Roma monarchica ROMA CAPITOLO 1 LA ROMA MONARCHICA (VIII– VI secolo a.C.) GEOSTORIA Il Lazio La regione in cui nacque Roma comprende una grande pianura, che dal basso corso del Tevere si apre verso sud ed è compresa tra le prime catene degli Appennini, a est, il mar Tirreno a ovest e, a sud, le paludi Pontine, che in origine erano un’insenatura della costa, in gran parte colmata poi dai sedimenti dei fiumi. La zona era infatti ricca di corsi d’acqua. Tra i laghi, famoso per una delle prime battaglie vinte da Roma, era il lago Regillo, oggi prosciugato. Al centro della regione è il gruppo dei colli Albani, considerato dalla tradizione la culla della civiltà latina. Il biondo Tevere Il Tevere nasce dal monte Fumaiolo, scorre prevalentemente verso sud, entra nel Lazio, accoglie le acque dell’Aniene, l’affluente che nasce dai monti al confine tra Lazio e Abruzzo; quindi attraversa Roma e diventa navigabile fino alla foce nel mar Tirreno. La grande quantità di sedimenti che il fiume ha depositato in mare nel corso dei secoli ha fatto avanzare la spiaggia di oltre 4 km negli ultimi 2500 anni. Al Tevere non spetta alcun primato (coi suoi 405 km si colloca infatti al terzo posto tra i fiumi italiani, dopo il Po e l’Adige e al secondo per ampiezza di bacino), eppure quando apparve per la prima volta al mitico Enea sembrava aprire la porta verso la gloria e la felicità: «E qui Enea grande, dal mare, un bosco divino / avvista. Nel mezzo, il Tevere con l’amena corrente, a mulinelli rapidi, biondo di molta arena, prorompe / in mare. E sopra e all’intorno, variopinti, gli uccelli / avvezzi alle rive e al greto dei fiumi col canto / accarezzavano l’aria e per il bosco volavano» (Virgilio, Eneide, VII, 29-34). Proprio su questo fiume incantato l’eroe pose le basi della città destinata a diventare caput mundi, la «capitale del mondo». Ancora una volta fu quindi, come per tanti altri popoli, un fiume ad avviare la storia e a favorire lo sviluppo di una luminosa civiltà. Una pianura emersa dal mare Secondo alcuni scrittori latini (Ovidio, Varrone) il nome Lazio potrebbe derivare dal verbo latino latēre, “essere nascosto”, oppure, meglio, dall’aggettivo latus, “largo, esteso”. Il Lazio antico non corrispondeva esattamente alla nostra regione, perché la sua estensione si modificò nel corso del tempo. L’intera pianura del Lazio originariamente era sommersa dal mare, da cui emerse intorno al 10.000 a.C., in seguito a violenti terremoti ed eruzioni vulcaniche. Il terreno era perciò costituito da tufo vulcanico, adatto al pascolo, ma difficile da coltivare. La prima forma di economia della regione fu quindi la pastorizia transumante che si spostava dagli Appennini al mare e viceversa, seguendo il ritmo delle stagioni. Ben presto però la presenza del Tevere favorì lo sviluppo economico. La città favorita dagli dei Roma nacque contemporaneamente con le altre città latine, nell’VIII secolo a.C., in una zona particolarmente favorevole: al centro della penisola italiana, dove il clima è più mite; a 20 km dal mare, quindi «vicino abbastanza per servirsene, ma non così vicino da esporre la città ai pericoli di assalti di flotte nemiche» scrive lo storico latino Tito Livio; in vicinanza di un fiume, il Tevere, una via navigabile per più di 400 km che collega il mar Tirreno agli Appennini; nel punto in cui il corso del Tevere si allarga e si piega con un’ampia ansa, dove sorge l’isola Tiberina, che divide a metà il letto del Tevere e ne facilita l’attraversamento; su colli “saluberrimi” (secondo Livio): infatti sull’ansa domina il colle Palatino, circondato da altri sei colli disposti in cerchio: Campidoglio, Quirinale, Viminale, Esquilino, Celio, Aventino. 1. ALLE ORIGINI DI ROMA (XV-VIII secolo a.C.) 1.1 La fase più antica I primi abitanti del Lazio I sette colli, molto più alti di oggi e interamente ricoperti di boschi, soprattutto il Palatino, il più impervio e perciò il più difendibile, avevano favorito sin dall’età del bronzo (1500 a.C.) gli insediamenti di comunità autoctone mediterranee, che cercavano di allontanarsi dalle valli, a volte infestate dalla malaria. All’inizio del I millennio, sui colli Albani si stabilirono gruppi di villanoviani che lentamente entrarono in contatto con le popolazioni autoctone, importarono nella regione la cultura del ferro e vi imposero la propria lingua indoeuropea, il latino arcaico. Questi gruppi di albensi, cioè “abitatori dei monti” (il termine alba nei linguaggi mediterranei preindoeuropei è legato al concetto di “altura”), erano i progenitori dei latini, ma anche degli umbri e dei sabini. I latini, cioè gli “abitanti del Lazio”, erano vari popoli che, tra l’VIII e il VII secolo a.C., per influsso delle due grandi civiltà urbane vicine, gli etruschi a nord e le colonie greche a sud, diedero vita a numerosi centri urbani e crearono piccole federazioni e alleanze di carattere religioso e difensivo, come quella guidata da Alba Longa, la principale città albense. Il Lazio si riempì di santuari federali in cui si compivano riti comuni. La città crocevia del commercio L’economia si riduceva all’allevamento, a una modesta attività agricola, alla caccia e allo sfruttamento delle risorse naturali: il legname dei boschi e soprattutto il sale, che si prelevava dalle saline alle foci del Tevere, si trasportava con le imbarcazioni lungo il Tevere fino alla zona dell’ansa, dove si creò un deposito di sale. Qui venivano ad attingere le popolazioni dell’Appennino, che a dorso d’asino trasportavano il sale fino sui monti lungo la via che sarà chiamata Salaria. Il sale, infatti, era indispensabile, oltre che all’alimentazione di uomini e animali, a conservare il cibo. La zona dell’ansa del Tevere, con l’isola Tiberina che ne consentiva il guado, divenne così un punto di incontro del commercio: da ovest a est, dal mare ai monti fino alla costa adriatica, si trasportavano, oltre al sale, i prodotti greci e fenici che giungevano sulla costa tirrenica. In senso inverso veniva trasportato dagli Appennini verso la costa il legname dei monti. da nord a sud passava la via che collegava l’Etruria alla Campania e quindi alla Magna Grecia, cioè le regioni del massimo sviluppo economico e commerciale della penisola. «Dovunque nel mondo due strade importanti s’incrociano, o dove vi sia un ponte, la gente s’incontra e si ferma. Vi sorge un mercato» ha osservato l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli. Non è un caso che il primo ponte romano, il Sublicio, sia stato costruito proprio nelle vicinanze del guado naturale e alla stessa altezza verrà successivamente costruito il foro Boario, cioè il mercato del bestiame. Box La storia in parallelo Nel X-IX secolo a.C. - gli etruschi controllavano le coste tirreniche e le rotte per la Corsica e la Sardegna; - i fenici si diffondevano nel Mediterraneo, fondavano Cartagine (814 a.C.) e occupavano le coste di Nordafrica, Spagna, Sicilia occidentale e Sardegna; - gli etruschi controllavano le coste dell’Etruria e il Tirreno; - in Grecia si sviluppavano le poleis, durante il medioevo ellenico. Storia di parole Il nome di Roma I romani facevano derivare il nome di Roma dal nome del mitico fondatore Romolo (anche se è probabile il processo inverso) oppure dal greco róme, “forza”, o dal termine etrusco rumon, “fiume”, da cui deriverebbe anche il nome di Ramnes, gli abitatori neolitici della zona lungo il fiume, e lo stesso nome di Romolo. Ma i romani pensavano anche che il significato del nome dovesse restare segreto e alcuni ritenevano che fosse Amor, di cui Roma sarebbe l’anagramma. Oggi i glottologi suppongono che la parola derivi invece dal termine italico ruma, “mammella” che alluderebbe alla forma del Palatino e indicherebbe la “città del colle”. Una città come le altre (VIII secolo a.C.) Se non teniamo conto delle notizie leggendarie che ne esaltano le origini divine, Roma nacque, come gran parte delle città, per sinecismo. Le comunità