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2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
TITOLO IX
DEI FATTI ILLECITI
2043. Risarcimento per fatto illecito.
Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che
ha commesso il fatto a risarcire il danno [7, 10, 129-bis, 844, 872 comma 2, 935, 939, 948, 949,
1337, 1440, 2600, 2675, 2947]1 2.
1
L’art. 1382 del Codice Napoleonico del 1804, prevede che Tout fait quelconque de l’homme, qui cause à autrui un dommage, oblie celui per la faute duquel il est arrivé, a le rèparer (Qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri, obbliga colui per
colpa del quale è avvenuto, a risarcire il danno cagionato). Il § 823 comma 1 del BGB tedesco del 1896 così recita: Wer
vorsatzlich oder fahrlassig das Leben, den Korper, die Gesundheit, die Freiheit, das Eigentum oder ein sonstiges Recht eines
anderen widerrechtlich verletzt, ist dem anderen zum Ersatz des daraus entstelhenden Schadens verpflichtet » (Chi lede con
dolo o colpa vita, integrità fisica, salute, libertà, proprietà o altro diritto della vittima è tenuto al risarcimento del danno).
2
Si segnalano in questa sede:
- art. 300 (Danno ambientale) del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale). V. anche, in materia, il
pregresso disposto dell’art. 18, L. 8 luglio 1986, n. 349;
- sulla responsabilità civile della pubblica amministrazione art. 7, comma 3, della L. 6 dicembre 1971, n. 1034 come
modificato dall’art. 7 della L. n. 205/2000: secondo cui: «Il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in
forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Restano riservate all’autorità giudiziaria ordinaria le questioni
pregiudiziali concernenti lo stato e la capacità dei privati individui, salvo che si tratti della capacità di stare in giudizio, e la
risoluzione dell’incidente di falso»: V. anche, per la responsabilità nelle materie di giurisdizione esclusiva del G.A. art. 35,
D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni
pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo
11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59;
- sulla responsabilità del pubblico dipendente v. art. 28 Cost.; artt. 18-24; 26-30, D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, Testo unico
delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato; L. 31 dicembre 1962, n. 1833, Modificazioni ed
integrazioni alla disciplina della responsabilità patrimoniale dei dipendenti dello Stato, adibiti alla conduzione di autoveicoli o
altri mezzi meccanici e semplificazione delle procedure di liquidazione dei danni; art. 61, L. 11 luglio 1980, n. 312, Nuovo
assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato; art. 1, L. 14 gennaio 1994, n. 20, Disposizioni in
materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti;
- sulla responsabilità per danni nell”esercizio delle funzioni giudiziarie L. 13 aprile 1988, n. 117, Risarcimento dei danni
cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati e L. 24 marzo 2001, n. 89, Previsione di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile;
- in tema di responsabilità per danno da prodotto difettoso v. art. 114, D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del
consumo);
- in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile v. gli artt. 170-172, D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209
(Codice delle assicurazioni);
- per danni da violazione delle norme in materia di tutela dai dati personali v. art. 15, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196
(Codice privacy);
- in materia di proprietà industriale v. art. 125, Codice ella proprietà industriale di cui al D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30;
- in materia di danno da atti o comportamenti o condotte discriminatorie a causa della razza o dell’origine etnica delle
persone v. art. 4, comma 4, D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, Attuazione della direttiva 2000/43/CE per la parità di trattamento tra
le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. V. anche D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198, Codice delle pari
opportunità tra uomo e donna;
- in materia antitrust art. 33, comma 2, L. 10 ottobre 1990,n. 287.
Per il danno subito dalle vittime di richieste estorsive e di usura v. L. 23 febbraio 1999, n. 44, Disposizioni concernenti il
Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura. V. anche L. 25 febbraio 1992, n. 210 (Danno da emotrasfusioni); art. 13, D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 (Danno biologico in materia di infortuni e malattie professionali); art. 36, D.Lgs.
8 luglio 2003, n. 224 e art. 5, D.L. 22 novembre 2004, n. 279, convertito in L. 28 gennaio 2005, n. 5 sul risarcimento del danno alla
salute e all’ambiente derivante dall’emissione di organismi geneticamente modificati (OGM); in materia di pubblica sicurezza
art. 7, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza nonché D.P.R. 18 aprile 1994,
n. 388, Regolamento recante semplificazione del procedimento di risarcimento dei danni provocati a persone e a cose a seguito
di operazioni di polizia giudiziaria; art. 5, L. 25 gennaio 1983, n. 23, Norme di attuazione della convenzione sulla responsabilità
internazionale per i danni causati da oggetti spaziali, firmata a Londra, Mosca e Washington il 29 marzo 1972.
GIURISPRUDENZA
1. Concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale; 2. Nesso eziologico; 2.1. Rapporti con la causalità
penale; 3. Comportamento del danneggiato; 4. Obbligo giuridico di impedire l’evento e responsabilità risarcitoria; 4.1.
Elemento soggettivo; 5. Natura dell’obbligazione risarcitoria: Debito di valore; 6. Danno ingiusto; 6.1. Lesione dell’affidamento; 6.2. Lesione del diritto di credito; 6.3. Lesione dell’interesse legittimo; 6.4. Danno ingiusto e perdita di chan-
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ce; 6.5. Danno ingiusto e diritti reali; 7. Prescrizione; 8. Legittimazione attiva; 9. Rapporti tra giudizio penale e giudizio
civile di risarcimento dei danni; 10. Ipotesi applicative; 10.1. Responsabilità dei magistrate; 10.2. Responsabilità sanitaria; 10.2.1. Responsabilità sanitaria. Profili probatori; 10.3. Attività bancaria; 10.4. Denuncia di reato perseguibile d’ufficio; 10.5. Seduzione con promessa di matrimonio; 10.6. Risarcimento del danno per mancata attuazione di direttiva
comunitaria; 10.7. Attività sportive; 10.8. Danno da fumo; 10.9. Danno da emotrasfusioni; 10.9.1. Danno da emotrasfusione. Il giudice competente a risarcire il danno; 10.10. Intesa anticoncorrenziale; 10.11. Danno all’ambiente; 10.12.
Danno da atti o comportamenti processuale; 10.13. Danno biologico, esistenziale e morale; 10.14. Danno da vizi della
cosa; 10.15. Casistica; 11. Responsabilità della P.A.; 11.1. Natura giuridica e presupposti; 11.2. La pregiudiziale amministrativa; 11.3. Danno da omissione o da ritardo nell’adozione di un provvedimento amministrativo; 11.4. Occupazione
appropriativa; 11.5. Occupazione acquisitive; 11.6. Problemi di riparto di giurisdizione; 11.7. Risarcimento ed ottemperanza; 11.8. Prescrizione; 11.9. Responsabilità della P.A. per gli atti compiuti dai suoi dipendenti; 11.10. Diffusione di
informazioni inesatte da parte dalla P.A.; 12. Responsabilità delle autorità amministrative indipendenti.
1. Concorso tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
La responsabilità contrattuale può concorrere con quella extracontrattuale qualora il fatto dannoso sia imputabile all’azione o all’omissione di più persone tutte obbligate al risarcimento del danno
correlato al loro comportamento. Cass. 22 marzo 2007, n. 6945.
L’azione contrattuale e l’azione extracontrattuale proposte dal pubblico dipendente nei confronti
dell’Amministrazione al fine di ottenere il risarcimento dei danni per la lesione della propria integrità
fisica sono compatibili reciprocamente e proponibili alternativamente o cumulativamente con riferimento alla medesima fattispecie. Cass., Sez. Un., 11 luglio 2001, n. 9385.
Nel sistema della tutela risarcitoria di diritto civile, il nesso causale del danno con l’attività svolta dal
lavoratore subordinato consente di ipotizzare, per un fatto che violi contemporaneamente sia diritti che
spettano alla persona in base al precetto generale del neminem laedere, sia diritti che scaturiscono dal
vincolo giuridico contrattuale, il concorso dell’azione extracontrattuale di responsabilità ai sensi dell’art.
2043 c.c. e di quella contrattuale basata sulla violazione degli obblighi di sicurezza posti a carico del
datore di lavoro dall’art. 2087 c.c. Cass. 20 giugno 2001, n. 8381; conforme Cass. 8 gennaio 1999, n. 108.
In tema d’azione per il risarcimento del danno subito in relazione ad un rapporto di lavoro subordinato, deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non emerga
una precisa scelta del danneggiato in favore di quella contrattuale. Per la proposizione dell’azione di
responsabilità contrattuale, occorre, poi, che la domanda sia espressamente fondata sull’inosservanza da
parte del datore di lavoro di una precisa obbligazione contrattuale, ossia occorre una qualificazione espressa
della domanda e non la semplice prospettazione dell’inosservanza del precetto dell’art. 2087 c.c. o delle
altre disposizioni legislative strumentali alla protezione delle condizioni di lavoro dipendente. Da quanto
premesso deriva che, nel caso in cui la domanda sia ambigua e non emerga da essa la menzionata scelta
del danneggiato, la domanda stessa deve essere interpretata, in base al petitum ed alla causa petendi,
come una causa di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. Cass., Sez. Un., 12 marzo 2001, n. 99.
L’inadempimento di un contratto di fornitura di merci (nella specie, per vizi della merce venduta)
può far sorgere in capo al venditore non solo la comune responsabilità contrattuale, ma anche la
responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c.: e ciò tutte le volte in cui l’inadempimento del contratto di
vendita abbia causato una lesione al buon nome dell’azienda del compratore, od al suo avviamento
commerciale. Cass. 5 febbraio 1998, n. 1158.
La responsabilità contrattuale può concorrere con quella extracontrattuale allorquando il fatto dannoso sia imputabile all’azione o all’omissione di più persone tutte obbligate al risarcimento del danno
correlato al loro comportamento; sicché, in ipotesi di vendita a terzi di un bene immobile, in violazione
dell’obbligo, contrattualmente assunto dal venditore nei confronti del precedente alienante prelazionario,
di farne previamente offerta a quest’ultimo, si determina la responsabilità contrattuale del secondo alienante nei confronti del primo (con connessa presunzione di colpa ex art. 1218 c.c.), nonché la responsabilità extracontrattuale del successivo acquirente (terzo) rimasto estraneo al precedente rapporto contrattuale. Quest’ultima responsabilità può essere configurata ove trovi fondamento in una dolosa preordinazione volta a frodare il primo venditore prelazionario o, almeno, nella consapevolezza dell’esistenza della
precedente vendita e del diritto di prelazione e, quindi, nella consapevole partecipazione all’inadempimento dell’alienante per inosservanza della prelazione. Cass. 9 gennaio 1997, n. 99.
È ipotizzabile il concorso tra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale non
solo quando lo stesso fatto è imputabile a più autori, a diversi titoli, ma anche quando in capo ad una
stessa persona danneggiata sussiste una molteplicità di situazioni protette, in relazione sia ad un
precedente obbligo relativo, sia a divieti generali ed assoluti. Tali sono, per loro natura, quelli che
tutelano gli interessi considerati dai delitti previsti dal codice penale, rispetto ai quali la tutela civilistica
assegnata alle vittime costituisce il riflesso patrimoniale della violazione di un divieto più ampio, che
prescinde dall’esistenza di obblighi di origine contrattuale ed attiene, invece, al diritto assoluto del soggetto di non subire pregiudizio ai diritti personalissimi, o quello di proprietà, di cui è titolare. Cass. 6
marzo 1995, n. 2577.
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2. Nesso eziologico.
Non è risarcibile il danno costituito dalla lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore quando esso
è causato soltanto dall’illegittimità del licenziamento per l’assenza della relativa giustificazione (giusta
causa, giustificato motivo o violazione di norme legali o contrattuali), atteso che la risarcibilità di tale
danno si configura ove sia conseguenza immediata e diretta dell’illegittimo comportamento datoriale
con cui il licenziamento è stato adottato: vale a dire un licenziamento ingiurioso, pretestuoso oppure
persecutorio. Cass. 5 marzo 2008, n. 5927.
Va riconosciuto il danno morale al legittimo titolare di un alloggio popolare che non è ancora entrato
in possesso dell’appartamento perché illegalmente occupato da altri; il Comune, infatti, deve farsi carico
del risarcimento dei danni non solo materiali ma anche non patrimoniali, se l’attesa dell’assegnatario
per prendere possesso dell’immobile si è dilata per l’inerzia dell’ente locale. In caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti della P.A., al fine di stabilire se la fattispecie concreta integra
un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. il giudice deve procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) stabilire se
l’accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse
rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato nelle forme del diritto
soggettivo, dell’interesse legittimo o dell’interesse di altro tipo, pur se non immediato oggetto di
tutela in quanto dall’ordinamento preso in considerazione a fini diversi da quelli risarcitori; c) accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile
a una condotta della P.A.; d) stabilire se l’evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa della P.A., non
trovando al riguardo applicazione il principio secondo cui la colpa della struttura pubblica dovrebbe
considerarsi sussistente “in re ipsa” in caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo.
Cass. 22 febbraio 2008, n. 4539.
Agli effetti del risarcimento del danno da illecito permanente (quale deve ritenersi l’abusiva captazione di acque pubbliche), la permanenza va accertata non già in riferimento al danno, bensì al rapporto
eziologico tra il comportamento “contra ius” dell’agente, qualificato dal dolo o dalla colpa, e il danno.
Pertanto, la successione di un soggetto ad un altro in un rapporto, comportando il termine di una condotta e l’inizio di un’altra, determina la cessazione della permanenza e l’inizio del decorso del termine di
prescrizione del diritto al risarcimento nei suoi confronti, in quanto ha fine la condotta volontaria del
soggetto che sia in grado di far cessare lo stato continuativo dannoso da lui posto in essere. Ne deriva
che la responsabilità della cassa per il mezzogiorno, ente finanziatore e costruttore di impianto di acquedotto che capta acque pubbliche in assenza di concessione di derivazione, nonché iniziale fruitore della
derivazione, cessa al momento del trasferimento operato per legge a favore della regione dall’art. 148
D.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 (testo unico delle leggi sugli interventi nel mezzogiorno), per cui è da tale
momento che decorre la prescrizione del diritto risarcitorio. Cass., Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 2718.
In tema di tutela delle malattie professionali, in caso di agente patogeno tabellato suscettibile di
causare una specifica malattia su un individuato organo bersaglio, e non altre della stessa famiglia, la
presunzione legale di origine professionale riguarda solo le patologie delle quali la scienza medica abbia
accertato in generale il nesso causale con l’agente patogeno tabellato. Tale nesso può risiedere anche in
un giudizio di ragionevole probabilità, desunta dagli studi scientifici e anche da dati epidemiologici.
Cass. 5 settembre 2006, n. 19047.
I criteri di accertamento del nesso causale adottati dalla sentenza “Franzese” delle sezioni unite
penali - alto grado di probabilità logica e di credibilità razionale - trovano applicazione nel solo diritto
penale e nelle fattispecie omissive. Nelle ipotesi di responsabilità civile, soprattutto se si versa in casi di
illecito (anche) commissivo, la verifica probabilistica può arrestarsi su soglie meno elevate di accertamento controfattuale. Cass. 19 maggio 2006, n. 11755.
L’accertamento del nesso di causalità tra comportamento ed evento dannoso - la cui valutazione in
prima istanza deve prescindere da ogni valutazione di prevedibilità e quindi da ogni riferimento al profilo
soggettivo della colpa - deve essere compiuto secondo criteri: a) di probabilità scientifica, se esaustivi,
b) di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura. Nel caso dell’illecito omissivo detto vaglio deve avvenire secondo un percorso “speculare”, quanto al
profilo probabilistico, rispetto a quello commissivo, dovendosi accertare il collegamento evento-comportamento omissivo in termini di probabilità inversa. Solo una volta accertato il nesso di causalità - che
deve formare oggetto di prova da parte del danneggiato - è possibile passare alla valutazione dell’elemento soggettivo dell’illecito e cioè della sussistenza o meno della colpa dell’agente, la quale potrebbe
essere esclusa secondo i criteri di prevedibilità ed evitabilità del danno. Cass. 18 aprile 2005, n. 7997.
