Roma dalla monarchia alla repubblica

annuncio pubblicitario
Roma monarchica
ROMA
CAPITOLO 1
LA ROMA MONARCHICA (VIII– VI secolo a.C.)
GEOSTORIA
Il Lazio
La regione in cui nacque Roma comprende una grande pianura, che dal basso corso del Tevere si
apre verso sud ed è compresa tra le prime catene degli Appennini, a est, il mar Tirreno a ovest e, a
sud, le paludi Pontine, che in origine erano un’insenatura della costa, in gran parte colmata poi dai
sedimenti dei fiumi. La zona era infatti ricca di corsi d’acqua. Tra i laghi, famoso per una delle
prime battaglie vinte da Roma, era il lago Regillo, oggi prosciugato. Al centro della regione è il
gruppo dei colli Albani, considerato dalla tradizione la culla della civiltà latina.
Il biondo Tevere
Il Tevere nasce dal monte Fumaiolo, scorre prevalentemente verso sud, entra nel Lazio, accoglie le
acque dell’Aniene, l’affluente che nasce dai monti al confine tra Lazio e Abruzzo; quindi attraversa
Roma e diventa navigabile fino alla foce nel mar Tirreno. La grande quantità di sedimenti che il
fiume ha depositato in mare nel corso dei secoli ha fatto avanzare la spiaggia di oltre 4 km negli
ultimi 2500 anni.
Al Tevere non spetta alcun primato (coi suoi 405 km si colloca infatti al terzo posto tra i fiumi
italiani, dopo il Po e l’Adige e al secondo per ampiezza di bacino), eppure quando apparve per la
prima volta al mitico Enea sembrava aprire la porta verso la gloria e la felicità: «E qui Enea grande,
dal mare, un bosco divino / avvista. Nel mezzo, il Tevere con l’amena corrente, a mulinelli rapidi,
biondo di molta arena, prorompe / in mare. E sopra e all’intorno, variopinti, gli uccelli / avvezzi alle
rive e al greto dei fiumi col canto / accarezzavano l’aria e per il bosco volavano» (Virgilio, Eneide,
VII, 29-34). Proprio su questo fiume incantato l’eroe pose le basi della città destinata a diventare
caput mundi, la «capitale del mondo». Ancora una volta fu quindi, come per tanti altri popoli, un
fiume ad avviare la storia e a favorire lo sviluppo di una luminosa civiltà.
Una pianura emersa dal mare
Secondo alcuni scrittori latini (Ovidio, Varrone) il nome Lazio potrebbe derivare dal verbo latino
latēre, “essere nascosto”, oppure, meglio, dall’aggettivo latus, “largo, esteso”. Il Lazio antico non
corrispondeva esattamente alla nostra regione, perché la sua estensione si modificò nel corso del
tempo.
L’intera pianura del Lazio originariamente era sommersa dal mare, da cui emerse intorno al 10.000
a.C., in seguito a violenti terremoti ed eruzioni vulcaniche. Il terreno era perciò costituito da tufo
vulcanico, adatto al pascolo, ma difficile da coltivare. La prima forma di economia della regione fu
quindi la pastorizia transumante che si spostava dagli Appennini al mare e viceversa, seguendo il
ritmo delle stagioni. Ben presto però la presenza del Tevere favorì lo sviluppo economico.
La città favorita dagli dei
Roma nacque contemporaneamente con le altre città latine, nell’VIII secolo a.C., in una zona
particolarmente favorevole:
 al centro della penisola italiana, dove il clima è più mite;
 a 20 km dal mare, quindi «vicino abbastanza per servirsene, ma non così vicino da esporre
la città ai pericoli di assalti di flotte nemiche» scrive lo storico latino Tito Livio;
 in vicinanza di un fiume, il Tevere, una via navigabile per più di 400 km che collega il mar
Tirreno agli Appennini;
 nel punto in cui il corso del Tevere si allarga e si piega con un’ampia ansa, dove sorge
l’isola Tiberina, che divide a metà il letto del Tevere e ne facilita l’attraversamento;