sorte sui sette colli vicini al Tevere avevano ben presto stretto un’alleanza, definita Septimontium. L’incremento dei traffici che si incrociavano all’ansa del Tevere, nell’VIII secolo a.C. spinse le genti del luogo a fondersi, cingere di mura il Palatino, pavimentare la zona su cui poi sorgerà il foro (la piazza) per adibirla a funzioni pubbliche e scegliere come capo un rex, “re”. Schiere di contadini, artigiani e mercanti, abbandonarono i villaggi nativi per trasferirsi nella nuova città. A dominare era la lingua e la cultura degli albensi e origini albensi vennero attribuite anche a Romolo, il mitico fondatore di Roma. In seguito si aggiunsero e si fusero altri popoli, sempre di lingua indoeuropea, in particolare i sabini, che scesero dalle loro sedi originarie, gli aspri colli a est della valle del Tevere. Secondo i calcoli la popolazione era ancora scarsa, intorno a 6.500 individui, che continuavano a vivere di allevamento e agricoltura. Storia di parole Septimontium Era il nome dell’insieme delle sette cime dei colli Palatino ed Esquilino, ma forse anche del Celio, e potrebbe derivare da septem montes, “dei sette monti”, oppure da saepti montes, “monti cintati”. Con Septimontium le comunità dei colli indicarono anche la loro lega e la festa, di cui rimane traccia anche in epoca storica, celebrata a Roma in dicembre per ricordare l’inclusione nella cinta della città di tutti e sette i colli. Tra storia e leggenda La leggenda di fondazione Come quasi tutte le città antiche, anche Roma si inventò un’origine divina per dare lustro alla propria storia. Le notizie storiche, pur nobilitate, nella leggenda però ci sono tutte. Come raccontano, tra gli altri, Tito Livio nella sua Storia di Roma dalla fondazione, e Virgilio nell’Eneide, quando Enea, fuggiasco da Troia in fiamme, giunse nel Lazio (nell’XI secolo), sposata Lavinia, figlia del re Latino, fondò in suo onore una città chiamata Lavinio. Il figlio di Enea, Ascanio o Julo, fondò a sua volta Alba Longa, così chiamata perché si allungava sul dorso dei monti Albani. Vi regnarono 17 re, fino a quando, nell’VIII secolo a.C., salì sul trono Numitore. Il fratello Amulio però cacciò il re e uccise i suoi figli maschi, mentre costrinse la figlia Rea Silvia a diventare una sacerdotessa, per impedirle di generare dei figli. Ma il dio Marte la mise incinta di due gemelli, Romolo e Remo, che il re Amulio fece gettare nel Tevere. Il fiume era però straripato e aveva inondato i campi con stagni poco profondi e con una corrente lenta. La cesta coi due gemelli si incagliò presso il fico poi detto Ruminale (da ruma, “mammella”), perché poco dopo giunse una lupa assetata che, udendo i vagiti, offrì loro le mammelle. Avvistati da un pastore di nome Faustolo, i gemelli crebbero tra i pastori e si diedero anche ad assalire i predoni per strappare loro il bottino, che dividevano con i compagni. Ma un giorno Remo fu catturato dai predoni e condotto da Numitore perché lo punisse. Il re spodestato riconobbe il nipote e gli rivelò le sue origini. I due giovani allora riportarono il re sul trono di Alba Longa, uccidendo Amulio. Decisero poi di fondare una nuova città nei luoghi dove erano cresciuti e, per stabilire chi dei due dovesse regnarvi, presero gli auspici, Romolo sul colle Palatino e Remo sull’Aventino. Fu Remo ad avvistare per primo sei uccelli, ma subito dopo Romolo ne avvistò dodici. Sorse allora tra i due una lite e, mentre Romolo sul Palatino tracciava il solco che avrebbe costituito il pomerio invalicabile della città, Remo lo scavalcò e il fratello lo uccise. Romolo costruì la nuova città, a cui diede il nome di Roma derivandolo dal proprio, ne divenne re e la aprì a «gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna tra liberi e schiavi». C’era però penuria di donne, perché i popoli confinanti non volevano concedere in moglie le proprie figlie a uomini ancora rozzi. Allora Romolo indisse giochi solenni a cui giunsero vari popoli e tra essi i sabini, con mogli e figli al seguito. Mentre tutti assistevano allo spettacolo «al segnale convenuto i giovani romani si lanciano da ogni parte a rapire le fanciulle». Benché le avessero sposate, i sabini non si rassegnavano e al comando del loro re Tito Tazio attaccarono Roma. Lo scontro avvenne nella piana tra il Campidoglio e il Palatino, dove poi sarebbe sorto il Foro romano. Ma le donne sabine, «coi capelli sciolti e le vesti strappate, vinto dalle sventure il femminile timore, osarono gettarsi tra il volare dei dardi: irrompendo di fianco si diedero a separare le schiere nemiche, a smorzar la foga dei combattenti, scongiurando da una parte i padri, dall’altra i mariti, di non macchiarsi, suoceri e generi, d’empio sangue» (Livio, I, 13, trad. di M. Scàndola) e di scagliarsi invece contro di loro, che erano causa della guerra. Commossi, gli uomini stipularono la pace, fusero i due popoli e i due re governarono insieme in perfetta concordia. Storia di parole Quirino e Quirites I due termini derivano dal sostantivo sabino curis, “lancia”, che in latino diventa quiris, oppure dal nome della città sabina di Cures. Quirino era un soprannome sabino del dio Marte, il dio della guerra “agitatore della lancia”, che poi fu attributo a Romolo, figlio di Marte, il quale, assunto tra gli dei, ebbe i suoi altari sul mons Quirinalis. Sul Quirinale si stabilirono i sabini, chiamati anche quirites, “provenienti da Cures”. Quando essi si fusero con i romani, il termine passò a indicare i guerrieri di Roma, “uomini armati di lancia (curis)”, ma anche i cittadini romani, in quanto soldati. Il termine assunse una connotazione alta e veniva usato nei discorsi ufficiali importanti. 1.2 Roma diventa città (VIII-VI secolo a.C.) I sette re La tradizione parla di una fase monarchica durata due secoli e mezzo, dal 753 al 509 a.C., in cui si sarebbero succeduti solo sette re (Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo), un numero che appare troppo esiguo per un periodo così lungo. Si suppone quindi che i nomi di alcuni re siano andati perduti. A parte Romolo, figura leggendaria, gli altri re sono da considerarsi figure storiche, anche se probabilmente alcune istituzioni, a loro attribuite, sono da datare in epoche successive. 21 aprile 753 La data tradizionale della fondazione di Roma era il 21 aprile, scelta perché coincideva con il capodanno pastorale in cui si celebrava in onore di Pale, la dea delle greggi, un rito di purificazione per propiziare i parti. L’anno 753 fu stabilito da un erudito latino del I secolo a.C. che attribuì ai sette re della tradizione un regno di 35 anni ciascuno, per un totale di 245 anni, che aggiunti al 509, anno della cacciata della monarchia, dà appunto 753. La storia in parallelo Nell’VIII secolo a.C. le poleis greche avviavano la seconda colonizzazione sulle coste dell’Italia meridionale e della Sicilia orientale: la prima colonia greca in Italia, a Ischia (776 a.C.), fu fondata nello stesso periodo in cui nasceva Roma. Le prime istituzioni (VIII secolo a.C.) Tra l’VIII e il VII secolo a.C., i primi quattro re, diedero alla città i primi ordinamenti. Romolo, di origine latina, avrebbe diviso la popolazione in tre tribù, che fornivano all’esercito 3.000 fanti e 300 cavalieri, istituito il senato, aperto le porte agli stranieri, soprattutto mercanti e artigiani, con l’istituzione dell’asilo, che garantiva ospitalità e rifugio agli immigrati. Roma, infatti, al contrario delle poleis greche che non concedevano facilmente la cittadinanza, era inclusiva e per questo poté crescere, divenire una città multietnica e, grazie al contatto con altri popoli, acquisire le conoscenze necessarie allo sviluppo. Numa Pompilio, di origine sabina, secondo la tradizione istituì i culti religiosi e i collegi sacerdotali, creò il primo calendario, per fissare una lista delle date in cui celebrare un centinaio di feste religiose, che originariamente i sacerdoti comunicavano mese per mese. Il