanna del promittente venditore a restituirle il doppio della caparra già versata - l'adito Tribunale ordinario di Tivoli ha sollevato, sotto il profilo della irragionevolezza, intesa come «intrinseca incoerenza, contraddittorietà od illogicità», questione di legittimità costituzionale dell'art. 1385, secondo comma, del codice civile, «nella parte in cui non dispone che - nelle ipotesi in cui la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l'altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra e nella ipotesi in cui, se inadempiente è invece la parte che l'ha ricevuta, l'altra può recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra - il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere o il doppio da restituire, in ipotesi di manifesta sproporzione o ove sussistano giustificati motivi», tenendo conto della natura dell'affare e delle prassi commerciali; che, ad avviso del rimettente, l'automatismo della disciplina recata dalla disposizione denunciata non lascerebbe spazio al giudice per alcun rimedio ripristinatorio dell'equità oggettiva e del complessivo equilibrio contrattuale in fattispecie - come quella al suo esame - in cui sussista una «evidente sproporzione che porterebbe ad una restituzione complessiva di somme, addirittura superiori al valore stesso dell'affare»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità della questione, per omessa espressa indicazione dei parametri costituzionali evocati, e, in subordine, per la sua infondatezza. Considerato, che, dal contesto dell'ordinanza di rimessione, è chiaramente individuabile, nell'art. 3, secondo comma, della Costituzione, il parametro rispetto al quale il giudice a quo sollecita la verifica di costituzionalità della disciplina della caparra confirmatoria, per sospetta sua «intrinseca incoerenza [...] rispetto alla complessiva finalità perseguita dal legislatore», per cui non risulta fondata l'eccezione di inammissibilità come sopra formulata dall'Avvocatura; che, comunque, questione identica a quella odierna - già sollevata dal medesimo Tribunale ordinario di Tivoli in fattispecie speculare, di ritenzione della caparra da parte del promittente del venditore - con sentenza di questa Corte n. 248 del 2013, è stata dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sia in punto di non manifesta infondatezza che di rilevanza. Quanto al primo profilo, perché - nel presupporre un oggettivo ed insuperabile automatismo tra l'inadempimento dell'accipiens o del tradens, e, rispettivamente, la restituzione del doppio, ovvero la ritenzione, della caparra confirmatoria - il rimettente aveva omesso di considerare, al fine del decidere, che ciò che viene in rilievo, anche nel contesto della disciplina del recesso recata dall'art. 1385 del codice civile, è comunque un inadempimento «"gravemente colpevole [...], cioè imputabile (ex artt. 1218 e 1256 c.c.) e di non scarsa importanza (ex art. 1456 c.c.)" come ben posto in evidenza nella sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 533 del 2009». E, quanto al secondo profilo, perché quel Tribunale non aveva tenuto conto dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta (come da sua prospettazione) un regolamento degli opposti interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale), ex art. 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell'art. 2 Cost. (per il profilo dell'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà), che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, «"funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell'interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l'interesse proprio dell'obbligato" (Corte di cassazione n. 10511 del 1999; ma già n. 3775 del 1994 e, in prosieguo, a Sezioni unite, n. 18128 del 2005 e n. 20106 del 2009)»; che - stante l'assoluta identità di contenuto tra l'ordinanza di rimessione oggetto della richiamata sentenza n. 248 del 2013 e quella odierna - la questione da quest'ultima riproposta (in relazione a fattispecie analoga, ancorché a parti invertite, rispetto a quella precedente) va, conseguentemente, a sua volta, dichiarata, per le stesse ragioni, manifestamente inammissibile. Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. P.Q.M. La Corte Costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1385, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all'art. 3, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Tivoli, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, il 26 marzo 2014. DATA DEPOSITO 2 APRILE 2014. Sentenza 18 settembre 2009 n. 20106 Sez. III CONTRATTO - EFFETTI - Abuso del diritto in materia contrattuale - Ne rispondono le aziende, per lo più le multinazionali che si trovano in posizione dominante, che, senza violare direttamente la legge, utilizzano in modo "alterato" gli schemi contrattuali "per conseguire obiettivi diversi e ulteriori rispetto a quelli indicati dal legislatore. Ente Giudicante: Cassazione Civile Presidente: Pres. VARRONE Michele; Rel. URBAN Giancarlo SENTENZA sul ricorso 10065-2005 proposto da: AL. GI., SP. AN., in qualita' di cessionari di tutti i diritti e crediti della NO. AU. S.R.L., NU. BO. CA. SRL nella persona del cessionario del credito e della posizione, ossia As.Con. Rev. nella persona del suo Presidente S. A., RE. CA. S.R.L. in liquidazione nella persona del suo Liquidatore legale rappresentante pro tempore GI. MA., LU. RO. &. C. SNC in persona del suo legale rappresentante pro tempore, dott. RO. LU., MA. BR. quale cessionario di tutti i diritti e crediti della RE. SRL, AU. TR. DI. GR. TR. &. C. SNC, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, TR. GR., TU. CA. SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore, sign. R. E., AS. CO. RE. nella persona del suo Presidente S. A., AU. SNC in persona del suo legale rappresentante protempore R. A., AU. &. C. SAS in persona del suo legale rappresentante pro tempore sig. M. L., AU. TI. SNC in persona del suo legale rappresentante pro tempore AN. SI., BA. ER. quale cessionario dei diritti della BA. ER. &. C. SAS, BA. AU. SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore B. G., CO. SRL in persona del suo legale rappresentante pro tempore CO. GI., CO. &. VA. SNC IN LIQUIDAZIONE nelle persone dei suoi legali rappresentanti pro tempore, C. G. E VA. FR., EU. FE. SRL nella persona del suo legale rappresentante pro tempore, FE. GI., GI. VI. DITTA (gia' Gi. Au. & C. S.r.l.) nella persona del legale rappresentante pro tempore sig. GI. VI., GI. SRL nella persona del suo legale rappresentante pro tempore, OL. MA., FALLIMENTO GR. CA. SRL nella persona del suo curatore legale rappresentante pro tempore, Dott. TO.SI., GR. SRL nella persona del suo legale rappresentante pro tempore G. N., LI. SRL IN LIQUIDAZIONE (gia' P. Di. Gi. s.r.l.) nella persona del suo legale rappresentante pro tempore Sig.ra A. E., FR. ME. SNC nella persona del suo legale rappresentante pro tempore, Sig. M.M., FR. ME. &. C. SNC nella persona del suo legale rappresentante pro tempore, Sig. ME.LE., LE. DA. quale cessionario dei diritti di Ne. Ca. S.r.l. in liquidazione, elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA PRATI DEGLI STROZZI 30, presso lo studio dell'avvocato MOLFESE FRANCESCO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato GALGANO FRANCESCO; come da separate procure speciali; - ricorrenti contro RE. IT. SPA; - intimati sul ricorso 13817-2005 proposto da: RE. IT. SPA, in persona del suo legale rappresentante pro tempore Signor DA.Ph., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NIZZA 59, presso lo studio dell'avvocato BATTAGLIA EMILIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato DI AMATO ASTOLFO per delega a margine del controricorso con ricorso incidentale; - ricorrente contro AS. CO. RE., AU. SNC, AU. &. C. SAS, AU. TI. SNC, BE. ER., BA. AU. SRL, CO. SRL, CO. &. VA. SNC IN LIQ, IN. EU. FE. SRL, GI. VI. DITTA, GI. SRL, FALL GR. CA. SRL, GR. SRL, LIQUIDAUTO SRL IN LIQ, F. ME. SNC, FR. ME. &. C. SNC, LE. DA., AL. GI., SP. AN., NU. BO. CA. SRL, MA. BR., RE. CA. SRL IN LIQ, LU. RO. &. C. SNC, SO. SPA, FALL SU. SRL, AU. TR. DI. GR. TR. &. C. SNC, TU. CA. SRL; - intimati avverso la sentenza n. 136/2005 della CORTE D'APPELLO di ROMA, Sezione 11 Civile emessa il 28/09/2004, depositata il 13/01/2005; R.G.N. 6835/2002. udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2009 dal Consigliere Dott. GIANCARLO URBAN; udito l'Avvocato Francesco GALGANO; udito l'Avvocato Emilio BATTAGLIA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO CARLO che ha chiesto il rigetto del ricorso. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Tra il 1992 ed il 1996 gli attuali ricorrenti, tutti ex concessionari della Re. It. spa, furono revocati dalla stessa societa', sulla base della facolta' di recesso ad nutum previsto dall'art. 12 del contratto di concessione di vendita. Poiche' in tale condotta fu ravvisato un comportamento abusivo, e comunque illecito da parte della Re. It. spa, fu fondata la As. Co. Re., con lo scopo di "programmare, provvedere, sviluppare, organizzare, gestire ogni iniziativa ed attivita' idonea alla tutela e difesa, nonche' alla rappresentanza, dei diritti dei Concessionari d'auto revocati dalle case automobilistiche (concessionari) aventi sede nel territorio (........)". L'Associazione ed i concessionari revocati convenivano, quindi, la Re. It. spa davanti al tribunale di Roma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimita' del recesso per abuso del diritto, e la conseguente condanna della Re. It. spa al risarcimento dei danni subiti per effetto dell'abusivo recesso. Re. It. spa si costituiva chiedendo il rigetto della domanda, con la condanna alle spese. Il tribunale, con sentenza in data 11.6.2001, rigettava la domanda compensando le spese. Ad eguale conclusione perveniva la Corte d'Appello che, con sentenza del 13.1.2005, rigettava gli appelli proposti dall'Associazione e dai concessionari, che condannava al pagamento delle spese. Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della Re. It. rendesse superfluo ogni controllo causale sull'esercizio di tale potere. Hanno proposto ricorso principale per cassazione affidato a cinque motivi illustrati da memoria i soggetti indicati in epigrafe. Resiste con controricorso la Re. It. spa che ha, anche, proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 216 c.p.c. in relazione all'art. 158 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4). Sostengono che la sentenza impugnata sia affetta da nullita' per vizi relativi alla costituzione del giudice, vale a dire per "mancanza di collegialita' nella decisione testimoniata dal fatto che la sentenza impugnata risulta estesa il 28 settembre 2004, ossia molto prima che fosse tenuta la camera di consiglio del 12 ottobre 2004". Il motivo non e' fondato. L'apposizione in calce alla sentenza della data del 28 settembre 2004, invece di quella del 12 ottobre 2004 (data in cui si e' tenuta la camera di consiglio) risulta frutto di un semplice errore materiale, posto che - come risulta dagli atti - nella data del 28 settembre 2004 la Corte di merito si era gia' riunita in camera di consiglio per l'esame dell'appello. Peraltro, l'errore materiale commesso e' stato emendato attraverso il procedimento di correzione ex articoli 287 e 288 c.p.c., con ordinanza emessa in data 25.5.2005 - a seguito di scioglimento della riserva adottata all'udienza collegiale del 24.5.2005 - del seguente tenore " corregge la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 136 depositata il 13 gennaio 2005 nel senso che dove e' scritto, alla fine della sentenza e dopo la parola Roma, "28 settembre 2004" deve intendersi scritto "12 ottobre 2004", disponendo che la cancelleria effettui l'annotazione di rito". La correzione cosi' effettuata rende inammissibile la censura, posto che i ricorrenti non denunciano la correttezza del procedimento adottato, di correzione dell'errore materiale contenuto nella sentenza impugnata. Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilita' degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilita' della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli articoli 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorieta' della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioe' della reciproca lealta' di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, cosi' come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza e' operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarieta' sociale, la cui costituzionalizzazione e' ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarieta' sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si e' pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, cosi' si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocita'. In sintesi, disporre di un potere non e' condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto puo' essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo piu' proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex articoli 1175 e 1375 c.c. e' stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Criterio rivelatore della violazione dell'obbligo di buona fede oggettiva e' quello dell'abuso del diritto. Gli elementi costitutivi dell'abuso del diritto - ricostruiti attraverso l'apporto dottrinario e giurisprudenziale - sono i seguenti: 1) la titolarita' di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilita' che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralita' di modalita' non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalita' censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalita' di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui e' soggetta la controparte. L'abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l'utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore. E' ravvisabile, in sostanza, quando, nel collegamento tra il potere di autonomia conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulti alterata la funzione obiettiva dell'atto rispetto al potere che lo prevede. Come conseguenze di tale, eventuale abuso, l'ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela, sta la finalita' di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti - ed i diritti connessi attraverso atti di per se' strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che e' regola cui l'ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata. Nel nostro codice non esiste una norma che sanzioni, in via generale, l'abuso del diritto. La cultura giuridica degli anni '30 fondava l'abuso del diritto, piu' che su di un principio giuridico, su di un concetto di natura etico morale, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica. Questo contesto culturale, unito alla preoccupazione per la certezza - o quantomeno prevedibilita' del diritto -, in considerazione della grande latitudine di potere che una clausola generale, come quella dell'abuso del diritto, avrebbe attribuito al giudice, impedi che fosse trasfusa, nella stesura definitiva del codice civile italiano del 1942, quella norma del progetto preliminare (art. 7) che proclamava, in termini generali, che "nessuno puo' esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per il quale il diritto medesimo gli e' stato riconosciuto" (cosi' ponendosi l'ordinamento italiano in contrasto con altri ordinamenti, ad es. tedesco, svizzero e spagnolo); preferendo, invece, ad una norma di carattere generale, norme specifiche che consentissero di sanzionare l'abuso in relazione a particolari categorie di diritti. Ma, in un mutato contesto storico, culturale e giuridico, un problema di cosi' pregnante rilevanza e' stato oggetto di rimeditata attenzione da parte della Corte di legittimita' (v. applicazioni del principio in Cass. 8.4.2009 n. 8481; Cass. 20.3.2009 n. 6800; Cass. 17.10.2008 n. 29776; Cass. 4.6.2008 n. 14759; Cass. 11.5.2007 n. 10838). Cosi', in materia societaria e' stato sindacato, in una deliberazione assembleare di scioglimento della societa', l'esercizio del diritto di voto sotto l'aspetto dell'abuso di potere, ritenendo principio generale del nostro ordinamento, anche al di fuori del campo societario, quello di non abusare dei propri diritti - con approfittamento di una posizione di supremazia - con l'imposizione, nelle delibere assembleari, alla maggioranza, di un vincolo desunto da una clausola generale quale la correttezza e buona fede (contrattuale). In questa ottica i soci debbono eseguire il contratto secondo buona fede e correttezza nei loro rapporti reciproci, ai sensi degli articoli 1175 e 1375 c.c., la cui funzione e' integrativa del contratto sociale, nel senso di imporre il rispetto degli equilibri degli interessi di cui le parti sono portatrici. E la conseguenza e' quella della invalidita' della delibera, se e' raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell'esecuzione del contratto (v. Cass. 11.6.2003 n. 9353). Con il rilievo che tale canone generale non impone ai soggetti un comportamento a contenuto prestabilito, ma rileva soltanto come limite esterno all'esercizio di una pretesa, essendo finalizzato al contemperamento degli opposti interessi (Cass. 12.12.2005 n. 27387). Ancora, sempre nell'ambito societario, la materia dell'abuso del diritto e' stata esaminata con riferimento alla qualita' di socio ed all'adempimento secondo buona fede delle obbligazioni societarie ai fini della sua esclusione dalla societa' (Cass. 19.12.2008 n. 29776), ed al fenomeno dell'abuso della personalita' giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la piu' rigida applicazione della legge (v. anche Cass. 25.1.2000 n. 804; Cass. 16.5.2007 n. 11258). In tal caso, proprio richiamando l'abuso, ne sara' possibile, per cosi' dire, il suo "disvelamento" (piercing the corporate veil). Nell'ambito, poi, dei rapporti bancari e' stato piu' volte riconosciuto che, in ossequio al principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375 cod. civ.), non puo' escludersi che il recesso di una banca dal rapporto di apertura di credito, benche' pattiziamente consentito anche in difetto di giusta causa, sia da considerarsi illegittimo ove in concreto assuma connotati del tutto imprevisti ed arbitrari (Cass. 21.5.1997 n. 4538; Cass. 14.7.2000 n. 9321; Cass. 21.2.2003 n. 2642). E, con riferimento ai rapporti di conto corrente, e' stato ritenuto che, in presenza di una clausola negoziale che, nel regolare tali rapporti, consenta all'istituto di credito di operare la compensazione tra i saldi attivi e passivi dei diversi conti intrattenuti dal medesimo correntista, in qualsiasi momento, senza obbligo di preavviso, la contestazione sollevata dal cliente che, a fronte della intervenuta operazione di compensazione, lamenti di non esserne stato prontamente informato e di essere andato incontro, per tale motivo, a conseguenze pregiudizievoli, impone al giudice di merito di valutare il comportamento della banca alla stregua del fondamentale principio della buona fede nella esecuzione del contratto. Con la conseguenza, in caso contrario, del riconoscimento a carico della banca, di una responsabilita' per risarcimento dei danni (Cass. 28.9.2005 n. 18947). In materia contrattuale, poi, gli stessi principii sono stati applicati, in particolare, con riferimento al contratto di mediazione (Cass. 5.3.2009 n. 5348), al contratto di sale and lease back connesso al divieto di patto commissorio ex art. 2744 c.c., (Cass. 16.10.1995 n. 10805; Cass. 26.6.2001 n. 8742; Cass. 22.3.2007 n. 6969; Cass. 8.4.2009 n. 8481), ed al contratto autonomo di garanzia ed exceptio doli (Cass. 1.10.1999 n. 10864; cass. 28.7.2004 n. 14239; Cass. 7.3.2007 n. 5273). Del principio dell'abuso del diritto e' stato, da ultimo, fatto frequente uso in materia tributaria, fondandolo sul riconoscimento dell'esistenza di un generale principio antielusivo (v. per tutte S.U. 23.10.2008 nn. 30055, 30056, 30057). Il breve excursus esemplificativo consente, quindi, di ritenere ormai acclarato che anche il principio dell'abuso del diritto e' uno dei criteri di selezione, con riferimento al quale esaminare anche i rapporti negoziali che nascono da atti di autonomia privata, e valutare le condotte che, nell'ambito della formazione ed esecuzione degli stessi, le parti contrattuali adottano. Deve, con cio', pervenirsi a questa conclusione. Oggi, i principii della buona fede oggettiva, e dell'abuso del diritto, debbono essere selezionati e rivisitati alla luce dei principi costituzionali - funzione sociale ex art. 42 Cost. - e della stessa qualificazione dei diritti soggettivi assoluti. In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessita' di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalita' perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avra' abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinera' il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici: 1) il giudice non ha alcuna possibilita' di controllo sull'atto di autonomia privata; "2) la previsione contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun controllo causale circa l'esercizio del potere, perche' un tale potere rientra nella liberta' di scelta dell'operatore economico in un libero mercato; 3) La Re. It. non doveva tenere conto anche dell'interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto"; 4) la insussistenza di un'ipotesi di recesso illegittimo comporta la non pertinenza del richiamo agli articoli 1175 e 1375 c.c.; 5) i principii di correttezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) Non sono presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto; e cio' perche' "La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilita' per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri"; 7) "Il mercato, concepito quale luogo della liberta' di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l'esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di liberta' in questione e cioe' soggetti effettivamente responsabili delle scelte d'impresa ad essi formalmente imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi"; 8) Alla liberta' di modificare l'assetto di vendita, da parte della Re. It. spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facolta', il mezzo piu' conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l'abuso"; 9) La impossibilita' di ipotizzare "un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela", produce, come effetto, quello della introduzione di "un controllo di opportunita' e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell'atto"; 10) La impossibilita' di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, "in ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell'incontro delle volonta' su una causa eletta dall'ordinamento come meritevole di tutela" fa si' che "Solo allorche' ricorrono contrasti con norme imperative, puo' essere sanzionato l'esercizio di una facolta', ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la piu' ampia liberta' della autonomia privata". Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi profili. Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse e' quello che non e' compito del giudice valutare le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del sindacato giurisdizionale. Diversamente, quando, nell'ambito dell'attivita' imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa gli interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali. In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l'intervento del giudice, a quest'ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti. Cio' vuoi significare che l'atto di autonomia privata e', pur sempre, soggetto al controllo giurisdizionale. Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volonta' delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volonta' diversa; con l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura sussidiaria. Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. debbono essere interpretati anche secondo buona fede. Non soltanto. Il principio della buona fede oggettiva, cioe' della reciproca lealta' di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarieta' fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche. La sua violazione, pertanto, costituisce di per se' inadempimento e puo' comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264). Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e cio' quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti). Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi. Ed e' su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto - in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere l'eventuale diritto al risarcimento del danno per l'esercizio di tale facolta' in modo non conforme alla correttezza ed alla buona fede. Sotto questo profilo, pertanto, dovra' essere riesaminato il materiale probatorio acquisito. In sostanza la Corte di merito - di fronte ad un recesso non qualificato - non poteva esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell'atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto al risarcimento per il suo abusivo esercizio. Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono essere seguite. Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata e' stato pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimita', cui si e' fatto cenno. La conseguenza e' l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di liberta' economica e di libero mercato. Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si assume il rischio economico delle scelte effettuate. Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia privata, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello appunto della buona fede oggettiva, della lealta' dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale. Ed il fine da perseguire e' quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque consociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell'arbitrio. Da cio' il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto. La liberta' di scelta economica dell'imprenditore, pertanto, in se' e per se', non e' minimamente scalfita; cio' che e' censurato e' l'abuso, ma non di tale scelta, sebbene dell'atto di autonomia contrattuale che, in virtu' di tale scelta, e' stato posto in essere. L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l'esercizio della facolta' riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealta' e della correttezza. Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto - ai canoni generali di interpretazione contrattuale. Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovra' essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si e' prefissata. Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali. Erra, pertanto, il giudice di merito quando afferma che vi e' un'impossibilita' di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo che lo stesso possa controllare l'esercizio del potere di recesso; ritenendo che, diversamente si tratterebbe di una valutazione politica. Il problema non e' politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro l'abuso dell'autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a causa dell'incremento delle situazioni di disparita' di forze fra gli operatori economici. Al giudicante e' richiesta, attraverso il controllo e l'interpretazione dell'atto di recesso - al fine di affermarne od escluderne il suo esercizio abusivo, condotto alla luce dei principii piu' volte enunciati - proprio ed esclusivamente una valutazione giuridica. Le considerazioni tutte effettuate consentono, quindi, di concludere che la Corte di merito abbia errato quando ha adottato le seguenti proposizioni argomentative: 1) che la sussistenza di un atto di abuso del diritto sia soltanto speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilita' per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi; 2) che, stabilito che la Re. It. era libera di modificare l'assetto di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo piu' conveniente per realizzare tale fine; al che conseguirebbe l'insussistenza dell'abuso; 3) che, una volta che l'ordinamento abbia apprestato un dato istituto, spetta all'autonomia delle parti utilizzarlo o meno; 4) che non sussista la possibilita' di utilizzare un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico - in particolare contrattuale - in cui i valori di riferimento non solo non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti; 5) che nessuna valutazione delle posizioni contrattuali delle parti - soggetti deboli e soggetti economicamente "forti" -, anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale, rientri nella sfera di valutazione complessiva del Giudicante. La Corte di merito ha affermato che l'abuso fosse configurabile in termini di volonta' di nuocere, ovvero in termini di "neutralita'"; nel senso cioe' che, una volta che l'ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso) per conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto di concessione di vendita), erano indifferenti le modalita' del suo concreto esercizio. Ma il problema non e' questo. Il problema e' che la valutazione di un tale atto deve essere condotta in termini di "conflittualita'". Ovvero: posto che si verte in tema di interessi contrapposti, di cui erano portatrici le parti, il punto rilevante e' quello della proporzionalita' dei mezzi usati. Proporzionalita' che esprime una certa procedimentalizzazione nell'esercizio del diritto di recesso (per es. attraverso la previsione di trattative, il riconoscimento di indennita' ecc.). In questo senso, la Corte di appello non poteva esimersi da un tale controllo condotto, secondo le linee guida esposte, anche, quindi, sotto il profilo dell'eventuale abuso del diritto di recesso, come operato. In concreto, avrebbe dovuto valutare - e tale esame spetta ora al giudice del rinvio - se il recesso ad nutum previsto dalle condizioni contrattuali, era stato attuato con modalita' e per perseguire fini diversi ed ulteriori rispetto a quelli consentiti. Ed in questo esame si sarebbe dovuta avvalere del materiale probatorio acquisito, esaminato e valutato alla luce dei principii oggi indicati, al fine di valutare - anche sotto il profilo del suo abuso - l'esercizio del diritto riconosciuto. In ipotesi, poi, di eventuale, provata disparita' di forze fra i contraenti, la verifica giudiziale del carattere abusivo o meno del recesso deve essere piu' ampia e rigorosa, e puo' prescindere dal dolo e dalla specifica intenzione di nuocere: elementi questi tipici degli atti emulativi, ma non delle fattispecie di abuso di potere contrattuale o di dipendenza economica. Le conseguenze, cui condurrebbe l'interpretazione proposta dalla sentenza impugnata, sono inaccettabili. La esclusione della valorizzazione e valutazione della buona fede oggettiva e della rilevanza anche dell'eventuale esercizio abusivo del recesso, infatti, consentirebbero che il recesso ad nutum si trasformi in un recesso, arbitrario, cioe' ad libitum, di sicuro non consentito dall'ordinamento giuridico. Il giudice del rinvio, quindi, dovra' riesaminare la questione, tenendo conto delle indicazioni fornite e dei principii enunciati, al fine di riconoscere o meno il carattere abusivo del recesso e l'eventuale, consequenziale diritto al risarcimento del danni subiti. Tutto cio' in chiave di contemperamento dei diritti e degli interessi delle parti in causa, in una prospettiva anche di equilibrio e di correttezza dei comportamenti economici. Le conclusioni raggiunte consentono di ritenere irrilevante, e, quindi, superfluo l'esame degli ulteriori profili di censura proposti. I temi dell'abuso di dipendenza economica e della applicabilita' analogica od estensiva della normativa in materia di subfornitura (in particolare Legge 18 giugno 1998, n. 172, art. 9) non hanno costituito oggetto di specifica censura contenuta nei motivi di ricorso. Quanto alle analogie riscontrate dai ricorrenti fra il contratto di concessione di vendita e quella di agenzia, ai fini del riconoscimento del diritto dei concessionari a percepire una somma a titolo di indennita', poi, ad un sommario esame - il quale, peraltro, si presenterebbe superfluo ai fini che qui interessano, per le conclusioni raggiunte sui temi in precedenza trattati - si presentano di dubbia praticabilita'. Il contratto di concessione di vendita, infatti, per la sua struttura e la sua funzione economico-sociale, presenta aspetti che lo avvicinano al contratto di somministrazione, ma non puo', pero' essere inquadrato in uno schema contrattuale tipico, trattandosi, invece, di un contratto innominato, che si caratterizza per una complessa funzione di scambio e di collaborazione e consiste, sul piano strutturale, in un contratto - quadro o contratto normativo (Cass. 17 dicembre 1990, n. 11960), dal quale deriva l'obbligo di stipulare singoli contratti di compravendita, ovvero l'obbligo di concludere contratti di puro trasferimento dei prodotti, alle condizioni fissate nell'accordo iniziale (v. anche Cass. 22.2.1999 n. 1469; Cass. 11.6.2009 n. 13568). Proprio una tale struttura e funzione economica, che esclude profili rilevanti di collaborazione, sembra doverlo porre al di fuori dell'area di affinita' con il contratto di agenzia (v. anche Cass. 21.7.1994 n. 6819). Con il quinto motivo (subordinato) i ricorrenti principali denunciano la mancata compensazione delle spese relative al giudizio di appello da parte della Corte di merito. Il motivo resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi che precedono. Ricorso incidentale Con unico motivo la resistente e ricorrente incidentale denuncia la omessa motivazione sull'appello incidentale proposto dalla Re. It. spa, relativamente alla liquidazione delle spese del giudizio di primo grado. Anche questo motivo, in materia di spese, resta assorbito dalle conclusioni raggiunte in ordine ai motivi del ricorso principale che precedono. Il giudice del rinvio, dovra', infatti, procedere ad una nuova ed autonoma regolamentazione delle spese del processo. Conclusivamente, va rigettato il primo motivo del ricorso principale; vanno accolti, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo; vanno dichiarati assorbiti il quinto motivo ed il ricorso incidentale. La sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi, come accolti, e la causa va rimessa alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione. Il giudice del rinvio si pronuncera' anche sulle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. Riunisce i ricorsi. Rigetta il primo motivo del ricorso principale. Accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo, terzo e quarto motivo. Dichiara assorbiti il quinto, nonche' il ricorso incidentale. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione. DATA DEPOSITO 18 SETTEMBRE 2009. Sentenza 23 luglio 2014 n. 16787 Sez. III Ente Giudicante: Cassazione Civile Presidente: Pres. RUSSO Libertino Alberto; Rel. LANZILLO Raffaella avverso la sentenza n. 743/2008 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 22/01/2008 R.G.N. 336/06; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/05/2014 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO; udito l'Avvocato MASSIMO MANFREDONIA; udito l'Avvocato PIERLUIGI LUCATTONI in proprio per il FALLIMENTO LA VETRINA DELL'AUTO e per delega per AUTOPANIGALE SRL; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio che ha concluso per il rigetto del ricorso principale MAZDA, inammissibilità ricorso SIDAUTO per tardività. Svolgimento del processo Nel 1996 fra Mazda Corporation (d'ora in avanti Mazda Co.) e la s.p.a. Sidauto è stato concluso un contratto di importazione e distribuzione in Italia dei veicoli Mazda. La Sidauto ha concluso a sua volta contratti di concessione di vendita degli stessi veicoli con una catena di distributori, fra cui le s.r.l. Autopanigale e La Vetrina dell'Auto. I contratti di concessione prevedevano il diritto di recesso della concedente con 24 mesi di preavviso, e la cessazione immediata del rapporto nel caso in cui fosse venuto meno il contratto di importazione fra Sidauto e la casa produttrice. Nel 1999 Mazda Co. ha costituito una propria società per l'importazione e la distribuzione in Italia dei suoi prodotti e ha negoziato con Sidauto la cessazione del rapporto, dietro pagamento di un corrispettivo in favore della stessa di L. 8 miliardi. Nel dicembre 1999 Sidauto ha comunicato ai suoi concessionari la cessazione del rapporto a decorrere dal 1 febbraio 2000, mentre la nuova società importatrice costituita da Mazda Co. (Mazda Motor Italia) ha comunicato agli stessi le sue condizioni per la prosecuzione dei rapporti di concessione: condizioni molto più onerose di quelle già convenute con Sidauto. Parte dei distributori ha accettato le nuove condizioni, mentre altri, fra cui la s.r.l. Auotpanigale e la s.r.l. La Vetrina dell'auto (oggi fallita) le hanno rifiutate, denunciando la nullità- inefficacia della clausola relativa al recesso immediato, anche in relazione all'art. 1341 cod. civ., )è rivendicando il diritto alla prosecuzione del precedente rapporto. Ne sono nate due cause: con atto di citazione notificato il 4-8 marzo 2000 la s.p.a. Mazda Motor Italia (d'ora in avanti Mazda Italia) ha convenuto davanti al Tribunale di Torino Sidauto e 38 concessionarie, fra cui le due sopra indicate, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per l'illecito uso dei propri segni distintivi a decorrere dal 1 febbraio 2000 e per avere esse indebitamente continuato a presentarsi al pubblico come soggetti inseriti nella rete di distribuzione della Mazda. Le convenute hanno resistito, rivendicando il loro diritto alla prosecuzione del rapporto per il periodo di preavviso. Con atto di citazione notificato il 3 maggio 2000 Autopanigale e La Vetrina dell'Auto hanno convenuto davanti al Tribunale di Roma Sidauto e Mazda Motor Italia, per sentirle condannare alla prosecuzione del rapporto di concessione alle precedenti condizioni, previo accertamento della nullità della clausola 1.5 - Parte 3^ - del contratto di concessione, e in ogni caso al risarcimento dei danni per responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Le convenute si sono costituite ed hanno eccepito la continenza della causa rispetto a quella pendente a Torino: eccezione accolta dal Tribunale di Roma, a cui ha fatto seguito la riassunzione della causa a Torino e la sua riunione con quella ivi pendente. Le convenute hanno fatto valere, a fondamento delle loro domande anche la violazione dell'art. 5 del Regolamento CE n. 1475 del 1995; delle norme in tema di buona fede nell'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.); della L. 18 giugno 1998, n. 192, art. 9 sui contratti di subfornitura, concernente il divieto di abuso di dipendenza economica. Hanno quantificato i danni subiti in Euro 619.750,00 per Autopanigale ed in Euro 387.340,00 per la Vetrina dell'Auto. Con sentenza 7 giugno - 4 agosto 2005 n. 5177 il Tribunale di Torino ha accolto le domande di Mazda, dichiarando valida la clausola contrattuale sulla cessazione immediata del rapporto. Proposto appello da Autopanigale e dal Fallimento della Vetrina dell'Auto, a cui hanno resistito Sidauto e Mazda Italia, restando contumaci le altre società, con sentenza 11 gennaio - 28 maggio 2008 n. 743, notificata ai difensori delle appellate il 20 giugno 2008 e a Sidauto personalmente il 26 giugno successivo, la Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza di primo grado, ha accertato la nullità-inefficacia delle clausole n. 1.5 e 1.6 del contratto di concessione, quanto alla previsione del diritto della concedente di recedere con effetto immediato; ha riconosciuto alle appellanti il diritto alla prosecuzione del rapporto per il periodo di preavviso di 24 mesi e ha condannato le società appellate al risarcimento dei danni nella misura di Euro 100.000,00 in favore di Autopanigale, e di Euro 31.000,00 in favore del Fallimento della Vetrina dell'Auto; oltre interessi e spese dei due gradi di giudizio. Con atto notificato il 3 ottobre 2008 Mazda Italia ha proposto cinque motivi di ricorso per cassazione. Con altro atto, notificato il 7-8 ottobre 2008, Sidauto ha proposto anch'essa quattro motivi di ricorso per cassazione. Resistono ad ognuno dei due ricorsi, con controricorsi illustrati da memorie, Autopanigale e il Fallimento La Vetrina dell'Auto. Motivi della decisione Deve essere preliminarmente disposta la riunione dei due ricorsi (art. 335 cod. proc. civ). 