In presenza di fatti imputabili a più persone, coevi o succedutisi nel tempo, deve essere riconosciuta
a tutti un’efficacia causativa del danno, ove abbiano determinato una situazione tale che, senza l’uno o
l’altro di essi, l’evento non si sarebbe verificato, mentre deve attribuirsi il rango di causa efficiente esclusiva ad uno solo dei fatti imputabili quando lo stesso, inserendosi quale causa sopravvenuta nella serie
causale, interrompa il nesso eziologico tra l’evento dannoso e gli altri fatti, ovvero quando il medesimo,
esaurendo sin dall’origine e per forza propria la serie causale, riveli l’inesistenza, negli altri fatti, del valore
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di concausa e li releghi al livello di occasioni estranee. Con riguardo all’illecito civile, si ha interruzione
del nesso di causalità per effetto del comportamento sopravvenuto di altro soggetto (che può identificarsi anche con lo stesso danneggiato) quando il fatto di costui si ponga, ai sensi dell’art. 41, comma
secondo, c.p., come unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale
e rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell’autore dell’illecito, ma non quando, essendo ancora in atto ed in fase di sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito
dell’agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di
altro soggetto (ed eventualmente dello stesso danneggiato) che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, di neutralizzare le conseguenze di quell’illecito. In tal caso lo stesso illecito resta
unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall’adozione di misure
difensive o reattive a quella situazione (sempreché rispetto ad essa coerenti ed adeguate). Cass. 12 settembre 2005, n. 18094.
L’istantaneità o la permanenza del fatto illecito extracontrattuale deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento “contra ius” dell’agente, qualificato dal dolo o dalla colpa. Mentre nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è
mero elemento genetico dell’evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l’esistenza di
questo si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nel fatto illecito
permanente il comportamento “contra ius” oltre a produrre l’evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell’uno e dell’altro. Cass. 20
dicembre 2000, n. 16009.
Ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio subito dal dipendente, qualora l’infortunio si verifichi in occasione della utilizzazione di un macchinario cui è addetto il
lavoratore, grava su quest’ultimo l’onere di provare la sussistenza del rapporto di lavoro, l’infortunio ed il
nesso causale tra l’utilizzazione del macchinario e l’evento dannoso, e grava sul datore di lavoro l’onere di
dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta nonché di
aver adottato, ex art. 2087 c.c., tutte le misure che - in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto
conto dello stato della tecnica - siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, vigilando altresì
sulla loro osservanza, mentre il comportamento del lavoratore è idoneo ad escludere il rapporto causale
tra inadempimento del datore di lavoro ed evento esclusivamente quando esso sia autosufficiente nella
determinazione dell’evento, cioè se abbia il carattere dell’abnormità per essere assolutamente anomalo
ed imprevedibile. Cass., 28 luglio 2004, n. 14270.
Il nesso causale tra la condotta omissiva del medico e la morte del paziente può ritenersi sussistente quando ricorrano due requisiti: a) la ragionevole probabilità (da valutare con riferimento a
tutte le circostanze del caso concreto, e non soltanto con riferimento alla statistica clinica) che, se il
medico avesse tenuto la condotta omessa, il paziente sarebbe sopravvissuto; b) la mancanza di
prova della preesistenza, concomitanza o sopravvenienza di altri fattori determinanti l’exitus. Cass. 4
marzo 2004, n. 4400.
In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui
agli artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà
fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di
danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta
sollevato per intero da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente
dotato in concreto di efficienza causale; qualora invece quelle condizioni non possano dar luogo, senza
l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di
tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, atteso che in tal caso non può operarsi una
riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del
grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile. Cass. 9 aprile 2003, n. 5539.
In tema di responsabilità civile, qualora l’evento dannoso si ricolleghi a più azioni o omissioni il
problema del concorso delle cause trova soluzione nell’art. 41, c.p. - norma di carattere generale,
applicabile nei giudizi civili di responsabilità - in virtù del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’omissione del colpevole, non esclude il rapporto di
causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte, tranne che si accerti la
esclusiva efficienza causale di una di esse. In particolare, in riferimento al caso in cui una delle cause
consiste in una omissione, la positiva valutazione sull’esistenza del nesso causale tra omissione ed
evento presuppone che si accerti che l’azione omessa, se fosse stata compiuta, sarebbe stata idonea
ad impedire l’evento dannoso ovvero a ridurne le conseguenze, e non può esserne esclusa l’efficienza
soltanto perché sia incerto il suo grado di incidenza causale. Cass. 15 gennaio 2003, n. 48; conforme
Cass. 12 ottobre 2001, n. 12341.
Il giudice di merito, per stabilire se sussista il nesso di causalità materiale - richiesto dall’art. 2043 c.c.
in tema di responsabilità extracontrattuale - tra un’azione o un’omissione ed un evento deve applicare il
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principio della condicio sine qua non, temperato da quello della regolarità causale, sottesi agli artt. 40 e
41 c.p. Conseguentemente, quando l’evento dannoso o pericoloso è stato cagionato da una pluralità di
azioni o di omissioni, coeve o succedutesi nel tempo, tutte hanno uguale valore causale, senza distinzione tra cause mediate ed immediate, dirette ed indirette, precedenti e successive, dovendo a ciascuna
di esse riconoscersi un’efficienza causale del danno se nella concatenazione degli avvenimenti abbiano
determinato una situazione tale che l’evento, sebbene prodotto direttamente dalla causa avvenuta per
ultima, non si sarebbe verificato. Qualora invece la causa sopravvenuta sia da sola sufficiente a provocare l’evento perché autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, le cause preesistenti degradano al rango di mere occasioni perché quella successiva ha interrotto il legame causale tra
esse e l’evento. Cass. 22 ottobre 2003, n. 15789; conforme Cass. 27 maggio 1995, n. 5923, Cass. 10
settembre 1996, n. 8348.
In virtù del principio di regolarità causale, tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un determinato evento dannoso non si sarebbe verificato debbono ritenersi causa del medesimo, salvo che non si
accerti, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, c.p., applicabile anche nel giudizio civile, che la causa
prossima sia stata da sola idonea a produrla; accertato il concorso delle cause nella produzione dell’evento, la graduazione delle responsabilità ai fini del risarcimento dei danni deve essere effettuata
avendo esclusivamente riguardo al loro grado di incidenza eziologica ed alla gravità della colpa di
ciascuno dei concorrenti. Cass. 15 gennaio 2003, n. 484; conforme Cass. 11 agosto 2000, n. 10719.
In tema di risarcibilità dei danni conseguiti da fatto illecito (o da inadempimento, nell’ipotesi di
responsabilità contrattuale) il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della
c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell’obbligazione di risarcimento, il
rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre
condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, sempre che, nel momento in cui
si produce l’evento causante, le conseguenze dannose di esso non appaiono del tutto inverosimili
(combinazione della teoria della condicio sine qua non con la teoria della causalità adeguata). Cass. 9
maggio 2000, n. 5913.
In materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli
artt. 40 e 41 c.p., qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su
cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato,
per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in
concorso di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto
umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per intero di tutte le
conseguenze da esso scaturenti secondo normalità; in tal caso, infatti, non può operarsi una riduzione
proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di
incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti
umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.
Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335.
In tema di condotta dannosa, il principio dell’equivalenza delle cause, in base al quale se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni, di esso rispondono gli autori di ciascuna delle azioni
stesse, dovendosi riconoscere ad ognuna di esse uguale efficacia causativa, senza possibilità di distinguere tra causa prossima e causa remota, causa diretta e causa indiretta, trova il suo necessario temperamento nell’altro principio della causalità efficiente o causalità giuridica, desumibile dal comma 2
dell’art. 41 c.p., in base al quale se un evento è riferibile a più azioni colpose, ma tra esse una sola, per la
sua efficacia causale, risulta tale da rendere giuridicamente irrilevante le altre cause preesistenti, dell’evento dannoso risponde solo l’autore dell’azione sopravvenuta, alla quale deve riconoscersi esclusiva
rilevanza giuridica rispetto alla produzione dell’evento. Cass. 12 ottobre 2001, n. 12431.
Un evento dannoso è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il
primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della “conditio sine qua
non”): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle
soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili
(cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria
causale, è anche una teoria dell’imputazione del danno). Più in particolare l’incidenza eziologia delle
“cause antecedenti” va valutata, per un verso, nel quadro dei presupposti condizionanti (per cui deve
trattarsi di “antecedente necessario” dell’evento dannoso, a questo legato da un rapporto di causazione
normale e non straordinario) e, per altro verso, in coordinazione con il principio della “causalità efficiente”, che contemperando la regola della “equivalenza causale”, espunge appunto le cause antecedenti
dalla serie causale (facendole scadere al rango di mere occasioni) in presenza di un fatto sopravvenuto
“di per sè idoneo a determinare il determinarsi dell’evento anche senza quegli antecedenti”. Cass. 10
maggio 2000, n. 5962.
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
Del bene della vita l’elemento tempo costituisce una componente essenziale, con la conseguenza
che ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, influenzando un fattore patogenetico già esistente e costituente la causa clinica del decesso, non può considerarsi mera occasione,
ma concausa, rompendo quell’equilibrio precario nella salute del soggetto, che, per quanto con prognosi infausta per il futuro, si era generato. In siffatte fattispecie, quindi, il nesso di causalità va esaminato, secondo i principi della regolarità causale, non solo fra fatto ed evento letale, ma anche tra fatto
e accelerazione dell’evento morte. Perché possa escludersi il nesso causale, e possa parlarsi di mere
occasioni, e cioè di fatto coincidente ma privo di qualunque forza causativa, occorre, quanto meno nel
caso di lesione del bene “vita” (ma il discorso vale certamente anche per il bene “salute”), che esso non
solo non abbia causato l’evento di danno, ma non l’abbia neppure minimamente accelerato. Cass. 10
maggio 2000, n. 5962.
In tema di responsabilità aquiliana, il rapporto di causalità al quale deve aversi riguardo, enunciato
dall’art. 40 c.p., è quello esistente tra condotta dell’agente ed evento e non tra circostanze (cause) simultanee e/o preesistenti ed il minore o maggior danno. Pertanto, se il rapporto di causalità esiste, esso deve
sussistere in relazione all’evento (inteso nella sua accezione naturalistica, comprensiva del danno), non
potendosi al suo interno operare distinzioni tra evento e danno. (Sulla base di questo principio la S.C. - in
relazione ad uno scontro verificatosi tra un autoveicolo ed un motoveicolo, il quale ultimo aveva invaso la
carreggiata di pertinenza del primo - ha cassato la sentenza di merito che pur, affermando che lo scontro
si sarebbe ugualmente verificato se l’autovettura avesse rispettato la velocità prescritta in quel luogo,
aveva poi riconosciuto il concorso di colpa nella misura di 2/3 a carico del conducente del motoveicolo,
per avere invaso l’opposta corsia, e di 1/3 a carico del conducente dell’autoveicolo, per avere tenuto una
velocità doppia rispetto a quella consentita; ciò sul presupposto che la maggiore velocità tenuta dall’autoveicolo aveva prodotto più gravi lesioni all’altro). Cass. 15 novembre 1999, n. 12617.
Per stabilire la sussistenza del nesso causale tra fatto dannoso ed evento di danno il giudice non può
fare ricorso nè alla causalità naturalistica intesa in senso stretto (il che porterebbe a ritenere “causa” di
un evento tutta la sterminata serie di precedenti senza i quali il fatto non si sarebbe potuto verificare); nè
alla causalità statistica (impossibile da applicare per la mancanza di rivelazioni oggettive); nè alla propria intuizione, anche se fondata sulla logica. Per accertare il suddetto nesso eziologico il giudice dovrà
invece valutare tutti gli elementi della fattispecie, al fine di stabilire se il fatto era obiettivamente e
concretamente (cioè con riferimento a quel singolo caso contingente) idoneo a produrre l’evento. Cass.
11 settembre 1998, n. 9037.
Il caso fortuito - che esclude la responsabilità del soggetto coinvolto in un fatto dannoso - consiste in
un elemento imprevisto e imprevedibile che, inserendosi nel processo causale al di fuori di ogni possibile
controllo umano, rende inevitabile il verificarsi dell’evento, ponendosi come l’unica causa efficiente di
esso. Il relativo accertamento, con la ricostruzione delle modalità di svolgimento del meccanismo causale, costituisce una valutazione di fatto, incensurabile in Cassazione se sorretto da congrua e logica motivazione. Cass. 13 aprile 1989, n. 1774.
In materia di responsabilità aquiliana, il rigore del principio dell’equivalenza delle cause posto dall’art.
40 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve
riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causativa, trova il suo necessario temperamento nel principio
della causalità sufficiente, o della causalità giuridica, desumibile dal comma 2 dell’art. 41 dello stesso
codice, in base al quale, se una di tali azioni - che può consistere anche nel comportamento della vittima
- risulti, per la sua sufficienza, tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, risponde dell’evento
dannoso soltanto l’autore della condotta sopravvenuta, alla quale deve riconoscersi esclusiva rilevanza
giuridica rispetto alla produzione dell’evento. L’accertamento del giudice del merito circa la rilevanza
causale - esclusiva o concorrente (art. 1227 e 2056 c.c.) - della condotta del danneggiato si risolve in un
apprezzamento di fatto, che, se adeguatamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità. Cass. 7
aprile 1988, n. 2737; conforme Cass. 2 ottobre 1998, n. 9794.
2.1. Rapporti con la causalità penale.
Esistono due momenti diversi del giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la
responsabilità (per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti
analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. Cass., Sez. Un.,
11 gennaio 2008, n. 581.
Ai fini della causalità materiale nell’ambito della responsabilità aquiliana, in applicazione dei principi
penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p., un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando
le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine
qua non). Il rigore del principio dell’equivalenza delle cause, posto dall’art. 41 c.p., in base al quale, se la
produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di
esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente, desumibile dal
secondo comma dell’art. 41 c.p., in base al quale l’evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
all’autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre
cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto. Nel
contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante,
dovendosi, all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento
in cui si produce l’evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto
non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed.
regolarità causale. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581.
I principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati
dagli artt. 40 e 41 c.p., e dalla “regolarità causale”, in assenza di altre norme nell’ordinamento in tema
di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.
L’applicazione dei principi generali di cui agli artt. 40 e 41 c.p., temperati dalla “regolarità causale”, ai
fini della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile. Il diverso regime probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale,
che è successiva al verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. È vero che la
responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella penale intorno alla figura
dell’autore del reato, ma come è stato acutamente rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se
non si vuole trasformare la responsabilità civile in un’assicurazione contro i danni, peraltro in assenza di
premio. L’atipicità dell’illecito attiene all’evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e
l’elemento che se ne assume generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione. Cass., Sez.
Un., 11 gennaio 2008, n. 581.
Ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria, in quanto
nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, mentre nel secondo vige la regola della
preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, stante la diversità dei valori in gioco nel
processo penale tra accusa e difesa, e l’equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le due parti
contendenti. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 581.
Contra: L’accertamento del nesso eziologico in sede civile risponde ad esigenze diverse da quella
del diritto penale per cui nulla di realmente definito parrebbe emergere dalle fonti legislative, penali e
civili, sul tema della causalità in sè considerata: l’art. 40 c.p., rubricato “rapporto di causalità”, stabilisce
che “nessuno può essere punito. se l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza della
sua azione od omissione”, fissando il solo principio di equivalenza fra il non fare ed il cagionare, e discorrendo genericamente di “conseguenze” al momento di individuare caratteri e peculiarità del nesso tra
condotta ed evento; il successivo art. 41 c.p. si occupa del concorso di cause, per stabilire poi, in modo
apparentemente superfluo, il principio “dell’interruzione del nesso causale” conseguente all’intervento di
quella causa “sufficiente da sola a determinare l’evento”. Gli artt. 1227 e 2043 c.c. strutturano, rispettivamente, il rapporto tra fatto - doloso o colposo - ed evento - dannoso - in termini di “cagionare”, senza
ulteriori specificazioni, mentre l’art. 1223 c.c. si riferisce, come sovente rilevato in dottrina e da questa
stessa giurisprudenza, al nesso di condizionamento che lega non la condotta all’evento, ma l’evento/
inadempimento ai danni/conseguenza, dei quali predica, a fini risarcitori, il necessario carattere di “conseguenza immediata e diretta” dell’inadempimento o del ritardo. Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619.