calendario di Numa divideva l’anno in dodici mesi lunari (di 29 giorni) e lasciava liberi i sacerdoti di allungare il mese che preferissero, in modo che alla fine dell’anno si arrivasse a 365 giorni. Ma i sacerdoti abusarono della loro prerogativa e per favorire il magistrato che preferivano aggiungevano i giorni al mese in cui era in carica. Così alla fine il calendario divenne fonte di controversie finché, secoli dopo, fu aggiornato da Cesare. Storia di parole Nome e struttura del calendario Il nome calendario deriva dalla parola calende, con cui si indicava il primo giorno del mese. Gli altri giorni venivano calcolati in rapporto alle calende, alle none, il 5 (o il 7 dei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre, che si suole abbreviare in mar-ma-lu-ot) e le idi, il 13 o il 15 dei mesi “marmaluot”. L’annus, che vuol dire “anello”, cominciava a marzo. Per l’indicazione dell’anno, in età monarchica si indicava quale re fosse sul trono, con la nascita della repubblica i metodi più usati erano due: si indicava il nome dei due consoli in carica per quell’anno oppure si indicava l’anno con un numero ordinale (primo, secondo, sessantesimo ecc.) dalla fondazione di Roma (ab Urbe condita). Dida Le ore si calcolavano in base alla posizione del sole in modo approssimativo, perché il primo orologio solare di manifattura greca fu importato da Catania solo nel 263 d.C., ma siccome la città si trova a 3 gradi a est di Roma, nell’Urbe l’ora non corrispondeva e per un secolo ci fu una gran confusione sull’orario. Storia di parole L’asylum Era un’istituzione tipicamente romana che nasceva dalla necessità di Roma di popolare la nuova città che all’origine contava su un numero ridotto di abitanti. Erano pertanto accolti stranieri anche delinquenti, che però dovevano ottenere la protezione di un patrono per risiedere a Roma. La prima espansione (VII secolo a.C.) I successivi due re avviarono l’espansione della città: Tullio Ostilio, un romano di madre sabina, si spinse fino alla confluenza del Tevere con l’Aniene, dove fu bloccato da Fidene e Veio, città etrusche; attaccò e distrusse Alba Longa, che aveva il predominio sul mondo latino, e le sostituì Roma come città dominante. In questa guerra la tradizione colloca la vicenda degli Orazi e dei Curiazi. Anco Marzio, sabino, costruì, sul fiume poco più a sud dell’isola Tiberina, il primo ponte stabile, di legno e corde, il Sublicio, che permise la prima occupazione della riva destra del Tevere, dove il re, per controllare le saline, impiantò un avamposto in territorio etrusco; estese poi il dominio della città fino al litorale marittimo, dove stanziò il presidio di Ostia, anch’esso per il controllo delle saline. Le guerre però costringevano i cittadini ad allontanarsi dai loro campi e avevano perciò conseguenze sull’economia; quindi i primi re evitarono quelle non strettamente necessarie. Furono gli ultimi tre re di origine etrusca a intraprendere una politica di conquista piuttosto aggressiva. La storia in parallelo Nel VII secolo a.C. - gli etruschi diventavano una grande potenza, si espandevano nella pianura Padana, in Veneto e in Campania, dove Capua divenne città etrusca per eccellenza, contro le greche Cuma e Napoli; - Sparta, a cui Licurgo forniva una ferrea costituzione, diventava la polis più potente del mondo greco. 1.3 Roma diventa grande La dominazione etrusca (VII-VI secolo a.C.) Anche se Roma era uno snodo commerciale fondamentale per i traffici tra l’Etruria e la Campania, gli etruschi in piena espansione non la attaccarono militarmente, perché il mondo etrusco era troppo frammentato per organizzare una guerra comune. La invasero invece pacificamente coi loro commercianti e i loro avventurieri, che, tra la fine del VII e il VI secolo a.C., per la loro superiorità tecnica e culturale, a Roma si imposero in diversi settori: dall’ingegneria all’arte militare, dall’agricoltura al commercio. Probabilmente fu proprio la minoranza etrusca molto ricca e potente, stanca di essere governata da “re pastori e contadini” (Montanelli) incapaci di soddisfare i suoi bisogni commerciali ed espansionistici, ad appoggiare singoli condottieri o avventurieri che si imposero sul trono di Roma a titolo personale, favoriti anche dal fatto che avevano adottato la falange oplitica sul modello greco, una fanteria pesante, che procedeva in file serrate, contro cui gli eserciti di fanteria leggera delle città latine potevano poco. Di origine etrusca furono quindi gli ultimi tre re della tradizione, i “re mercanti”. Una città più bella La loro politica di espansione nel Lazio fino alla costa tirrenica favorì gli artigiani, che si arricchirono con la produzione di armi, e i mercanti, che ebbero nuovi mercati dove estendere gli affari. Il bottino di guerra poi servì ai re per rendere Roma una delle città più grandi della penisola, con un numero di abitanti che alla fine del VI secolo a.C. doveva aggirarsi tra i 30 e i 60.000. Per costruire nuove imponenti opere pubbliche, proprio come i tiranni greci, i re etruschi richiamarono in città architetti, artigiani, imprenditori e diedero lavoro agli strati più umili della popolazione. L’influenza etrusca si impose non solo sull’arte, ma anche sulle consuetudini civili, religiose, politiche e militari di Roma, e favorì i contatti con l’evoluta civiltà greca dell’Italia meridionale. L’urbanizzazione di Tarquinio Prisco (inizio VI secolo a.C.) Al primo re etrusco viene attribuito il completamento dell’urbanizzazione di Roma. Case in pietra sostituirono le primitive abitazioni in legno, la città si abbellì di strade lastricate e di templi ornati di statue. Sul Campidoglio fu innalzato il grande tempio dedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone, Minerva, che divenne il simbolo della città, mentre ai piedi del colle fu costruito il grandioso Circo Massimo per le corse dei cavalli. La Cloaca Massima, la fogna più grande della città, un grande canale coperto, consentì il deflusso nel Tevere degli scarichi urbani, ma soprattutto delle acque che impaludavano la riva del Tevere. Sulla zona ormai prosciugata ai piedi del Palatino sarebbe poi sorto il foro, il centro della vita politica e commerciale, pavimentato e abbellito di edifici pubblici e templi, e, accanto, il foro boario il mercato permanente del bestiame. La riforma di Servio Tullio (metà VI secolo a.C.) Con lo sviluppo urbanistico, una nuova cinta muraria di sette km, le mura serviane, che sarebbero state edificate da Servio Tullio (VI secolo a.C.), ampliava il perimetro delle mura originarie fino a comprendere tutti i colli romani. Il re era di origine latina, forse addirittura uno schiavo come indicherebbe il suo nome, ma sposò la figlia di Tarquinio Prisco. A lui venne anche attribuita dalla tradizione una riforma che in realtà sarebbe stata realizzata solo nel V secolo a.C., almeno nella sua forma più completa. È probabile invece che il re etrusco si sia limitato ad alcune riforme parziali, ispirate forse alla quasi contemporanea riforma di Solone ad Atene (594-3 a.C.): sostituì alle tre tribù su base gentilizia tribù territoriali con funzioni amministrative: 4 tribù urbane e altre rustiche (che diventeranno in seguito 17) in cui suddivise la popolazione delle campagne. Le assemblee della popolazione divisa in tribù si chiamarono comizi tributi; concesse la cittadinanza ai recenti immigrati, soprattutto mercanti e artigiani etruschi; adottò la falange oplitica, che dalle poleis greche si era diffusa nella Magna Grecia, da dove era giunta presso gli Etruschi. A Roma rispondeva alle nuove esigenze militari e sociali. Un numero crescente di cittadini, infatti, poteva permettersi ormai di acquistare l’equipaggiamento militare e chiedeva quindi di trarre vantaggio dalla partecipazione all’esercito; ampliò quindi l’esercito a 6000 fanti e 600 cavalieri, che costituivano una legione (letteralmente “scelta”), comandata da un pretore e suddivisa