1.- RICORSO della s.p.a. SIDAUTO. 1.- Sarebbe opportuno prendere anzitutto in esame il ricorso di Sidauto, pur se (di poco) successivo a quello di Mazda Italia, trattandosi del soggetto che è stato parte diretta dei contratti di concessione oggetto di controversia. 2.- E' tuttavia fondata l'eccezione delle resistenti di inammissibilità del ricorso medesimo, perchè tardivo. La ricorrente ha calcolato la decorrenza del termine per l'impugnazione dal 26 giugno 2008: data in cui la sentenza impugnata è stata notificata ad essa personalmente. Ma il termine rilevante agli effetti dell'impugnazione è quello della notificazione della sentenza al difensore costituito per il giudizio di appello, o indicato nella relazione di notificazione della sentenza, notificazione che nella specie è avvenuta il 20 giugno 2008, nel domicilio eletto dalla ricorrente in Torino per il giudizio di appello presso l'avv. Roberta Moderiano. Il termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso per cassazione veniva quindi a scadere - tenuto conto della sospensione feriale dei termini processuali - il 4 ottobre 2008, mentre il ricorso è stato notificato il giorno 8 ottobre successivo. Nè è valsa ad evitare la decadenza l'impugnazione tempestivamente proposta da Mazda, trattandosi di cause scindibili. Mazda Italia e Sidauto sono condebitrici solidali nei confronti delle appellanti e titolari di rapporti distinti ed autonomi l'una rispetto all'altra, sia quanto al titolo delle rispettive responsabilità, sia quanto ai comportamenti di cui sono chiamate a rispondere. Anche la sentenza quindi - pur se formalmente unica - si risolve in tante pronunce quante sono le posizioni giuridiche decise, che rimangono fra loro indipendenti anche in sede di gravame (Cass. civ. Sez. 1, 22 maggio 1991 n. 5773). Pertanto, se uno dei litisconsorti facoltativi non propone tempestivamente impugnazione, la sentenza passa in giudicato nei suoi confronti, nonostante l'eventuale impugnazione proposta dalla condebitrice solidale (cfr. Cass. civ. Sez. 1, 22 dicembre 1993 n. 12703; cfr. anche Cass. civ. Sez. 3, 19 luglio 2004 n. 13334). 3.- Nè è il caso di porsi il problema - prospettato dalle resistenti - dell'ipotetica efficacia del ricorso principale tardivo di Sidauto come ricorso incidentale, rispetto al ricorso principale di Mazda Italia, notificato in data anteriore. 3.1.- In primo luogo il ricorso di Sidauto non sarebbe comunque qualificabile come ricorso incidentale in senso proprio - cioè proposto dalla parte contro cui sia diretto il ricorso principale - trattandosi di ricorso adesivo alle ragioni della ricorrente principale, in relazione a cause scindibili. In questi casi il ricorso incidentale tardivo è ritenuto in linea di principio inammissibile, poichè l'adesione e la non contrapposizione ai motivi del ricorso principale dimostra che l'interesse ad impugnare è stato determinato dalla sentenza; non dalla proposizione dell'appello principale. Donde il venir meno di ogni giustificazione alla tardività dell'impugnazione (Cass. civ. S.U. 9 agosto 1996 n. 7339; Cass. civ. 25 gennaio 2008 n. 1610; Cass. civ. 7 settembre 2009 n. 19286). Tale principio risulta oggi attenuato, nel senso che anche l'impugnazione incidentale tardiva e adesiva è ritenuta ammissibile, a tutela della reale utilità della parte, quando l'impugnazione principale metta in discussione l'assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale il coobbligato solidale aveva prestato acquiescenza. Si è rilevato infatti che, anche in relazione alle cause scindibili, l'interesse a proporre impugnazione incidentale può sorgere dall'impugnazione principale qualora quest'ultima, se accolta, comporterebbe la modifica dell'assetto delle situazioni giuridiche originariamente accettate dal coobbligato solidale (Cass. civ. S.U. 27 novembre 2007 n. 24627; Cass. civ. Sez. 3, 30 aprile 2009 n. 10125; Cass. civ. S.U. 4 agosto 2010 n. 18049; Cass. civ. Sez. Lav. 29 marzo 2012 n. 5086, ed altre). A conferma di tale indirizzo, è stata ritenuta inammissibile l'impugnazione incidentale adesiva, nei casi in cui l'impugnazione principale non sia idonea ad alterare l'assetto di interessi derivante dalla sentenza alla quale l'impugnante incidentale aveva prestato acquiescenza (Cass. civ. S.U. 7 agosto 2013 n. 18752). Nella specie è tanto evidente che l'interesse di Sidauto ad impugnare sia stato sollecitato dalle disposizioni della sentenza di appello, e non dai possibili effetti del ricorso proposto da Mazda Italia, che essa ha addirittura qualificato il suo ricorso come principale, notificandolo quasi contestualmente all'altro. In secondo luogo Sidauto nulla ha replicato all'eccezione di inammissibilità sollevata dalle resistenti; non ha depositato memoria, nè ha espressamente chiesto che il suo ricorso sia ritenuto ammissibile come ricorso incidentale tardivo, allegando la sussistenza dei presupposti richiesti a tale effetto. La "conversione di ufficio" dell'atto in forma diversa, al fine di attribuirgli forzosamente effetti indipendentemente dalla domanda di parte, è da ritenere quindi inammissibile, non potendosi escludere che il comportamento della parte corrisponda ad una scelta consapevole, legata alla sua attuale strategia difensiva. 4.- Il ricorso di Sidauto deve essere quindi dichiarato inammissibile. 2.- RICORSO della s.p.a. MAZDA MOTOR ITALIA. 1.- La Corte di appello ha così motivato l'accoglimento delle domande delle appellanti: a) la clausola n. 1.5 - Parte 3 - del contratto di concessione stipulato da Sidauto con le concessionarie di vendita è da ritenere nulla, limitatamente alla parte in cui ha disposto la cessazione del rapporto con effetto immediato, poichè è in contrasto con l'art. 5 punto 2) del Regolamento CEE n. 1475/1995, il quale attribuisce agli operatori del settore automobilistico il potere di sottrarre i loro accordi di distribuzione ai divieti stabiliti dall'allora art. 85 Trattato CE, a condizione che tali accordi si uniformino alle condizioni dettate dal Regolamento. Fra tali condizioni rientra quella per cui il recesso dagli accordi stipulati a tempo indeterminato può avvenire solo con la concessione di un termine di preavviso di almeno due anni (riducibile ad un anno, in casi particolari); donde l'obbligo di Sidauto di rispettare il contratto di concessione per almeno due anni dopo la comunicazione del recesso; b) il comportamento di Mazda Italia ha configurato, in concorso con quello di Sidauto, abuso di dipendenza economica in danno delle concessionarie, ai sensi della L. 18 giugno 1998, n. 192, art. 9, in quanto ha offerto alle concessionarie condizioni fortemente peggiorative rispetto a quelle di Sidauto, approfittando delle difficoltà in cui esse sono venute a trovarsi nei confronti della clientela, a seguito della sospensione senza preavviso delle forniture di automobili e di pezzi di ricambio, tramite l'illegittimo recesso senza preavviso di Sidauto; c) il suddetto comportamento di Mazda ha configurato altresì, sempre in concorso con Sidauto, violazione del dovere di buona fede nei rapporti commerciali, ai sensi degli artt. 1337 e 2043 cod. civ.. 1.- Con il primo motivo, denunciando violazione dell'art. 81 del Trattato UE e dell'art. 5 del Regolamento comunitario n. 1475/1995, la ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia considerato come norme imperative, tali da comportare la nullità delle pattuizioni difformi, le norme del citato Regolamento, il quale invece è un mero Regolamento di esenzione: si limita cioè a disporre il venir meno dell'esenzione dal divieto di stipulare intese restrittive della concorrenza, di cui all'art. 85 p. 1 del Trattato CE, agli accordi di distribuzione degli autoveicoli che si uniformino alle condizioni stabilite nel Regolamento stesso, fra cui quelle contenute nell'art. 5 n. 2 circa la durata minima dei contratti di distribuzione e la necessità di subordinare il recesso ad un congruo termine di preavviso (normalmente due anni ed in casi particolari almeno uno). La clausola 1.5 del contratto in oggetto avrebbe quindi potuto essere dichiarata nulla non in relazione alle norme del Regolamento, ma solo ai sensi dell'art. 85 p. 2 del Trattato, previa dimostrazione di tutti i presupposti a cui l'art. 85 p. 1 subordina la nullità degli accordi restrittivi della concorrenza: accertamento che la Corte di appello non ha compiuto. 2.- Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione dell'art. 1972 cod. civ., D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 20, 21 e 23 - Codice della proprietà industriale, nella parte in cui la Corte di appello - attribuendo alle appellanti il diritto alla prosecuzione del rapporto per due anni - ha indebitamente attribuito al contratto di concessione, intercorso fra Sidauto e le concessionarie, effetti anche nei confronti di Mazda Italia, che vi è invece estranea, in violazione della norma per cui il contratto produce effetti solo fra le parti. Parimenti censurabile sarebbe da ritenere l'attribuzione alle concessionarie del diritto di uso dei segni distintivi dei prodotti Mazda - diritto non più spettante a Sidauto, dopo la risoluzione del rapporto di importazione con la casa madre - con efficacia anche nei suoi confronti. 3.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione della L. 18 giugno 1998, n. 192, artt. 1 e 9 sulla subfornitura nelle attività produttive, ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nel capo in cui la sentenza impugnata le ha addebitato l'abuso di dipendenza economica in danno delle concessionarie, trascurando anche qui di considerare che essa Mazda Italia è estranea ai contratti di concessione e non ha mai intrattenuto alcun rapporto con Autopanigale e con la Vetrina dell'Auto. Assume che gli artt. 1 e 9 legge cit. sono applicabili solo ai rapporti contrattuali fra fornitori e clienti ed agli inadempimenti ad essi connessi, quali il rifiuto di vendere o di comprare, l'interruzione arbitraria delle relazioni commerciali, ecc, e presuppongono la preesistenza di rapporti commerciali con il soggetto "abusato", rapporti che nei suoi confronti non sussistono. Denuncia vizi di motivazione, nella parte in cui la Corte di appello ha omesso di trarre argomento dalla corrispondenza da essa intrattenuta con le appellanti e odierne resistenti, dopo la cessazione dei rapporti con Sidauto, da cui risulta che le concessionarie non hanno mai denunciato il carattere oppressivo delle condizioni da essa offerte per l'instaurazione di un nuovo rapporto, lamentando solo che le proposte non fossero complete di tutte le clausole e debitamente sottoscritte dalla proponente, sì da poter essere ritenute affidabili e definitive. Rileva ancora che Mazda Co. - negli originari accordi con Sidauto - si era riservata il diritto di importazione diretta in Italia delle autovetture; che pertanto non necessitava del consenso di Sidauto per entrare nel mercato italiano tramite Mazda Italia, nè questa aveva bisogno di imporre le sue condizioni ad alcuno. 4.