Nel sistema della responsabilità civile, la causalità assolve alla duplice finalità di fungere da criterio
di imputazione del fatto illecito e di regola operativa per il successivo accertamento dell’entità delle conseguenze pregiudizievoli del fatto che si traducono in danno risarcibile. Essa va pertanto scomposta
(secondo l’opinione largamente prevalente) nelle due fasi corrispondenti al giudizio sull’illecito (nesso
condotta/evento) e al giudizio sul danno da risarcire (nesso evento/danno). Sul tema del nesso causale, che, in sede civile, esso è destinato inevitabilmente a risolversi entro i (più pragmatici) confini di una
dimensione “storica”, o, se si vuole, di politica del diritto, che, come si è da più parti osservato, di volta in
volta individuerà i termini dell’astratta riconducibilità delle conseguenze dannose delle proprie azioni in
capo all’agente, secondo un principio guida che potrebbe essere formulato, all’incirca, in termini di rispondenza, da parte dell’autore del fatto illecito, delle conseguenze che “normalmente” discendono dal
suo atto, a meno che non sia intervenuto un nuovo fatto rispetto al quale egli non ha il dovere o la
possibilità di agire (la cd. teoria della regolarità causale e del novus actus interveniens). Cass. 16 ottobre
2007, n. 21619
Non è illegittimo immaginare, allora, una “scala discendente”, così strutturata: 1) in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile “ordinaria”, attestata sul
versante della probabilità relativa (o “variabile”), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo,
dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale: senza trasformare il
processo civile (e la verifica processuale in ordine all’esistenza del nesso di causa) in una questione di
verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva,
obbedisce alla logica del “più probabile che non”; 2) in una diversa dimensione, sempre nell’orbita del
sottosistema civilistico, la causalità da perdita di chance, attestata tout court sul versante della mera
possibilità di conseguimento di un diverso risultato terapeutico, da intendersi, rettamente, non come
mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di con-
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
seguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come “bene”, come diritto attuale,
autonomo e diverso rispetto a quello alla salute. Quasi certezza (ovvero altro grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all’indagine
sul nesso causale nei vari rami dell’ordinamento. Cass. 16 ottobre 2007, n. 21619.
3. Comportamento del danneggiato.
In tema di responsabilità civile, il comportamento irregolare del danneggiato può considerarsi concausa dell’evento dannoso solo quando abbia svolto, rispetto a quest’ultimo, ruolo di antecedente
causale. Cass. 3 dicembre 2003, n. 18467.
In materia di responsabilità civile, per il disposto degli artt. 40 e 41 c.p., applicabili anche all’illecito
civile, il comportamento successivo del danneggiato esclude la responsabilità del danneggiante solamente ove costituisca causa unica ed esclusiva dell’evento dannoso, elidendo ogni rapporto causale
con il fatto precedente che rimane così degradato al rango di mera occasione dell’evento. Cass. 8 novembre 2002, n. 15704.
In tema di azione per il risarcimento del danno, stabilire se i danni lamentati siano stati tutti e solo
conseguenza della condotta altrui o non potessero essere evitati dal danneggiato, in tutto o in parte,
costituisce per il giudice esercizio del suo potere di decidere sulla domanda secondo diritto e non richiede un’eccezione del convenuto. Cass. 14 febbraio 2001, n. 2154.
Con riguardo all’illecito civile si ha interruzione del nesso di causalità per effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato quando il fatto di costui si ponga come unica ed esclusiva
causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza causale e da rendere giuridicamente irrilevante
il precedente comportamento dell’autore dell’illecito, ma non quando, essendo ancora in atto ed in
sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell’agente, nella situazione di
potenzialità dannosa da questi creata si inserisca un comportamento dello stesso soggetto danneggiato che sia preordinato proprio al fine di fronteggiare, e, se possibile, a neutralizzare le conseguenze
di quell’illecito, tal che lo stesso illecito resta in tal caso unico fatto generatore sia della situazione di
pericolo sia del danno derivante dalla adozione di misure difensive o reattive a quella situazione (sempreché rispetto ad essa coerenti ed adeguate). Cass. 8 luglio 1998, n. 6640; conforme Cass. 17 novembre
1997, n. 11386.
4. Obbligo giuridico di impedire l’evento e responsabilità risarcitoria.
Comitato organizzatore, direttore di gara e Compagnia assicurativa devono rispondere in solido dei
danni subiti dagli spettatori durante una gara di rally. È onere proprio ed esclusivo degli organizzatori
della corsa approntare le precauzioni indispensabili per evitare il concretizzarsi di un pericolo per gli
spettatori. La condotta colposa del pilota va, invece, esclusa perché secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità durante lo svolgimento di una gara in strada, temporaneamente chiusa
al pubblico transito, non trovano applicazione per i partecipanti alla corsa le ordinarie norme di comportamento prescritte ai conducenti di veicoli nella circolazione stradale. Cass. 6 maggio 2008, n. 11040.
In caso di furto consumato avvalendosi di impalcature e ponteggi, appare scorretto ravvisare, in
capo all’impresa, una responsabilità a norma dell’art. 2051 c.c. Viceversa, deve essere affermata la
responsabilità, ai sensi dell’art. 2043 c.c., dell’impresa che, per esercitare la propria attività, si avvale di
quei ponteggi, qualora, trascurando le più elementari norme di diligenza e perizia e la doverosa adozione
delle cautele idonee ad impedirne un uso anomalo (così violando il principio del “neminem laedere”)
abbia colposamente creato un agevole accesso ai ladri e posto in essere le condizioni del verificarsi del
danno. In ordine, poi, al tema del cd. illecito “omissivo” nella responsabilità extracontrattuale, è stato
ritenuto che una condotta di tipo omissivo può essere considerata causa di un evento solo quando
l’omittente abbia violato l’obbligo giuridico di impedire l’evento stesso, obbligo derivante dalla legge o
da specifici rapporti. Tuttavia, non è men vero che tale obbligo possa derivare anche da principi desumibili dall’ordinamento positivo, non espresso, quindi, in norme specifiche, con conseguente dovere di
agire e di comportamento attivo, la cui omissione, pertanto, comporti una causa di responsabilità per
omissione. Cass. 23 maggio 2006, n. 12111.
Con riguardo al danno derivante dal furto consumato da persona introdottasi in un appartamento
servendosi delle impalcature installate per lavori di riattazione dello stabile condominiale è configurabile
ai sensi dell’art. 2043 c.c. la responsabilità dell’imprenditore che si sia avvalso di tali impalcature per
l’espletamento dei lavori, ove siano state trascurate le ordinarie norme di diligenza e non siano state
adottate le cautele idonee ad impedire un uso anomalo delle suddette impalcature; è altresì configurabile
la responsabilità del condominio ex art. 2051 c.c., atteso l’obbligo di vigilanza e custodia gravante sul
soggetto che ha disposto il mantenimento della struttura. Cass. 6 ottobre 1997, n. 9707.
Contra:Il proprietario delle impalcature non può essere ritenuto civilmente corresponsabile del furto: non ex art. 2050 c.c., poiché le attività pericolose generano responsabilità specifica solo se il danno si
è prodotto durante il loro espletamento; non ex art. 2051 c.c., poiché le cose in custodia non danno luogo
a responsabilità quando i danni siano cagionati dall’attività illecita di terze persone; non ex art. 2043 c.c.,
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
poiché la responsabilità civile per omissione sorge solo se si sia contravvenuto ad uno specifico obbligo
di fare. È evidente che tali principi, validi per il proprietario delle impalcature, devono, a più forte ragione,
ritenersi applicabili anche al condominio. In base al principio della causalità materiale, quale delineato
dagli artt. 40 e 41 c.p., applicabile anche per accertare il nesso di causalità in tema di responsabilità
civile, la condotta, commissiva o omissiva, di un soggetto che, competente e giuridicamente obbligato
a neutralizzare le potenzialità dannose derivabili da una situazione di pericolo causata dall’illecito
altrui, invece per colpa, anche se grave, le aggrava non perciò diviene causa esclusiva ed autonoma
dell’evento finale perché l’errore professionale in sé non è del tutto imprevedibile, ma si inserisce nella
catena causale originata dall’azione preesistente e ne dipende in quanto, se fosse mancato il fatto pericoloso, l’intervento non sarebbe stato necessario (principio affermato in un caso in cui si era verificata la
morte e gravi lesioni degli abitanti di una casa esplosa per la fuga di gas da una conduttura di esso rotta
durante l’esecuzione di lavori di scavo malgrado l’intervento di un dipendente dell’Italgas che non lo
aveva adeguatamente chiuso). Cass. 18 ottobre 2005, n. 2013.
Affinché una condotta omissiva possa essere assunta come fonte di responsabilità per danni, non
basta riferirsi al solo principio del neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale della condotta del soggetto che non abbia impedito l’evento, ma occorre individuare, caso per caso, un vero e
proprio obbligo giuridico d’impedire l’evento lamentato, il quale può derivare, o direttamente da una
norma ovvero da uno specifico rapporto negoziale o di altra natura intercorrente tra il titolare dell’interesse leso e il soggetto chiamato a rispondere della lesione. Cass. 25 settembre 1998, n. 9590.
L’obbligo giuridico di impedire l’evento, la cui inosservanza, a norma dell’art. 40 c.p., equivale a
cagionarlo, può nascere, oltre che da una norma di legge e da una clausola contrattuale, anche da una
specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui, il che si verifica
quando il soggetto obbligato, pur consapevole del pericolo cui è esposto tale diritto, in conseguenza di
un fatto illecito posto in essere da terzi, ma inseritosi in una serie causale che ha avuto origine da una sua
attività lecita, si astenga dall’intervenire per impedire che la situazione di pericolo si traduca in una concreta lesione. Pertanto, nel caso di furto di moduli di assegni circolari spediti a mezzo del servizio
postale, la banca per sottrarsi a responsabilità risarcitorie verso il prenditore, non può esimersi, avuto
riguardo al pericolo di una loro falsificazione, dall’obbligo di dare all’accadimento adeguata pubblicità
diretta alla generalità dei possibili prenditori degli assegni falsificati, onde prevenire al massimo il pericolo di inganno per la pubblica fede e tutelare conseguentemente i diritti dei terzi. Cass. 14 ottobre 1992, n.
11207.
L’applicabilità della norma dell’art. 2087 c.c. - che, integrando le disposizioni delle leggi speciali in
materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, impone all’imprenditore l’adozione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro - presuppone l’esistenza di
un rapporto di lavoro subordinato, in relazione al quale sussista altresì l’obbligo del datore di lavoro di
assicurare il dipendente, e, pertanto, va esclusa nel caso in cui fra l’imprenditore, cui è addebitata l’omissione delle dette misure, ed il danneggiato non sussista l’indicato rapporto, per essersi il secondo infortunato nell’esecuzione dell’incarico, affidatogli dal committente, di dirigere i lavori appaltati al primo, restando quella condotta omissiva e l’eventuale violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul
lavoro valutabile quali estremi di colpa con riguardo al principio generale del neminem laedere ex art.
2043 c.c. Cass. 7 aprile 1988, n. 2737.
Per l’individuazione dell’obbligo giuridico di impedire l’evento - l’inosservanza del quale ai sensi
dell’art. 40 cpv. c.p., “equivale a cagionarlo” - non basta far riferimento al principio del neminem laedere
sancito dall’art. 2043 c.c. ma è necessaria una norma di legge che lo preveda specificamente, ovvero
l’esistenza di particolari rapporti giuridici od ancora una data situazione in ragione della quale il soggetto
sia tenuto a compiere una determinata attività a protezione del diritto altrui. Situazione che, seppure
ravvisabile nelle condizioni di pericolosità per il diritto assoluto del terzo derivate da una precedente
attività lecita del soggetto, cui si rimprovera di non essersi poi attivato per impedire che quella pericolosità si traducesse in una concreta lesione, non è invece configurabile quando il soggetto stesso non abbia
apportato alcun contributo causale all’insorgere di quella situazione. Cass. 14 aprile 1983, n. 2619.
4.1. Elemento soggettivo.
L’assoluzione in sede penale dell’imputato per esclusione o dubbio in ordine all’elemento soggettivo
del reato preclude l’azione di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche se la relativa formula non
rientra nella previsione dell’art. 25 dell’abrogato c.p.p., data l’identità di natura e di intensità tra l’elemento
soggettivo rilevante ai fini penali e quello posto a base dell’ordinaria responsabilità civile, al di fuori,
quindi, di ogni ipotesi di responsabilità aggravata o presunta; tale principio non si applica alle ipotesi di
pronuncia assolutoria per mancanza o dubbio circoscritti al dolo, potendo il fatto essere attribuito, ai
sensi dell’art. 2043 c.c., anche a titolo di colpa. Cass. 25 giugno 1994, n. 6125.
Poiché in tema di responsabilità per atto illecito, la colpa consiste in un comportamento cosciente
dell’agente che, senza volontà di arrecare danno ad altri, sia causa di un evento lesivo per negligenza,
imprudenza o imperizia, ovvero inosservanza di regole o norme di condotta, essa è da ravvisare - sotto il
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
profilo dell’imprudenza - ogni qualvolta manchi la rappresentazione da parte dell’agente - secondo il
criterio della media diligenza ed attenzione del cosiddetto”bonus pater familias”, della possibilità
dell’evento dannoso, poi in concreto verificatosi. Cass. 21 marzo 1981, n. 1656.
In materia di responsabilità extracontrattuale spetta all’attore, il quale agisce per il risarcimento del
danno, dare la prova della colpa di colui che ha cagionato il danno; tale principio, però, non comporta
necessariamente che il giudice debba acquisire la dimostrazione di detta colpa esclusivamente dal materiale probatorio offerto dal danneggiato ben potendo la prova essere desunta dai fatti e dalle circostanze di causa ed essere anche presuntiva e ben potendosi, a tale ultimo riguardo, assumere un fatto a fonte
di presunzioni in base all’”id quod plerumque accidit”, tenuto conto che non sempre è agevole l’acquisizione di una prova diretta. Cass. 28 ottobre 1980, n. 5795.
Nella espressione adoperata dall’art. 2043 c.c. (“fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno
ingiusto”) rientrano così le azioni come le omissioni, dolose o colpose, alle quali sia da ricondurre, come
a causa efficiente, l’evento dannoso. La responsabilità per colpa, a differenza di quella per dolo, si
rapporta alla volontà dell’agente in modo negativo, nel senso che egli risponde, per non avere improntato la propria condotta all’uso di quelle cure e cautele, che ciascuno è tenuto ad adottare negli ordinari rapporti di vita, e si concreta, nella ipotesi di culpa in omettendo, nell’astensione da un’attività che il
soggetto avrebbe dovuto compiere. Cass. 27 novembre 1972, n. 3462.
5. Natura della obbligazione risarcitoria. Debito di valore.
In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni,
patrimoniali e non, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente anche la richiesta volta al risarcimento del danno biologico anche se non dovesse contenere alcuna precisazione in tal senso, in quanto la domanda, per la sua onnicomprensività, esprime la
volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno. Cass. 25 febbraio 2008, n. 4718.
Il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro, liquidate a titolo risarcitorio, decorrono dalla data in cui il danno si è verificato, è applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, in quanto, ai sensi dell’art. 1219 c.c., secondo comma c.c., il debitore è in mora (mora
ex re) dal giorno della consumazione dell’illecito; invece, se l’obbligazione risarcitoria derivi da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l’atto idoneo a porre in mora
il debitore, siccome la sentenza costitutiva, che pronuncia la risoluzione, produce i suoi effetti retroattivamente dal momento della proposizione della domanda. Cass. 9 febbraio 2005, n. 2654.