su colli “saluberrimi” (secondo Livio): infatti sull’ansa domina il colle Palatino,
circondato da altri sei colli disposti in cerchio: Campidoglio, Quirinale, Viminale,
Esquilino, Celio, Aventino.
1. ALLE ORIGINI DI ROMA (XV-VIII secolo a.C.)
1.1 La fase più antica
I primi abitanti del Lazio
I sette colli, molto più alti di oggi e interamente ricoperti di boschi, soprattutto il Palatino, il più
impervio e perciò il più difendibile, avevano favorito sin dall’età del bronzo (1500 a.C.) gli
insediamenti di comunità autoctone mediterranee, che cercavano di allontanarsi dalle valli, a
volte infestate dalla malaria. All’inizio del I millennio, sui colli Albani si stabilirono gruppi di
villanoviani che lentamente entrarono in contatto con le popolazioni autoctone, importarono nella
regione la cultura del ferro e vi imposero la propria lingua indoeuropea, il latino arcaico. Questi
gruppi di albensi, cioè “abitatori dei monti” (il termine alba nei linguaggi mediterranei preindoeuropei è legato al concetto di “altura”), erano i progenitori dei latini, ma anche degli umbri e
dei sabini.
I latini, cioè gli “abitanti del Lazio”, erano vari popoli che, tra l’VIII e il VII secolo a.C., per
influsso delle due grandi civiltà urbane vicine, gli etruschi a nord e le colonie greche a sud, diedero
vita a numerosi centri urbani e crearono piccole federazioni e alleanze di carattere religioso e
difensivo, come quella guidata da Alba Longa, la principale città albense. Il Lazio si riempì di
santuari federali in cui si compivano riti comuni.
La città crocevia del commercio
L’economia si riduceva all’allevamento, a una modesta attività agricola, alla caccia e allo
sfruttamento delle risorse naturali: il legname dei boschi e soprattutto il sale, che si prelevava dalle
saline alle foci del Tevere, si trasportava con le imbarcazioni lungo il Tevere fino alla zona
dell’ansa, dove si creò un deposito di sale. Qui venivano ad attingere le popolazioni
dell’Appennino, che a dorso d’asino trasportavano il sale fino sui monti lungo la via che sarà
chiamata Salaria. Il sale, infatti, era indispensabile, oltre che all’alimentazione di uomini e animali,
a conservare il cibo. La zona dell’ansa del Tevere, con l’isola Tiberina che ne consentiva il guado,
divenne così un punto di incontro del commercio:
 da ovest a est, dal mare ai monti fino alla costa adriatica, si trasportavano, oltre al sale, i
prodotti greci e fenici che giungevano sulla costa tirrenica. In senso inverso veniva
trasportato dagli Appennini verso la costa il legname dei monti.
 da nord a sud passava la via che collegava l’Etruria alla Campania e quindi alla Magna
Grecia, cioè le regioni del massimo sviluppo economico e commerciale della penisola.
«Dovunque nel mondo due strade importanti s’incrociano, o dove vi sia un ponte, la gente
s’incontra e si ferma. Vi sorge un mercato» ha osservato l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli.
Non è un caso che il primo ponte romano, il Sublicio, sia stato costruito proprio nelle vicinanze del
guado naturale e alla stessa altezza verrà successivamente costruito il foro Boario, cioè il mercato
del bestiame.
Box La storia in parallelo
Nel X-IX secolo a.C.
- gli etruschi controllavano le coste tirreniche e le rotte per la Corsica e la Sardegna;
- i fenici si diffondevano nel Mediterraneo, fondavano Cartagine (814 a.C.) e occupavano le
coste di Nordafrica, Spagna, Sicilia occidentale e Sardegna;
- gli etruschi controllavano le coste dell’Etruria e il Tirreno;
- in Grecia si sviluppavano le poleis, durante il medioevo ellenico.
Storia di parole
Il nome di Roma
I romani facevano derivare il nome di Roma dal nome del mitico fondatore Romolo (anche se è
probabile il processo inverso) oppure dal greco róme, “forza”, o dal termine etrusco rumon,
“fiume”, da cui deriverebbe anche il nome di Ramnes, gli abitatori neolitici della zona lungo il
fiume, e lo stesso nome di Romolo. Ma i romani pensavano anche che il significato del nome
dovesse restare segreto e alcuni ritenevano che fosse Amor, di cui Roma sarebbe l’anagramma.
Oggi i glottologi suppongono che la parola derivi invece dal termine italico ruma, “mammella” che
alluderebbe alla forma del Palatino e indicherebbe la “città del colle”.
Una città come le altre (VIII secolo a.C.)
Se non teniamo conto delle notizie leggendarie che ne esaltano le origini divine, Roma nacque,
come gran parte delle città, per sinecismo. Le comunità sorte sui sette colli vicini al Tevere avevano
ben presto stretto un’alleanza, definita Septimontium. L’incremento dei traffici che si incrociavano
all’ansa del Tevere, nell’VIII secolo a.C. spinse le genti del luogo a fondersi, cingere di mura il
Palatino, pavimentare la zona su cui poi sorgerà il foro (la piazza) per adibirla a funzioni pubbliche
e scegliere come capo un rex, “re”. Schiere di contadini, artigiani e mercanti, abbandonarono i
villaggi nativi per trasferirsi nella nuova città. A dominare era la lingua e la cultura degli albensi e
origini albensi vennero attribuite anche a Romolo, il mitico fondatore di Roma.
In seguito si aggiunsero e si fusero altri popoli, sempre di lingua indoeuropea, in particolare i
sabini, che scesero dalle loro sedi originarie, gli aspri colli a est della valle del Tevere.
Secondo i calcoli la popolazione era ancora scarsa, intorno a 6.500 individui, che continuavano a
vivere di allevamento e agricoltura.
Storia di parole
Septimontium
Era il nome dell’insieme delle sette cime dei colli Palatino ed Esquilino, ma forse anche del Celio,
e potrebbe derivare da septem montes, “dei sette monti”, oppure da saepti montes, “monti cintati”.
Con Septimontium le comunità dei colli indicarono anche la loro lega e la festa, di cui rimane
traccia anche in epoca storica, celebrata a Roma in dicembre per ricordare l’inclusione nella cinta
della città di tutti e sette i colli.
Tra storia e leggenda
La leggenda di fondazione
Come quasi tutte le città antiche, anche Roma si inventò un’origine divina per dare lustro alla
propria storia. Le notizie storiche, pur nobilitate, nella leggenda però ci sono tutte.
Come raccontano, tra gli altri, Tito Livio nella sua Storia di Roma dalla fondazione, e Virgilio
nell’Eneide, quando Enea, fuggiasco da Troia in fiamme, giunse nel Lazio (nell’XI secolo), sposata
Lavinia, figlia del re Latino, fondò in suo onore una città chiamata Lavinio. Il figlio di Enea,
Ascanio o Julo, fondò a sua volta Alba Longa, così chiamata perché si allungava sul dorso dei
monti Albani. Vi regnarono 17 re, fino a quando, nell’VIII secolo a.C., salì sul trono Numitore. Il
fratello Amulio però cacciò il re e uccise i suoi figli maschi, mentre costrinse la figlia Rea Silvia a
diventare una sacerdotessa, per impedirle di generare dei figli. Ma il dio Marte la mise incinta di
due gemelli, Romolo e Remo, che il re Amulio fece gettare nel Tevere. Il fiume era però straripato e
aveva inondato i campi con stagni poco profondi e con una corrente lenta. La cesta coi due gemelli
si incagliò presso il fico poi detto Ruminale (da ruma, “mammella”), perché poco dopo giunse una
lupa assetata che, udendo i vagiti, offrì loro le mammelle. Avvistati da un pastore di nome
Faustolo, i gemelli crebbero tra i pastori e si diedero anche ad assalire i predoni per strappare loro il
bottino, che dividevano con i compagni. Ma un giorno Remo fu catturato dai predoni e condotto da
Numitore perché lo punisse. Il re spodestato riconobbe il nipote e gli rivelò le sue origini. I due
giovani allora riportarono il re sul trono di Alba Longa, uccidendo Amulio. Decisero poi di fondare
una nuova città nei luoghi dove erano cresciuti e, per stabilire chi dei due dovesse regnarvi, presero
gli auspici, Romolo sul colle Palatino e Remo sull’Aventino. Fu Remo ad avvistare per primo sei
uccelli, ma subito dopo Romolo ne avvistò dodici. Sorse allora tra i due una lite e, mentre Romolo
sul Palatino tracciava il solco che avrebbe costituito il pomerio invalicabile della città, Remo lo
scavalcò e il fratello lo uccise. Romolo costruì la nuova città, a cui diede il nome di Roma
derivandolo dal proprio, ne divenne re e la aprì a «gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna tra
liberi e schiavi». C’era però penuria di donne, perché i popoli confinanti non volevano concedere in
moglie le proprie figlie a uomini ancora rozzi. Allora Romolo indisse giochi solenni a cui giunsero
vari popoli e tra essi i sabini, con mogli e figli al seguito. Mentre tutti assistevano allo spettacolo «al
segnale convenuto i giovani romani si lanciano da ogni parte a rapire le fanciulle». Benché le
avessero sposate, i sabini non si rassegnavano e al comando del loro re Tito Tazio attaccarono
Roma. Lo scontro avvenne nella piana tra il Campidoglio e il Palatino, dove poi sarebbe sorto il
Foro romano. Ma le donne sabine, «coi capelli sciolti e le vesti strappate, vinto dalle sventure il
femminile timore, osarono gettarsi tra il volare dei dardi: irrompendo di fianco si diedero a separare
le schiere nemiche, a smorzar la foga dei combattenti, scongiurando da una parte i padri, dall’altra i
mariti, di non macchiarsi, suoceri e generi, d’empio sangue» (Livio, I, 13, trad. di M. Scàndola) e di
scagliarsi invece contro di loro, che erano causa della guerra. Commossi, gli uomini stipularono la
pace, fusero i due popoli e i due re governarono insieme in perfetta concordia.
Storia di parole
Quirino e Quirites
I due termini derivano dal sostantivo sabino curis, “lancia”, che in latino diventa quiris, oppure dal
nome della città sabina di Cures. Quirino era un soprannome sabino del dio Marte, il dio della
guerra “agitatore della lancia”, che poi fu attributo a Romolo, figlio di Marte, il quale, assunto tra