- Con il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 1337 e 2043 cod. civ., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, nel capo in cui la Corte di appello l'ha ritenuta responsabile a titolo contrattuale ed extracontrattuale per il solo fatto di avere offerto alle concessionarie nuove condizioni, senza indicare la fonte normativa dalla quale avrebbe desunto una tale responsabilità ed il suo obbligo di tenere un comportamento diverso, ed ha qualificato abusivo e di mala fede il suo comportamento, trascurando di considerare che la maggior parte dei concessionari ha accettato le condizioni da essa proposte. 5.- I motivi - che vanno esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, in quanto tutti attengono al problema della liceità del comportamento di Mazda ed all'ammissibilità di istanze risarcitorie nei suoi confronti - non sono fondati. 5.1.- Vanno condivise le censure rivolte alla sentenza impugnata dal primo motivo. Il Regolamento CEE n. 1475/1992 introduce effettivamente solo una serie di norme dirette a stabilire le condizioni in presenza delle quali gli accordi di distribuzione automobilistica sono esentati da ogni addebito di violazione dell'art. 85 p. 1 del Trattato CE, quali intese restrittive della concorrenza. Non è sufficiente, quindi, dimostrare che detti accordi si discostino dall'una o dall'altra delle prescrizioni del Regolamento, per desumerne la nullità della clausola difforme, ma occorre dimostrare che - venuta meno l'esenzione a causa della suddetta difformità - il contratto è da ritenere nullo perchè pregiudica il commercio fra gli Stati membri, od ha per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune. La sentenza impugnata non ha compiuto alcun accertamento in tal senso, desumendo erroneamente la nullità (parziale) della clausola n. 1.5 dall'asserito carattere imperativo delle norme del Regolamento: norme che invece potevano essere derogate, qualora le parti fossero disposte a correre il rischio di essere dichiarate inosservanti ai divieti di cui all'art. 85 del Trattato. La fondatezza delle censure di cui al primo motivo non giustifica, tuttavia, l'annullamento della sentenza impugnata, a fronte delle ulteriori, assorbenti argomentazioni con cui la Corte di appello ha motivato la sua decisione. 5.2.- Correttamente ha rilevato la Corte di appello che è configurabile a carico di Mazda Italia, oltre che a carico di Sidauto, l'abuso di dipendenza economica in danno delle concessionarie, nonchè la violazione del dovere di buona fede nei rapporti contrattuali e commerciali, a norma della L. n. 192 del 1998 cit., art. 9 e dell'art. 1337 c.c. (quanto a Sidauto) e art. 2043 c.c. (quanto a Mazda). L'art. 9 vieta l'abuso da parte di una o più imprese dello stato di dipendenza economica in cui si trovi nei loro confronti un'impresa cliente o fornitrice: situazione che va ravvisata allorchè l'una sia in grado di determinare nei confronti dell'altra un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi, tramite l'imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o tramite l'interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto, anche in considerazione della difficoltà, per la vittima dell'abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. Ha rilevato la Corte di merito che l'abuso rilevante ai sensi dell'art. 9 è consistito nel fatto che Sidauto, in accordo con Mazda Italia e facendosi da questa corrispondere un congruo indennizzo, ha interrotto i rapporti di concessione di vendita con le sue concessionarie e segnatamente con Autopanigale e con La Vetrina dell'Auto, senza alcun termine di preavviso, mentre Mazda Italia approfittando di tale circostanza - ha cercato di subentrare nei contratti di concessione già facenti capo a Sidauto, imponendo alle concessionarie condizioni molto più onerose (richiedendo cioè obiettivi e target di vendita più elevati; un impegno di esclusiva prima inesistente; il sostanziale ampliamento dei locali adibiti alla vendita, un maggior numero di addetti alle vendite, nonchè il rilascio di un ingente fideiussione bancaria), così abusando della evidente posizione di dipendenza delle concessionarie nei confronti di essa Mazda, quale unico soggetto che poteva consentire loro di continuare a vendere le automobili con quel marchio e di effettuare le sostituzioni dei pezzi di ricambio nelle automobili già vendute. La violazione dei doveri di buona fede è stata poi ravvisata nel fatto che Sidauto, pur avendo ricevuto da Mazda un congruo indennizzo per recedere dal rapporto di importazione, ha preteso di sciogliere i rapporti con le concessionarie senza preavviso e senza alcun indennizzo sostitutivo. Trattasi di motivazione più che sufficiente ed adeguata a giustificare la decisione. I contratti di concessione di vendita possono includersi, nel caso in esame, nell'ambito dei rapporti di subfornitura di cui alla L. n. 192 del 1998, art. 1, considerato che il concessionario si impegna a fornire alla casa madre "...servizi di distribuzione destinati ad essere...utilizzati nell'ambito dell'attività economica del committente...". In quanto tali, sono soggetti all'art. 6, comma 2, della legge stessa, che nei contratti di subfornitura ad esecuzione continuata o periodica dispone la nullità dei patti mediante i quali sia concessa ad una delle parti la facoltà di recesso senza preavviso. Tale deve considerarsi la clausola 1.5. del contratto di concessione, se interpretata nel senso voluto dalla ricorrente, per cui la cessazione del rapporto di importazione giustificherebbe il recesso anche se provocata da fatto proprio del concedente. Ed invero, nella specie la cessazione del rapporto con la casa madre non è dipesa da una causa di forza maggiore alla quale la concedente non avrebbe potuto opporsi, sì da configurare una fattispecie di impossibilità sopravvenuta della prestazione, tale da liberare Sidauto dai suoi obblighi contrattuali nei confronti delle concessionarie. E' stata invece un evento al quale essa ha prestato adesione, dietro congruo corrispettivo in denaro (L. 8 miliardi), così sacrificando deliberatamente gli impegni assunti nei confronti dei suoi concessionari. 5.3.- In secondo luogo e soprattutto, anche indipendentemente dalla sanzione di nullità della clausola di cui alla L. n. 192 del 1998 cit., art. 6, comma 2, il comportamento di Sidauto ha comunque comportato inadempimento degli obblighi assunti nei confronti dei concessionari di concedere loro 24 mesi di preavviso nel caso di recesso dal contratto, considerato che la cessazione del rapporto di importazione non può considerarsi valida giustificazione del recesso medesimo, essendosi verificata, come si è detto, (anche) per fatto proprio della parte che l'ha invocata a sua discolpa. Vale a dire, la condizione apposta ai contratti di concessione circa il diritto della concedente di recedere, nel caso di cessazione del rapporto di importazione, non può ritenersi avverata in danno dei concessionari essendo il suo avveramento imputabile alla stessa parte recedente, come si desume dal principio di cui all'art. 1359 cod. civ., che a sua volta costituisce applicazione dei principi generali circa il dovere di comportarsi secondo buona fede, sia nell'esecuzione dei contratti, sia in pendenza della condizione (artt. 1358 e 1375 cod. civ.). In definitiva, pur ritenuta inapplicabile la sanzione della nullità della clausola in questione con riferimento alle sole norme del Regolamento CEE, la decisione della Corte di appello si giustifica sulla base dei diversi principi da essa richiamati, ed in particolare in relazione alla norma della L. n. 192 del 1998, art. 6, comma 2, ed alle norme che sanciscono il dovere di uniformare il proprio comportamento ai principi della buona fede, nell'esecuzione del rapporto contrattuale. 5.4.- La ricorrente Mazda Italia eccepisce la propria estraneità al comportamento di Sidauto e ad ogni ipotetico rapporto di subfornitura, quindi l'insussistenza di un qualunque inadempimento o violazione di legge a suo carico, non essendo essa parte dei contratti di concessione. Le eccezioni non sono fondate. In primo luogo il divieto di abuso di dipendenza economica di cui alla legge sulla subfornitura costituisce peculiare applicazione di un principio generale che si vorrebbe caratterizzasse l'intero sistema dei rapporti di mercato. Non a caso il comma 3-bis, art. 9 richiama l'applicabilità della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 3, per i casi in cui l'abuso di dipendenza economica assuma un rilievo che va oltre gli interessi coinvolti nel singolo rapporto contrattuale, mettendo in questione in termini più ampi le esigenze di tutela della concorrenza. L'abuso di dipendenza economica di cui alla L. n. 192 cit., art. 9 può quindi venire in considerazione in un ambito più ampio di quello formato dalle parti del singolo contratto, per estendersi al rapporto commerciale più complesso in cui esso si inserisca, qualora proprio tramite un tale rapporto si realizzi l'abuso. In ogni caso, la responsabilità per induzione all'inadempimento o per complicità nell'inadempimento altrui è da tempo riconosciuta e sanzionata nel nostro ordinamento, quale peculiare fattispecie di responsabilità per illecito civile, che obbliga al risarcimento dei danni. La sentenza impugnata ha per l'appunto preso in considerazione il complesso rapporto Mazda-Sidauto-concessionari ed ha ravvisato a carico di Mazda Italia un comportamento di complicità negli illeciti e negli inadempimenti di Sidauto, che ha ritenuto giustificarne la condanna solidale al risarcimento dei danni. Ha richiamato il fatto che Mazda Co. - pur se titolare del diritto di importare direttamente le sue automobili in Italia ha negoziato con Sidauto la cessazione del contratto di importazione in corso, versandole quale corrispettivo la somma di 8 miliardi di lire. E' vero che Mazda Co. e, per suo tramite Mazda Italia, aveva il diritto di importazione diretta in Italia. Ma è anche vero che il suo diritto sarebbe stato ben più proficuamente esercitato avvalendosi della penetrazione nel mercato italiano procurata dalla catena dei concessionari di Sidauto, i quali avrebbero avuto diritto alla continuazione del rapporto in corso quanto meno per i due anni di preavviso, e sono stati invece messi nella difficile condizione di non poter soddisfare le richieste della clientela a causa dell'interruzione repentina delle forniture, artificiosamente provocata dalla manovra Mazda Co - Mazda Motor Italia Sidauto, tale da metterli in condizione di difficoltà nel rifiutare l'offerta peggiorativa, formulata dalla nuova importatrice. La maggior parte delle concessionarie ha infatti aderito al cambiamento. In questa operazione il soggetto maggiormente interessato alla riuscita dell'operazione era quindi Mazda Italia (e la casa madre, sua controllante), più ancora che la contraente Sidauto, la quale era stata già soddisfatta dal corrispettivo ricevuto per l'interruzione del rapporto di importazione. Correttamente, quindi, la Corte di appello ha ritenuto la società ricorrente corresponsabile dei danni subiti dalle concessionarie, per la sua cooperazione all'inadempimento di Sidauto e per la mala fede dimostrata nel prospettare alle concessionarie insussistenti condizioni per il recesso immediato dal rapporto cioè l'interruzione dei rapporti con l'importatore - rapporti che in realtà non erano stati interrotti, ma erano stati consensualmente risolti dietro corrispettivo. Ricorrono pertanto anche a carico della ricorrente Mazda Italia sia gli estremi dell'abuso di dipendenza economica, ai sensi degli artt. 1 e 9 del contratto di subfornitura; sia la responsabilità per complicità con Sidauto nella violazione degli obblighi contrattuali e dei doveri di buona fede nell'esecuzione de contratto, ivi incluse le fasi del recesso e delle trattative in vista dell'instaurazione di un nuovo rapporto. Trattasi di responsabilità di Mazda per fatto proprio, in relazione alla quale il principio di cui all'art. 1372 c.c., comma 2, non ha ragione di essere invocato. 6.- Infondata è anche la doglianza relativa all'asserito carattere indebito dell'uso dei segni distintivi di Mazda da parte delle concessionarie. Il diritto all'uso dei segni distintivi è stato loro legittimamente attribuito con i contratti di concessione di vendita delle automobili Mazda stipulati con Sidauto, a loro volta legittimati dal contratto di importazione a suo tempo intercorso fra Mazda Co. e Sidauto, ed è destinato a restare in vita finchè avranno effetto i rapporti di concessione. E' ammesso, del resto, l'uso congiunto del marchio, nel caso di licenza non esclusiva (cfr. D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 23, comma 2, - Codice della proprietà industriale), e Mazda Italia potrà rivalersi di eventuali violazioni in suo danno nei confronti di Mazda Co. e di Sidauto. 1.