L’obbligazione di risarcimento del danno derivante da illecito extracontrattuale configura un debito di valore, in quanto diretta a reintegrare completamente il patrimonio del danneggiato, per cui resta
sottratta al principio nominalistico e va dal giudice, anche d’ufficio, quantificata tenendo conto della
svalutazione monetaria sopravvenuta, secondo gli indici di deprezzamento della moneta e fino alla data
della liquidazione, solamente da tale data in quest’ultimo caso spettando (in presenza della necessaria
domanda di risarcimento del lucro cessante da ritardato pagamento della somma rivalutata) gli interessi
moratori, al tasso legale, sulla somma rivalutata, giacché altrimenti il creditore verrebbe a conseguire più
di quanto lo stesso avrebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento dell’obbligazione. Cass. 21
maggio 2004, n. 9711; conforme Cass. 16 marzo 1995, n. 3072, Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335.
Nella obbligazione risarcitoria da fatto illecito, che costituisce tipico debito di valore, è possibile
che la mera rivalutazione monetaria dell’importo liquidato in relazione all’epoca dell’illecito, ovvero la
diretta liquidazione in valori monetari attuali, non valgano a reintegrare pienamente il creditore, che
va posto nella stessa condizione economica nella quale si sarebbe trovato se il pagamento fosse stato
tempestivo. In tal caso, è onere del creditore provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma
rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data
della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo. Il che può
dipendere, prevalentemente, dal rapporto tra remuneratività media del denaro e tasso di svalutazione nel
periodo in considerazione, essendo ovvio che in tutti i casi in cui il primo sia inferiore al secondo, un
danno da ritardo non è normalmente configurabile. Da ciò ha ad emergere come, per un verso, gli interessi cosiddetti compensativi costituiscono una mera modalità liquidatoria del danno da ritardo nei debiti
di valore; per altro verso, non sia configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli stessi: sia
perché il danno da ritardo che con quella modalità liquidatoria si indennizza non necessariamente esiste,
sia perché, di per sé, esso può essere comunque già ricompreso nella somma liquidata in termini monetari attuali. Cass. 25 agosto 2003, n. 12452.
In tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento deve essere considerato, in sede di liquidazione, oltre alla svalutazione
(che ha la funzione di ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato antecedentemente alla consumazione dell’illecito: cd. danno emergente), anche il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a
causa della mancata, tempestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo, appunto, di risarcimento (somma che, se tempestivamente corrisposta, avrebbe potuto essere investita per lucrarne un
vantaggio finanziario). Qualora tale danno sia liquidato con la tecnica degli interessi, questi non vanno
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2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
calcolati né sulla somma originaria, né sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma debbono
computarsi o sulla somma originaria via via rivalutata anno per anno, ovvero sulla somma originaria
rivalutata in base ad un indice medio, con decorrenza (a differenza che nell’ipotesi di responsabilità contrattuale) dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso. Cass. 25 gennaio 2002, n. 883; conforme Cass.
8 maggio 1998, n. 4677.
In tema di azione diretta proposta dal danneggiato contro l’assicuratore della r.c.a., la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi sono dovuti dall’assicuratore a titolo di indennizzo fino a
concorrenza del massimale di polizza, in quanto il debito da indennizzo deve essere calcolato nella
misura risultante dal riferimento al debito da risarcimento gravante sul danneggiante, che è di valore
e comprende dunque anche la rivalutazione della somma dovuta e gli interessi fino al momento della
liquidazione. Oltre il limite del massimale, per contro, il meccanismo liquidatorio proprio dei debiti di
valore non ha alcun fondamento giuridico, giacché l’obbligazione che ha per oggetto il pagamento del
massimale, il cui adempimento non è stato tempestivo, integra un debito di valuta, nel quale la svalutazione può assumere rilievo, ai sensi dell’art. 1224 comma 2 c.c., solo quale maggior danno rispetto a
quello già coperto dagli interessi e non concorre invece a determinare essa stessa la prestazione, come
accade nei debiti di valore. Cass. 23 febbraio 2001, n. 2691.
Il danno da ritardato conseguimento delle somme liquidate per debiti di valore, come il danno da
inadempimento contrattuale o da illecito extracontrattuale, deve essere determinato computando gli
interessi prima sull’originario equivalente pecuniario del bene perduto e quindi sui progressivi adeguamenti del medesimo in corrispondenza della sopravvenuta inflazione, secondo scadenze temporali fisse,
ovvero mediante l’utilizzazione in via equitativa di indici annuali medi di svalutazione, restando escluso
che gli interessi possano essere calcolati dalla data dell’illecito o da quella della domanda giudiziale
sull’intera somma rivalutata definitivamente. Cass. 28 marzo 1997, n. 2780.
6. Danno Ingiusto.
6.1. Lesione dell’affidamento.
In tema di intermediazione mobiliare, in ordine alla quale l’art. 5, quarto comma, della legge 2 gennaio 1991, n. 1 pone a carico dell’intermediario la responsabilità solidale per gli eventuali danni arrecati a
terzi nello svolgimento delle incombenze affidate ai promotori finanziari. La mera allegazione del fatto che
il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità (nella specie, con
assegni bancari al portatore) difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe legittimato a riceverle, non
vale, in caso di indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, ad interrompere il nesso
di causalità esistente tra lo svolgimento dell’attività del promotore finanziario e la consumazione dell’illecito, e non preclude, pertanto, la possibilità di invocare la responsabilità solidale dell’intermediario
preponente. Né un tal fatto può essere addotto dall’intermediario come concausa del danno subito
dall’investitore, in conseguenza dell’illecito consumato dal promotore, al fine di ridurre l’ammontare del
risarcimento dovuto. Cass. 7 aprile 2006, n. 8229.
Affinché si verifichi una situazione di affidamento, come tale meritevole di tutela, anche sul piano
risarcitorio, secondo l’ordinamento, è necessario che il soggetto che invochi l’affidamento sia il destinatario del comportamento altrui, che crea l’affidamento stesso. Cass. 18 luglio 2003, n. 11246.
L’acquirente di un quadro, che si sia determinato all’acquisto facendo ragionevole affidamento sull’autenticità dell’opera, desumibile dall’apposizione della propria firma (sul retro del dipinto) da parte del
pittore, può agire per responsabilità extracontrattuale nei confronti di quest’ultimo, in ipotesi d’accertamento della falsità del quadro e dell’apposizione dell’indicata firma senza un previo diligente controllo
sull’autenticità dell’opera, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto
di determinarsi liberamente nello svolgimento dell’attività negoziale relativa al patrimonio (costituzionalmente garantito entro i limiti di cui all’art. 41 cost.), facendo ragionevole affidamento sulla veridicità
delle dichiarazioni, da chiunque rese, comunque concernenti quella attività, e senza essere pregiudicato
da dichiarazioni non veritiere, rese per dolo o per colpa (in violazione dei doveri inderogabili di solidarietà
sociale sanciti dall’art. 2 cost.). Cass. 4 maggio 1982, n. 2765.
6.2. Lesione del diritto di credito.
Il principio secondo il quale il responsabile, in danno di lavoratore dipendente, di lesioni personali
che abbiano provocato la sua invalidità temporanea lavorativa assoluta del predetto, è tenuto a risarcire
il datore di lavoro per la mancata utilizzazione delle prestazioni lavorative del predetto dipendente,
salva restando la risarcibilità dell’ulteriore pregiudizio patrimoniale eventualmente subito dal medesimo
datore di lavoro in caso di comprovata necessità di sostituzione del lavoratore assente con elementi
esterni all’azienda, o di particolare nocumento alla produzione, trova applicazione anche nel caso di
lavoro prestato per una società di persone da un socio, sia che si tratti di lavoro subordinato, sia che si
tratti di conferimento di lavoro, a fronte del quale non vi sia retribuzione, ma solo partecipazione agli utili
societari. In tale ultima ipotesi, il danno per la società può consistere in una diminuzione degli utili per la
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
mancanza dell’apporto lavorativo del socio, che, ove non assorbita dalla diminuzione della quota degli
utili corrisposti al socio danneggiato - il quale potrà farla valere nei confronti del danneggiante - deve
essere risarcita alla società dal danneggiante. Cass. 4 novembre 2002; n. 15399; conforme Cass. 25
giugno 1993, n. 7063.
La tutela aquiliana dei diritti di credito ha come indefettibile presupposto l’intervenuta lesione totale o parziale - della pretesa creditoria. Ne consegue che con riguardo ai crediti dei medici ambulatoriali operanti nella regione Lazio in regime di convenzione con gli enti già erogatori di assistenza sanitaria
prima dell’istituzione del S.s.n. (disciolti ai sensi dell’art. 66 L. n. 833 del 1978) per i compensi relativi
all’attività svolta prima dell’1 gennaio 1980 - crediti che la legislazione regionale ha posto a carico dei
comuni - l’eventuale ritardo delle unità sanitarie locali nel prescritto invio ai comuni della documentazione
contabile necessaria per la quantificazione delle spettanze dei sanitari non può dare luogo alla suddetta
tutela, non incidendo il comportamento illecito in argomento sulla posizione creditoria dei medici, ma
pregiudicando soltanto la posizione dei comuni in riferimento alla esposizione al pagamento degli accessori dei crediti dovuti in conseguenza del ritardo nell’adempimento (pregiudizio, questo, interno al rapporto obbligatorio tra i comuni e le unità sanitarie locali). Cass. 27 gennaio 2001, n. 1143.
Nel caso in cui il prestatore di lavoro subordinato si appropri, nell’esercizio delle sue mansioni, di
somme di danaro affidategli dal datore di lavoro, tale appropriazione integra innanzi tutto un illecito
contrattuale, in quanto costituisce la violazione del dovere di eseguire la prestazione lavorativa nell’osservanza delle regole di correttezza (“ex” art. 1175 c.c.) e di diligenza (“ex” art. 2104 c.c.); il medesimo
comportamento costituisce poi un illecito aquiliano poiché lede il diritto assoluto all’integrità del patrimonio, di cui è titolare - anche prima del (e comunque indipendentemente dal) contratto di lavoro - il
datore di lavoro. Consegue che quest’ultimo può agire in giudizio per il risarcimento del danno sia in via
contrattuale, sia in via extracontrattuale e la diversità del titolo dell’azione rileva in ordine al regime della
prova dell’imputabilità (rispettivamente ex art. 1218 e 2043 c.c.) oppure della prescrizione (art. 2946 e
2947 c.c.), ma nell’uno e nell’altro caso il debito risarcitorio è da qualificarsi come debito di valore. Cass.
16 maggio 2000, n. 6356.
La tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. deve ammettersi anche con riguardo al pregiudizio patrimoniale sofferto dal titolare di diritti di credito, non trovando ostacolo nel carattere relativo di questi
ultimi in considerazione della nozione ampia ormai generalmente accolta di danno ingiusto come
comprensivo di qualsiasi lesione dell’interesse che sta alla base di un diritto, in tutta la sua estensione.
Trova, in tal modo, protezione non solo l’interesse rivolto a soddisfare il diritto (che, nel caso di diritti di
credito, è attivabile direttamente nei confronti del debitore della prestazione oggetto del diritto), ma altresì l’interesse alla realizzazione di tutte le condizioni necessarie perché il soddisfacimento del diritto sia
possibile, interesse tutelabile nei confronti di chiunque illecitamente impedisca tale realizzazione. In siffatta prospettiva trova fondamento la tutela aquiliana del diritto di credito. L’area di applicazione della responsabilità extracontrattuale per la lesione del diritto di credito va, peraltro, circoscritta ai danni che
hanno direttamente inciso sull’interesse oggetto del diritto. Cass. 27 luglio 1998, n. 7337; conforme Cass.
14 novembre 1996, n. 9984.
Chi con il suo fatto doloso o colposo cagiona la morte del debitore altrui è obbligato a risarcire il
danno subito dal creditore, qualora quella morte abbia determinato l’estinzione del credito ed una
perdita definitiva ed irreparabile per il creditore medesimo. È definitiva ed irreparabile la perdita quando si tratta di obbligazioni di dare a titolo di mantenimento e di alimenti, sempre che non esistano
obbligati in grado eguale o posteriore, che possano sopportare il relativo onere, ovvero di obbligazioni
di fare rispetto alle quali vi è insostituibilità del debitore, nel senso che non sia possibile al creditore
procurarsi, se non a condizioni più onerose, prestazioni eguali o equipollenti. Cass., Sez. Un., 26 gennaio 1971, n. 174.
6.3. Lesione dell’interesse legittimo.
La normativa sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, il danno, cioè, inferto in
assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento,
a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del fatto
illecito delineato dall’art. 2043 c.c., non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli
di tutela: spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto,
accertare se, e con quale intensità, l’ordinamento appresta tutela risarcitoria all’interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una esigenza di protezione. Ne consegue che anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un
diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per
effetto dell’attività illegittima della P.A., l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto
interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo. Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500.
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
6.4. Danno ingiusto e perdita di chance.
Il danno da perdita di “chance” deve essere correttamente inteso non come mancato conseguimento di un risultato probabile, ma come mera perdita della possibilità di conseguirlo, secondo una valutazione “ex ante” da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito (e il conseguente evento di danno) ha inciso su tale possibilità in termini di conseguenza dannosa potenziale. Tale
perdita ha natura di danno patrimoniale futuro, la cui liquidazione – che deve rapportarsi a criteri
indiscutibilmente equitativi – può essere correlata a valutazioni di circostanze di fatto che, se motivate
secondo un percorso argomentativo esente da vizi logico-giuridici, si sottraggono a qualsiasi censura in
sede di giudizio di legittimità. Cass. 17 aprile 2008, n. 10111.
In caso di domanda volta a ottenere il risarcimento del danno da perdita di “chance”, che come
concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di
autonoma valutazione, il creditore ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un
calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del
risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta. (Fattispecie relativa alla richiesta di risarcimento del danno da ritardata assunzione
a un pubblico impiego). Cass., Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 7943.
La liquidazione del danno da perdita di “chances” subito da un’impresa che abbia partecipato ad una
gara per l’esecuzione di un’opera pubblica illegittimamente aggiudicata a terzi dalla stazione appaltante,
non può limitarsi ai soli costi di partecipazione alla gara, in quanto anche l’opportunità di guadagno che
sarebbe stato effetto di una gara svolta regolarmente costituisce una perdita attuale per il patrimonio,
dimostrabile, per presunzioni e la cui valutazione compete al giudice del merito, che può essere liquidata
in base al presunto guadagno che l’impresa avrebbe ottenuto con l’esecuzione dell’appalto, determinabile in una percentuale della sua offerta corrispondente ai guadagni medi degli appalti analoghi e che, di
regola, per quelli ad evidenza pubblica, si determina in base a norme di legge che detta percentuale
indicano (cfr. ad es. art. 345 L. 20 marzo 1865 all. F, riprodotto dall’art. 122 del regolamento emanato con
D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 e art. 37-septies, comma 1, lett. c, L. 11 febbraio 1994, n. 109). La somma
così individuata va reintegrata in misura totale se, in base alla valutazione di merito degli atti di gara, si
ritenga in fatto non giustificabile il ribasso dell’offerta dell’aggiudicatario per una corretta esecuzione dei
lavori e quindi necessaria l’aggiudicazione all’impresa che chiede il risarcimento ovvero va ridotta proporzionalmente, con un calcolo di probabilità fondato su presunzioni e da rapportare al numero dei partecipanti alla gara che avevano con l’impresa stessa analoghe possibilità di aggiudicazione. Cass. 25
ottobre 2007, n. 22370.