in centurie che si esercitavano fuori dal pomerio nel Campo Marzio (dedicato al dio della guerra Marte); stabilì il reclutamento militare dividendo la popolazione in tre gruppi: 1. gli equites, i cavalieri, che potevano mantenere un cavallo, oltre all’armatura e alle armi; 2. i pedites, i fanti, che potevano acquistare un’armatura, una lancia e una spada; 3. i proletarii (letteralmente "coloro che possedevano come unico bene la prole"), i più poveri o i nullatenenti, che partecipavano alla guerra come fabbri, carpentieri ecc. La storia in parallelo Nel VI secolo a.C. - La potenza etrusca raggiunge l’apice e controlla Roma; - Atene si dà costituzioni sempre più avanzate; - i greci colonizzano le coste della Francia meridionale, dove fondano Marsiglia, della Corsica e della Spagna; - punici ed etruschi si scontrano con i greci per il predominio nel Mediterraneo ad Alalia (540 a.C.) e sono sconfitti; - i cartaginesi occupano la Sardegna, da cui escludono i greci, e tolgono la supremazia agli etruschi. Tarquinio il Superbo, l’ultimo re (fine VI secolo a.C.) I re etruschi si appoggiarono chiaramente sui ceti artigianali e commerciali che in Roma si rafforzarono sempre più, ma si inimicarono l’aristocrazia terriera, tanto che i primi due re etruschi finirono uccisi e l’ultimo fu cacciato dalla reazione di potenti famiglie nobili, che sobillarono il popolo contro di lui. La tradizione aristocratica attribuisce all’ultimo re etrusco i caratteri del tiranno, che avrebbe inventato nuove torture e supplizi, tanto che gli fu dato il soprannome di Superbo. In realtà il popolo aveva appoggiato i re, che avevano tenuto conto dei loro bisogni contro le sopraffazioni dei clan aristocratici, esattamente come, nello stesso periodo, facevano i tiranni in Grecia. Anche la cacciata di Tarquinio il Superbo, determinata da ragioni private e collocata dalla tradizione nel 509 a.C., ricorda da vicino la fine della tirannide ad Atene, avvenuta nel 510 a.C. L’analogia delle due date ha fatto sospettare dell’autenticità della data romana, ma anche della realtà stessa della caduta improvvisa della monarchia. Secondo alcuni storici, la cacciata di Tarquinio avrebbe determinato la fine dell’influenza etrusca su Roma, mentre solo un lento processo di esautorazione dei poteri regali, che col tempo si sarebbero ridotti a quelli religiosi del rex sacrificulus, avrebbe portato al predominio dell’aristocrazia e alla nascita di una repubblica oligarchica. Tra storia e leggenda Via il re Leggendaria e ammantata di aristocratica morale eroica è anche, come le sue origini, la fine della monarchia. Tito Livio racconta che l’ultimo re etrusco, Tarquinio il Superbo, intraprese una guerra contro Ardea, a caccia di nuovi fondi per finanziare le sue costose opere pubbliche. Una volta che i principi, mentre assediavano Ardea, tra un impegno militare e l’altro, se la spassavano in banchetti e bevute, cominciarono a vantarsi delle proprie mogli. Tra loro era il figlio del re Sesto Tarquinio e un nobile di nome Lucio Tarquinio Collatino, che invitò i compagni di baldoria a recarsi in piena notte a casa di ciascuno di loro a Roma per scoprire che cosa facessero le loro consorti. Lì trovarono le altre mogli a «spassarsela in sontuosi banchetti insieme con le compagne», mentre Lucrezia, la moglie di Collatino, era ancora «intenta alle sue lane fra le ancelle che vegliavano al lume della lucerna. La vittoria in quella gara toccò a Lucrezia». Sesto Tarquinio, colpito dalla bellezza e dalla moralità della donna, passati alcuni giorni, si presentò a casa sua, e, in assenza del marito, si fece ospitare. Nella notte entrò armato di spada nella camera di Lucrezia e, alla sua resistenza eroica, la minacciò di ucciderla mettendole poi accanto «uno schiavo nudo strangolato, perché si dicesse ch’era stata uccisa in un infame adulterio». La donna dovette cedere per non perdere il proprio onore, poi mandò a chiamare il padre e il marito, che giunsero accompagnati da altri nobili, tra cui Lucio Giunio Bruto. A loro raccontò l’accaduto, chiese vendetta e si uccise con il pugnale che aveva nascosto sotto la veste. La commozione e la rabbia scatenarono la rivolta. Bruto incitò il popolo, che cacciò il re in esilio, uccise il figlio Sesto Tarquinio e affidò il potere ai primi due consoli, Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino. L’episodio è ricco di particolari che assumono valore simbolico e lo trasformano in un exemplum, un esempio delle antiche virtù romane. Di contro alla vita dissoluta delle donne etrusche, infatti Lucrezia rappresenta l’idealizzazione della donna romana, che fino a tarda notte lavora la lana, simbolo del benessere della famiglia in una società arcaica, dedita ancora alla pastorizia, ed è tanto virtuosa che preferisce la morte al disonore. La rivolta contro il re è attribuita al popolo, come l’elezione dei due consoli, perché l’aristocrazia vuole presentare il proprio potere come scelta popolare. Box La storia in parallelo Alla fine del VI secolo - Atene, liberatasi dalla tirannide (510 a.C.), con la riforma di Clistene del 508, si avviava a diventare una democrazia potentissima. - La cacciata degli etruschi da Roma è indizio della decadenza della potenza degli etruschi che poco dopo, nel 504 a.C., guidati da Porsenna subiscono una sconfitta dai cumani ad Ariccia. La loro espansione in Campania subisce un arresto. 2. LA SOCIETÀ ROMANA ARCAICA 2.1 La prima differenziazione sociale Una società di pastori e contadini Conosciamo molto poco del primo periodo della storia romana, se non quanto ci hanno tramandato le leggende e gli storici Romani molti secoli più tardi. È probabile che all’origine della storia romana non esistessero distinzioni sociali e gli abitanti dei villaggi avessero in comune le terre. Secondo la tradizione, in età monarchica vennero distribuiti a ciascun cittadino romano due iugeri (corrispondenti a mezzo ettaro, 5000 m²) di ager romanus, cioè di terreno pubblico, una quantità insufficiente a mantenere una famiglia. L’economia era quindi povera, basata sull’agricoltura di sussistenza, che produceva quasi esclusivamente cereali e doveva ancora essere integrata con la caccia, la raccolta, la pastorizia e l’allevamento su terreni di uso comune. La durata media della vita era intorno ai vent’anni. glossario Iugero Lo iugero, che deriva da iugum, “giogo”, era l’unità di misura romana di superficie e indicava la quantità di terreno che un uomo avrebbe, ipoteticamente, potuto arare in un giorno con un giogo di buoi (una coppia di buoi aggiogati). Aveva una lunghezza di 70 m e una larghezza di 36, per un totale di poco più di 2.500 m², che corrispondono a un quarto di ettaro. Storia di parole Una pecora per moneta In un’economia ancora pastorale come quella della Roma arcaica, gli scambi avvenivano tramite il baratto. Era però necessario scegliere un’unità di misura per stabilire il valore delle merci: i Romani, originariamente pastori, usavano il bestiame, la fonte principale della loro ricchezza, ed è per questo che dal termine pecus (“gregge”, “pecora”) derivarono i termini latini pecunia, “denaro”, e peculium, “patrimonio”, da cui in italiano pecuniario, “relativo al denaro”, peculio, “somma di denaro risparmiata e conservata gelosamente”, e peculato, “appropriazione indebita di denaro pubblico da parte di un funzionario”. La ricchezza veniva calcolata in base ai capita, i “capi” di bestiame che costituivano quindi quello che oggi chiamiamo capitale. Anche il sale, in latino sal, era un'importante materia di scambio e successivamente divenne addirittura oggetto di paga dei soldati, da cui deriva il termine salarium ("salario"). Divisione in due ordini In seguito all’unificazione di etnie e villaggi del Lazio primitivo in un centro urbano (urbs), e con l’incremento e la diversificazione delle attività produttive e mercantili, iniziarono a crearsi differenziazioni all'interno della società