gli dei, ebbe i suoi altari sul mons Quirinalis. Sul Quirinale si stabilirono i sabini, chiamati anche
quirites, “provenienti da Cures”. Quando essi si fusero con i romani, il termine passò a indicare i
guerrieri di Roma, “uomini armati di lancia (curis)”, ma anche i cittadini romani, in quanto soldati.
Il termine assunse una connotazione alta e veniva usato nei discorsi ufficiali importanti.
1.2 Roma diventa città (VIII-VI secolo a.C.)
I sette re
La tradizione parla di una fase monarchica durata due secoli e mezzo, dal 753 al 509 a.C., in cui si
sarebbero succeduti solo sette re (Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio,
Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo), un numero che appare troppo esiguo per
un periodo così lungo. Si suppone quindi che i nomi di alcuni re siano andati perduti. A parte
Romolo, figura leggendaria, gli altri re sono da considerarsi figure storiche, anche se probabilmente
alcune istituzioni, a loro attribuite, sono da datare in epoche successive.
21 aprile 753
La data tradizionale della fondazione di Roma era il 21 aprile, scelta perché coincideva con il
capodanno pastorale in cui si celebrava in onore di Pale, la dea delle greggi, un rito di
purificazione per propiziare i parti. L’anno 753 fu stabilito da un erudito latino del I secolo a.C. che
attribuì ai sette re della tradizione un regno di 35 anni ciascuno, per un totale di 245 anni, che
aggiunti al 509, anno della cacciata della monarchia, dà appunto 753.
La storia in parallelo
Nell’VIII secolo a.C. le poleis greche avviavano la seconda colonizzazione sulle coste dell’Italia
meridionale e della Sicilia orientale: la prima colonia greca in Italia, a Ischia (776 a.C.), fu fondata
nello stesso periodo in cui nasceva Roma.
Le prime istituzioni (VIII secolo a.C.)
Tra l’VIII e il VII secolo a.C., i primi quattro re, diedero alla città i primi ordinamenti.
Romolo, di origine latina, avrebbe diviso la popolazione in tre tribù, che fornivano all’esercito
3.000 fanti e 300 cavalieri, istituito il senato, aperto le porte agli stranieri, soprattutto mercanti e
artigiani, con l’istituzione dell’asilo, che garantiva ospitalità e rifugio agli immigrati. Roma, infatti,
al contrario delle poleis greche che non concedevano facilmente la cittadinanza, era inclusiva e per
questo poté crescere, divenire una città multietnica e, grazie al contatto con altri popoli, acquisire le
conoscenze necessarie allo sviluppo.
Numa Pompilio, di origine sabina, secondo la tradizione istituì i culti religiosi e i collegi
sacerdotali, creò il primo calendario, per fissare una lista delle date in cui celebrare un centinaio di
feste religiose, che originariamente i sacerdoti comunicavano mese per mese.
Il calendario di Numa divideva l’anno in dodici mesi lunari (di 29 giorni) e lasciava liberi i
sacerdoti di allungare il mese che preferissero, in modo che alla fine dell’anno si arrivasse a 365
giorni. Ma i sacerdoti abusarono della loro prerogativa e per favorire il magistrato che preferivano
aggiungevano i giorni al mese in cui era in carica. Così alla fine il calendario divenne fonte di
controversie finché, secoli dopo, fu aggiornato da Cesare.
Storia di parole
Nome e struttura del calendario
Il nome calendario deriva dalla parola calende, con cui si indicava il primo giorno del mese. Gli
altri giorni venivano calcolati in rapporto alle calende, alle none, il 5 (o il 7 dei mesi di marzo,
maggio, luglio e ottobre, che si suole abbreviare in mar-ma-lu-ot) e le idi, il 13 o il 15 dei mesi
“marmaluot”. L’annus, che vuol dire “anello”, cominciava a marzo. Per l’indicazione dell’anno, in
età monarchica si indicava quale re fosse sul trono, con la nascita della repubblica i metodi più usati
erano due: si indicava il nome dei due consoli in carica per quell’anno oppure si indicava l’anno
con un numero ordinale (primo, secondo, sessantesimo ecc.) dalla fondazione di Roma (ab Urbe
condita).
Dida
Le ore si calcolavano in base alla posizione del sole in modo approssimativo, perché il primo
orologio solare di manifattura greca fu importato da Catania solo nel 263 d.C., ma siccome la città
si trova a 3 gradi a est di Roma, nell’Urbe l’ora non corrispondeva e per un secolo ci fu una gran
confusione sull’orario.
Storia di parole
L’asylum
Era un’istituzione tipicamente romana che nasceva dalla necessità di Roma di popolare la nuova
città che all’origine contava su un numero ridotto di abitanti. Erano pertanto accolti stranieri anche
delinquenti, che però dovevano ottenere la protezione di un patrono per risiedere a Roma.
La prima espansione (VII secolo a.C.)
I successivi due re avviarono l’espansione della città:
Tullio Ostilio, un romano di madre sabina, si spinse fino alla confluenza del Tevere con l’Aniene,
dove fu bloccato da Fidene e Veio, città etrusche; attaccò e distrusse Alba Longa, che aveva il
predominio sul mondo latino, e le sostituì Roma come città dominante. In questa guerra la
tradizione colloca la vicenda degli Orazi e dei Curiazi.
Anco Marzio, sabino, costruì, sul fiume poco più a sud dell’isola Tiberina, il primo ponte stabile,
di legno e corde, il Sublicio, che permise la prima occupazione della riva destra del Tevere, dove il
re, per controllare le saline, impiantò un avamposto in territorio etrusco; estese poi il dominio della
città fino al litorale marittimo, dove stanziò il presidio di Ostia, anch’esso per il controllo delle
saline.
Le guerre però costringevano i cittadini ad allontanarsi dai loro campi e avevano perciò
conseguenze sull’economia; quindi i primi re evitarono quelle non strettamente necessarie. Furono
gli ultimi tre re di origine etrusca a intraprendere una politica di conquista piuttosto aggressiva.
La storia in parallelo
Nel VII secolo a.C.
- gli etruschi diventavano una grande potenza, si espandevano nella pianura Padana, in
Veneto e in Campania, dove Capua divenne città etrusca per eccellenza, contro le greche
Cuma e Napoli;
- Sparta, a cui Licurgo forniva una ferrea costituzione, diventava la polis più potente del
mondo greco.
1.3 Roma diventa grande
La dominazione etrusca (VII-VI secolo a.C.)
Anche se Roma era uno snodo commerciale fondamentale per i traffici tra l’Etruria e la
Campania, gli etruschi in piena espansione non la attaccarono militarmente, perché il mondo
etrusco era troppo frammentato per organizzare una guerra comune. La invasero invece
pacificamente coi loro commercianti e i loro avventurieri, che, tra la fine del VII e il VI secolo a.C.,
per la loro superiorità tecnica e culturale, a Roma si imposero in diversi settori: dall’ingegneria
all’arte militare, dall’agricoltura al commercio. Probabilmente fu proprio la minoranza etrusca
molto ricca e potente, stanca di essere governata da “re pastori e contadini” (Montanelli) incapaci
di soddisfare i suoi bisogni commerciali ed espansionistici, ad appoggiare singoli condottieri o
avventurieri che si imposero sul trono di Roma a titolo personale, favoriti anche dal fatto che
avevano adottato la falange oplitica sul modello greco, una fanteria pesante, che procedeva in file
serrate, contro cui gli eserciti di fanteria leggera delle città latine potevano poco.
Di origine etrusca furono quindi gli ultimi tre re della tradizione, i “re mercanti”.
Una città più bella
La loro politica di espansione nel Lazio fino alla costa tirrenica favorì gli artigiani, che si
arricchirono con la produzione di armi, e i mercanti, che ebbero nuovi mercati dove estendere gli
affari. Il bottino di guerra poi servì ai re per rendere Roma una delle città più grandi della penisola,
con un numero di abitanti che alla fine del VI secolo a.C. doveva aggirarsi tra i 30 e i 60.000. Per
costruire nuove imponenti opere pubbliche, proprio come i tiranni greci, i re etruschi richiamarono
in città architetti, artigiani, imprenditori e diedero lavoro agli strati più umili della popolazione.
L’influenza etrusca si impose non solo sull’arte, ma anche sulle consuetudini civili, religiose,
politiche e militari di Roma, e favorì i contatti con l’evoluta civiltà greca dell’Italia meridionale.
L’urbanizzazione di Tarquinio Prisco (inizio VI secolo a.C.)
Al primo re etrusco viene attribuito il completamento dell’urbanizzazione di Roma. Case in pietra
sostituirono le primitive abitazioni in legno, la città si abbellì di strade lastricate e di templi ornati
di statue. Sul Campidoglio fu innalzato il grande tempio dedicato alla triade capitolina, Giove,
Giunone, Minerva, che divenne il simbolo della città, mentre ai piedi del colle fu costruito il
grandioso Circo Massimo per le corse dei cavalli.
La Cloaca Massima, la fogna più grande della città, un grande canale coperto, consentì il deflusso
nel Tevere degli scarichi urbani, ma soprattutto delle acque che impaludavano la riva del Tevere.
Sulla zona ormai prosciugata ai piedi del Palatino sarebbe poi sorto il foro, il centro della vita
politica e commerciale, pavimentato e abbellito di edifici pubblici e templi, e, accanto, il foro
boario il mercato permanente del bestiame.
La riforma di Servio Tullio (metà VI secolo a.C.)
Con lo sviluppo urbanistico, una nuova cinta muraria di sette km, le mura serviane, che sarebbero
state edificate da Servio Tullio (VI secolo a.C.), ampliava il perimetro delle mura originarie fino a
comprendere tutti i colli romani.
Il re era di origine latina, forse addirittura uno schiavo come indicherebbe il suo nome, ma sposò la
figlia di Tarquinio Prisco. A lui venne anche attribuita dalla tradizione una riforma che in realtà
sarebbe stata realizzata solo nel V secolo a.C., almeno nella sua forma più completa. È probabile
invece che il re etrusco si sia limitato ad alcune riforme parziali, ispirate forse alla quasi
contemporanea riforma di Solone ad Atene (594-3 a.C.):