La prova della perdita di chance lavorative può essere fornita anche dal capo del personale che
confermi che la mancata promozione del lavoratore, vittima di un sinistro stradale, sia dovuto alle troppe
assenze dall’ufficio. (Fattispecie relativa al danno sofferto da un pedone, dipendente di banca, investito
sulle strisce pedonali, pregiudicato dalla progressione in carriera a causa della forzata assenza dovuta alla
necessità di curare i postumi del sinistro stradale subito). Cass. 11 maggio 2007, n. 10840.
La perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa, costituisce un danno patrimoniale risarcibile, qualora sussista un pregiudizio certo (anche
se non nel suo ammontare) consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita
di una possibilità attuale; ne consegue che la chance è anch’essa una entità patrimoniale giuridicamente
ed economicamente valutabile, la cui perdita produce un danno attuale e risarcibile, qualora: a) si accerti,
anche utilizzando elementi presuntivi, la ragionevole probabilità della esistenza di detta chance intesa
come attitudine attuale; b) il creditore provi, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di
probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e
diretta. (Fattispecie relativa al caso di un mancato riconoscimento, da parte del Ministero, della qualifica
di orfano di guerra. Il ricorrente ha sostenuto, infatti, di aver dovuto rinunciare ad un posto di lavoro per
non aver potuto usufruire di quel titolo, che gli avrebbe consentito l’assegnazione di una sede meno
distante dalla sua residenza, e la perdita di chance con riferimento ad altro posto di lavoro). Cass. 7 luglio
2006, n. 15522.
Nel rapporto di lavoro privato, in caso di esclusione del lavoratore dalla partecipazione ad un
concorso per la promozione ad una qualifica superiore, occorre tenere distinte le domande di risarcimento del danno aventi per oggetto, da un lato, il pregiudizio derivante dalla mancata promozione
(promozione configurata come sicura in caso di partecipazione al concorso) e, dall’altro, la perdita di
chance, cioè la mera probabilità di conseguire la promozione in conseguenza della partecipazione al
concorso, in quanto costituiscono domande diverse, non ricompresse l’una nell’altra, in relazione alla
diversità di fatti e circostanze da cui desumere l’entità della probabilità per l’interessato per vincere il
concorso. Diverso è anche il contenuto dell’onere probatorio posto a carico del lavoratore nei due casi, in
quanto, in caso di domanda di risarcimento danni per perdita di chance, il ricorrente ha l’onere di provare, anche facendo ricorso a presunzioni e al calcolo delle probabilità, soltanto la possibilità che avrebbe
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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avuto di conseguire il superiore inquadramento, atteso che la valutazione equitativa del danno ex art.
1226 c.c. presuppone pur sempre che risulti comprovata l’esistenza di un danno risarcibile. Cass. 18
gennaio 2006; conforme Cass. 25 ottobre 1990, n. 14074.
In tema di risarcimento del danno, il creditore che voglia ottenere, oltre il rimborso delle spese
sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita di chance - che, come concreta ed effettiva occasione
favorevole di conseguire un determinato bene, non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione - ha
l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in
concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta
illecita della quale il danno risarcibile dev’essere conseguenza immediata e diretta. Cass. 18 marzo 2003,
n. 3999.
Nella ipotesi in cui, in un rapporto di lavoro subordinato, per la promozione ad una qualifica superiore sia previsto dal contratto l’espletamento di procedure concorsuali per la copertura dei posti vacanti, e
il concorso non sia espletato, il lavoratore che avrebbe avuto titolo per parteciparvi, ha diritto al risarcimento del danno, da liquidarsi in via equitativa, anche nel caso in cui il contratto rimetta al datore di
lavoro la determinazione dei parametri selettivi, limitandosi ad attribuire prevalenza, quale criterio residuale, alla maggiore anzianità di servizio. Cass. 18 agosto 2003, n. 12069.
La chance, ove si configuri quale mera possibilità di ottenere un risultato favorevole non è idonea
ad assumere rilevanza per il mondo del diritto e dà vita ad un interesse di fatto, insuscettibile di
ricevere tutela per la propria esigua consistenza. È decisivo, allora, distinguere fra probabilità di riuscita (chance risarcibile) e mera possibilità di conseguire l’utilità sperata (chance irrisarcibile). A tal fine
bisogna ricorrere alla teoria probabilistica, che, nell’analizzare il grado di successione tra azione ed
evento, per stabilire se esso avrebbe costituito o meno conseguenza dell’azione, scandaglia, fra il livello
della certezza e quello della mera possibilità, l’ambito della c.d. probabilità relativa, consistente in un
rilevante grado di possibilità. Nello specifico occorre affidarsi al metodo scientifico, che si sostanzia in un
procedimento di sussunzione del caso concreto che si voglia di volta in volta analizzare sotto un sapere
scientifico; ossia, quanto ai sistemi giuridici, sotto un sapere probabilistico, non sorretto da leggi statisticamente universali, ma pur sempre scientifico perché razionalmente fondato sulle conoscenze di una
specifica scienza (quella giuridica) e, quindi, anch’esso attendibile. Cons. St., 14 settembre 2006, n. 5323.
6.5. Danno ingiusto e diritti reali.
Al fine di ritenere configurabile una responsabilità del condominio per culpa in eligendo in relazione
ai danni provocati alla proprietà individuale del condomino dall’impresa appaltatrice scelta per l’esecuzione di lavori condominiali, non è sufficiente desumere ex post l’erroneità della scelta dal verificarsi del
danno, ma occorre verificare con valutazione ex ante se al momento della conclusione del contratto la
ditta appaltatrice presentasse caratteristiche tali da evidenziarne l’assoluta inidoneità a compiere l’opera
oggetto dell’appalto e la relativa prova va offerta dal danneggiato. Cass. 3 dicembre 2007, n. 25173.
L’obbligo del singolo condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla
rifusione dei danni subiti dai singoli condomini nelle loro unità immobiliari, a causa dell’omessa manutenzione o riparazione delle parti comuni, trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio e non nella specifica condotta illecita ad esso attribuibile, potendo tale condotta, ove provata,
esclusivamente far sorgere a suo carico l’obbligo di risarcire il danno complessivamente prodotto ex art.
2043 c.c. Tale principio trova applicazione anche quando i danni derivino da vizi e carenze costruttive
dell’edificio, salva l’azione di rivalsa, ove possibile, nei confronti del costruttore. Cass. 8 novembre 2007,
n. 23308.
Il proprietario il quale faccia eseguire opere di escavazione nel proprio fondo risponde direttamente del danno che derivi alle proprietà confinanti, anche se ha dato in appalto l’esecuzione delle opere,
e ciò indipendentemente dal suo diritto ad ottenere la rivalsa nei confronti dell’appaltatore, la cui responsabilità si aggiunge alla sua, ma non la esclude. Cass. 10 febbraio 2003, n. 1954.
In materia di immissioni, le due azioni di cui agli artt. 844 e 2043 c.c. hanno diverso ambito operativo,
atteso che la prima norma impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento
delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso della proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali
che ne disciplinano l’esercizio. Ove risultino superati tali limiti, si è in presenza di un attività illegittima, di
fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio all’altrui diritto di proprietà o di
godimento e non sono quindi applicabili i criteri da tale norma dettati ma, venendo in considerazione in
detta ipotesi unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema
dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c., che può essere proposta anche cumulativamente con l’azione ex art. 844 c.c. Cass. 7 agosto 2002, n. 11915;.
In materia di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal c.c. e dalle norme integrative dello
stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, e, determinando la suddetta violazione un asservimento di fatto del fondo del
vicino, il danno deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria. Cass. 7 marzo
2002, n. 3341.
Il proprietario di un appartamento che nel ristrutturarlo provoca danni ad altri, deve risarcirli, se
erano prevedibili, ai sensi dell’art. 2043 c.c., perché l’obbligo del risarcimento è correlato all’ingiustizia
del danno, non del fatto generatore, che può anche consistere nell’esercizio di un diritto o di una facoltà.
Cass. 16 ottobre 2001, n. 12617.
In presenza di una norma regolamentare edilizia prescrivente per le costruzioni un distacco minimo dal confine, la convenzione tra proprietari confinanti per l’esecuzione di un edificio a distanza dal
confine inferiore a quella prescritta dalla norma regolamentare, stante la sua illiceità per contrasto con
una norma inderogabile posta a tutela dell’interesse pubblico, non attribuisce per il principio quod nullum est nullum producit effectum, nessun diritto ai suoi stipulanti con la conseguenza che nessun danno
risarcibile può essere riconosciuto al proprietario che, in esecuzione di detto accordo, abbia costruito a
distanza inferiore a quella prescritta dalla norma regolamentare e, in accoglimento della domanda del
vicino, sia stato condannato ad arretrare la costruzione. Cass. 25 giugno 2001, n. 8661.
L’obbligo del condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare
alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni dell’edificio e alla rifusione
dei danni subiti dai singoli condomini nelle loro unità immobiliari, a causa della omessa manutenzione e
riparazione previsto dall’art. 1123 c.c., ovvero trattandosi di lastrici solari nella misura indicata nell’art.
1126 c.c., trova la sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell’edificio non anche in una sua
particolare condotta, commissiva od omissiva, che, peraltro, se provata, può determinare, relativamente
alle spese occorrenti per porre rimedio alle conseguenze negative di tale condotta, la sua esclusiva responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. Tale obbligo di contribuzione vale anche per le spese necessarie
per eliminare vizi e carenze costruttive originarie dell’edificio condominiale, salva in questo caso, l’azione
di rivalsa nei confronti del costruttore-venditore e si estende anche alle spese necessarie per riparare i
danni che i singoli condomini subiscono nelle loro unità immobiliari. Cass. 18 maggio 2001, n. 6849;
conforme Cass. 24 luglio 2000, n. 9651.
La P.A., la quale, modificando le condizioni di una pubblica strada, sia pure per ragioni di interesse
generale, elevi o abbassi il suolo stradale in modo da rendere l’accesso ai fabbricati in relazione alla loro
destinazione sensibilmente più difficoltoso e meno agevole, ovvero venga di riflesso ad imporre a carico
dei fondi latitanti oneri diversi, è tenuta ad indennizzare il privato che dalle dette modificazioni venga leso:
ciò in base al principio generale contenuto nell’art. 46 della legge sull’espropriazione per pubblica utilità,
dovendo ricondursi a tale norma, con criteri di analogia, tutte le ipotesi di danno permanente alle private
proprietà immobiliari, legato all’opera pubblica da un nesso di causalità obiettiva. Consegue che, configurando tale disposizione una forma di responsabilità per atto legittimo, che si differenzia nettamente
dal risarcimento dei danni derivanti da attività illecita, il giudice adito con l’azione aquiliana ex art. 2043
c.c. non può emettere pronuncia sulla responsabilità per atto lecito della P.A. ex art. 46 della legge n. 2359
del 1865, trattandosi di azioni che si distinguono tanto per il petitum quanto per la causa petendi. Cass. 2
aprile 2001, n. 4790.
La demolizione dell’edificio da parte del proprietario costituisce esercizio del diritto di proprietà,
con la conseguenza che quando dalla demolizione deriva danno all’edificio costruito in aderenza a causa
della perdita del preesistente equilibrio statico, colui che ha demolito il proprio edificio non risponde del
danno subito dal vicino a titolo di responsabilità extracontrattuale per il solo fatto dell’abbattimento,
richiedendosi per la sussistenza di tale responsabilità che la demolizione, per il modo in cui è stata attuata, riveli la violazione del precetto del neminem laedere. Cass. 23 marzo 2001, n. 4207.
L’usufruttuario ha un’autonoma legittimazione ad agire ai sensi dell’art. 2043 c.c. per il risarcimento del danno cagionato da un terzo al bene oggetto del suo diritto (nel caso di specie l’usufruttuario
lamentava fatti integranti una riduzione del suo diritto di godimento, consistenti nel crollo del muro di
contenimento del fabbricato in usufrutto). Cass. 11 agosto 2000, n. 1073.
La domanda di indennizzo per il diminuito valore del fondo a causa delle immissioni eccedenti la
normale tollerabilità è del tutto diversa da quella di risarcimento dei danni derivanti dalle stesse immissioni, poiché, mentre la prima, fondata sull’art. 844 c.c., ha natura reale e mira al conseguimento di un
indennizzo da attività lecita, che compensi il pregiudizio subito dal fondo a causa delle immissioni, la
seconda, fondata sull’art. 2043 c.c., ha natura personale, essendo volta a risarcire il proprietario del
fondo vicino dei danni arrecatigli dalle immissioni, sotto tale profilo considerato come fatto illecito. Ne
consegue che la statuizione, adottata dal giudice di primo grado, di rigetto della domanda risarcitoria e di
accoglimento di quella indennitaria, ed appellata dal condannato, in difetto di appello incidentale in ordine al rigetto della prima, deve ritenersi passata in giudicato su tale punto, sul quale, pertanto, il giudice di
appello non può più pronunciarsi. Cass. 6 giugno 2000, n. 7545.
Le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa, con l’azione diretta a farle cessare (avente carattere
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
reale e natura negatoria) e con quella intesa ad ottenere il risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza che il pregiudizio medesimo abbia assunto i
connotati della temporaneità e non della definitività. Cass. 2 giugno 2000, n. 7420.
La rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati dato che il
conflitto tra proprietari, interessati in senso opposto alla costruzione, va risolto in base al diretto raffronto
tra le caratteristiche oggettive dell’opera, in queste compresa la sua ubicazione, e le norme edilizie che
disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi quelle di cui agli artt. 31 L. 17
agosto 1942 n. 1150 e 4 L. 28 gennaio 1977, n. 10, concernenti rispettivamente la licenza e la concessione
per costruire; norme, queste, che riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva e non contengono “regole da osservarsi nelle costruzioni”, come richiesto dall’art. 871 c.c. Pertanto, come è irrilevante
la mancanza di licenza o concessione, quando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del c.c. e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’avere eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sé la violazione di dette prescrizioni e, quindi, il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento del danno.
Cass. 14 ottobre 1998, n. 10173.
6.6. Danno ingiusto e possesso.
È tutelabile in sede risarcitoria la posizione di chi eserciti nei confronti dell’autovettura danneggiata una situazione di possesso giuridicamente qualificabile come tale ai sensi dell’art. 1140 c.c. Cass. 23
febbraio 2006, n. 4003.
Il soggetto che, essendo consapevole della esistenza di un provvedimento di occupazione di urgenza e della sua avvenuta attuazione con contestuale redazione del relativo verbale di consistenza e di
immissione in possesso, convenuto in giudizio per la reintegra, si oppone alla stessa adducendo l’esistenza di un proprio successivo possesso, assume, pur ove non sia l’autore materiale dello spoglio, la
veste di autore morale dello stesso e viola, con tale comportamento processuale, l’obbligo di non frapporre ostacoli alla realizzazione dello scopo perseguito dalla P.A. con la disposta occupazione d’urgenza,
ponendo così in essere un comportamento illecito fonte di responsabilità civile per tutti i danni che ne
siano derivati. Cass. 8 giugno 2001, n. 7775.
In tema di azione di reintegrazione per spoglio, la privazione del possesso costituisce un fatto
potenzialmente produttivo di effetti pregiudizievoli per il possessore, il che giustifica in suo favore la
pronunzia di condanna generica al risarcimento del danno a carico dell’autore dello spoglio, la quale,
costituendo una semplice declaratoria iuris, non impedisce che, nel successivo autonomo giudizio, sia
accertata non solo la misura, ma la stessa esistenza in concreto di un danno risarcibile. Cass. 2 agosto
1990, n. 7748.
L’azione per il risarcimento del danno ha natura possessoria quando il danno si fa consistere nella
sola lesione del possesso, e quindi soggiace alle regole dettate sia in ordine alla competenza che in
ordine al termine di decadenza per proporla, mentre non ha natura possessoria, e rientra nella previsione generale dell’art. 2043 c.c., sottraendosi quindi a quelle regole, quando si lamenti non la lesione del
solo possesso ma anche quella di altri diritti del possessore. Cass. 28 febbraio 1989, n. 1093.