romana. Le famiglie più potenti si impossessarono delle terre più fertili, che consentirono loro di arricchirsi e di costituire gradualmente un’aristocrazia guerriera. Con i re etruschi, si affermò anche a Roma un modello di società simile a quella etrusca, dominata da un numero ristretto di grandi famiglie aristocratiche e si creò una distinzione tra patrizi, gli aristocratici, e plebei, la restante popolazione costituita da piccoli agricoltori, commercianti, artigiani. Sull'origine dei due ordini (come i latini chiamavano le classi sociali) si è oggi molto discusso: sappiamo che i patrizi pretendevano di essere i discendenti dei mitici fondatori di Roma, consideravano i plebei discendenti dei popoli indigeni sottomessi e li trattavano come stranieri con cui era vietato contrarre matrimonio. Sicuramente la distinzione ebbe varie cause, da quelle etniche a quelle economiche a quelle militari e religiose, mentre nella successiva età repubblicana assunse un carattere politico ed economico. I patrizi I patrizi, che possiamo paragonare agli eupatridi ateniesi, costituivano l’aristocrazia e mantenevano il potere sulla base: della loro origine: ogni patrizio apparteneva ad una gens, “gente”, “stirpe”, cioè un gruppo di persone, legate da rapporti familiari, che sostenevano di discendere da un comune antenato di cui portavano il nomen, il “nome” detto perciò gentilizio. La gens era costituita da un insieme di familiae, “famiglie”, contraddistinte da un cognomen, un “soprannome” a volte desunto da particolari fisici di un antenato: Nasica dal grande naso, Barbata dalla lunga barba, e altri. del diritto a prendere gli auspici, cioè della facoltà di consultare gli dei e di interpretare la loro volontà. Dal momento che a Roma nessuna azione militare o decisione politica poteva essere intrapresa senza conoscere la volontà degli dei, solo i patrizi potevano convocare un’assemblea, costruire un tempio o dichiarare guerra; solo loro potevano diventare magistrati, senatori e sacerdoti, e tramandarsi oralmente le conoscenze magico-religiose, le tecniche di guerra e le leggi, di cui tenevano all’oscuro i plebei e chiunque non fosse patrizio, oltre alle donne e ovviamente agli schiavi. Sul biglietto da visita di un romano Il nome di un romano conteneva tutte le informazioni sulla sua identità e sulle sue origini. Ogni individuo maschio, oltre al nomen gentilizio e al cognomen familiare, aveva il praenomen, il suo nome personale, come Publius, Caius o Gneus. Il cognomen poteva essere seguito da un soprannome derivato da un particolare specifico del personaggio, come l'Africano, l'Emiliano, il temporeggiatore. Esempio di nome completo: il vincitore della seconda guerra punica si chiamava: Publio Cornelio Scipione l’Africano praenomen nomen gentilizio: cognomen familiare: della soprannome: vincitore di personale della gens Cornelia famiglia degli Scipioni Cartagine in Africa I patrizi, che rimasero per secoli un ordine chiuso, poiché si vietavano i matrimoni misti, portavano come segni di appartenenza alla loro classe un anello d’oro, una striscia di porpora sulla tunica, un mantello corto e calzari di cuoio. I plebei Il termine plebs, dal verbo latino pleo, “riempio”, derivato dal sostantivo greco pléthos, “moltitudine”, indicava la massa dei cittadini liberi esclusi dal potere, costituita originariamente da contadini che possedevano pochi iugeri di terra e vivevano di agricoltura o pastorizia. Essi erano spesso costretti a chiedere prestiti ai patrizi, e quando non erano in grado di restituire quanto dovuto entrava in vigore la norma giuridica, definita nexum (“obbligazione” da nectare, “legare, vincolare”), che stabiliva i rapporti tra creditore e debitore e indicava la servitù per debiti: il creditore acquistava un potere personale sul debitore e questi, in pagamento del debito, doveva fornire lavoro gratuito al creditore o cedergli la terra o addirittura diventare suo schiavo, proprio come accadeva ad Atene prima della riforma di Solone. Con l’affermazione della vita urbana e il proliferare di nuovi mestieri, alcuni plebei divennero artigiani e mercanti e, soprattutto durante la monarchia etrusca, aumentarono il proprio benessere, anche se continuavano a essere esclusi dalla vita politica. I clienti Tra i patrizi e i plebei si instauravano spesso rapporti di clientela: un patrizio accoglieva sotto la sua protezione un individuo, un plebeo o uno straniero, il quale, per non restare del tutto indifeso di fronte allo stato e alle sue leggi (di cui non veniva messo a conoscenza), diventava cliente del suo “protettore”, il patrono. Il loro rapporto era economico, politico e militare, ed era basato sulla fides, "fedeltà", "lealtà", un principio morale e sociale insieme , considerato vincolo sacro la cui trasgressione comportava gravi sanzioni. Il rapporto patrono-cliente offriva reciproci vantaggi: il patrono offriva al cliente aiuti economici, a volte un appezzamento di terreno, il proprio appoggio nelle cause giudiziarie, una parte del bottino in caso di guerra; il cliente combatteva per lui, gli forniva lavoro gratuito nelle sue terre, pagava il suo riscatto qualora il patrono fosse stato fatto prigioniero, contribuiva alla dote delle figlie e, in età repubblicana, lo appoggiava nella lotta politica assicurandogli il proprio voto. Ogni gens aveva a disposizione intere schiere di clienti che col tempo raggiunsero proporzioni enormi e costituirono una specie di esercito privato, oltre che un elettorato fidato e sempre più potente. Gli schiavi Come nelle altre civiltà antiche, anche a Roma esistevano gli schiavi, ma essi non ebbero un ruolo fondamentale nella società romana fino al III secolo a.C. Erano prigionieri di guerra o poveri che non erano riusciti a pagare i loro debiti. Facevano parte della famiglia e, nella fase arcaica, erano pochi e trattati con una certa umanità, anche se erano giuridicamente semplici oggetti di proprietà del padrone, il quale poteva disporre della loro vita, venderli o al contrario affrancarli, cioè concedere loro la libertà, a volte dietro pagamento di un riscatto. I liberti Il procedimento dell’affrancatura dello schiavo era detta manumissio e prevedeva che lo schiavo liberato dalla schiavitù, definito liberto, restasse in eterno legato al padrone da un rapporto di gratitudine, anch’esso basato sulla fides, e continuasse a far parte della famiglia, ma con la possibilità di lavorare e commerciare per proprio conto. I liberti, ottenevano il diritto di cittadinanza, ma senza i diritti politici di cui avrebbero goduto solo i loro discendenti dopo tre generazioni. La prospettiva di ottenere la libertà tratteneva gli schiavi dalle ribellioni e li induceva a lavorare con maggior impegno. I liberti furono una categoria esclusiva della società romana che divenne col tempo particolarmente influente. Storia di parole Emancipazione Lo schiavo veniva definito anche mancipium, da manus, “mano”, e capere, “prendere”. Il termine indicava che era stato oggetto di compravendita (mancipatio). Lo schiavo poteva essere emancipato, da e (“fuori da”) e mancipium, cioè liberato dal vincolo di schiavitù. Il termine significa ancora oggi “sottrarsi a una schiavitù, al potere di un altro”. L’emancipazione era detta manumissio, originariamente e-manu-missio, un termine composto da e (“fuori da”), manus, “mano” ma anche “proprietà” (sinonimo quindi di mancipium), e il verbo mitto, “mandare”. Si può descrivere come avveniva? 