sostituì alle tre tribù su base gentilizia tribù territoriali con funzioni amministrative: 4 tribù
urbane e altre rustiche (che diventeranno in seguito 17) in cui suddivise la popolazione
delle campagne. Le assemblee della popolazione divisa in tribù si chiamarono comizi
tributi;

concesse la cittadinanza ai recenti immigrati, soprattutto mercanti e artigiani etruschi;

adottò la falange oplitica, che dalle poleis greche si era diffusa nella Magna Grecia, da dove
era giunta presso gli Etruschi. A Roma rispondeva alle nuove esigenze militari e sociali. Un
numero crescente di cittadini, infatti, poteva permettersi ormai di acquistare
l’equipaggiamento militare e chiedeva quindi di trarre vantaggio dalla partecipazione
all’esercito;

ampliò quindi l’esercito a 6000 fanti e 600 cavalieri, che costituivano una legione
(letteralmente “scelta”), comandata da un pretore e suddivisa in centurie che si esercitavano
fuori dal pomerio nel Campo Marzio (dedicato al dio della guerra Marte);

stabilì il reclutamento militare dividendo la popolazione in tre gruppi:
1. gli equites, i cavalieri, che potevano mantenere un cavallo, oltre all’armatura e alle
armi;
2. i pedites, i fanti, che potevano acquistare un’armatura, una lancia e una spada;
3. i proletarii (letteralmente "coloro che possedevano come unico bene la prole"), i più
poveri o i nullatenenti, che partecipavano alla guerra come fabbri, carpentieri ecc.
La storia in parallelo
Nel VI secolo a.C.
- La potenza etrusca raggiunge l’apice e controlla Roma;
- Atene si dà costituzioni sempre più avanzate;
- i greci colonizzano le coste della Francia meridionale, dove fondano Marsiglia, della
Corsica e della Spagna;
- punici ed etruschi si scontrano con i greci per il predominio nel Mediterraneo ad Alalia (540
a.C.) e sono sconfitti;
- i cartaginesi occupano la Sardegna, da cui escludono i greci, e tolgono la supremazia agli
etruschi.
Tarquinio il Superbo, l’ultimo re (fine VI secolo a.C.)
I re etruschi si appoggiarono chiaramente sui ceti artigianali e commerciali che in Roma si
rafforzarono sempre più, ma si inimicarono l’aristocrazia terriera, tanto che i primi due re etruschi
finirono uccisi e l’ultimo fu cacciato dalla reazione di potenti famiglie nobili, che sobillarono il
popolo contro di lui. La tradizione aristocratica attribuisce all’ultimo re etrusco i caratteri del
tiranno, che avrebbe inventato nuove torture e supplizi, tanto che gli fu dato il soprannome di
Superbo. In realtà il popolo aveva appoggiato i re, che avevano tenuto conto dei loro bisogni contro
le sopraffazioni dei clan aristocratici, esattamente come, nello stesso periodo, facevano i tiranni in
Grecia. Anche la cacciata di Tarquinio il Superbo, determinata da ragioni private e collocata dalla
tradizione nel 509 a.C., ricorda da vicino la fine della tirannide ad Atene, avvenuta nel 510 a.C.
L’analogia delle due date ha fatto sospettare dell’autenticità della data romana, ma anche della
realtà stessa della caduta improvvisa della monarchia. Secondo alcuni storici, la cacciata di
Tarquinio avrebbe determinato la fine dell’influenza etrusca su Roma, mentre solo un lento
processo di esautorazione dei poteri regali, che col tempo si sarebbero ridotti a quelli religiosi del
rex sacrificulus, avrebbe portato al predominio dell’aristocrazia e alla nascita di una repubblica
oligarchica.
Tra storia e leggenda
Via il re
Leggendaria e ammantata di aristocratica morale eroica è anche, come le sue origini, la fine della
monarchia. Tito Livio racconta che l’ultimo re etrusco, Tarquinio il Superbo, intraprese una guerra
contro Ardea, a caccia di nuovi fondi per finanziare le sue costose opere pubbliche. Una volta che i
principi, mentre assediavano Ardea, tra un impegno militare e l’altro, se la spassavano in banchetti
e bevute, cominciarono a vantarsi delle proprie mogli. Tra loro era il figlio del re Sesto Tarquinio e
un nobile di nome Lucio Tarquinio Collatino, che invitò i compagni di baldoria a recarsi in piena
notte a casa di ciascuno di loro a Roma per scoprire che cosa facessero le loro consorti. Lì trovarono
le altre mogli a «spassarsela in sontuosi banchetti insieme con le compagne», mentre Lucrezia, la
moglie di Collatino, era ancora «intenta alle sue lane fra le ancelle che vegliavano al lume della
lucerna. La vittoria in quella gara toccò a Lucrezia». Sesto Tarquinio, colpito dalla bellezza e dalla
moralità della donna, passati alcuni giorni, si presentò a casa sua, e, in assenza del marito, si fece
ospitare. Nella notte entrò armato di spada nella camera di Lucrezia e, alla sua resistenza eroica, la
minacciò di ucciderla mettendole poi accanto «uno schiavo nudo strangolato, perché si dicesse
ch’era stata uccisa in un infame adulterio». La donna dovette cedere per non perdere il proprio
onore, poi mandò a chiamare il padre e il marito, che giunsero accompagnati da altri nobili, tra cui
Lucio Giunio Bruto. A loro raccontò l’accaduto, chiese vendetta e si uccise con il pugnale che
aveva nascosto sotto la veste. La commozione e la rabbia scatenarono la rivolta. Bruto incitò il
popolo, che cacciò il re in esilio, uccise il figlio Sesto Tarquinio e affidò il potere ai primi due
consoli, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.
L’episodio è ricco di particolari che assumono valore simbolico e lo trasformano in un exemplum,
un esempio delle antiche virtù romane. Di contro alla vita dissoluta delle donne etrusche, infatti
Lucrezia rappresenta l’idealizzazione della donna romana, che fino a tarda notte lavora la lana,
simbolo del benessere della famiglia in una società arcaica, dedita ancora alla pastorizia, ed è tanto
virtuosa che preferisce la morte al disonore. La rivolta contro il re è attribuita al popolo, come
l’elezione dei due consoli, perché l’aristocrazia vuole presentare il proprio potere come scelta
popolare.
Box La storia in parallelo
Alla fine del VI secolo
- Atene, liberatasi dalla tirannide (510 a.C.), con la riforma di Clistene del 508, si avviava a
diventare una democrazia potentissima.
- La cacciata degli etruschi da Roma è indizio della decadenza della potenza degli etruschi
che poco dopo, nel 504 a.C., guidati da Porsenna subiscono una sconfitta dai cumani ad
Ariccia. La loro espansione in Campania subisce un arresto.
2. LA SOCIETÀ ROMANA ARCAICA
2.1 La prima differenziazione sociale
Una società di pastori e contadini
Conosciamo molto poco del primo periodo della storia romana, se non quanto ci hanno tramandato
le leggende e gli storici Romani molti secoli più tardi. È probabile che all’origine della storia
romana non esistessero distinzioni sociali e gli abitanti dei villaggi avessero in comune le terre.
Secondo la tradizione, in età monarchica vennero distribuiti a ciascun cittadino romano due iugeri
(corrispondenti a mezzo ettaro, 5000 m²) di ager romanus, cioè di terreno pubblico, una quantità
insufficiente a mantenere una famiglia. L’economia era quindi povera, basata sull’agricoltura di
sussistenza, che produceva quasi esclusivamente cereali e doveva ancora essere integrata con la
caccia, la raccolta, la pastorizia e l’allevamento su terreni di uso comune. La durata media della vita
era intorno ai vent’anni.
glossario
Iugero
Lo iugero, che deriva da iugum, “giogo”, era l’unità di misura romana di superficie e indicava la
quantità di terreno che un uomo avrebbe, ipoteticamente, potuto arare in un giorno con un giogo di
buoi (una coppia di buoi aggiogati). Aveva una lunghezza di 70 m e una larghezza di 36, per un
totale di poco più di 2.500 m², che corrispondono a un quarto di ettaro.
Storia di parole
Una pecora per moneta
In un’economia ancora pastorale come quella della Roma arcaica, gli scambi avvenivano tramite il
baratto. Era però necessario scegliere un’unità di misura per stabilire il valore delle merci: i
Romani, originariamente pastori, usavano il bestiame, la fonte principale della loro ricchezza, ed è
per questo che dal termine pecus (“gregge”, “pecora”) derivarono i termini latini pecunia,
“denaro”, e peculium, “patrimonio”, da cui in italiano pecuniario, “relativo al denaro”, peculio,
“somma di denaro risparmiata e conservata gelosamente”, e peculato, “appropriazione indebita di
denaro pubblico da parte di un funzionario”. La ricchezza veniva calcolata in base ai capita, i
“capi” di bestiame che costituivano quindi quello che oggi chiamiamo capitale. Anche il sale, in
latino sal, era un'importante materia di scambio e successivamente divenne addirittura oggetto di
paga dei soldati, da cui deriva il termine salarium ("salario").
Divisione in due ordini
In seguito all’unificazione di etnie e villaggi del Lazio primitivo in un centro urbano (urbs), e con
l’incremento e la diversificazione delle attività produttive e mercantili, iniziarono a crearsi
differenziazioni all'interno della società romana. Le famiglie più potenti si impossessarono delle
terre più fertili, che consentirono loro di arricchirsi e di costituire gradualmente un’aristocrazia
guerriera. Con i re etruschi, si affermò anche a Roma un modello di società simile a quella etrusca,
dominata da un numero ristretto di grandi famiglie aristocratiche e si creò una distinzione tra
patrizi, gli aristocratici, e plebei, la restante popolazione costituita da piccoli agricoltori,
commercianti, artigiani.
Sull'origine dei due ordini (come i latini chiamavano le classi sociali) si è oggi molto discusso:
sappiamo che i patrizi pretendevano di essere i discendenti dei mitici fondatori di Roma,
consideravano i plebei discendenti dei popoli indigeni sottomessi e li trattavano come stranieri con
cui era vietato contrarre matrimonio. Sicuramente la distinzione ebbe varie cause, da quelle etniche
a quelle economiche a quelle militari e religiose, mentre nella successiva età repubblicana assunse
un carattere politico ed economico.
I patrizi
I patrizi, che possiamo paragonare agli eupatridi ateniesi, costituivano l’aristocrazia e
mantenevano il potere sulla base:
 della loro origine: ogni patrizio apparteneva ad una gens, “gente”, “stirpe”, cioè un gruppo
di persone, legate da rapporti familiari, che sostenevano di discendere da un comune
antenato di cui portavano il nomen, il “nome” detto perciò gentilizio. La gens era costituita
da un insieme di familiae, “famiglie”, contraddistinte da un cognomen, un “soprannome” a
volte desunto da particolari fisici di un antenato: Nasica dal grande naso, Barbata dalla lunga
barba, e altri.