Il principio secondo il quale chi ha subito la perdita definitiva del possesso per effetto di spoglio non ha
diritto al controvalore del bene perduto, ma solo al danno relativo alla privazione del possesso sino alla
pronunzia, dovendosi provvedere per il resto nella sede petitoria destinata ad accertare a chi apparteneva
il diritto reale su detto bene, non trova applicazione nel caso in cui l’autore dello spoglio non accampi diritti
sulla cosa, non potendo avere ingresso un ulteriore giudizio risarcitorio in relazione alla proprietà. In tal
caso, il risarcimento, del danno, conseguente allo spoglio, avendo il suo fondamento nell’art. 2043 c.c., ove
ne esistano gli estremi, compete senza limitazioni al soggetto danneggiato, indipendentemente dall’esistenza di un diritto reale sul bene così sottrattogli (salva la sua responsabilità nei confronti di chi eventualmente rivendichi da lui la proprietà del bene stesso). Cass. 12 maggio 1987, n. 4367.
L’ordine di ripristino dello stato dei luoghi in sede di accoglimento dell’azione possessoria può
trovare ostacolo nell’assoluta impossibilità di esecuzione, ma non anche nell’eccessiva onerosità, stante
l’inapplicabilità del principio di cui all’art. 2058 c.c. dettato solo per il risarcimento in forma specifica.
Cass. 28 aprile 1986, n. 2935.
La domanda di risarcimento dei danni conseguenti a molestie possessorie ben può esperirsi anche
autonomamente rispetto all’azione ex art. 1170 comma 1 c.c., ma, per la sua proposizione, postula un
rapporto con il bene tutelabile ai sensi della norma citata, che non sia di mera detenzione. Cass. 16 aprile
1981, n. 2298.
In tema di azione di reintegrazione per spoglio o di azione di manutenzione del possesso, la condanna generica al risarcimento del danno trova la sua giustificazione nella privazione del possesso o della
detenzione o nella turbativa del possesso, cioè in fatti illeciti potenzialmente produttivi di effetti pregiudizievoli, la cui effettiva entità o inesistenza vanno accertate nella successiva indagine sulla concreta entità
del danno. Cass. 21 febbraio 1981, n. 1053.
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2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
7. Prescrizione.
In materia di diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale, qualora si tratti di un illecito
che, dopo un primo evento lesivo, determina ulteriori conseguenze pregiudizievoli, il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria per il danno inerente a tali ulteriori conseguenze decorre dal verificarsi delle medesime solo se queste ultime non costituiscono un mero sviluppo ed un aggravamento del
danno già insorto, bensì la manifestazione di una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella manifestatasi con l’esaurimento dell’azione del responsabile. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 580.
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno del soggetto che assuma di aver
contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma
dell’art. 2947, comma 1, c.c., non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce
danno all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma da quello in cui essa
viene percepita - o può essere percepita - quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso
o colposo di un terzo, usando l’ordinaria diligenza, tenuto conto, altresì, della diffusione delle conoscenze
scientifiche. Cass. 21 febbraio 2003, n. 2645.
In tema di occupazione abusiva, il diritto al risarcimento del danno per non aver potuto godere del
bene e farne propri i frutti naturali o civili, che è soggetto alla prescrizione di cinque anni stabilita dal
comma 1 dell’art. 2947 c.c., può essere esercitato giorno per giorno dalla data di inizio della occupazione, e non da quella in cui l’occupazione cessa, e di conseguenza inizia a prescriversi dal giorno stesso di
inizio della occupazione. Cass. 25 novembre 2002, n. 16564.
Il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito sorge non dal momento in cui l’agente compie l’illecito o dal momento in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il
danno all’altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile. Cass. 9 maggio 2000, n. 5913; conforme Cass. 28
luglio 2000, n. 9927.
Quando uno stesso soggetto in dipendenza di un fatto-reato abbia riportato in pari tempo danni alla
persona ed alle cose, il più lungo termine prescrizionale previsto dalla legge per il reato si applica anche
all’azione di risarcimento per il danno alle cose. Cass. 14 giugno 1999, n. 5874.
L’obbligazione di risarcire i danni derivati da una costruzione in aderenza al fabbricato dei vicini
comproprietari è divisibile perché ha ad oggetto una somma di danaro e pertanto l’azione risarcitoria
esercitata da uno di essi non è idonea ad interrompere la prescrizione per gli altri, i quali dunque possono
invocare gli effetti riflessi del giudicato favorevole formatosi a favore di uno di loro purché non sia decorso il termine quinquennale di prescrizione, con decorrenza dal fatto generatore del danno. Cass. 23 novembre 1998, n. 11868.
In caso di fatto illecito che costituisca anche reato, per il quale sia stato pronunciato decreto di archiviazione (nel regime dell’abrogato codice di rito) per mancanza di querela, la prescrizione del diritto al
risarcimento del danno comincia a decorrere dalla data del provvedimento di archiviazione, senza che
invece rilevi la data del visto apposto dal p.m. al decreto stesso. Cass., Sez. Un., 2 ottobre 1998, n. 9782.
Ai fini della più lunga prescrizione per il reato quando questo coincida con l’illecito civile, ai sensi
dell’art. 2947 c.c., devesi avere riguardo alla prescrizione prevista per il reato quale risulta dalla contestazione, senza tener conto della diminuzione di pena derivante dall’applicazione di eventuali circostanze
attenuanti che non rilevano ai fini civilistici. Cass. 4 dicembre 1997, n. 12324.
In base al comma 3 dell’art. 2947 c.c., il diritto al risarcimento del danno da fatto illecito, che sia
considerato dalla legge come reato, si prescrive nello stesso termine di prescrizione del reato se quest’ultimo si prescrive in un termine superiore ai cinque anni, mentre si prescrive in cinque anni se per il reato
è stabilito un termine uguale o inferiore, nel qual caso il termine di prescrizione dell’azione civile decorre
dalla data di consumazione del reato e non assumono rilievo eventuali cause di interruzione o sospensione della prescrizione relative al reato, essendo ontologicamente diversi l’illecito civile e quello penale.
Cass. 4 dicembre 1997, n. 12324.
L’istantaneità o la permanenza del fatto illecito extracontrattuale deve essere accertata con riferimento non già al danno, bensì al rapporto eziologico tra questo ed il comportamento contra ius dell’agente, qualificato dal dolo o dalla colpa. Mentre nel fatto illecito istantaneo tale comportamento è mero
elemento genetico dell’evento dannoso e si esaurisce con il verificarsi di esso, pur se l’esistenza di questo
si protragga poi autonomamente (fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti), nel fatto illecito permanente il comportamento contra ius oltre a produrre l’evento dannoso, lo alimenta continuamente per tutto il
tempo in cui questo perdura, avendosi così coesistenza dell’uno e dell’altro. Cass. 1 febbraio 1995, n. 1156.
Nell’illecito produttivo di effetti permanenti il diritto al risarcimento del danno sorge con l’inizio del
fatto generatore del danno e con questo persiste nel tempo, con la conseguenza che la prescrizione
comincia a decorrere ogni giorno successivo alla prima manifestazione del danno. Cass. 22 gennaio
1994, n. 655.
In tema di prescrizione del diritto al risarcimento dei danni da fatto illecito, per stabilire se il fatto è
considerato dalla legge come reato e sia perciò applicabile in luogo della prescrizione quinquennale o
biennale di cui ai primi due commi dell’art. 2947 c.c., la più lunga prescrizione eventualmente prevista
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
dalla legge penale, ai sensi del comma 3 dell’art. 9 citato, deve operarsi un raffronto tra il fatto illecito
dedotto in giudizio ed il fatto-reato, escludendo dal raffronto l’interesse penale protetto. Cass. 4 dicembre
1992, n. 12919.
8. Legittimazione attiva.
Anche colui che per circostanze contingenti si trovi ad esercitare un potere soltanto materiale sulla
cosa può dal danneggiamento di questa risentire un danno al suo patrimonio, indipendentemente dal
diritto che egli abbia all’esercizio di quel potere e cioè senza che sia necessaria l’identità fra il titolo al
risarcimento ed il titolo giuridico di proprietà. Pertanto, nel giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato non è necessario, ai fini della legittimazione attiva, provare l’esistenza di quest’ultimo titolo, bastando la prova del danno, in quanto l’ingiustizia di questo non è necessariamente connessa alla proprietà del
bene danneggiato, né all’esistenza di un diritto comunque tutelato erga omnes, potendo i diritti sul medesimo ben derivare da un’ampia serie di rapporti con altri soggetti, salvi i concorrenti o contrapposti diritti
di costoro. Cass. 20 agosto 2003, n. 12215.
L’usufruttuario ha un’autonoma legittimazione ad agire ai sensi dell’art. 2043 c.c. per il risarcimento del danno cagionato da un terzo al bene oggetto del suo diritto (nel caso di specie l’usufruttuario
lamentava fatti integranti una riduzione del suo diritto di godimento, consistenti nel crollo del muro di
contenimento del fabbricato in usufrutto). Cass. 11 agosto 2000, n. 10733.
Il diritto al risarcimento del danno spetta anche a colui che, per circostanze contingenti, si trovi ad
esercitare un potere soltanto materiale sulla cosa (nella specie: coltivazione di un orto) e possa dal
danneggiamento di questa risentire un pregiudizio al suo patrimonio, indipendentemente dal diritto, reale o personale, che egli abbia all’esercizio di quel potere; deve pertanto riconoscersi la legittimazione
attiva all’azione di risarcimento (nella specie: per rovina di prodotti a seguito di versamento di liquami)
sulla base del semplice rapporto di coltivazione. Cass. 17 dicembre 1999, n. 14232; conforme Cass. 28
aprile 2000, n. 5421.
Nel giudizio risarcitorio promosso dal danneggiato non è necessario, ai fini della legittimazione
attiva, provare l’esistenza del titolo di proprietà, bastando la prova del danno, in quanto l’ingiustizia
del danno non è necessariamente connessa alla proprietà del bene danneggiato, né all’esistenza di
un diritto comunque tutelato erga omnes, potendo i diritti sul medesimo ben derivare da un’ampia
serie di rapporti con altri soggetti, salvi i concorrenti o contrapposti diritti di costoro. Cass. 14 maggio
1993, n. 5485.
9. Rapporti tra giudizio penale e giudizio civile di risarcimento dei danni.
I testimoni giudiziari, se depongono il vero su ciò che viene loro domandato, non commettono
diffamazione ancorché la deposizione implichi una menomazione dell’onore, del decoro o della reputazione altrui, dal momento che la verità del fatto attribuito elimina, per la presenza della causa giustificativa
dell’adempimento di un dovere giuridico, il carattere offensivo dell’azione. Nel caso in cui, invece, essi
depongano il falso, commettono diffamazione ove sussistano i requisiti di tale illecito. Cass. 6 marzo
2008, n. 6041.
La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione
nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del
segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto
di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall’art 21 cost. e dall’art 10 convenzione europea dei diritti dell’uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si
accompagni ai parametri dell’utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa,
della continenza del fatto narrato o rappresentato. Cass. 22 febbraio 2008, n. 4603.
Qualora il giudice penale limiti la sua decisione alla condanna generica al risarcimento dei danni, la
sentenza, pur se passata in giudicato, non vincola il giudice civile demandato alla liquidazione, restando
salvo il potere-dovere dello stesso di escludere l’esistenza del danno risarcibile o il suo collegamento
causale all’illecito, ove la parte interessata non fornisca in concreto le relative prove. Cass. 21 marzo
2008, n. 7695.
La sentenza pronunciata, in sede penale, «perché il fatto non costituisce reato», perché c’è un dubbio sulla colpevolezza dell’imputato-automobilista (che, nel caso di specie, aprendo lo sportello travolse
un ciclista), non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile di danno. Durante il quale sta al giudice
accertare autonomamente i fatti dedotti in giudizio, pervenendo a soluzioni e qualificazioni che non sono
vincolate all’esito del processo penale. Ai sensi dell’articolo 652 c.p.p. il giudicato di assoluzione determina un effetto preclusivo nel giudizio civile (quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che
l’imputato non lo ha commesso) soltanto quando contiene un accertamento «effettivo, specifico e concreto» sull’insussistenza del fatto o sull’impossibilità di attribuirlo all’imputato. E non, dunque, quando è
unicamente escluso l’elemento soggettivo. Cass. 7 dicembre 2007, n. 25646.
La sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 del c.p.p. (cosiddetto patteggiamento)
costituisce un indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua
insussistente responsabilità, e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può
essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile. Cass. 11 maggio
2007, n. 10847.
La sentenza penale irrevocabile di assoluzione esplica la propria efficacia nel giudizio civile di
risarcimento dei danni promosso nei confronti dell’imputato-danneggiante e dei coobbligati, solo se in
sede penale il contraddittorio sia stato regolarmente instaurato verso tutti i corresponsabili. Cass. 20
settembre 2006, n. 20325.
10. Ipotesi applicative.
10.1. Responsabilità dei magistrati.
La responsabilità dello Stato, ai sensi dell’art. 13 della legge n. 117 del 1988, per i danni conseguente
a fatti costituenti reato commessi dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni ed accertati dal giudice penale, non è esclusa dalla circostanza che il comportamento del magistrato non sia diretto al conseguimento di fini istituzionali, ma mosso da motivi personali ed egoistici, quando l’atto stesso, indipendentemente dalla sua concreta rispondenza o meno alle esigenze di giustizia, sia comunque collegato all’espletamento della funzione giudiziaria, inserendosi nell’ambito di un procedimento quale forma di
trattazione dello stesso. (La S.C. ha così cassato la sentenza che aveva accolto la domanda risarcitoria nei
confronti del solo magistrato, mentre l’aveva rigettata nei confronti del Ministero di grazia e giustizia sul
presupposto che l’illecito non era attribuibile allo Stato, posto che il magistrato, sia pure mediante abuso
dei poteri attribuitigli dalla legge, aveva agito per scopi meramente personali, avvalendosi della sua posizione di superiorità). Cass. 24 novembre 2000, n. 15192.
È manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27 e 101 cost., la q.l.c. dell’art. 4 della
legge n. 117 del 1988, che prescrive la procedura per lo svolgimento dell’azione di responsabilità nei
confronti dei magistrati, sotto il profilo dell’asserito contrasto con i principi del giusto processo, per i
criteri restrittivi con i quali sarebbe stata applicata dai giudici ordinari, e per la mancanza della necessaria
terzietà nel giudice chiamato a decidere sulle relative controversie. Infatti, è la stessa Costituzione a conferire tutti i poteri giurisdizionali alle giurisdizioni ordinarie ed amministrative, non consentendo che esistano altre figure che esercitino la giurisdizione. Né le norme costituzionali invocate appaiono pertinenti,
in quanto le peculiarità del processo vanno correlate al tipo di azione di cui si tratta, che riguarda situazioni e soggetti nell’ambito di una funzione istituzionale che deve comunque essere garantita e protetta,
secondo scelte che rientrano nella insindacabile discrezionalità del giudizio del legislatore. Cass. 6 ottobre 2000, n. 13339.
La risarcibilità del danno cagionato dal magistrato per grave violazione di legge, ai sensi dell’art. 2,
comma 3, lett. a), della legge n. 117 del 1988, postula che tale violazione sia ascrivibile a negligenza
“inescusabile”, e, quindi, esige un quid pluris rispetto alla negligenza, richiedendo che essa si presenti
come non spiegabile senza agganci con le particolarità della vicenda atti a rendere comprensibile (anche
se non giustificato) l’errore del giudice. Cass. 6 ottobre 2000, n. 13339.