2.3 La famiglia Un’idea diversa di famiglia Alla base della società romana era la familia, che non si esauriva nei comuni legami di sangue ma era un’organizzazione religiosa e politica unita nel culto degli antenati. Comprendeva, oltre ai genitori e ai figli, le famiglie dei figli sposati, quindi anche le loro mogli, i nipoti e i pronipoti; i clienti; gli schiavi, i beni immobili, il bestiame e tutto ciò che costituiva il patrimonio familiare. In nome del padre A capo della famiglia era il pater familias, il “padre di famiglia”, l’uomo più anziano della famiglia, che potrebbe corrispondere al nostro “capofamiglia”, se non fosse che il suo potere nell’ambito familiare era illimitato: - era il padrone assoluto del patrimonio familiare e il solo che avesse diritto di vendere o comprare: finché era in vita i figli erano considerati come minorenni; - era il sacerdote del culto domestico degli antenati, i penati; - riconosceva come legittimo un figlio, sollevandolo tra le braccia quando alla nascita glielo ponevano ai piedi: se non lo faceva, lo condannava ad essere esposto o venduto come schiavo; - aveva potere di vita e di morte su tutti i componenti della famiglia, legati a lui da vincoli di sangue – figli, nipoti, pronipoti – oppure acquisiti per legge: moglie, figli adottivi, schiavi; - il potere sulla propria moglie e sulle mogli dei figli si definiva manus, sugli schiavi dominica potestas (“potere del padrone”) e sui figli patria potestas - esercitava il potere sui figli anche qualora essi fossero adulti, sposati e ricoprissero incarichi politici di rilievo. Un figlio si emancipava dalla patria potestas solo alla morte del padre; - era oggetto della pietas dei figli, cioè di un sentimento, intraducibile in italiano, misto di senso del dovere, rispetto e venerazione: lo stesso sentimento riservato agli dei. La società romana era, quindi, una società decisamente patriarcale, in cui il potere spettava agli uomini sia nell’ambito privato che in quello pubblico. Non è un caso che dalla parola pater derivino i principali termini della società romana: patrizi, patrimonio, patrono e patres, con cui si indicavano i senatori. Donne mute e sobrie Nella società romana, così fortemente caratterizzata in senso patriarcale, alle donne non era concesso molto spazio, anche se l’antico costume attribuiva loro un ruolo fondamentale nell’ambito familiare in quanto modello morale per i figli e per la società, come dimostra la leggenda di Lucrezia. La donna, nel suo duplice ruolo di moglie e madre, doveva essere casta, modesta, fedele, laboriosa proprio come Lucrezia. Come moglie, doveva obbedire al marito e soddisfare le sue richieste, mantenere vivo il focolare domestico della dea Vesta, protettrice della casa, e occuparsi delle faccende domestiche: lo faceva di persona nelle famiglie più povere, mentre in quelle più ricche sorvegliava il lavoro delle schiave. Ma tutte filavano la lana, l’attività che più denotava la loro onestà. Come migliore elogio funebre di una donna si scriveva perciò: casta fuit, domum servavit, lanam fecit (“fu casta, custodì la casa, filò la lana”). Come madre, la donna doveva accudire ai figli e impartire loro un’educazione degna della famiglia: per questo spesso le fanciulle ricevevano un’educazione scolastica di base. Quel che gli uomini temevano di più era la leggerezza connaturata, nella loro opinione, al sesso femminile, mentre caratteristica dell’uomo era la severità e il senso della misura. Perciò le donne andavano tenute sotto controllo ed erano sottoposte sempre al potere di un uomo: passavano dalla patria potestas del padre alla manus, il potere del marito, quando andavano spose; se restavano vedove venivano sottoposte alla tutela di un tutore. Le donne dovevano solo obbedire e, soprattutto, tacere. Il silenzio femminile era così importante che nel pantheon romano Numa Pompilio incluse una dea Tacita. Era la dea del silenzio, un tempo ninfa chiacchierona che, per punizione, era stata resa muta da Giove come monito per le donne ciarliere. A loro fu interdetto per secoli di parlare in pubblico, perché i romani ritenevano che le donne parlassero solo di cose futili, che le loro chiacchiere fossero pericolose e, soprattutto, che parlando in qualche modo “si denudassero”, rivelando se stesse ed esponendosi agli sguardi altrui. Anzi, perché una donna fosse considerata davvero virtuosa, di lei non si doveva parlare neppure in bene. Data la presunta “leggerezza” delle donne, la loro colpa più grave, dopo l’adulterio, era quella di bere vino, per altro considerata assai vicina all’adulterio. Il termine “adulterio” deriva dal verbo “adulterare”, cioè rendere qualcosa diverso da prima, con l’aggiunta di sostanze estranee: come l’uomo “adultera” la donna, così anche il vino, una sostanza estranea, immessa in lei la “adultera” e per di più la predispone all’adulterio. Entrambe le colpe consentivano a un marito di uccidere la moglie. Alle donne veniva negata persino l’identità: a loro non spettava il praenomen, il nome personale, ma solo il nomen gentilizio; spesso, per riconoscerle nell’ambito della famiglia, si aggiungeva al nomen un attributo come Maior, “maggiore”, o Minor, “minore”, oppure Prima, Seconda, Terza. Marco Tullio Cicerone chiamava sua figlia Tullia (nome gentilizio) col vezzeggiativo Tulliola (“piccola Tullia”). La gloria maggiore per una donna era tuttavia che il suo nome non venisse neppure pronunciato: solo le donne di facili costumi venivano chiamate con il loro nome personale. 3. LE ISTITUZIONI DELLA ROMA MONARCHICA 3.1 Le istituzioni politiche arcaiche Una suddivisione etnica Romolo avrebbe diviso la popolazione della Roma arcaica in tre tribù, sulla base delle differenze etniche delle tre popolazioni che col tempo erano affluite a Roma: i Ramnes, i latini che, arrivati, secondo la leggenda, con Romolo, abitavano il Palatino, vicino al fiume; i Tities (Tizi), i sabini che, guidati da Tito Tazio, si erano stanziati sul Quirinale; i Lùceres, gli etruschi che via via erano immigrati a Roma, ma di cui non si conosce la residenza. Secondo altri storici invece erano semplicemente gli abitanti del lucus, la "selva" dei colli Albani, prima dell'arrivo dei Latini. Curie e comizi curiati La tripartizione originaria, attribuita a Romolo, in tre tribù conobbe ben presto una evoluzione in senso politico e militare. Le tribù infatti furono suddivise ciascuna in dieci curie, “riunioni di uomini nobili”, ognuna costituita da dieci gentes, insiemi di famiglie patrizie. Le trenta curie, riunite nei comizi curiati, costituivano la base politica e militare dello stato romano arcaico e avevano il compito di: conferire al re il suo potere in una cerimonia solenne che si chiamava inaugurazione (lex curiata de imperio) perché venivano presi gli auguri per verificare l’approvazione degli dei; approvare le decisioni del re e quelle del senato; svolgere funzioni religiose; occuparsi di diritto familiare, ad esempio sancire la validità di adozioni e testamenti; fornire all’esercito 10 cavalieri (equites), cioè una decuria, e 100 fanti (pedites), cioè una centuria, ciascuna: quindi complessivamente 300 cavalieri e 3000 fanti, che costituivano la legione. eleggere un senatore per ognuna delle trenta gentes che costituivano le dieci curie, per un totale di 300 senatori. La legione L’esercito arcaico quindi era formato da una legione di 300 cavalieri e 3000 fanti, tutti scelti, in caso di guerra, dalle trenta curie. Si trattava quindi non di soldati professionisti ma di cittadini che potevano permettersi a proprie spese un’armatura – una corta spada (gladius), una lancia (hasta) un giavellotto (pilum), un elmo di bronzo, una corazza di cuoio e altre??? uno scudo rotondo, clipeus, – e l’esercizio militare necessario. A comandare l’esercito era il re; la legione era divisa in falangi, sei linee di 500 fanti ciascuna, che si schieravano su un fronte compatto, mentre la cavalleria aveva un ruolo secondario. I guerrieri quindi, nel primo periodo della monarchia, erano scelti esclusivamente tra i cittadini aristocratici più ricchi, e ciò fu possibile finché le guerre di Roma arcaica erano limitate ai territori e ai popoli circostanti. Ma quando nella tarda età monarchica i teatri delle guerre iniziarono ad ampliarsi e fu necessario un impiego ben maggiore di soldati, si rese necessaria una riforma dell'esercito, con l'estensione del suo reclutamento, che è dalla tradizione attribuita al re Servio Tullio. Storia di parole Comizi curiati Il termine comitium indica un’adunanza e deriva dal verbo latino coëo, composto da cum, "con", ed eo, “andare”, e significa “andare insieme”. Il termine curia, che deriva da cum e vir, “uomo” , cioè un “insieme di uomini”, assume svariati significati: indica la ripartizione delle tribù, che avevano valore sia etnico (le tre popolazioni che convivevano a Roma), sia territoriale (il luogo di stanziamento dei tre popoli), sia sociale (riunivano solo i patrizi); indica il senato, giacché i senatori venivano scelti dalle curie, e il luogo in cui esso si riuniva, ad esempio la curia Hostilia (che prendeva il nome da Tullio Ostilio) o la curia Julia, completata da Augusto molti secoli più tardi. 