Romaritmie
IL PACEMAKER
Premessa
Il cuore è un muscolo grande approssimativamente quanto un pugno chiuso, situato all’interno del torace,
costituito da 4 camere (4 cavità) disposte in serie: atrio destro e ventricolo destro, atrio sinistro e ventricolo sinistro.
Dal punto di vista funzionale, il cuore si comporta come una pompa idraulica che assicura la circolazione del sangue
nell’organismo. Questa attività di pompa è possibile grazie alla contrazione del muscolo cardiaco, che a sua volta è
innescata da stimoli elettrici che originano e si propagano nel “sistema di conduzione cardiaco”.
Il sistema di conduzione cardiaco: genesi e propagazione degli impulsi elettrici nel cuore
Il sistema di conduzione cardiaco ha la funzione di generare e condurre velocemente a tutta la massa muscolare
miocardica i segnali elettrici che daranno luogo alla contrazione cardiaca; la trasmissione è possibile grazie a strutture
che connettono elettricamente atrii e ventricoli, così da realizzare una sincronia atrioventricolare, fondamentale per
finalizzare la contrazione cardiaca alla massima efficienza di pompa.
Il sistema di conduzione è costituito da cellule che si sono altamente specializzate per assolvere il loro compito di genesi
e propagazione degli impulsi elettrici. Da una parte abbiamo infatti le “cellule pacemaker”, che hanno la
capacità di autoeccitarsi secondo una frequenza intrinseca spontanea, dando origine all’impulso elettrico e
“segnando il passo”, vale a dire dettando il tempo all’attività contrattile del cuore; dall’altra
parte abbiamo altre cellule preposte alla trasmissione rapida e sincrona a tutto il miocardio del segnale elttrico, per
l’appunto “cellule di conduzione”.
Dal punto di vista strutturale, le cellule pacemaker si organizzano a costituire dei “nodi”, precisamente il
nodo senoatriale in corrispondenza dell’atrio destro del cuore, e il nodo atrioventricolare, localizzato appunto in
corrispondenza della giunzione atrioventricolare; le cellule di conduzione costituiscono invece i “fasci”,
precisamente il fascio di His, che decorre lungo il setto interventricolare suddividendosi in due branche, la destra e la
sinistra, per poi sfioccarsi in corrispondenza dell’apice cardiaco nella rete del Purkinje, deposta
all’attivazione simultanea delle pareti libere ventricolari.
Il primario pacemaker naturale cardiaco è il nodo senoatriale, perché grazie alla sua frequenza di autoeccitazione
spontanea può garantire una frequenza contrattile compresa tra i 60 e i 100 battiti per minuto (bpm), che è in grado di
assicurare alla periferia il giusto apporto di sangue (5 litri); il ritmo così “imposto” dal nodo senoatriale è il
ritmo sinusale.
Nel fisiologico circuito elettrico cardiaco, l’impulso elettrico origina quindi dal nodo senoatriale e viaggia verso il
nodo atrioventricolare, dove viene un po’ rallentato per dar tempo ai ventricoli di riempirsi totalmente. Attraversato
il nodo atrioventricolare, il segnale percorre il fascio di His e le sue branche fino alla rete del Purkinje, per completare
l’attivazione di tutto il miocardio.
Esistono però condizioni patologiche nelle quali il nodo senoatriale non dà origine all’impulso: emergono allora altri
pacemakers cardiaci latenti che però lavorano con una frequenza di autoeccitazione minore di quella del nodo senoatriale
( e per questo sono da esso normalmente soppressi), determinando quindi una frequenza contrattile più bassa che può
essere insufficiente alle richieste dell’organismo, e determinare sintomi da bradicardia (cioè da rallentamento
della frequenza).
Perché impiantare un pacemaker artifciale
L’impianto di un pacemaker artificiale si rende necessario ogni qualvolta che il cuore del paziente batte a una
frequenza eccessivamente bassa e il paziente diventa sintomatico per questa bradicardia.
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I sintomi sono fondamentalmente da ricondurre all’inadeguato apporto di sangue in periferia, e ovviamente si
manifestano soprattutto nel momento in cui al contrario le esigenze metaboliche dell’organismo sono aumentate,
e cioè sotto sforzo: astenia e facile affaticabilità, vertigini fino a vere e proprie sincopi.
Le ragioni per cui il cuore non riesce a battere a una frequenza adeguata possono essere fondamentalmente due:
un’alterazione della formazione dell’impulso oppure un’alterazione della sua trasmissione. Nel
primo caso si ha la cosiddetta “malattia del nodo senoatriale” (“sick synus sindrome”),
perché ad essere alterato è appunto il funzionamento del nodo senoatriale, il pacemaker naturale del cuore. Nel caso
invece di un’alterata trasmissione di un segnale elettrico normalmente formatosi, il problema è del sistema di
conduzione: atrii e ventricoli non comunicano più a livello elettrico ( situazione definita come blocco atrioventricolare) e si
perde così quella sincronia atrioventricolare necessaria a finalizzare la contrazione cardiaca alla massima efficienza di
pompa.