- Il quinto motivo di ricorso denuncia violazione degli artt. 1226 e 2697 cod. civ. e vizi di motivazione, sul rilievo che la Corte di appello non avrebbe potuto procedere alla liquidazione equitativa dei danni, a fronte di specifiche richieste risarcitorie delle appellanti, le quali hanno chiesto la condanna al pagamento per somme non inferiori a quelle da esse quantificate in Euro 619.750,00 quanto ad Autopanigale, ed in Euro 387.340,00, quanto al Fallimento La Vetrina dell'Auto. Si afferma che la Corte di appello non avrebbe potuto liquidare somme inferiori; che in ogni caso non si può ricorrere alla liquidazione equitativa quando l'entità dei danni possa essere dimostrata, nè è possibile invocare il fatto notorio in relazione a fatti non allegati dalle parti; che non sarebbe stato comunque possibile ravvisare un danno da lucro cessante in favore della Vetrina dell'Auto, che era in cronica situazione di perdita. 7.1.- Il motivo non è fondato. L'accoglimento parziale della domanda è sempre possibile - e così ha fatto la Corte di appello nel liquidare i danni - e la motivazione relativa alla quantificazione (unico aspetto in relazione al quale le doglianze sono ammissibili in questa sede) non presta il fianco a censure di sorta. La Corte di appello ha specificamente richiamato a fondamento della sua decisione le allegazioni e le prove delle parti, ed in particolare gli ordini di autoveicoli Mazda già raccolti e non potuti evadere a causa dell'improvvisa cessazione delle consegne, le perdite sulle giacenze di veicoli; i nuovi locali acquistati per le vendite in previsione della durata del rapporto, ed altro (sentenza, p. 34 e seg.). Ritenuti non sufficienti gli elementi raccolti per una precisa quantificazione dei danni, ha correttamente proceduto alla valutazione equitativa, dedicando ampia e specifica indagine ai dati economici a cui fare riferimento per ancorare la decisione ad una valutazione realistica e non arbitraria (cfr. pag. 37-42). Ha tenuto conto della situazione finanziaria negativa della Vetrina dell'Auto, la quale peraltro non esclude che anche questa società avesse diritto alla corretta esecuzione dei contratti in corso ed al risarcimento dei danni conseguenti all'ulteriore, ingiustificata diminuzione dei suoi introiti, derivata dagli altrui inadempimenti. L'opinione della ricorrente, secondo cui una società in passivo resterebbe insensibile alle ulteriori perdite arrecate dagli illeciti altrui, non può essere condivisa. 8.- Il ricorso di Mazda Italia deve essere rigettato. 9.- Le spese del presente giudizio, liquidate nel dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte di cassazione riunisce i ricorsi. Dichiara inammissibile il ricorso proposto dalla s.p.a. Sidauto e rigetta il ricorso proposto dalla s.p.a. Mazda Motor Italia. Condanna le ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate complessivamente in Euro 10.000,00 per ciascuna delle resistenti, di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 9.800,00 per compensi; oltre al rimborso delle spese generali ed agli accessori previdenziali e fiscali, ai sensi della legge in vigore. Così deciso in Roma, il 21 maggio 2014. DATA DEPOSITO 23 LUGLIO 2014 Sentenza 06 marzo 2015 n. 4628 Sez. Unite CONTRATTI - VENDITA - vendita immobiliare - Preliminare del preliminare - Legittimità - Sussistenza - Condizioni. Ente Giudicante: Cassazione Civile Presidente: Pres. ROVELLI Luigi Antonio; Rel. D'ASCOLA Pasquale avverso la sentenza n. 1696/2007 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/05/2007; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/10/2014 dal Consigliere Dott. PASQUALE D'ASCOLA; uditi gli avvocati Modestino AGONE, Gianfranco GRELLA, Giorgio STELLA RICHTER; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo 1) Gli odierni ricorrenti agirono nel novembre 1996 proclamandosi promittenti venditori di una porzione di fabbricato sita in Avellino. Chiesero l'esecuzione in forma specifica dell'accordo preliminare concluso il 9 luglio 1996 con i promissari acquirenti, i coniugi Fr.Gi. e F.M.. I convenuti resistettero sostenendo che la scrittura privata del 9 luglio costituiva una semplice puntuazione, priva di efficacia obbligatoria, insuscettibile di esecuzione ex art. 2932 c.c.. Il tribunale di Avellino rilevò che il contratto conteneva l'impegno a stipulare il contratto preliminare di compravendita, allorquando il Banco di Napoli avesse dato assenso all'esclusione della porzione venduta dall'ipoteca gravante sul fabbricato. Il tribunale ritenne che il contratto stipulato fosse da qualificare come "preliminare di preliminare" e che fosse nullo per difetto originario di causa. Pertanto respinse la domanda. Anche la Corte di appello di Napoli ha ritenuto che al contratto preliminare può riconoscersi funzione giuridicamente apprezzabile solo se è idoneo a produrre effetti diversi da quelli del contratto preparatorio; che nella specie il secondo preliminare previsto dalle parti avrebbe prodotto gli stessi effetti di impegnarsi a stipulare alle medesime condizioni e sul medesimo bene; che pertanto l'accordo del 1996 era nullo, per difetto di causa autonoma rispetto al contratto preliminare da stipulare. Ha rigettato quindi la domanda di risoluzione e risarcimento danni, introdotta nel corso del giudizio di primo grado ex art. 1453 c.c., comma 2. Avverso questa sentenza, i promittenti venditori signori M. - S. hanno proposto ricorso per cassazione con unico motivo. Gli intimati inizialmente non hanno svolto attività difensiva. In vista della pubblica udienza, F.M. si è costituita con "memoria difensiva" del difensore nominato con procura speciale notarile. Con ordinanza interlocutoria 5779/14 del 12 marzo 2014 della seconda sezione civile, la causa è stata rimessa al primo Presidente, il quale la ha assegnata alle Sezioni Unite della Corte. Le parti costituite hanno depositato memorie. Motivi della decisione 2) Preliminarmente, con riferimento alla costituzione tardiva della intimata, va rilevato che la parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddirvi, deve farlo mediante controricorso contenente, ai sensi dell'art. 366 c.p.c., (richiamato dall'art. 370 c.p.c., comma 2), l'esposizione delle ragioni atte a dimostrare l'infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata dal ricorrente. In mancanza di tale atto, essa non può presentare memoria, ma solamente partecipare alla discussione orale (Cass. 6222/12; 1737/05). 3) Con unico complesso motivo di ricorso i promittenti venditori denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 1321, 1322, 1324, 1351, 1362 ss., 1374, 2697 e 2932 c.c.. Invocano le opinioni dottrinali e giurisprudenziali che, contrapponendosi alla corrente di pensiero accolta dai giudici di merito, ha riconosciuto "del tutto ammissibile e lecita la figura del preliminare di preliminare". Sostengono che non può essere negato che sussista un interesse delle parti a creare un "impegno provvisorio", scindendo la contrattazione preparatoria del contratto definitivo di vendita dell'immobile in due fasi. Affermano che la Corte di appello si è erroneamente allineata alle tesi che ritengono nullo per mancanza di causa il c.d. preliminare di preliminare, le quali ignorano il concreto svolgersi delle negoziazioni immobiliari e le esigenze della pratica. Ricordano che il contratto per cui è causa, intitolato "dichiarazione preliminare d'obbligo" conteneva gli elementi essenziali del negozio e prevedeva la stipula di un "regolare preliminare di vendita", qualora il Banco di Napoli avesse dato assenso alla liberazione dall'ipoteca. Parte ricorrente deduce che per "regolare preliminare" doveva intendersi "formale preliminare", espressione che assume oggi maggior significato in relazione alla possibilità di trascrivere i preliminari redatti "in base alla L. 28 febbraio 1997, n. 30". Evidenzia la apprezzabilità dell'interesse che le parti avevano a conoscere, nel percorso negoziale di progressivo avvicinamento, le decisioni dell'istituto bancario che vantava l'ipoteca. Il ricorso, che è concluso da congruo e concreto quesito, redatto ex art. 366 bis c.p.c., e completato da altra censura per contraddittorietà della motivazione, è fondato. 3) La Seconda Sezione ha ritenuto opportuno interpellare le Sezioni Unite, svolgendo le seguenti considerazioni: "Il collegio non ignora che questa S.C. ha già avuto occasione di affermare che il contratto in virtù del quale le parti si obblighino a stipulare un successivo contratto ad effetti obbligatori (ovvero un contratto preliminare di preliminare) è nullo per difetto di causa, non essendo meritevole di tutela l'interesse di obbligarsi ad obbligarsi, in quanto produttivo di una inutile complicazione (sent. 2 aprile 2009 n. 8038, seguita, senza ulteriori approfondimenti da Cass. 10 settembre 2009) (n. 19557). Ritiene, tuttavia, che tale orientamento, nella sua assolutezza, potrebbe essere meritevole di precisazioni, con riferimento alle ipotesi che in concreto possono presentarsi. In primo luogo, potrebbe dubitarsi della nullità del contratto preliminare il quale si limitasse a prevedere un obbligo di riproduzione del suo contenuto al verificarsi di determinate circostanze, come nel caso di specie, in cui la stipulazione di un "regolare contratto preliminare" era subordinata al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione dell'ipoteca gravante (anche) sulla porzione immobiliare promessa in vendita. Ma quello che più conta è che il contratto preliminare di contratto preliminare non esaurisce il suo contenuto precettivo nell'obbligarsi ad obbligarsi, ma contiene - come nel caso di specie - anche l'obbligo ad addivenire alla conclusione del contratto definitivo. Ora, appare difficile, in considerazione del principio generale di cui all'art. 1419 c.c., comma 1, ritenere che la nullità dell'obbligo di concludere un contratto preliminare riproduttivo di un contratto preliminare già perfetto possa travolgere anche l'obbligo, che si potrebbe definire finale, di concludere il contratto definitivo". 3.1) La sentenza 8038/09, alla quale l'ordinanza di rimessione fa riferimento, aveva così argomentato: "L'art. 2932 c.c., instaura un diretto e necessario collegamento strumentale tra il contratto preliminare e quello definitivo, destinato a realizzare effettivamente il risultato finale perseguito dalle parti. Riconoscere come possibile funzione del primo anche quella di obbligarsi... ad obbligarsi a ottenere quell'effetto, darebbe luogo a una inconcludente superfetazione, non sorretta da alcun effettivo interesse meritevole di tutela secondo l'ordinamento giuridico, ben potendo l'impegno essere assunto immediatamente: non ha senso pratico il promettere ora di ancora promettere in seguito qualcosa, anzichè prometterlo subito. Nè sono pertinenti i contrari argomenti esposti dai ricorrenti: in parte non attengono al reciproco rapporto tra le parti del futuro contratto definitivo, ma a quelli tra ognuna di loro e l'intermediario che le ha messe in relazione, sicchè non riguardano il tema in discussione; per il resto prospettano l'ipotesi di un preliminare già riferentesi al definitivo e da rinnovare poi con un altro analogo negozio formale, il che rappresenta una fattispecie diversa da quella del prepreliminare, di cui si è ritenuta in sede di merito l'avvenuta realizzazione nella specie. Correttamente, quindi, nella sentenza impugnata, esclusa la validità dell'accordo raggiunto dalle parti, ha ritenuto che esse si trovassero, in relazione al futuro contratto preliminare, nella fase delle trattative, sia pure nello stato avanzato della puntuazione, destinata a fissare, ma senza alcun effetto vincolante, il contenuto del successivo negozio". 3.2) Il confronto tra i provvedimenti soprariportati costituisce già eloquente documentazione delle incertezze che da qualche decennio agitano la dottrina e la giurisprudenza in ordine all'ammissibilità del c.d. contratto preliminare di preliminare. Si contrappongono infatti un orientamento che si può definire tradizionale, rispecchiato da Cass. 8038/09, che diffida (di "una certa diffidenza" discute per prima Pret. Bologna 9 aprile 1996, Giur. it., 1997, I, 2, 539) della configurabilità di un momento contrattuale anteriore al preliminare e un orientamento più possibilista, che considera benevolmente le ipotesi di c.d. "preliminare aperto" e ritiene possibile una tripartizione delle fasi che conducono alla stipula del definitivo. Un'analisi più approfondita della esperienza giurisprudenziale e dell'evolversi del dibattito dottrinale può consentire di svelare contrasti solo apparenti, di riavvicinare le posizioni e di delineare senza schematismi i limiti in cui può espandersi l'autonomia privata. 