del diritto a prendere gli auspici, cioè della facoltà di consultare gli dei e di interpretare la
loro volontà. Dal momento che a Roma nessuna azione militare o decisione politica poteva
essere intrapresa senza conoscere la volontà degli dei, solo i patrizi potevano convocare
un’assemblea, costruire un tempio o dichiarare guerra; solo loro potevano diventare
magistrati, senatori e sacerdoti, e tramandarsi oralmente le conoscenze magico-religiose, le
tecniche di guerra e le leggi, di cui tenevano all’oscuro i plebei e chiunque non fosse
patrizio, oltre alle donne e ovviamente agli schiavi.
Sul biglietto da visita di un romano
Il nome di un romano conteneva tutte le informazioni sulla sua identità e sulle sue origini. Ogni
individuo maschio, oltre al nomen gentilizio e al cognomen familiare, aveva il praenomen, il suo
nome personale, come Publius, Caius o Gneus. Il cognomen poteva essere seguito da un
soprannome derivato da un particolare specifico del personaggio, come l'Africano, l'Emiliano, il
temporeggiatore.
Esempio di nome completo: il vincitore della seconda guerra punica si chiamava:
Publio
Cornelio
Scipione
l’Africano
praenomen
nomen gentilizio:
cognomen familiare: della
soprannome: vincitore di
personale
della gens Cornelia
famiglia degli Scipioni
Cartagine in Africa
I patrizi, che rimasero per secoli un ordine chiuso, poiché si vietavano i matrimoni misti, portavano
come segni di appartenenza alla loro classe un anello d’oro, una striscia di porpora sulla tunica,
un mantello corto e calzari di cuoio.
I plebei
Il termine plebs, dal verbo latino pleo, “riempio”, derivato dal sostantivo greco pléthos,
“moltitudine”, indicava la massa dei cittadini liberi esclusi dal potere, costituita originariamente da
contadini che possedevano pochi iugeri di terra e vivevano di agricoltura o pastorizia. Essi erano
spesso costretti a chiedere prestiti ai patrizi, e quando non erano in grado di restituire quanto dovuto
entrava in vigore la norma giuridica, definita nexum (“obbligazione” da nectare, “legare,
vincolare”), che stabiliva i rapporti tra creditore e debitore e indicava la servitù per debiti: il
creditore acquistava un potere personale sul debitore e questi, in pagamento del debito, doveva
fornire lavoro gratuito al creditore o cedergli la terra o addirittura diventare suo schiavo, proprio
come accadeva ad Atene prima della riforma di Solone.
Con l’affermazione della vita urbana e il proliferare di nuovi mestieri, alcuni plebei divennero
artigiani e mercanti e, soprattutto durante la monarchia etrusca, aumentarono il proprio benessere,
anche se continuavano a essere esclusi dalla vita politica.
I clienti
Tra i patrizi e i plebei si instauravano spesso rapporti di clientela: un patrizio accoglieva sotto la sua
protezione un individuo, un plebeo o uno straniero, il quale, per non restare del tutto indifeso di
fronte allo stato e alle sue leggi (di cui non veniva messo a conoscenza), diventava cliente del suo
“protettore”, il patrono. Il loro rapporto era economico, politico e militare, ed era basato sulla fides,
"fedeltà", "lealtà", un principio morale e sociale insieme , considerato vincolo sacro la cui
trasgressione comportava gravi sanzioni. Il rapporto patrono-cliente offriva reciproci vantaggi:
 il patrono offriva al cliente aiuti economici, a volte un appezzamento di terreno, il proprio
appoggio nelle cause giudiziarie, una parte del bottino in caso di guerra;
 il cliente combatteva per lui, gli forniva lavoro gratuito nelle sue terre, pagava il suo riscatto
qualora il patrono fosse stato fatto prigioniero, contribuiva alla dote delle figlie e, in età
repubblicana, lo appoggiava nella lotta politica assicurandogli il proprio voto.
Ogni gens aveva a disposizione intere schiere di clienti che col tempo raggiunsero proporzioni
enormi e costituirono una specie di esercito privato, oltre che un elettorato fidato e sempre più
potente.
Gli schiavi
Come nelle altre civiltà antiche, anche a Roma esistevano gli schiavi, ma essi non ebbero un ruolo
fondamentale nella società romana fino al III secolo a.C. Erano prigionieri di guerra o poveri che
non erano riusciti a pagare i loro debiti. Facevano parte della famiglia e, nella fase arcaica, erano
pochi e trattati con una certa umanità, anche se erano giuridicamente semplici oggetti di proprietà
del padrone, il quale poteva disporre della loro vita, venderli o al contrario affrancarli, cioè
concedere loro la libertà, a volte dietro pagamento di un riscatto.
I liberti
Il procedimento dell’affrancatura dello schiavo era detta manumissio e prevedeva che lo schiavo
liberato dalla schiavitù, definito liberto, restasse in eterno legato al padrone da un rapporto di
gratitudine, anch’esso basato sulla fides, e continuasse a far parte della famiglia, ma con la
possibilità di lavorare e commerciare per proprio conto. I liberti, ottenevano il diritto di
cittadinanza, ma senza i diritti politici di cui avrebbero goduto solo i loro discendenti dopo tre
generazioni. La prospettiva di ottenere la libertà tratteneva gli schiavi dalle ribellioni e li induceva a
lavorare con maggior impegno. I liberti furono una categoria esclusiva della società romana che
divenne col tempo particolarmente influente.
Storia di parole
Emancipazione
Lo schiavo veniva definito anche mancipium, da manus, “mano”, e capere, “prendere”. Il termine
indicava che era stato oggetto di compravendita (mancipatio).
Lo schiavo poteva essere emancipato, da e (“fuori da”) e mancipium, cioè liberato dal vincolo di
schiavitù. Il termine significa ancora oggi “sottrarsi a una schiavitù, al potere di un altro”.
L’emancipazione era detta manumissio, originariamente e-manu-missio, un termine composto da e
(“fuori da”), manus, “mano” ma anche “proprietà” (sinonimo quindi di mancipium), e il verbo
mitto, “mandare”. Si può descrivere come avveniva?
2.3 La famiglia
Un’idea diversa di famiglia
Alla base della società romana era la familia, che non si esauriva nei comuni legami di sangue ma
era un’organizzazione religiosa e politica unita nel culto degli antenati. Comprendeva, oltre ai
genitori e ai figli, le famiglie dei figli sposati, quindi anche le loro mogli, i nipoti e i pronipoti; i
clienti; gli schiavi, i beni immobili, il bestiame e tutto ciò che costituiva il patrimonio familiare.
In nome del padre
A capo della famiglia era il pater familias, il “padre di famiglia”, l’uomo più anziano della
famiglia, che potrebbe corrispondere al nostro “capofamiglia”, se non fosse che il suo potere
nell’ambito familiare era illimitato:
- era il padrone assoluto del patrimonio familiare e il solo che avesse diritto di
vendere o comprare: finché era in vita i figli erano considerati come minorenni;
- era il sacerdote del culto domestico degli antenati, i penati;
- riconosceva come legittimo un figlio, sollevandolo tra le braccia quando alla nascita
glielo ponevano ai piedi: se non lo faceva, lo condannava ad essere esposto o
venduto come schiavo;
-
aveva potere di vita e di morte su tutti i componenti della famiglia, legati a lui da
vincoli di sangue – figli, nipoti, pronipoti – oppure acquisiti per legge: moglie, figli
adottivi, schiavi;
- il potere sulla propria moglie e sulle mogli dei figli si definiva manus, sugli schiavi
dominica potestas (“potere del padrone”) e sui figli patria potestas
- esercitava il potere sui figli anche qualora essi fossero adulti, sposati e ricoprissero
incarichi politici di rilievo. Un figlio si emancipava dalla patria potestas solo alla
morte del padre;
- era oggetto della pietas dei figli, cioè di un sentimento, intraducibile in italiano,
misto di senso del dovere, rispetto e venerazione: lo stesso sentimento riservato agli
dei.
La società romana era, quindi, una società decisamente patriarcale, in cui il potere spettava agli
uomini sia nell’ambito privato che in quello pubblico. Non è un caso che dalla parola pater derivino
i principali termini della società romana: patrizi, patrimonio, patrono e patres, con cui si indicavano
i senatori.
Donne mute e sobrie
Nella società romana, così fortemente caratterizzata in senso patriarcale, alle donne non era
concesso molto spazio, anche se l’antico costume attribuiva loro un ruolo fondamentale nell’ambito
familiare in quanto modello morale per i figli e per la società, come dimostra la leggenda di
Lucrezia. La donna, nel suo duplice ruolo di moglie e madre, doveva essere casta, modesta, fedele,
laboriosa proprio come Lucrezia.
Come moglie, doveva obbedire al marito e soddisfare le sue richieste, mantenere vivo il focolare
domestico della dea Vesta, protettrice della casa, e occuparsi delle faccende domestiche: lo faceva
di persona nelle famiglie più povere, mentre in quelle più ricche sorvegliava il lavoro delle schiave.
Ma tutte filavano la lana, l’attività che più denotava la loro onestà. Come migliore elogio funebre di
una donna si scriveva perciò: casta fuit, domum servavit, lanam fecit (“fu casta, custodì la casa, filò
la lana”).
Come madre, la donna doveva accudire ai figli e impartire loro un’educazione degna della
famiglia: per questo spesso le fanciulle ricevevano un’educazione scolastica di base.
Quel che gli uomini temevano di più era la leggerezza connaturata, nella loro opinione, al sesso
femminile, mentre caratteristica dell’uomo era la severità e il senso della misura. Perciò le donne
andavano tenute sotto controllo ed erano sottoposte sempre al potere di un uomo: passavano dalla
patria potestas del padre alla manus, il potere del marito, quando andavano spose; se restavano
vedove venivano sottoposte alla tutela di un tutore.
Le donne dovevano solo obbedire e, soprattutto, tacere. Il silenzio femminile era così importante
che nel pantheon romano Numa Pompilio incluse una dea Tacita. Era la dea del silenzio, un tempo
ninfa chiacchierona che, per punizione, era stata resa muta da Giove come monito per le donne
ciarliere. A loro fu interdetto per secoli di parlare in pubblico, perché i romani ritenevano che le
donne parlassero solo di cose futili, che le loro chiacchiere fossero pericolose e, soprattutto, che
parlando in qualche modo “si denudassero”, rivelando se stesse ed esponendosi agli sguardi altrui.
Anzi, perché una donna fosse considerata davvero virtuosa, di lei non si doveva parlare neppure in
bene.
Data la presunta “leggerezza” delle donne, la loro colpa più grave, dopo l’adulterio, era quella di
bere vino, per altro considerata assai vicina all’adulterio. Il termine “adulterio” deriva dal verbo
“adulterare”, cioè rendere qualcosa diverso da prima, con l’aggiunta di sostanze estranee: come
l’uomo “adultera” la donna, così anche il vino, una sostanza estranea, immessa in lei la “adultera” e
per di più la predispone all’adulterio. Entrambe le colpe consentivano a un marito di uccidere la
moglie.
Alle donne veniva negata persino l’identità: a loro non spettava il praenomen, il nome personale,
ma solo il nomen gentilizio; spesso, per riconoscerle nell’ambito della famiglia, si aggiungeva al
nomen un attributo come Maior, “maggiore”, o Minor, “minore”, oppure Prima, Seconda, Terza.
Marco Tullio Cicerone chiamava sua figlia Tullia (nome gentilizio) col vezzeggiativo Tulliola
(“piccola Tullia”). La gloria maggiore per una donna era tuttavia che il suo nome non venisse
neppure pronunciato: solo le donne di facili costumi venivano chiamate con il loro nome
personale.
3. LE ISTITUZIONI DELLA ROMA MONARCHICA
3.1 Le istituzioni politiche arcaiche
Una suddivisione etnica
Romolo avrebbe diviso la popolazione della Roma arcaica in tre tribù, sulla base delle differenze
etniche delle tre popolazioni che col tempo erano affluite a Roma:
 i Ramnes, i latini che, arrivati, secondo la leggenda, con Romolo, abitavano il Palatino,
vicino al fiume;
 i Tities (Tizi), i sabini che, guidati da Tito Tazio, si erano stanziati sul Quirinale;
 i Lùceres, gli etruschi che via via erano immigrati a Roma, ma di cui non si conosce la
residenza. Secondo altri storici invece erano semplicemente gli abitanti del lucus, la "selva"
dei colli Albani, prima dell'arrivo dei Latini.
Curie e comizi curiati
La tripartizione originaria, attribuita a Romolo, in tre tribù conobbe ben presto una evoluzione in
senso politico e militare. Le tribù infatti furono suddivise ciascuna in dieci curie, “riunioni di
uomini nobili”, ognuna costituita da dieci gentes, insiemi di famiglie patrizie. Le trenta curie,
riunite nei comizi curiati, costituivano la base politica e militare dello stato romano arcaico e
avevano il compito di:

conferire al re il suo potere in una cerimonia solenne che si chiamava inaugurazione (lex
curiata de imperio) perché venivano presi gli auguri per verificare l’approvazione degli dei;

approvare le decisioni del re e quelle del senato;

svolgere funzioni religiose;

occuparsi di diritto familiare, ad esempio sancire la validità di adozioni e testamenti;

fornire all’esercito 10 cavalieri (equites), cioè una decuria, e 100 fanti (pedites), cioè una
centuria, ciascuna: quindi complessivamente 300 cavalieri e 3000 fanti, che costituivano la
legione.

eleggere un senatore per ognuna delle trenta gentes che costituivano le dieci curie, per un
totale di 300 senatori.
La legione
L’esercito arcaico quindi era formato da una legione di 300 cavalieri e 3000 fanti, tutti scelti, in
caso di guerra, dalle trenta curie. Si trattava quindi non di soldati professionisti ma di cittadini che
potevano permettersi a proprie spese un’armatura – una corta spada (gladius), una lancia (hasta) un
giavellotto (pilum), un elmo di bronzo, una corazza di cuoio e altre??? uno scudo rotondo, clipeus, –
e l’esercizio militare necessario. A comandare l’esercito era il re; la legione era divisa in falangi, sei
linee di 500 fanti ciascuna, che si schieravano su un fronte compatto, mentre la cavalleria aveva un
ruolo secondario.
I guerrieri quindi, nel primo periodo della monarchia, erano scelti esclusivamente tra i cittadini
aristocratici più ricchi, e ciò fu possibile finché le guerre di Roma arcaica erano limitate ai territori e
ai popoli circostanti. Ma quando nella tarda età monarchica i teatri delle guerre iniziarono ad
ampliarsi e fu necessario un impiego ben maggiore di soldati, si rese necessaria una riforma
dell'esercito, con l'estensione del suo reclutamento, che è dalla tradizione attribuita al re Servio
Tullio.
Storia di parole
Comizi curiati
Il termine comitium indica un’adunanza e deriva dal verbo latino coëo, composto da cum, "con", ed
eo, “andare”, e significa “andare insieme”. Il termine curia, che deriva da cum e vir, “uomo” , cioè
un “insieme di uomini”, assume svariati significati:
 indica la ripartizione delle tribù, che avevano valore sia etnico (le tre popolazioni che
convivevano a Roma), sia territoriale (il luogo di stanziamento dei tre popoli), sia sociale
(riunivano solo i patrizi);
 indica il senato, giacché i senatori venivano scelti dalle curie, e il luogo in cui esso si
riuniva, ad esempio la curia Hostilia (che prendeva il nome da Tullio Ostilio) o la curia
Julia, completata da Augusto molti secoli più tardi.
2.2 Le istituzioni monarchiche
Il re
Il rex, "re", era inizialmente soltanto una figura simile a un capo tribù, mentre in seguito divenne un
magistrato esecutore della volontà popolare ed eletto a vita dai patres gentium, i capi delle gentes
più importanti riuniti nel senato, con la ratifica dei comizi curiati. Era quindi una carica elettiva,
simile al basiléus greco e diverso dai re assoluti delle civiltà orientali. Una volta eletto, il re non
doveva, tuttavia, render conto del suo operato al popolo. Quando la monarchia passò nelle mani di
sovrani di origine etrusca, divenne ereditaria.
Il re viveva nella Regia e aveva due poteri fondamentali: l’imperium e il ruolo di rappresentante della
città di fronte agli dei:

l’imperium gli consentiva di guidare le truppe in guerra, di avere il potere esecutivo e il
potere di vita e di morte sui cittadini;

come rappresentante della città, il re doveva mantenere la pax deorum, la “pace degli dei”,
cioè il patto che la città stipulava con gli dei, e sorvegliare che i riti e i sacrifici agli dei
venissero compiuti regolarmente e correttamente, per evitare l’ira divina e garantire alla città
prosperità e vittorie in guerra.
Quando Servio Tullio adottò la falange oplitica, formata da cittadini soldati, il legame tra il re e la
comunità si rafforzò ulteriormente e la monarchia adottò i simboli regali, come lo scettro
sormontato dall’aquila, la corona d’oro, il mantello di porpora, il trono, costituito dalla famosa
sella curule di derivazione etrusca, che era uno speciale sgabello pieghevole in avorio, in marmo o
in metallo, finemente lavorato, e il fascio littorio, cioè un fascio di verghe con una scure che
rappresentava il potere del re di mettere a morte.
Il senato
Secondo la tradizione il primo senato era composto dai 100 maggiori esponenti delle gentes, i
patres gentium o semplicemente patres, sinonimo di senatori, termine che deriva invece da senex,
“vecchio”, perché i patres più influenti erano i più anziani. In seguito il numero dei senatori passò a
200 e successivamente, dopo la riforma di Servio Tullio, a 300, dieci per ogni curia.
I senatori erano eletti dalle curie attraverso i comizi curiati. Il senato veniva convocato dal re nella
curia, la sua sede, ed era presieduto dal princeps senatus, il “primo del senato”. Le sedute erano
aperte al pubblico e i senatori portavano ad assistervi i propri figli che avessero compiuto i dodici
anni.
LE PREROGATIVE DEL SENATO
Il senato aveva in età regia diverse prerogative:

funzione consultiva: forniva al re il proprio parere su questioni di politica interna ed estera;

funzione elettiva: alla morte del re, nel periodo definito interregnum, i senatori “primi” di
ogni decuria governavano come interreges, cinque giorni ciascuno, finché il senato eleggeva
un nuovo re che riceveva poi il potere dai comizi curiati durante la cerimonia solenne
dell’inaugurazione (lex curiata de imperio);