Una nuova indicazione: la terapia di resincronizzazione cardiaca nello scompenso cardiaco.
Lo scompenso è una sindrome complessa caratterizzata fondamentalmente dalla incapacità del cuore a mantenere un
apporto di sangue adeguato alle esigenze degli organi periferici. In questi pazienti sono frequentemente presenti vari
gradi di ritardo di conduzione del segnale elettrico, quali blocchi atrioventricolari o blocco di branca sinistro, con risultante
perdita di sincronia atrioventricolare e interventricolare e peggioramento ulteriore della già scadente performance
cardiaca, anche quando presente una terapia medica ottimale. Ristabilire un corretto intervallo atrioventricolare e
un’attivazione ventricolare più fisiologica è quanto si prefigge la terapia di resincronizzazione, grazie a una nuova
modalità di stimolazione che è la biventricolare, con gli elettrocateteri posizionati in ventricolo destro e in ventricolo sinistro.
Com’è fatto e come si impianta un PMK
Il pacemaker consta fondamentalmente di due componenti: il generatore di impulsi o stimolatore, e
l’elettrocatetere o gli elettrocateteri.
Il generatore, nel quale è anche alloggiata la batteria che gli fornisce l’energia, è la vera “mente” di
tutto il sistema: nei suoi circuiti elettronici sono codificati tutti i parametri di funzionamento del pacemaker, sia per quel
che concerne la funzione di “sensing”, cioè la “cattura” e l’interpretazione dei segnali
di attività elettrica spontanea del cuore, sia per la funzione di “pacing”, cioè la stimolazione vera e propria.
Questi parametri vengono programmati una prima volta all’impianto, e poi ai successivi controlli verranno
confermati o modificati al fine di garantire sempre un ottimale funzionamento del pacemaker.
Gli elettrocateteri vanno dal generatore alla superficie interna del muscolo cardiaco (endocardio), pertanto collegano
elettricamente il generatore al cuore, e sono il “braccio” del sistema: attraverso questi il pacemaker può sia
ricevere informazioni dal cuore circa la sua attività elettrica spontanea (“sensing”), che erogare energia al
cuore stesso, secondo le modalità di stimolazione stabilite dalla programmazione del pacemaker (“pacing”).
L’impianto del pacemaker viene effettuato mediante un intervento chirurgico in anestesia locale, con un accesso
venoso (di solito attraverso la vena succlavia o cefalica) attraverso cui si portano gli elettrocateteri all’interno del
cuore; l’altro versante degli elettrocateteri va invece connesso al generatore, il quale viene alloggiato in
un’apposita tasca sottocutanea realizzata quasi sempre nella regione sottoclavicolare destra o sinistra.
Questo intervento richiede una copertura antibiotica sia precedente che successiva all’impianto stesso, la quale
però non prolunga i tempi di degenza (solitamente 2-3 giorni) in quanto è somministrata per via orale e quindi facile per il
paziente da seguire anche al proprio domicilio.
Eseguito l’impianto, ancora in sala operatoria, si procede alla programmazione dei parametri di sensing e pacing
e alla verifica sia del corretto funzionamento del dispositivo secondo i parametri impostati, sia del fatto che tali parametri
siano davvero quelli più indicati per il trattamento del disturbo di conduzione del paziente.
Alla dimissione, al paziente viene consegnata la Tessera Europea del Portatore di Pacemaker dove sono riportati, oltre
ai dati anagrafici del paziente e al nome del centro in cui è stato eseguito l’impianto, anche marca e modello degli
elettrocateteri e del generatore impiantati, la modalità di stimolazione con cui il dispositivo è stato programmato, il
calendario dei controlli successivi all’impianto e i dati ricavati da questi controlli, comprese le eventuali modifiche
ai parametri inizialmente impostati; in pratica, è una sorta di carta d’identità del dispositivo impiantato, che
permette al paziente di essere seguito al meglio anche al di fuori del centro in cui s’è eseguito l’impianto.
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La sostituzione della batteria del generatore prevederà un altro intervento esclusivamente sulla tasca, senza andare a
estrarre gli elettrocateteri dal cuore, a meno che nel frattempo non si sia resa necessaria anche una loro sostituzione
(desumibile dall’alterazione di alcuni parametri evidente ai controlli post-dimissione).