2.2 Le istituzioni monarchiche Il re Il rex, "re", era inizialmente soltanto una figura simile a un capo tribù, mentre in seguito divenne un magistrato esecutore della volontà popolare ed eletto a vita dai patres gentium, i capi delle gentes più importanti riuniti nel senato, con la ratifica dei comizi curiati. Era quindi una carica elettiva, simile al basiléus greco e diverso dai re assoluti delle civiltà orientali. Una volta eletto, il re non doveva, tuttavia, render conto del suo operato al popolo. Quando la monarchia passò nelle mani di sovrani di origine etrusca, divenne ereditaria. Il re viveva nella Regia e aveva due poteri fondamentali: l’imperium e il ruolo di rappresentante della città di fronte agli dei: l’imperium gli consentiva di guidare le truppe in guerra, di avere il potere esecutivo e il potere di vita e di morte sui cittadini; come rappresentante della città, il re doveva mantenere la pax deorum, la “pace degli dei”, cioè il patto che la città stipulava con gli dei, e sorvegliare che i riti e i sacrifici agli dei venissero compiuti regolarmente e correttamente, per evitare l’ira divina e garantire alla città prosperità e vittorie in guerra. Quando Servio Tullio adottò la falange oplitica, formata da cittadini soldati, il legame tra il re e la comunità si rafforzò ulteriormente e la monarchia adottò i simboli regali, come lo scettro sormontato dall’aquila, la corona d’oro, il mantello di porpora, il trono, costituito dalla famosa sella curule di derivazione etrusca, che era uno speciale sgabello pieghevole in avorio, in marmo o in metallo, finemente lavorato, e il fascio littorio, cioè un fascio di verghe con una scure che rappresentava il potere del re di mettere a morte. Il senato Secondo la tradizione il primo senato era composto dai 100 maggiori esponenti delle gentes, i patres gentium o semplicemente patres, sinonimo di senatori, termine che deriva invece da senex, “vecchio”, perché i patres più influenti erano i più anziani. In seguito il numero dei senatori passò a 200 e successivamente, dopo la riforma di Servio Tullio, a 300, dieci per ogni curia. I senatori erano eletti dalle curie attraverso i comizi curiati. Il senato veniva convocato dal re nella curia, la sua sede, ed era presieduto dal princeps senatus, il “primo del senato”. Le sedute erano aperte al pubblico e i senatori portavano ad assistervi i propri figli che avessero compiuto i dodici anni. LE PREROGATIVE DEL SENATO Il senato aveva in età regia diverse prerogative: funzione consultiva: forniva al re il proprio parere su questioni di politica interna ed estera; funzione elettiva: alla morte del re, nel periodo definito interregnum, i senatori “primi” di ogni decuria governavano come interreges, cinque giorni ciascuno, finché il senato eleggeva un nuovo re che riceveva poi il potere dai comizi curiati durante la cerimonia solenne dell’inaugurazione (lex curiata de imperio); funzione morale: il senato era detentore dell'auctoritas, l'“autorità”, una forma particolare di potere che veniva riconosciuto al senato non da una legge ma dall'autorevolezza della tradizione, chiamata mos maiorum. Il senato infatti era costituito dai patres delle gentes più influenti, che ricoprivano incarichi pubblici da sempre e avevano quindi esperienza e autorevolezza, erano depositari della memoria storica della città, delle norme giuridiche e religiose, della cultura politica. Pertanto non si presentavano mai proposte di legge ai comizi e nessuna decisione dei comizi diventava legge senza l’approvazione preventiva del senato. Di fatto era il senato a decidere sull’amministrazione dello stato, a sorvegliare l’operato dei magistrati, a dirigere gli affari esteri: nominare i generali, inviare e ricevere ambascerie, intervenire sulla dichiarazione di guerra e stipulare la pace. I comizi tributi I comizi tributi erano l’assemblea del popolo romano suddiviso per tribù territoriali. Siccome le tribù si fondavano sul domicilio dei cittadini e non sul censo, analogamente alle tribù di Clistene ad Atene, esse comprendevano patrizi e plebei, ricchi e poveri senza distinzione e, dal momento che ogni tribù aveva diritto a un voto, i comizi tributi possono essere considerati l’assemblea più democratica di Roma. L’iscrizione a una tribù conferiva la cittadinanza romana di pieno diritto. 4. LA RELIGIONE ROMANA NELL’ETÀ MONARCHICA 4.1 Una religione politica Un pantheon aperto Durante l’età monarchica, per influsso delle città laziali sottomesse e poi degli etruschi, anche la religione andò modificandosi: abbandonò le primitive forme animistiche legate al mondo naturale e creò le prime divinità antropomorfiche, tra cui Iuppiter (Giove), Marte, originariamente divinità agricola e poi dio della guerra, Giunone, Nettuno, Minerva, Giano. Il pantheon degli dei venerati dai romani era in continua espansione. Qualunque stato o città conquistassero, i soldati romani saccheggiavano gli dei locali, sotto forma di statue e simboli, e li portavano a Roma nella convinzione che, rimasti senza dei, gli sconfitti non potessero tentare una rivincita. Ma i romani accoglievano anche gli dei che gli stranieri immigrati portavano con sé per sentirsi meno lontani dalla propria terra e a volte li includevano ufficialmente nel loro pantheon : nel 496 a.C. accolsero Demetra e Dioniso, come collaboratori di Cerere e Libero, con cui poi li identificarono. I sacerdoti accettavano volentieri i nuovi dei, convinti che avrebbero collaborato a tenere sotto controllo i loro fedeli. Una gerarchia tra gli dei sarebbe stata stabilita solo dopo la conquista della Magna Grecia; fino ad allora i Romani convissero con una moltitudine di dei che secondo Varrone ammontavano a trentamila e che non erano relegati nel cielo ma si pensava fossero dovunque, col rischio che li si potesse offendere in ogni momento. Riti e sacerdoti La religione romana aveva un carattere “politico”: analogamente a quanto avveniva in Grecia, stabiliva un rapporto tra gli dei e la città, tanto che fu attribuita a un re, Numa Pompilio, la creazione della maggior parte delle istituzioni religiose. Per tutta l’età regia infatti il sovrano fu anche il sommo sacerdote o pontefice massino (pontifex maximus), il solo che avesse il diritto di regolare i rapporti tra gli uomini, non sulla base di leggi scritte bensì secondo la volontà degli dei, i quali a lui solo la comunicavano durante le cerimonie religiose. Col tempo il re fu affiancato da sacerdoti, che erano semplici magistrati raggruppati in collegi, il più importanti dei quali in età monarchica era il collegio dei pontefici. Essi erano i soli a detenere le conoscenze tecniche, custodire le consuetudini religiose e le norme tramandate oralmente o in libri segretissimi. Si fa derivare il loro nome da pons, “ponte”, e facere, “fare”, perché i pontefici avrebbero costruito il primo ponte sul Tevere, il Sublicio, per compiere i sacrifici su entrambe le rive del fiume. Erano loro a stabilire i giorni fasti e i giorni nefasti in cui era possibile o meno svolgere attività politica, militare o giuridica, e siccome i pontefici erano esclusivamente patrizi, di fatto la giustizia come la politica erano