funzione morale: il senato era detentore dell'auctoritas, l'“autorità”, una forma particolare di
potere che veniva riconosciuto al senato non da una legge ma dall'autorevolezza della
tradizione, chiamata mos maiorum. Il senato infatti era costituito dai patres delle gentes più
influenti, che ricoprivano incarichi pubblici da sempre e avevano quindi esperienza e
autorevolezza, erano depositari della memoria storica della città, delle norme giuridiche e
religiose, della cultura politica. Pertanto non si presentavano mai proposte di legge ai comizi
e nessuna decisione dei comizi diventava legge senza l’approvazione preventiva del
senato.
Di fatto era il senato a decidere sull’amministrazione dello stato, a sorvegliare l’operato dei
magistrati, a dirigere gli affari esteri: nominare i generali, inviare e ricevere ambascerie, intervenire
sulla dichiarazione di guerra e stipulare la pace.
I comizi tributi
I comizi tributi erano l’assemblea del popolo romano suddiviso per tribù territoriali. Siccome le
tribù si fondavano sul domicilio dei cittadini e non sul censo, analogamente alle tribù di Clistene ad
Atene, esse comprendevano patrizi e plebei, ricchi e poveri senza distinzione e, dal momento che
ogni tribù aveva diritto a un voto, i comizi tributi possono essere considerati l’assemblea più
democratica di Roma. L’iscrizione a una tribù conferiva la cittadinanza romana di pieno diritto.
4. LA RELIGIONE ROMANA NELL’ETÀ MONARCHICA
4.1 Una religione politica
Un pantheon aperto
Durante l’età monarchica, per influsso delle città laziali sottomesse e poi degli etruschi, anche la
religione andò modificandosi: abbandonò le primitive forme animistiche legate al mondo naturale e
creò le prime divinità antropomorfiche, tra cui Iuppiter (Giove), Marte, originariamente divinità
agricola e poi dio della guerra, Giunone, Nettuno, Minerva, Giano.
Il pantheon degli dei venerati dai romani era in continua espansione. Qualunque stato o città
conquistassero, i soldati romani saccheggiavano gli dei locali, sotto forma di statue e simboli, e li
portavano a Roma nella convinzione che, rimasti senza dei, gli sconfitti non potessero tentare una
rivincita. Ma i romani accoglievano anche gli dei che gli stranieri immigrati portavano con sé per
sentirsi meno lontani dalla propria terra e a volte li includevano ufficialmente nel loro pantheon :
nel 496 a.C. accolsero Demetra e Dioniso, come collaboratori di Cerere e Libero, con cui poi li
identificarono. I sacerdoti accettavano volentieri i nuovi dei, convinti che avrebbero collaborato a
tenere sotto controllo i loro fedeli.
Una gerarchia tra gli dei sarebbe stata stabilita solo dopo la conquista della Magna Grecia; fino ad
allora i Romani convissero con una moltitudine di dei che secondo Varrone ammontavano a
trentamila e che non erano relegati nel cielo ma si pensava fossero dovunque, col rischio che li si
potesse offendere in ogni momento.
Riti e sacerdoti
La religione romana aveva un carattere “politico”: analogamente a quanto avveniva in Grecia,
stabiliva un rapporto tra gli dei e la città, tanto che fu attribuita a un re, Numa Pompilio, la
creazione della maggior parte delle istituzioni religiose. Per tutta l’età regia infatti il sovrano fu
anche il sommo sacerdote o pontefice massino (pontifex maximus), il solo che avesse il diritto di
regolare i rapporti tra gli uomini, non sulla base di leggi scritte bensì secondo la volontà degli dei, i
quali a lui solo la comunicavano durante le cerimonie religiose.
Col tempo il re fu affiancato da sacerdoti, che erano semplici magistrati raggruppati in collegi, il
più importanti dei quali in età monarchica era il collegio dei pontefici. Essi erano i soli a detenere le
conoscenze tecniche, custodire le consuetudini religiose e le norme tramandate oralmente o in libri
segretissimi. Si fa derivare il loro nome da pons, “ponte”, e facere, “fare”, perché i pontefici
avrebbero costruito il primo ponte sul Tevere, il Sublicio, per compiere i sacrifici su entrambe le
rive del fiume. Erano loro a stabilire i giorni fasti e i giorni nefasti in cui era possibile o meno
svolgere attività politica, militare o giuridica, e siccome i pontefici erano esclusivamente patrizi, di
fatto la giustizia come la politica erano in mano ai patrizi. A capo del collegio dei pontefici, ma
anche degli altri collegi, era lo stesso re, come pontefice massimo.
Gli altri collegi sacerdotali
Istituzione Definizione
“coloro che
àuguri
accrescono” la
città con presagi
favorevoli
arupsici osserva
interiora
feziali
“coloro che
accendono il
fuoco”
(etimo incerto)
salii
“saltanti” (da
flamines
sacerdoti
sibillini
vestali
Costituito da
9 patrizi
indovini di
origine
etrusca
15 patrizi e
plebei
15 patrizi
24 patrizi
salio, “salto", sacerdoti di
Marte
"danzo”)
Custodi dei libri Dai due
sibillini
iniziali ai 15
con Augusto
sacerdotesse di 10 vergini
Vesta
patrizie tra i 6
e i 10 anni
Funzioni
Interpretare la volontà divina per mezzo di auspici
(osservazione del volo degli uccelli) prima di una guerra
o delle riunioni dei comizi. I loro responsi sono detti
augùri.
Esaminare le viscere degli animali (specie il fegato) e
interpretare i prodigi con riti tramandati dagli etruschi.
Accompagnare gli àuguri, ognuno addetto al culto di
una divinità; il più importante il flamen Dialis, sacerdote
di Giove.
Occuparsi di diritto internazionale: con formule fisse
dichiarare guerra e pace, sottoscrivere trattati
internazionali.
Celebrare l’inizio delle attività guerresche, all’arrivo
della primavera, con danze sacre agitando la lancia e
lo scudo di bronzo, con parole magiche ritmate.
Custodire i libri sibillini, oracoli della Sibilla cumana
(sacerdotessa di Apollo), consultati per delibera del
senato in casi gravi.
Custodire il fuoco di Vesta, focolare della città, occuparsi
della stercorario, “pulizia del tempio”, il 15 giugno,
preparare la mola salsa, con obbligo alla verginità per 30
anni. Se il fuoco si spegne è segno di incesto (atti impuri)
e la vestale è condannata a morte (murata viva)
Nelle crisi più gravi di Roma si inviava una delegazione nella città di Cuma a interrogare la Sibilla,