In tema di responsabilità civile dei magistrati, per effetto della pronuncia della Corte cost., del 22
ottobre 1990, n. 468 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della norma di cui all’art. 19, comma 2,
della L. n. 117 del 1988, nella parte in cui non prevede che il tribunale competente verifichi la non manifesta infondatezza della domanda risarcitoria proposta nei confronti del giudice successivamente al 7
aprile 1988 per vicende anteriori al 16 aprile 1988) il tribunale adito in sede civile dal presunto danneggiato ha l’obbligo della delibazione preliminare di ammissibilità dell’azione limitatamente alla ipotesi
in cui questa sia diretta contro il magistrato, nessun giudizio preliminare di ammissibilità essendo,
invece, richiesto, in caso di proposizione dell’azione stessa (anche) contro lo Stato, con la conseguenza
che l’eventuale declaratoria di improponibilità della domanda nei confronti del magistrato (quale effetto
del negativo giudizio preliminare di ammissibilità) ne impedisce l’esame nel merito nei confronti del
magistrato, ma non si estende, ipso facto, all’azione proposta contro lo Stato, senza che assuma, all’uopo, rilievo ostativo alla prosecuzione del giudizio nei soli confronti di quest’ultimo la circostanza che il
danneggiato abbia, in concreto, richiesto la condanna in solido di entrambi i convenuti. Cass. 4 novembre 1998, n. 11044.
In tema di responsabilità civile dei magistrati, ai fini della ammissibilità dell’azione proposta ai sensi
dell’art. 4 n. 2, della L. n. 117 del 1988 assume rilievo esclusivo la circostanza che siano stati, o meno,
esperite tutte le impugnazioni o, comunque, i rimedi previsti per i provvedimenti di urgenza, dovendo
colui che si assuma ingiustamente leso dal provvedimento del giudice preventivamente (ed inutilmente)
percorrere le vie che la legge processuale predispone per rimuovere gli errori e le violazioni di legge in
ipotesi realizzatesi, con la conseguenza che l’azione de qua dovrà dirsi inammissibile tutte le volte in cui,
a seguito della emanazione di un provvedimento di urgenza, e della conseguente instaurazione della fase
di merito, le parti abbiano, poi, convenuto una soluzione extraprocessuale della lite, con ciò impedendo
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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ogni possibilità di revisione o di revoca della decisione posta, poi, a base della richiesta risarcitoria. Cass.
8 maggio 1998, n. 4682.
Il termine di cui all’art. 5, comma 4, della L. n. 117 del 1988 in tema di responsabilità civile dei
magistrati (quaranta giorni dalla proposizione del reclamo per il deposito del provvedimento della Corte
di appello) deve ritenersi meramente ordinatorio, giusto il principio generale, desumibile dall’art. 152
c.p.c., secondo il quale i termini processuali non espressamente dichiarati perentori dalla legge o dal
giudice debbono considerarsi meramente ordinatori. Cass. 8 maggio 1998, n. 4682.
Ai sensi dell’art. 4 L. 14 aprile 1988, n. 118 per il giudizio di responsabilità civile del magistrato per
danni nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, è funzionalmente competente, anche per la delibazione
sull’ammissibilità della domanda (art. 5 legge citata) e per questioni di costituzionalità delle norme - che
pertanto non possono esser esaminate dalla Corte di cassazione adita per regolare la competenza - il
tribunale ove ha sede la Corte di appello del distretto più vicino (art. 5 L. 22 dicembre 1980, n. 879) a
quello ove è compreso l’ufficio giudiziario a cui egli appartiene. Cass. 25 febbraio 1998, n. 2039.
In base ai principi generali dettati dall’art. 2043 c.c. e all’applicazione che di questi fa l’art. 2 L. n. 117
del 1988, l’azione di risarcimento dei danni, derivanti da responsabilità per dolo o colpa dei magistrati,
è proponibile solo se è possibile ricollegare il danno al comportamento, all’atto o al provvedimento
giudiziario posto in essere dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni con un nesso di causa ed
effetto. Le sentenze istruttorie di proscioglimento e i decreti di archiviazione non rivestono autorità di
cosa giudicata nel giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno del danneggiato, poiché
trattasi di provvedimenti per i quali non si verifica la condizione della pronuncia a seguito di dibattimento
e che pertanto non possono considerarsi irrevocabili. Cass. 7 febbraio 1996, n. 991.
In tema di azione diretta a far valere, per fini risarcitori, la responsabilità civile del giudice, non è
impugnabile col regolamento di competenza ma con l’appello trattandosi di decisione di merito, la
sentenza con la quale il tribunale adito, pur declinando la propria competenza, si sia spogliato della causa
ritenendo improponibile la domanda in conseguenza della ritenuta soggezione della medesima alla disciplina della L. 13 aprile 1988, n. 117, e la osservanza di questa, anche in punto di competenza, come
presupposto processuale, la cui carenza determina siffatta improponibilità, con conseguente inapplicabilità della traslatio iudicii. Cass. 18 novembre 1992, n. 12349.
10.2. Responsabilità sanitaria.
In presenza di contratto di spedalità, la responsabilità della struttura ha natura contrattuale, sia in
relazione a propri fatti d’inadempimento sia per quanto concerne il comportamento dei medici dipendenti, a norma dell’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, ancorché non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei
medesimi. A questi fini è sufficiente che la struttura sanitaria comunque si avvalga dell’opera di un medico. Né ad escludere tale responsabilità è idonea la circostanza che ad eseguire l’intervento sia un medico
di fiducia del paziente, sempre che la scelta cada (anche tacitamente) su professionista inserito nella
struttura sanitaria, giacché la scelta del paziente risulta in tale ipotesi operata pur sempre nell’ambito di
quella più generale ed a monte effettuata dalla struttura sanitaria, come del pari irrilevante è che la scelta
venga fatta dalla struttura sanitaria con (anche tacito) consenso del paziente. L’accettazione del paziente
in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario-ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita
ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità, in
base alla quale la stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione
delle cure mediche e di quelle chirurgiche (generali e specialistiche) già prescritte dall’art. 2 L. n. 132 del
1968, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico
ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonché
di quelle “lato sensu” alberghiere. Cass. 13 aprile 2007, n. 8826.
L’originario dissenso alla trasfusione inizialmente formulato dal paziente con una valutazione altamente probabilistica prima dell’intervento chirurgico da lui accettato non può considerarsi più operante
in un momento successivo allorché, nel corso dell’intervento, davanti a un quadro clinico fortemente
immutato, si sia prospettato un imminente pericolo di vita, senza più possibilità d’interpello al paziente,
non rilevandosi praticabili altri mezzi per salvarlo. Cass. 23 febbraio 2007, n. 4211.
Il contratto che si instaura tra il paziente e la struttura sanitaria per la prestazione medica, essendo a
forma libera, può formarsi anche tacitamente, e la relativa prova, come anche del contenuto, può essere
desunta pure dal comportamento delle parti, sempre che non si tratti di prestazioni dalla struttura interessata (nel caso, pubblica) normalmente non effettuate o rese solamente a particolari condizioni (es. con
esclusione del contributo a spese dello Stato), in ordine alle quali va viceversa data la prova del relativo
patto espresso. (Nell’affermare il suindicato principio la S.C. ha escluso che l’accettazione in ospedale
pubblico con diagnosi di “deviazione del setto nasale” al fine dell’effettuazione di un intervento di settorinoplastica e la relativa esecuzione da parte del medico consentissero, in assenza di prova, di ritenere
sussistente un accordo relativo all’esecuzione di un intervento chirurgico - oltre che volto al recupero
della funzionalità respiratoria anche - con “finalità estetica”, essendo quest’ultima prestazione “notoria-
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2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
mente non prevista tra quelle eseguibili presso una struttura sanitaria pubblica a spese dello Stato”, non
potendo relativamente ad essa pertanto configurarsi la formazione tacita del consenso). Cass. 23 febbraio 2007, n. 4211.
La condotta di corretta informazione sul trattamento sanitario, specie quando è ad alto rischio, non
appartiene ad un momento prodromico esterno al contratto, ma è condotta interna al cd. “contatto
medico sanitario” ed è elemento strutturale interno al rapporto giuridico che determina il consenso al
trattamento sanitario. Cass. 19 ottobre 2006, n. 22390.
La responsabilità del sanitario (e di riflesso della struttura per cui egli agisce) per violazione dell’obbligo del consenso informato discende dalla tenuta della condotta omissiva di adempimento dell’obbligo di informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente venga sottoposto e
dalla successiva verificazione - in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso, e, quindi, in forza
di un nesso di causalità con essa - di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, mentre, ai
fini della configurazione di siffatta responsabilità è del tutto indifferente se il trattamento sia stato eseguito correttamente o meno, svolgendo rilievo la correttezza dell’esecuzione agli effetti della configurazione di una responsabilità sotto un profilo diverso, cioè riconducibile, ancorché nel quadro dell’unitario
“rapporto” in forza del quale il trattamento è avvenuto, direttamente alla parte della prestazione del sanitario (e di riflesso della struttura ospedaliera per cui egli agisce) concretatesi nello svolgimento dell’attività di esecuzione del trattamento. La correttezza o meno del trattamento, infatti, non assume alcun rilievo
ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste
per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni e che, quindi,
tale trattamento non può dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso ed appare eseguito in
violazione tanto dell’art. 32, comma 2, cost., (a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), quanto dell’art. 13 cost., (che garantisce l’inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria
salute e della propria integrità fisica), e dall’art. 33 L. 23 dicembre 1978, n. 833 (che esclude la possibilità
d’accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e
non ricorrono i presupposti dello stato di necessità; ex art. 54 c.p.), donde la lesione della situazione
giuridica del paziente inerente alla salute ed all’integrità fisica. Mentre, sul piano del danno - conseguenza, venendo in considerazione il peggioramento della salute e dell’integrità fisica del paziente, rimane del
tutto indifferente che la verificazione di tale peggioramento sia dovuta ad un’esecuzione del trattamento
corretta o scorretta. Cass. 14 marzo 2006, n. 5444.
La responsabilità dell’ente ospedaliero ha natura contrattuale e può conseguire, a norma dell’art.
1218 c.c., all’inadempimento di quelle obbligazioni che sono direttamente a carico dell’ente debitore. E
può anche conseguire, a norma dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, che assume la veste di ausiliario necessario del debitore. Cass.
2 febbraio 2005, n. 2042.
Il primario ospedaliero non può essere chiamato a rispondere di ogni evento dannoso che si verifichi
in sua assenza nel reparto affidato alla sua responsabilità, non essendo esigibile un controllo continuo e
analitico di tutte le attività terapeutiche che vi si compiono; tuttavia, il suo dovere di vigilanza sull’attività
del personale sanitario implica quantomeno che lo stesso si procuri informazioni precise sulle iniziative
intraprese (o che intendono intraprendere) gli altri medici, cui il paziente sia stato affidato, e indipendentemente dalla responsabilità degli stessi con riguardo a possibili, e non del tutto imprevedibili, eventi, che
possono intervenire durante la degenza del paziente in relazione alle sue condizioni, allo scopo di adottare i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche. Cass. 25 febbraio 2005, n. 4058.
In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente
nascita indesiderata, l’inadempimento del medico rileva in quanto impedisce alla donna di compiere la
scelta di interrompere la gravidanza. Infatti la legge, in presenza di determinati presupposti, consente alla
donna di evitare il pregiudizio che da quella condizione del figlio deriverebbe al proprio stato di salute e
rende corrispondente a regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza se informata di gravi
malformazioni del feto. Ne consegue che la possibilità per la madre di esercitare il suo diritto ad una
procreazione cosciente e responsabile interrompendo la gravidanza assume rilievo sotto il profilo del
nesso di causalità, e non anche come criterio di selezione dei (tipi di) danni risarcibili; e che non sono
danni che derivano dall’inadempimento del medico quelli che il suo adempimento non avrebbe evitato:
una nascita che la madre non avrebbe potuto scegliere di rifiutare; una nascita che non avrebbe in concreto rifiutato; la presenza nel figlio di menomazioni o malformazioni al cui consolidarsi non avrebbe
potuto porsi riparo durante la gravidanza in modo che il figlio nascesse sano. Cass. 29 luglio 2004, n.
14488; conforme Cass. 20 ottobre 2005, n. 20320.
È immune dal denunciato vizio di insufficienza e contraddittorietà di motivazione la sentenza del
giudice di merito che abbia ritenuto la responsabilità del Ministero della Salute (già della Sanità) per un
comportamento omissivo colposo - sulla base dell’attribuzione ad esso, già anteriormente alla legge
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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n. 107 del 1990, di un dovere istituzionale (in forza di varie fonti normative) di direzione, autorizzazione
e sorveglianza sul sangue importato o prodotto per emotrasfusioni e sugli emoderivati - in relazione ai
casi nei quali l’insorgenza delle patologie per infezioni HBV, HIV e HCV, dovute ad emotrasfusioni o ad
assunzione di prodotti emoderivati, si sia verificata rispettivamente in epoca successiva agli anni 1978,
1985 e 1988, identificati come quelli in cui per ciascuna di dette patologie vennero affrontati i relativi test
diagnostici e, quindi, poteva accertarsi se il sangue immesso nel circuito delle emotrasfusioni o della
produzione di emoderivati fosse infetto. Cass. 31 maggio 2005, n. 11609.
L’obbligo si estende ai rischi prevedibili e non anche agli esiti anomali, al limite del fortuito, che
non assumono rilievo secondo l’id quod plerumque accidit, non potendosi disconoscere che l’operatore sanitario deve contemperare l’esigenza di informazione con la necessità di evitare che il paziente, per
una qualsiasi remota eventualità, eviti di sottoporsi anche ad un banale intervento, evitando quindi quella
che la giurisprudenza francese definisce una réaction dangereuse del paziente. Assume rilevanza, in
proposito, l’importanza degli interessi e dei beni in gioco, non potendosi consentire tuttavia, in forza di un
mero calcolo statistico, che il paziente non venga edotto di rischi, anche ridotti, che incidano gravemente
sulle sue condizioni fisiche o, addirittura, sul bene supremo della vita. Cass. 30 luglio 2004, n. 14638.
In tema di responsabilità del medico dipendente di una struttura ospedaliera per i danni subiti da un
paziente ricoverato d’urgenza presso il pronto soccorso, pure se la difficoltà dell’intervento e la diligenza del professionista vanno valutate in concreto, rapportandole al livello della sua specializzazione ed alle
strutture tecniche a sua disposizione, egli deve valutare con prudenza e scrupolo i limiti della propria
adeguatezza professionale, ricorrendo anche all’ausilio di un consulto se la situazione non è così urgente
da sconsigliarlo; deve adottare inoltre, tutte le misure volte ad ovviare alle carenze strutturali ed organizzative incidenti sugli accertamenti diagnostici e sui risultati dell’intervento, ovvero, ove ciò non sia possibile, deve informare il paziente, consigliandogli, se manca l’urgenza di intervenire, il ricovero in una
struttura più idonea. Cass. 5 luglio 2004, n. 12273.
La mancata o insufficiente compilazione della cartella clinica non solo non è circostanza sufficiente
a escludere la colpa del medico, ma anzi costituisce fondamento di tale colpa: la compilazione del suddetto documento rientra tra gli obblighi primari del medico stesso. Cass. 5 luglio 2004, n. 12273.
L’ordinamento positivo tutela il concepito e l’evoluzione della gravidanza esclusivamente verso la
nascita, e non anche verso la “non nascita”, essendo pertanto (al più) configurabile un “diritto a nascere”
e a “nascere sani”, suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il
profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da “contatto sociale”, nel
senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso); sotto il profilo - latamente - pubblicistico, nel senso che debbono venire ad
essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità
idonei a garantire (nell’ambito delle umane possibilità) al concepito di nascere sano. Non è invece in capo
a quest’ultimo configurabile un “diritto a non nascere” o a “non nascere se non sano”, come si desume
dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978, in base al quale si evince che: a)
l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine); b) trattasi di
un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o anomalie del
feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e
non già in sé e per sé considerate (con riferimento cioè al nascituro). Cass. 21 giugno 2004, n. 11488.
L’omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel
feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea
a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna,
ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere
sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza. Cass.
21 giugno 2004, n. 11488.