3.3) In giurisprudenza viene affermato che: "In tema di minuta o di puntuazione del contratto, qualora l'intesa raggiunta dalle parti abbia ad oggetto un vero e proprio regolamento definitivo del rapporto non è configurabile un impegno con funzione meramente preparatoria di un futuro negozio, dovendo ritenersi formata la volontà attuale di un accordo contrattuale; per tale valutazione, ben può il giudice far ricorso ai criteri interpretativi dettati dall'art. 1362 c.c. e segg., i quali mirano a consentire la ricostruzione della volontà' delle parti, operazione che non assume carattere diverso quando sia questione, invece che di stabilirne il contenuto, di verificare anzitutto se le parti abbiano inteso esprimere un assetto d'interessi giuridicamente vincolante, dovendo il giudice accertare, al di là del nomen iuris e della lettera dell'atto, la volontà negoziale con riferimento sia al comportamento, anche successivo, comune delle parti, sia alla disciplina complessiva dettata dalle stesse, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre". (Cass. 2720/09). Stabilire se la formazione di un accordo che riguardi solo i punti essenziali del contratto di compravendita (Cass. 23949/08; 2473/13; 8810/03; 3856/83) sia sufficiente a costituire un contratto preliminare suscettibile di esecuzione coattiva ex art. 2932 c.c., è questione di fatto che può risultare di difficile discernimento. Si rinvengono infatti non poche massime secondo le quali ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale, è necessario che tra le parti sia raggiunta l'intesa su tutti gli elementi dell'accordo, non potendosene ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l'intesa solamente su quelli essenziali ed ancorchè riportati in apposito documento, risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori. (Cass. 14267/06; 11371/10). Questo secondo filone giunge ad affermare che anche in presenza del completo ordinamento di un determinato assetto negoziale può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell'attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto (910/05; 20701/07). 4) La questione rimessa oggi alla Corte non riguarda il rilievo della volontà nella conclusione del contratto e se essa sia la sola via per stabilire quando il preliminare venga definitivamente formato: è chiesto invece di indagare sulla dinamica degli accordi contrattuali in tema di compravendita immobiliare. E' infatti evidente già da questa prima ricognizione quale sia l'incertezza del confine tra atto preparatorio e contratto preliminare, incertezza alimentata da una accentuata polarizzazione tra contratto preliminare (vincolante) da un lato e diniego di rilevanza negoziale, per difetto della causa, di accordi prodromici al preliminare, i quali al più vengono qualificati semplice "puntuazione". Occorre pertanto stabilire se e in quali limiti sia riconosciuto nell'ordinamento un accordo negoziale che rimandi o obblighi i contraenti a un contratto preliminare propriamente detto. 4.1) La problematica risulta affrontata più volte nella giurisprudenza di merito. Trib. Salerno 23 luglio 1948 (Dir. Giur., 1949, 101) ebbe ad affermare che la legge, nel fissare i due tipi fondamentali di contratti (preliminare e definitivo), esclude l'esistenza di un contratto preliminare relativo ad altro preliminare, il quale dovrebbe comunque rispettare il requisito di forma di cui all'art. 1351 c.c. Il tribunale di Napoli (23.11.1982 in Giustciv. 1983, 1, 283; 21.2.1985 n. 1480 Dir Giur. 1985, 725) ha aggiunto che il contratto con cui le parti si impegnano a stipulare un futuro contratto preliminare di analogo contenuto è nullo per mancanza di causa, "difettando di ogni funzione economica meritevole di tutela". La trattatistica censisce vari altri casi (tra i quali: App Genova 21.2.2006, Obbl e contr., 2006, 648; App. Napoli 1.10.2003, Giur. mer. 2004, 63) che riecheggiano queste convinzioni. 4.1.1) Altre volte la giurisprudenza partenopea si è orientata in senso opposto. App. Napoli 11 ottobre 1967, (Dir. Giur. 1968, 550) ha ritenuto che "in virtù del principio dell'autonomia negoziale" sia ammissibile un regolamento contrattuale che preveda, dopo la prima intesa scritta, un'ulteriore scansione temporale, con la stipulazione del contratto preliminare, legata al versamento di una caparra. Trib. Napoli 28 febbraio 1995 (Dir. Giur. 1995, 163) muovendo dallo stesso presupposto ha considerato meritevole di tutela "il contratto preliminare del preliminare qualora lo stesso costituisca un momento ben caratterizzato dell'iter progressivo per il raggiungimento del compiuto regolamento di interessi". In altri casi i giudici di merito hanno espressamente ritenuto di non avventurarsi nella analisi, poichè hanno ravvisato già nel primo contratto gli elementi sufficienti a qualificare come preliminare ex art. 1351 c.c., l'accordo documentato (Pret. Firenze 19. 12. 1989 Giur. merito, 1990, 466) ovvero, all'opposto, la configurabilità di una condizione sospensiva, il cui mancato avveramento impedisce il perfezionamento della fattispecie negoziale (Trib. Firenze 10 luglio 1999, Nuovo dir., 2000, 487). 4.2) Queste oscillazioni mettono capo, come la giurisprudenza citata sub 3.3, al tema dell'identificazione del contratto preliminare e preannunciano il diffondersi di problematiche relative alla contrattazione in materia di vendita immobiliare, settore che ha segnato la fortuna del contratto preliminare nel nostro ordinamento. Prima di esaminare le valutazioni dottrinali in questa materia è quindi opportuno stabilire che solo questo è il campo di indagine, restando esclusi - e da salvaguardare - altri istituti di confine. Intorno al 1970, nel fissare le fondamenta concettuali del contratto preliminare, la dottrina ha avuto cura di distinguerli e di segnalare che il contratto preliminare non è "un recipiente di comodo" in cui inserire gli istituti dagli incerti confini. Va pertanto esemplificativamente ricordato che: la figura dell'opzione di contratto preliminare, di origine dottrinale (ma v. Cass. 1071/67), è un'ipotesi di "possibile allargamento della sfera di applicazione del patto di opzione" (per la distinzione, cfr Cass. 8564/12). Il patto di prelazione ha lo scopo essenziale di impedire che il promittente concluda un contratto con un terzo anzichè con il beneficiario del patto: non sembra quindi una figura diretta alla conclusione del contratto, come il preliminare, ma alla scelta del contraente, ancorchè in giurisprudenza venga qualificato come preliminare unilaterale (Cass. 3127/12). Anche il patto di contrarre con il terzo non può essere confuso con le ipotesi che ci occupano di pattuizione anteriore al preliminare, categoria al quale è estraneo, per il motivo determinante che non vi è ancora - con questo patto una manifestazione di consenso intorno a un regolamento di interessi, ma una volontà manifestata a un soggetto diverso dal terzo con cui si dovrà in futuro contrarre. 4.3) Il vero insorgere della problematica è stato determinato dall'evoluzione della contrattazione immobiliare e dell'attività di mediazione professionalmente gestita. La complessità dei contatti, delle verifiche da effettuare, da un lato per saggiare la serietà dei proponenti, dall'altro per accertarsi della consistenza del bene e dell'affidabilità dei contraenti, hanno di fatto portato a una frequente tripartizione delle fasi contrattuali. Una prima fase in cui, a volte con la formula, almeno dichiarata, della proposta irrevocabile, l'aspirante acquirente offre un certo corrispettivo per l'acquisto del bene, atto che viene riscontrato dalla accettazione o dal rifiuto del proprietario. Una seconda, espressamente prevista, di stipula del contratto preliminare propriamente detto. La terza, costituita dall'indispensabile rogito notarile con il saldo del prezzo. La pratica degli affari ci consegna una incalcolabile serie di varianti: inseguirle, è stato spiegato, sarebbe ozioso impegno di un giurista da tavolino. Alla variabilità della modulistica dei mediatori si aggiunge infatti la inesauribile creatività dei contraenti, assistiti o meno da consulenti legali. Il quesito che occorre risolvere concerne la configurabilità di due fasi anteriori al rogito o comunque all'atto traslativo, giustificabili l'una rispetto all'altra allo stesso modo in cui venne a suo tempo giustificata la "scissione" del contratto preliminare rispetto al definitivo. Si vuoi dire che la "scissione", in alcuni casi, dimostra che le parti sono incerte e intendono meglio orientarsi, cosicchè essa risponde all'esigenza di "fermare l'affare", ossia di dare vincoli giuridici all'operazione economica condivisa negli elementi essenziali, restando però, per una delle parti (di regola il compratore) l'esigenza di verificare con certezza la praticabilità dell'operazione, prima ancora che di definirla in termini più precisi e articolati. Ciò può avvenire sovente sui seguenti punti: a) assumere elementi di conoscenza sulla persona della controparte (es., se è imprenditore o comunque persona solvibile; escludere vicinanze "mafiose", etc.). Si tratta di elementi che non potrebbero, ove conosciuti come negativi, essere addotti a motivo di risoluzione di un contratto già concluso o forse neppure essere portati a conoscenza della controparte stessa, ragione per cui è necessario non dare carattere di assolutezza al vincolo. b) verificare con precisione lo stato della cosa; c) verificare la situazione urbanistica e svolgere le altre visure e ricerche necessarie. 5) Il ragionamento al quale si è rifatta Cass. 8038/09, e che nega la validità di un accordo ripetitivo, ha pregio se si ipotizza (come sembra sia stato comunque fatto anche in quel caso) che tra il primo e il secondo preliminare vi sia identità (bis in idem). In tal caso, mancando un contenuto nuovo in grado di dar conto dell'interesse delle parti e dell'utilità del contratto, si è parlato di mancanza di causa. La parte di dottrina che è tendenzialmente contraria ad ammettere queste pattuizioni riconosce che nelle trattative complesse il contratto si può formare progressivamente, ma nega che si possa parlare di obbligo a contrarre, preferendo l'aspetto descrittivo dell'obbligazione di contrattare. Nega anche rilievo alla differenziazione basata sulla ricorribilità al rimedio di cui all'art. 2932 c.c., solo in relazione al secondo contratto. Si pretende infatti che il rapporto tra i preliminari venga "valutato in termini di contenuto dispositivo e non già di sanzioni". E' già questa una significativa apertura, ancorchè sia stata limitata a quelle fattispecie in cui le parti, impegnatesi in sede di primo accordo sui punti essenziali della futura compravendita, abbiano solo voluto rinviare la definizione di punti secondari. 5.1 Le Sezioni Unite della Corte intendono cogliere gli aspetti costruttivi di quel moderno orientamento che vuole riconoscere la libertà delle parti di determinarsi e di fissare un nucleo di interessi da trasfondere nei vari passaggi contrattuali. Viene in primo luogo in risalto, come evidenziato dal più recente dibattito dottrinale, la tematica della causa concreta. Una definizione di questa Corte (Cass. 10490/06) la qualifica come "scopo pratico del negozio...sintesi degli interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato". Sono molti i casi in cui la Corte, dichiaratamente o meno, ha lasciato da parte la teorica della funzione economico sociale del contratto e si è impegnata nell'analisi dell'interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie, cioè della ragione pratica dell'affare. L'indagine relativa alla causa concreta, - è stato evidenziato - giova sia come criterio d'interpretazione del contratto sia come criterio di qualificazione dello stesso: "La rispondenza del contratto ad un determinato tipo legale o sociale richiede infatti di accertare quale sia l'interesse che il contratto è volto a realizzare". Questa chiave di lettura conduce a riconsiderare gli approdi schematici ai quali sono pervenute in passato dottrina e giurisprudenza. E' singolare, ma non casuale, che il profilo causale del contratto sia stato inteso in dottrina e giurisprudenza come ricerca della utilità del contratto, cioè della sua "complessiva razionalità" ed idoneità ad espletare una funzione commisurata sugli interessi concretamente perseguiti dalle parti attraverso quel rapporto contrattuale. E' questo in fondo che la stessa Cass. 8038/09 richiede allorquando rileva che, in caso contrario, l'obbligo di obbligarsi ad ottenere un certo effetto è "una inconcludente superfetazione" priva di "senso pratico". 