sacerdotessa di Apollo, che aveva le stesse funzioni della Pizia di Delfi e come lei rispondeva in
modo enigmatico e allusivo (da cui il termine italiano "sibillino", cioè di difficile interpretazione).
Le predizioni della Sibilla sui principali avvenimenti dello Stato romano erano raccolti nei libri
sibillini, scritti in greco, acquistati, secondo la leggenda, da Tarquinio il Superbo e custoditi nel
tempio di Giove in Campidoglio da una commissione di sacerdoti Sybillini che li consultavano per
delibera del senato in occasione di emergenze. Ad essi si diede credito nel corso di tutta la storia
romana e persino in epoca cristiana. In alcuni momenti particolarmente difficili per Roma si
arrivava a inviare una delegazione addirittura fino a Delfi.
Storia di parole
La parola religione deriva dal verbo religare, “legare", "impedire”, e indica che attraverso riti con
una procedura molto meticolosa si voleva legare gli dei a un patto con la città intera e a impedirne
l’ira. Bastava un piccolo errore perché la procedura dovesse essere rifatta più e più volte.
Sacrificare significava “render sacro” quello che si offriva alla divinità, per lo più attraverso
l'uccisione di animali che venivano donati agli dèi. La pratica del sacrificio era alla base della
ritualità romana: si offrivano sacrifici in base alle proprie disponibilità economiche: il pater
familias, nella funzione di sacerdote della casa, offriva pane e formaggio, ma di fronte a una
carestia o a un’alluvione il favore degli dei poteva anche essere invocato sacrificando un maiale o
una pecora. La città in occasione di una guerra o di eventi catastrofici sacrificava greggi intere di
cui si riservavano agli dei le interiora e soprattutto il fegato a scopi divinatori, il resto lo mangiava
la popolazione raccolta in cerchio nel Foro.
La divinazione, dal verbo divinare, "predire", era l'arte di interpretare la volontà degli dei
attraverso l'osservazione, da parte dei sacerdoti àuguri e aruspici, delle viscere degli animali
sacrificati o del volo degli uccelli o di eventi particolari considerati “prodigi”.
Categorie sociali
Ordine dei patrizi
Definizione
3 tribù
Ramni,
Tities,
Luceres
gentes
familiae
gentiles
Pater
familias
Con a
capo
gruppi di
Ramni: indigeni del Palatino
gentes
(latini di Romolo),
aristocratiche Tities: sabini di Tito Tazio sul
suddivise su
Quirinale,
base etnica
Luceres: etruschi immigrati
(oppure abitanti della selva).
gruppi di più discendenti da unico
patres
familiae con
antenato discendente gentis
nome comune dai mitici fondatori di
Roma
gruppi
patrizi liberi e schiavi pater
familiari
sottomessi a unico
familias
minori
pater familias
Il capo
L’uomo più anziano
famiglia
della famiglia
Ordine dei plebei
Definizione
familiae gruppi
plebeiae familiari
Costituita da
Funzioni
Partecipare al senato e ai comizi curiati e
fornire truppe all’esercito
Privilegi: cittadinanza, accesso a:
magistrature, senato, comizi, sacerdozi,
giustizia
Garantire ordine interno e difesa esterna
Sottomessi al paterfamilias
Potestas sulla familia, sacerdote dei penati,
immagini degli antenati (maiores)
Costituita da
Con a
Diritti e doveri
capo
indigeni sottomessi
pater
possedere pochi iugeri di terra;
trattati come stranieri; familias lavorare le terre dei patrizi,
piccoli proprietari
esercitare artigianato e commercio.
terrieri
Esclusi dalla vita pubblica.
Altre categorie
Definizi Costituita da
Con a
one
capo
plebei e stranieri
patrono
clientes clienti
accolti con l’asylum
(“ospizio”) e protetti
da un patrizio sulla
base della fides
liberti
schiavi
schiavi legati al padrone
affranca dalla fides
ti
prigionieri di guerra
o debitori insolventi
pater
familias
pater
familias
Diritti e doveri
Diritti: aiuti economici, appezzamento di terreno,
parte del bottino, assistenza giudiziaria;
Doveri: voto al patrono, servizio militare, lavoro
gratuito, pagamento del riscatto, dote.
Se mancano alla fides condannati alla sacertà
(espulsione, perdita dei beni)
Parte della famiglia, uomini liberi col diritto di
cittadinanza, privi dei diritti politici che però
garantivano ai discendenti dopo tre generazioni.
Parte della famiglia, privi dei diritti, proprietà del
padrone.
Prime istituzioni di età monarchica
Istituzione Definizione Costituita da
magistrato 1 solo nobile
rex
unico
romano,
sabino o
etrusco
curie
comizi
curiati
senatus
30 “riunioni
di uomini”
nobili
assemblea
delle 30
curiae:10
per tribù
10 gruppi di
10 gentes per
ogni tribù
membri
maschi di 10
gentes per
curia
assemblea
ristretta di
patres
conscripti
guidata dal
princeps
senatus
100/200/300
patres
gentium e poi
anche patres
familias
Scelta
dai patres
gentium a
vita,
ereditaria
sotto i re
etruschi
Eletto dai
comizi
curiati
Funzioni
Potere sovrano, non risponde al popolo.
imperium: comando militare, potere esecutivo,
potere di vita e di morte sui cittadini.
religiose: rappresentare la città di fronte agli dei,
mantenere la pax deorum, sorvegliare i riti
amministrative: amministrare il patrimonio
della comunità e alcuni aspetti della giustizia
legislativa: emanare ordinanze con valore di
leggi.
Base politica e militare dello stato.
politiche: sancire l’autorità del re (che deve
obbedire per lex curiata de imperio), approvare
le sue decisioni e quelle del senato.
militari: ogni curia fornisce 10 cavalieri, 100
fanti (centuria); dichiarare guerra
elettive: eleggere 10 senatori per curia (1 per
gens)
giudiziarie: diritto familiare
religiose
consultiva in politica interna ed estera,
interregnum
auctoritas: approvare le leggi proposte dal re e le
decisioni dei comizi, controllare l’operato dei
magistrati, dirigere gli affari esteri.
Istituzioni aggiunte con la riforma di Servio Tullio
tribù
territoria
li
comizi
tributi
Definizione
4 tribù urbane e alcune tribù
rustiche (che diventeranno in
seguito 17)
assemblea della popolazione
divisa in tribù territoriali
Costituita da
popolazione
della città e
delle campagne
patrizi e plebei
Funzioni
amministrative: iscrizione ad una tribù
necessaria per avere la cittadinanza romana
di pieno diritto.
ogni tribù diritto a un voto.
Scarica