Modalità di stimolazione erogabili dal PMK
Le modalità con cui il pacemaker può stimolare il cuore sono fondamentalmente due: la stimolazione monocamerale e
quella bicamerale.
Il pacemaker monocamerale è programmato per effettuare sensing e pacing solo in una camera cardiaca, che sarà
l’atrio o il ventricolo destro in base alla condizione patologica esistente. Se il problema è a livello della genesi del
segnale e non nel sistema di conduzione, allora l’elettrocatetere andrà posizionato in atrio destro: il pacemaker
“sentirà” l’attività senoatriale spontanea, che potrà essere al di sotto o al di sopra della “soglia di
cattura” che avremo programmato, e risponderà rispettivamente stimolando o inibendosi per lasciar esprimere
l’attività spontanea. Se il problema invece è a livello della conduzione atrioventricolare del segnale,
l’elettrocatetere andrà posizionato in ventricolo destro: “sentirà” l’attività elettrica del ventricolo in
risposta all’impulso partito dal nodo senoatriale, e a seconda se questa risposta avvenga con frequenza adeguata
o meno rispettivamente il pacemaker si inibirà o stimolerà.
Nella recentemente introdotta terapia di resincronizzazione cardiaca nei pazienti con scompenso, si adotta
un’ulteriore modalità di funzionamento del pacemaker, che è la stimolazione biventricolare: in essa gli
elettrocateteri sono posizionati sia in ventricolo destro che in quello sinistro, e servono a stimolarli in modo sincrono.
Qualora non sia presente fibrillazione atriale, l’atrio destro può guidare la stimolazione biventricolare, realizzando in
tal modo un pacemaker bicamerale e biventricolare; se invece c’è fibrillazione atriale, il pacemaker sarà
monocamerale e biventricolare.
La modalità di funzionamento con cui viene programmato un pacemaker è codificata a livello internazionale mediante un
codice a 5 lettere: nella prima posizione c’è la camera stimolata (A per atrio, V per ventricolo, D per entrambi),
nella seconda la camera sentita, nella terza la risposta al rilevamento (I per inibizione, D per inibizione+stimolazione, T
per “attività triggerata”, cioè sincronizzata sull’attività spontanea), in quarta posizione e in quinta
posizione le “funzioni speciali”, come la risposta frequenza guidata o le funzioni antitachiaritmiche (tipiche
dei defibrillatori).
Il follow up (seguire nel tempo) del paziente portatore di PMK
Il follow up consiste essenzialmente in periodici controlli del dispositivo, da effettuarsi ambulatoriamente mediante
l’uso del programmatore, un computer in grado di comunicare con il generatore a distanza, mediante telemetria a
radiofrequenza.
Tali controlli sono da farsi secondo linee guida immediatamente prima della dimissione, a 6-8 settimane dalla stessa e
infine ogni 6 mesi nel periodo di mantenimento; possono comunque essere ravvicinati se c’è un cambiamento
patologico dei parametri di funzionamento del dispositivo, oppure all’avvicinarsi della fine della carica della
batteria.
Nel controllo periodico del dispositivo possiamo individuare grossomodo due momenti: l’interrogazione, che ci
serve a ricostruire quanto accaduto dal precedente controllo in termini di eventi, stato di consumo della batteria ed
eventuali modifiche delle soglie di cattura e di stimolazione, e di seguito a questa la porgrammazione, per confermare o
ripristinare quei parametri che permettono al pacemaker di funzionare al meglio per quel nostro paziente.
Quanto alle attività abituali del paziente, la presenza del pacemaker non le condiziona affatto, e data la breve degenza, a
meno di (rare) complicanze, il paziente può riprendere presto una vita assolutamente normale, salvo per la presenza di
qualche precauzione. Anzitutto, nei primi tempi dopo l’impianto la spalla corrispondente alla tasca sottocutanea
va mossa con cautela e senza mai sollevare il braccio oltre il piano della spalla stessa: questo per evitare dislocazione
degli elettrocateteri ma anche decubito della tasca (quando questa non cicatrizza bene e il dispositivo, muovendosi al
suo interno, crea infiammazione con secrezione e possibile sovrainfezione). Essendo poi portatore di un dispositivo
elettronico, al fine di salvaguardarne il corretto funzionamento il paziente dovrà evitare l’esposizione a forti campi
elettromagnetici: no pertanto all’esecuzione di risonanza magnetica, alla sosta prolungata accanto ai dispositivi
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antitaccheggio dei supermercati o degli aeroporti o in prossimità di cabine dell’alta tensione, no al posizionamento
di telefoni cellulari a meno di 15 cm dalla tasca; se necessaria la radioterapia per motivi oncologici richiedere il
posizionamento di protezione piombata sulla sede dell’impianto.
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