5.2 Le opinioni, pur partendo da prospettive diverse, coincidono dunque nel definire nulla l'intesa che si risolva in un mero obbligo di obbligarsi a produrre un vincolo che non abbia nè possa avere contenuto ulteriore o differenziato. Un secondo punto di convergenza si rinviene allorquando l'analisi del primo accordo conduce a ravvisare in esso i tratti del contratto preliminare, in quanto contenente gli elementi necessari per configurare tale contratto, quali, si osserva, l'indicazione delle parti, del bene promesso in vendita, del prezzo. La presenza della previsione di una ulteriore attività contrattuale può rimanere irrilevante, ma va esaminata alla luce delle pattuizioni e dei concreti interessi che sorreggono questa seconda fase negoziale. Giovano alcune esemplificazioni: a) Può darsi il caso che nell'accordo raggiunto sia stata semplicemente esclusa l'applicabilità dell'art. 2932 c.c.: si tratta, è stato osservato, di una esclusione convenzionalmente ammessa. La conseguenza sarà che, pur ravvisandosi un contratto "preliminare" in questa scrittura che ipotizzava un successivo accordo, si potrà far luogo, in caso di inadempimento, solo al risarcimento del danno. b) Può presentarsi l'ipotesi in cui la pattuizione della doppia fase risponda all'esigenza di una delle parti di godere del diritto di recesso, facoltà che può essere convenzionalmente prevista nel contratto preliminare e che può anche accompagnarsi alla prevista perdita di una modesta caparra penitenziale versata dal proponente l'acquisto; si tratta è stato detto, del costo del recesso da un contratto preliminare già concluso. c) E' ipotizzabile, ed è quanto andrà vagliato con particolare attenzione dai giudici di merito nel giudizio odierno, che le parti abbiano raggiunto un'intesa completa, subordinandola però a una condizione. Tutte queste ipotesi, e le altre che sono immaginabili, sono apparentate da una conclusione che può regolare buona parte della casistica: va escluso che sia nullo il contratto che contenga la previsione della successiva stipula di un contratto preliminare, allorquando il primo accordo già contenga gli estremi del preliminare. L'assenza di causa che è stata rilevata quando si è discusso di "preliminare di preliminare" potrebbe in tali casi riguardare tutt'al più il secondo, ma non certo il primo contratto. 6) Dietro la stipulazione contenente la denominazione di "preliminare del preliminare" (nel senso che la conclusione dell'accordo precede la stipula del contratto preliminare) si possono dare situazioni fra loro differenti, che delineano sia figure contrattuali atipiche (quali quelle prima indicate), ma alle quali corrisponde una "causa concreta" meritevole di tutela; sia stadi prenegoziali molto avanzati, cui corrisponde un vincolo obbligatorio di carattere ancora prenegoziale (almeno fra le parti del contratto in relazione al quale si assuma un impegno volto alla successiva stipula di un contratto preliminare) che vede intensificato e meglio praticato l'obbligo di buona fede di cui all'art. 1337 c.c.. Certo è però, che, in linea di massima, la previsione di dover dar vita, in futuro, all'assunzione dell'obbligo contrattuale nascente dal contratto preliminare, può essere sintomatica del fatto che le parti hanno consapevolezza che la situazione non è matura per l'assunzione del vincolo contrattuale vero e proprio. Ciò può dipendere segnatamente in relazione al grado di conoscenza di tutti gli elementi di fatto che occorre aver presenti per manifestare la volontà il cui incontro da vita all'accordo vincolante consacrato nel contratto preliminare. Posto, come si è detto prima, che non si può assegnare utilità al "bis in idem" in quanto volto alla mera ripetizione del primo contratto ad identici contenuti, se e quando le parti sono disposte al mutamento del contenuto del contratto, al cambiamento di esso, l'obbligazione assunta sembra avere per oggetto non il contrarre, ma il contrattare. 6.1) Anche la dottrina più rigorosa riconosce che da gran tempo è stata discussa la formazione progressiva del contratto e sembra ammettere che essa potrebbe atteggiarsi configurando una tripartizione del procedimento di compravendita immobiliare. Secondo le Sezioni Unite si deve immaginare la pattuizione di un vincolo contrattuale che sia finalizzato ad ulteriori accordi e che il rifiuto di contrattare opposto nella seconda fase, se immotivato e contrario a buona fede, possa dar luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto e non propriamente ex contractu. E' stato però osservato che si tratterebbe di ipotesi diversa da quella del preliminare di preliminare, che dovrebbe riguardare l'obbligo, assunto nella prima fase, di contrarre e non di contrattare, come invece avverrebbe quando siano state scandite solo tappe di una trattativa complessa. Si è quindi manifestata contrarietà all'ipotesi di un "preliminare aperto" sottoscritto per lo più da parti che ancora non si conoscono o hanno deliberatamente lasciato alla seconda fase la regolazione di alcuni profili contrattuali - seguito da un preliminare chiuso. Questa ritrosia può essere giustificata in alcuni casi, ma non in tutti. E' stato in precedenza sottolineato che va dato peso alla difficoltà di configurare come preliminare propriamente detto un rapporto obbligatorio in cui le parti non si conoscano e non siano in grado quindi di valutare le qualità soggettive dell'altro contraente. Rispetto a questa frequente ipotesi, non sembra corrispondere alle reali esigenze del traffico giuridico qualificare la prima intesa, che pur contenga gli altri elementi essenziali, come contratto preliminare. Vi sono esigenze, in una società complessa, interessata da pervasivi fenomeni criminosi, da sospette manipolazioni nel tessuto economico, da un fiorire incontrollabile di nullità contrattuali "minori", ma non per questo meno incisive negozialmente, di riservare il consenso vincolante, sottomesso all'esecuzione coattiva, a verifiche che sono da valutare soggettivamente. In altri casi il contraente resta libero da vincoli stringenti e assoggettato solo alle conseguenze risarcitorie che ha deliberamente assunto e contrattualmente delimitato, concordando espressamente la necessità di un vero e proprio preliminare e l'esclusione del disposto di cui all'art. 2932 c.c.. Una più esauriente determinazione del contenuto contrattuale può essere prevista per meglio realizzare l'interesse delle parti. Se si dovesse invece ricorrere sempre all'opzione preliminare/definitivo si dovrebbero riempire i contenuti rimasti in sospeso con il meccanismo di cui all'art. 1374, integratore rispetto al primo accordo incompleto. 6.2) E' stato autorevolmente sostenuto che se mancano violazioni di una legge imperativa, non v'è motivo per giudicare inammissibili procedimenti contrattuali graduali, la cui utilità sia riscontrata dalle parti con pattuizioni che lasciano trasparire l'interesse perseguito, in sè meritevole di tutela, a una negoziazione consapevole e informata. Le posizioni di coloro che pongono l'alternativa "preliminare o definitivo" amputano le forme dell'autonomia privata, sia quando vogliono rintracciare ad ogni costo il contratto preliminare in qualunque accordo iniziale, sia quando ravvisano nel c.d. preliminare chiuso il contratto definitivo, passibile soltanto di riproduzione notarile. La procedimentalizzazione della fasi contrattuali non può di per sè essere connotata da disvalore, se corrisponde a "un complesso di interessi che stanno realmente alla base dell'operazione negoziale". E' vero che occorre guardarsi da un uso "poco sorvegliato" dell'espressione preliminare di preliminare", perchè l'argomento nominalistico non è neutro. Tuttavia, se ci si libera dell'ipotesi in cui appare che il primo contratto è già il contratto preliminare e che il secondo è, al più, solo la sua formalizzazione per la trascrizione, restano due "sequenze" variabili che si avvicinano: A) quella delle mere puntuazioni in cui le parti hanno solo iniziato a discutere di un possibile affare e senza alcun vincolo fissano una possibile traccia di trattative. In questa ipotesi, quanto maggiore e specifico è il contenuto, tanto più ci si avvicina al preliminare. B) Quella in cui il contratto non è ancora un vero preliminare, ma una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali l'accordo è irrevocabilmente raggiunto, restando da concordare secondo buona fede ulteriori punti. Si tratta di un iniziale accordo che non può configurarsi ancora come preliminare perchè mancano elementi essenziali, ma che esclude che di quelli fissati si torni a discutere. In questa ipotesi man mano che si impoverisce il contenuto determinato ci si allontana dal preliminare propriamente detto. b1) Occorre qui ulteriormente ricordare la distinzione con l'ipotesi in cui la previsione del secondo preliminare esprime soltanto che la situazione conoscitiva delle parti non è tale da far maturare l'accordo consapevole, ma si vuole tuttavia "bloccare l'affare", anche a rischio del risarcimento del danno negativo in caso di sopravvenuto disaccordo. Ciò che conta chiarire è che, all'interno di una gamma di situazioni che ricevono risposte diverse, quelle contrassegnate sotto la lettera b sono riconducibili a una fase sostanzialmente precontrattuale, in cui la formazione del vincolo è limitata a una parte del regolamento. La violazione di queste intese, perpetrata in una fase successiva rimettendo in discussione questi obblighi in itinere che erano già determinati, da luogo a responsabilità contrattuale da inadempimento di un'obbligazione specifica sorta nel corso della formazione del contratto, riconducibile alla terza delle categorie considerate nell'art. 1173 c.c., cioè alle obbligazioni derivanti da ogni fatto o atto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico. 6.2.1) E' evidente come questa linea interpretativa impone di vagliare caso per caso l'emergere dell'interesse delle parti, di questa loro volontà di rinviare il momento in cui operano sia l'integrazione suppletiva ex art. 1374 c.c. sia la cogenza del meccanismo proprio del preliminare ex art. 1351 e 2932 c.c.. Nella compravendita immobiliare l'ausilio giunge dal formalismo che contraddistingue la materia, sì da potersi di volta in volta cogliere i profili oggettivi non solo di una trattativa e della successiva stipula di un preliminare, ma di una sequenza di atti caratterizzati da un contenuto differenziato e aventi portata contrattuale con le connesse conseguenze. 7) Alla luce di questi principi il ricorso è da accogliere. I giudici di merito hanno infatti in primo luogo omesso di valutare se il contratto in esame, sebbene prevedesse la stipula di un successivo contratto preliminare, avesse già le caratteristiche di un contratto preliminare completo, soltanto subordinato ad una condizione, cioè al consenso del Banco di Napoli alla cancellazione parziale dell'ipoteca, ipotesi da loro stessi contemplata (pag. 7 sentenza) ma scartata a causa della previsione dell'impegno a sottoscrivere un futuro preliminare. Hanno poi omesso di interrogarsi sulla validità del primo contratto, in ipotesi munito di tutti gli elementi essenziali del preliminare, e sulla possibile invalidità, in questo contesto, del secondo accordo, se meramente riproduttivo del primo. In quest'ottica hanno rovesciato la prospettiva che le Sezioni unite ritengono giuridicamente corretta. Hanno infine aderito all'orientamento che sanziona come nullo per difetto di causa un contratto che sia propedeutico al "successivo stipulando preliminare" senza verificare la sussistenza di una causa concreta dell'accordo dichiarato nullo tale da renderlo meritevole di tutela da parte dell'ordinamento, in quanto inserito in una sequenza procedimentale differenziata, secondo un programma di interessi realizzato gradualmente. Discende da quanto sposto l'accoglimento del ricorso. La sentenza impugnata va cassata e la cognizione rimessa ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per nuovo esame dell'appello e la liquidazione delle spese di questo giudizio. Il giudice di rinvio si atterrà al seguente principio di diritto: In presenza di contrattazione preliminare relativa a compravendita immobiliare che sia scandita in due fasi, con la previsione di stipula di un contratto preliminare successiva alla conclusione di un primo accordo, il giudice di merito deve preliminarmente verificare se tale accordo costituisca già esso stesso contratto preliminare valido e suscettibile di conseguire effetti ex art. 1351 e 2932 c.c., ovvero anche soltanto effetti obbligatori ma con esclusione dell'esecuzione in forma specifica in caso di inadempimento. Riterrà produttivo di effetti l'accordo denominato come preliminare con il quale i contraenti si obblighino alla successiva stipula di un altro contratto preliminare, soltanto qualora emerga la configurabilità dell'interesse delle parti a una formazione progressiva del contratto basata sulla differenziazione dei contenuti negoziali e sia identificabile la più ristretta area del regolamento di interessi coperta dal vincolo negoziale originato dal primo preliminare. La violazione di tale accordo, in quanto contraria a buona fede, potrà dar luogo a responsabilità per la mancata conclusione del contratto stipulando, da qualificarsi di natura contrattuale per la rottura del rapporto obbligatorio assunto nella fase precontrattuale. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Napoli, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2014. DATA DEPOSITO 6 MARZO 2015