in mano ai patrizi. A capo del collegio dei pontefici, ma anche degli altri collegi, era lo stesso re, come pontefice massimo. Gli altri collegi sacerdotali Istituzione Definizione “coloro che àuguri accrescono” la città con presagi favorevoli arupsici osserva interiora feziali “coloro che accendono il fuoco” (etimo incerto) salii “saltanti” (da flamines sacerdoti sibillini vestali Costituito da 9 patrizi indovini di origine etrusca 15 patrizi e plebei 15 patrizi 24 patrizi salio, “salto", sacerdoti di Marte "danzo”) Custodi dei libri Dai due sibillini iniziali ai 15 con Augusto sacerdotesse di 10 vergini Vesta patrizie tra i 6 e i 10 anni Funzioni Interpretare la volontà divina per mezzo di auspici (osservazione del volo degli uccelli) prima di una guerra o delle riunioni dei comizi. I loro responsi sono detti augùri. Esaminare le viscere degli animali (specie il fegato) e interpretare i prodigi con riti tramandati dagli etruschi. Accompagnare gli àuguri, ognuno addetto al culto di una divinità; il più importante il flamen Dialis, sacerdote di Giove. Occuparsi di diritto internazionale: con formule fisse dichiarare guerra e pace, sottoscrivere trattati internazionali. Celebrare l’inizio delle attività guerresche, all’arrivo della primavera, con danze sacre agitando la lancia e lo scudo di bronzo, con parole magiche ritmate. Custodire i libri sibillini, oracoli della Sibilla cumana (sacerdotessa di Apollo), consultati per delibera del senato in casi gravi. Custodire il fuoco di Vesta, focolare della città, occuparsi della stercorario, “pulizia del tempio”, il 15 giugno, preparare la mola salsa, con obbligo alla verginità per 30 anni. Se il fuoco si spegne è segno di incesto (atti impuri) e la vestale è condannata a morte (murata viva) Nelle crisi più gravi di Roma si inviava una delegazione nella città di Cuma a interrogare la Sibilla, sacerdotessa di Apollo, che aveva le stesse funzioni della Pizia di Delfi e come lei rispondeva in modo enigmatico e allusivo (da cui il termine italiano "sibillino", cioè di difficile interpretazione). Le predizioni della Sibilla sui principali avvenimenti dello Stato romano erano raccolti nei libri sibillini, scritti in greco, acquistati, secondo la leggenda, da Tarquinio il Superbo e custoditi nel tempio di Giove in Campidoglio da una commissione di sacerdoti Sybillini che li consultavano per delibera del senato in occasione di emergenze. Ad essi si diede credito nel corso di tutta la storia romana e persino in epoca cristiana. In alcuni momenti particolarmente difficili per Roma si arrivava a inviare una delegazione addirittura fino a Delfi. Storia di parole La parola religione deriva dal verbo religare, “legare", "impedire”, e indica che attraverso riti con una procedura molto meticolosa si voleva legare gli dei a un patto con la città intera e a impedirne l’ira. Bastava un piccolo errore perché la procedura dovesse essere rifatta più e più volte. Sacrificare significava “render sacro” quello che si offriva alla divinità, per lo più attraverso l'uccisione di animali che venivano donati agli dèi. La pratica del sacrificio era alla base della ritualità romana: si offrivano sacrifici in base alle proprie disponibilità economiche: il pater familias, nella funzione di sacerdote della casa, offriva pane e formaggio, ma di fronte a una carestia o a un’alluvione il favore degli dei poteva anche essere invocato sacrificando un maiale o una pecora. La città in occasione di una guerra o di eventi catastrofici sacrificava greggi intere di cui si riservavano agli dei le interiora e soprattutto il fegato a scopi divinatori, il resto lo mangiava la popolazione raccolta in cerchio nel Foro. La divinazione, dal verbo divinare, "predire", era l'arte di interpretare la volontà degli dei attraverso l'osservazione, da parte dei sacerdoti àuguri e aruspici, delle viscere degli animali sacrificati o del volo degli uccelli o di eventi particolari considerati “prodigi”. Categorie sociali Ordine dei patrizi Definizione 3 tribù Ramni, Tities, Luceres gentes familiae gentiles Pater familias Con a capo gruppi di Ramni: indigeni del Palatino gentes (latini di Romolo), aristocratiche Tities: sabini di Tito Tazio sul suddivise su Quirinale, base etnica Luceres: etruschi immigrati (oppure abitanti della selva). gruppi di più discendenti da unico patres familiae con antenato discendente gentis nome comune dai mitici fondatori di Roma gruppi patrizi liberi e schiavi pater familiari sottomessi a unico familias minori pater familias Il capo L’uomo più anziano famiglia della famiglia Ordine dei plebei Definizione familiae gruppi plebeiae familiari Costituita da Funzioni Partecipare al senato e ai comizi curiati e fornire truppe all’esercito Privilegi: cittadinanza, accesso a: magistrature, senato, comizi, sacerdozi, giustizia Garantire ordine interno e difesa esterna Sottomessi al paterfamilias Potestas sulla familia, sacerdote dei penati, immagini degli antenati (maiores) Costituita da Con a Diritti e doveri capo indigeni sottomessi pater possedere pochi iugeri di terra; trattati come stranieri; familias lavorare le terre dei patrizi, piccoli proprietari esercitare artigianato e commercio. terrieri Esclusi dalla vita pubblica. Altre categorie Definizi Costituita da Con a one capo plebei e stranieri patrono clientes clienti accolti con l’asylum (“ospizio”) e protetti da un patrizio sulla base della fides liberti schiavi schiavi legati al padrone affranca dalla fides ti prigionieri di guerra o debitori insolventi pater familias pater familias Diritti e doveri Diritti: aiuti economici, appezzamento di terreno, parte del bottino, assistenza giudiziaria; Doveri: voto al patrono, servizio militare, lavoro gratuito, pagamento del riscatto, dote. Se mancano alla fides condannati alla sacertà (espulsione, perdita dei beni) Parte della famiglia, uomini liberi col diritto di cittadinanza, privi dei diritti politici che però garantivano ai discendenti dopo tre generazioni. Parte della famiglia, privi dei diritti, proprietà del padrone. Prime istituzioni di età monarchica Istituzione Definizione Costituita da magistrato 1 solo nobile rex unico romano, sabino o etrusco curie comizi curiati senatus 30 “riunioni di uomini” nobili assemblea delle 30 curiae:10 per tribù 10 gruppi di 10 gentes per ogni tribù membri maschi di 10 gentes per curia assemblea ristretta di patres conscripti guidata dal princeps senatus 100/200/300 patres gentium e poi anche patres familias Scelta dai patres gentium a vita, ereditaria sotto i re etruschi Eletto dai comizi curiati Funzioni Potere sovrano, non risponde al popolo. imperium: comando militare, potere esecutivo, potere di vita e di morte sui cittadini. religiose: rappresentare la città di fronte agli dei, mantenere la pax deorum, sorvegliare i riti amministrative: amministrare il patrimonio della comunità e alcuni aspetti della giustizia legislativa: emanare ordinanze con valore di leggi. Base politica e militare dello stato. politiche: sancire l’autorità del re (che deve obbedire per lex curiata de imperio), approvare le sue decisioni e quelle del senato. militari: ogni curia fornisce 10 cavalieri, 100 fanti (centuria); dichiarare guerra elettive: eleggere 10 senatori per curia (1 per gens) giudiziarie: diritto familiare religiose consultiva in politica interna ed estera, interregnum auctoritas: approvare le leggi proposte dal re e le decisioni dei comizi, controllare l’operato dei magistrati, dirigere gli affari esteri. Istituzioni aggiunte con la riforma di Servio Tullio tribù territoria li comizi tributi Definizione 4 tribù urbane e alcune tribù rustiche (che diventeranno in seguito 17) assemblea della popolazione divisa in tribù territoriali Costituita da popolazione della città e delle campagne patrizi e plebei Funzioni amministrative: iscrizione ad una tribù necessaria per avere la cittadinanza romana di pieno diritto. ogni tribù diritto a un voto.