In tema di responsabilità medico-chirurgica, la distribuzione dei compiti tra medico in posizione
apicale e medico in posizione intermedia - quale si desume dagli artt. 7 del D.P.R. n. 128 del 1969 e 63 del
D.P.R. n. 761 del 1979 - non esclude che il secondo sia tenuto ad un comportamento improntato a
perizia e diligenza, sicché, di fronte a scelte del primario che debbono apparirgli improprie, egli è tenuto
a manifestare le proprie diverse valutazioni e, se necessario, il proprio motivato dissenso. Cass. 27 febbraio 2004, n. 4013.
Ai sensi dell’art. 7, comma 6, D.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, l’assistente di un ente ospedaliero - che a
norma dell’art. 63, comma 3, D.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, appartiene alla posizione iniziale, e perciò
svolge funzioni medico-chirurgiche di supporto - ha la responsabilità dei malati, ma la sua collaborazione
nei compiti del primario e dell’aiuto del reparto è vincolata alle scelte terapeutiche, istruzioni ed iniziative
dei medesimi - salvo il dissenso ad essi espresso, basato sulla necessaria diligenza e perizia - potendo
provvedere direttamente soltanto nei casi di urgenza, purché la valutazione della sussistenza della stessa
non contrasti, nei predetti limiti, con le direttive ricevute. Pertanto, l’assistente che, dopo aver tempestiva-
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
mente rappresentato all’aiuto le complicanze insorte durante un parto, allorché l’urgenza non era ancora
sorta, o sia stata da questi esclusa, esegua le direttive terapeutiche dal medesimo impartite, non è responsabile delle gravi lesioni derivatene alla partoriente, non essendogli consentito dalla normativa succitata di discostarsi dalle direttive ricevute, salvo il predetto motivato dissenso, né potendo l’assistente,
con maggiori titoli o di turno, sostituire l’aiuto scegliendo una terapia diversa - quale ad esempio la
disposizione e l’esecuzione di un parto cesareo, che è un intervento chirurgico - se non ricorrono le
ipotesi previste dal comma 7 del medesimo art. 7 D.P.R. n. 128 del 1969, e cioè l’assenza o l’impedimento
dell’aiuto. Cass. 10 maggio 2001, n. 6502.
In tema di liquidazione del danno alla persona, è da considerarsi irrilevante il rifiuto del danneggiato
di sottoporsi ad intervento chirurgico al fine di diminuire l’entità del danno, atteso che non può essere
configurato alcun obbligo a suo carico di sottoporsi all’intervento stesso, non essendo quel rifiuto inquadrabile nell’ipotesi di concorso colposo del creditore, previsto dall’art. 1227 c.c. Cass. 10 maggio 2001, n.
6502.
Il ricovero di un paziente in una struttura (pubblica o privata) deputata a fornire assistenza sanitaria
avviene sulla base di un contratto tra il paziente stesso ed il soggetto gestore della struttura e l’adempimento di tale contratto, con riguardo alle prestazioni di natura sanitaria, è regolato dalle norme che
disciplinano la corrispondente attività del medico nell’ambito del contratto di prestazione d’opera
professionale, con la conseguenza che il detto gestore risponde dei danni derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme di cui agli artt. 1176 e 2236 c.c. Il positivo
accertamento della responsabilità dell’istituto postula, pertanto, (pur trattandosi di responsabilità contrattuale, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di onere della prova, che grava, per l’effetto,
sull’istituto stesso e non sul paziente), pur sempre la colpa del medico esecutore dell’attività che si assume illecita, non potendo detta responsabilità affermarsi in assenza di tale colpa (fatta salva l’operatività di
presunzioni legali in ordine al suo concreto accertamento), poiché sia l’art. 1228 che il successivo art.
2049 c.c. presuppongono, comunque, un illecito colpevole dell’autore immediato del danno, di talché, in
assenza di tale colpa, non è ravvisabile alcuna responsabilità contrattuale del committente per il fatto
illecito dei suoi preposti. Cass. 8 maggio 2001, n. 6386.
Il consenso informato - personale del paziente o di un proprio familiare - in vista di un intervento chirurgico o di altra terapia specialistica o accertamento diagnostico invasivi, non riguarda soltanto i rischi oggettivi
e tecnici in relazione alla situazione soggettiva e allo stato dell’arte della disciplina, ma riguardano anche la
concreta, magari momentaneamente carente situazione ospedaliera, in rapporto alle dotazioni e alle attrezzature, e al loro regolare funzionamento, in modo che il paziente possa non soltanto decidere se sottoporsi o meno all’intervento, ma anche se farlo in quella struttura ovvero chiedere di trasferirsi in un’altra. Cass. 30
luglio 2004, n. 14638; conforme Cass. 16 maggio 2000, n. 6318, Cass. 21 luglio 2003, n. 11386.
Qualora un intervento chirurgico abbia esito negativo, rendendo immediata anziché allontanare nel
tempo o evitare una menomazione, e tale esito sia imputabile alla responsabilità del medico (nella specie
per non avere correttamente informato l’interessato circa i rischi dell’intervento stesso), la compromissione arrecata alla salute del paziente va identificata, ai fini della liquidazione dei danni, tenendo presente
il momento in cui la stessa si sarebbe prodotta naturalmente. Cass. 12 luglio 1999, n. 7345.
10.2.1. Responsabilità sanitaria. Profili probatori.
Tra il paziente ed il medico dipendente si instaura un contatto sociale, il cui inadempimento è sottoposto al regime di cui all’art. 1218 c.c. Il paziente danneggiato che chiede il risarcimento deve limitarsi
a provare il contratto con la struttura sanitaria (o il “contatto sociale” con il medico), l’aggravamento
della patologia o l’insorgenza di un’affezione; all’ammalato-creditore basterà allegare un inadempimento del debitore che sia “qualificato”, cioè astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato:
starà poi al debitore dimostrare che l’inadempimento non c’è stato o che, pur esistendo, esso non è
stato rilevante sotto il profilo eziologico (nella specie la Corte ha accolto il ricorso di un paziente che
sosteneva di aver contratto l’epatite C dopo le trasfusioni praticategli per un intervento effettuato in una
casa di cura, cassando con rinvio la sentenza di merito che imponeva all’ammalato l’onere di dimostrare
il nesso causale fra l’emotrasfusione e la patologia contratta oltre che di provare che egli non fosse
portatore della malattia prima del ricovero). Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577.
Il risultato “anomalo” o anormale - in ragione dello scostamento da una legge di regolarità causale
fondata sull’esperienza - dell’intervento medico-chirurgico, fonte di responsabilità, è da ravvisarsi non
solo in presenza di aggravamento dello stato morboso, o in caso di insorgenza di una nuova patologia,
ma anche quando l’esito non abbia prodotto il miglioramento costituente oggetto della prestazione
cui il medico-specialista è tenuto, producendo invece, conseguenze di carattere fisico e psicologico. (Con
riferimento ad intervento routinario di settorinoplastica effettuato in struttura sanitaria pubblica, nel cassare la sentenza d’appello che, pur dando atto esserne conseguito un esito di “inalterazione” - e quindi di
sostanziale “insuccesso” sotto il profilo del pieno recupero della funzionalità respiratoria, aveva ciò nonostante ritenuto la condotta del medico come non integrante ipotesi di responsabilità, la S.C. ha enunziato
il principio di cui in massima). Cass. 13 aprile 2007, n. 8826.
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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In base all’art. 1218 c.c. il paziente ha l’onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o
inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare né la colpa del medico né quella della struttura.
Trattandosi di obbligazione professionale, la misura dello sforzo diligente necessario per il relativo
corretto adempimento va considerata in relazione al tipo di attività dovuta per il soddisfacimento
dell’interesse creditorio, secondo quanto stabilito dall’art. 1176, comma 2, c.c., senza che possa trovare
applicazione la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato. Cass. 13 aprile 2007, n. 8826.
10.3. Attività bancaria.
Non ha diritto al risarcimento del danno da parte del notaio il rappresentante legale di una società
che, dopo aver emesso un assegno a vuoto per conto dell’azienda, venga iscritto nell’elenco dei protestati; la normativa in materia non impone l’indicazione del nominativo del legale rappresentante ma neppure la esclude. Cass. 6 maggio 2008, n. 11049.
In tema di risarcimento danni, il protesto cambiario, conferendo, di fatto, pubblicità all’insolvenza del
debitore, non è destinato ad assumere rilevanza soltanto in un’ottica commerciale-imprenditoriale, ma si
risolve in una più complessa vicenda di indubitabile discredito tanto personale quanto patrimoniale, così
che, ove illegittimamente sollevato, esso deve ritenersi del tutto idoneo a provocare un danno patrimoniale “in re ipsa” anche sotto il profilo della lesione dell’onore e della reputazione del protestato, a prescindere dai suoi interessi commerciali. Cass. 20 marzo 2008, n. 7495.
Non è tenuto al risarcimento dei danni l’istituto di credito che con il proprio comportamento ha contribuito alla cessazione dell’attività di una società qualora la preesistenza dello stato di crisi economica sia
tale da rendere irrilevante la successiva iniziativa processuale della banca, che non solo non ha costituito
la causa unica della cessazione dell’attività imprenditoriale, ma neppure è stata idonea a renderla irreversibile, atteso che si applica solo alle lesioni del “bene salute” l’orientamento secondo cui per la sussistenza del nesso causale sarebbe sufficiente anche un fatto che abbia solo anticipato il verificarsi dell’evento
dannoso. Cass. 12 dicembre 2007, n. 26007.
Il danno cagionato per abusiva concessione di credito è configurabile come responsabilità extracontrattuale nei confronti dei creditori e dei terzi, ma l’esercizio della relativa azione non è attribuibile al
curatore del fallimento, posto che essa costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo
creditore e non già della massa in quanto tale. Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7030; conforme Cass.
28 marzo 2006, n. 7029, Cass. 28 marzo 2006, n. 7031.
Il cliente della banca il quale, all’atto della concessione di un finanziamento, sottace callidamente
l’esistenza di un precedente fallimento a carico del proprio coniuge, anch’egli beneficiario del finanziamento, inducendo così la banca a concludere un contratto dal quale si sarebbe altrimenti astenuta,
tiene una condotta illecita rientrante nell’alveo dell’art. 2043 c.c., e obbliga l’autore al risarcimento del
danno in favore della banca, quand’anche quest’ultima non domandi l’annullamento del contratto ai
sensi dell’art. 1439 c.c. Cass. 19 settembre 2006, n. 20260.
Il concorso del fatto colposo del creditore ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c. nella causazione di un
illecito, contrattuale od extracontrattuale, non può consistere nell’avere determinato costui nel danneggiante la percezione di una situazione di apparenza del diritto, che avrebbe giocato rilievo concausale
nella causazione dell’illecito. Infatti, postulando il rilievo della creazione della situazione di apparenza la
determinazione di una situazione riconducibile al generale principio dell’affidamento incolpevole ed
essendo, quindi, presupposto per la sua configurabilità che il soggetto, il quale versi in una situazione
nella quale fa leva sull’affidamento indotto dall’apparenza da altri creata, non sia in colpa, per l’evidente
incompatibilità logica che altrimenti vi sarebbe con la posizione soggettiva di affidamento, non è concepibile che la determinazione della situazione di apparenza possa assumere la funzione di concausa rispetto all’inadempimento (o al ritardo nell’adempimento) del debitore o al fatto ingiusto ex art. 2043 c.c.,
assistiti a loro volta dall’elemento soggettivo e, quindi, almeno dalla colpa, non potendo chi è in colpa
essere nel contempo incolpevolmente affidato (Principio applicato dalla S.C. in riferimento ad fattispecie
di preteso concorso di colpa del prenditore di un assegno nella responsabilità della banca che aveva
pagato un assegno non trasferibile). Cass. 15 marzo 2006, n. 5677.
La banca trattaria, ove fornisca, pur non essendo a ciò obbligata, le informazioni richieste da altro
istituto di credito in ordine alla esistenza di una sufficiente provvista per il pagamento di un assegno di
conto corrente, deve dare, per non incorrere in responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., informazioni esatte e completamente veritiere con riguardo alla situazione presente al momento della richiesta, anche specificando, nel caso in cui si debba attendere il buon fine di effetti versati sul conto del
traente, che i fondi non sono immediatamente disponibili. Cass. 1 agosto 2001, n. 10492.
La controversia avente ad oggetto la responsabilità extracontrattuale della banca per aver consentito
l’incasso di assegni da parte di soggetto non legittimato non riguarda l’adempimento di un’obbligazione cartolare, per la quale vigono i principi di formalità e letteralità, e la prova della titolarità del credito
portato dai titoli può essere data con ogni mezzo idoneo, compresi documenti idonei a provare che
all’intestazione del titolo corrisponde il soggetto che agisce in giudizio per far valere la responsabilità
aquiliana della banca. Cass. 5 maggio 2000, n. 5641.
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
Nel caso di furto di moduli per assegni circolari trafugati durante il trasporto e falsificati, la banca
per sottrarsi alla responsabilità risarcitoria verso il prenditore non può esimersi dal dare al fatto adeguata pubblicità diretta alla generalità dei possibili prenditori, onde prevenire al massimo il pericolo di
inganni alla pubblica fede e tutelare i diritti dei terzi. Cass. 18 febbraio 2000, n. 1859.
L’uso interbancario di chiedere o dare, per telefono o con altro mezzo, informazioni sull’esistenza di
fondi per il pagamento di assegni in conto corrente, individua una responsabilità di natura extracontrattuale della banca trattaria, qualora questa dia alla banca richiedente notizie non rispondenti al vero sulla
situazione del conto al momento dell’informazione. Tale responsabilità, giustificata dalla conoscenza che
la banca ha del proprio cliente e dell’affidamento che essa comporta nei terzi, non si estende oltre l’ambito entro cui l’uso è radicato, ossia anche alla solvibilità in generale del cliente, in quanto ciò esula dalle
conoscenze acquisibili in base allo stretto rapporto di conto corrente. Cass. 10 ottobre 1998, n. 10067.
10.4. Denuncia di reato perseguibile d’ufficio.
La denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del
denunciante, ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione del denunciato, se non quando essa possa considerarsi calunniosa. Al di fuori di tale ipotesi, infatti, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, togliendole
ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato. Ne consegue che spetta all’attore, che in sede civile chieda il risarcimento
dei danni assumendo che la denuncia era calunniosa, dimostrare che la controparte aveva consapevolezza dell’innocenza del denunciato. Cass. 25 maggio 2004, n. 10033; conforme Cass. 23 gennaio 2002, n.
750, Cass. 20 ottobre 2003, n. 15646.
In tema di illecito civile, la scriminante dell’adempimento del dovere derivante dall’ordine dell’autorità, di cui all’art. 51 c.p. trova applicazione in via analogica anche con riferimento al dovere del pubblico
ufficiale di riferire nel rapporto i fatti costituenti reato; ciò, a meno che non si tratti di ordine illegittimo
(es., incarico di effettuare un’indagine sul contenuto di uno scritto anonimo, non limitata a quanto integrante fattispecie di reato bensì estesa ai fatti privati della persona ivi indicata come responsabile), e che
tale illegittimità sia dal medesimo sindacabile. Cass. 8 aprile 2003, n. 5505.
10.5. Seduzione con promessa di matrimonio.
Con riferimento alla responsabilità del seduttore con promessa di matrimonio, occorre una vera e
propria attività dolosa, nel senso contrattualistico del termine, da parte dell’uomo, intesa a far credere
alla serietà della promessa o a vincere la ritrosia o il pudore della donna e a determinarne la volontà, e tale
da stabilire un nesso causale tra la promessa e la traditio corporis, da parte della donna: l’accertamento
di tale requisito involge una valutazione di fatto per la quale il giudice può avvalersi di elementi indiziari e
prove presuntive, occorrendo però che l’indagine presuntiva sia basata su elementi particolarmente gravi
e concordanti, da valutarsi anche in relazione alle condizioni ambientali e culturali dei soggetti. Cass. 8
luglio 1993, n. 7493.
La pretesa risarcitoria derivante da seduzione con promessa di matrimonio non è riconducibile
all’ambito di applicazione dell’art. 1337 c.c., poiché l’art. 81 c.c. si pone come norma speciale, di per sé
preclusiva di ogni possibilità di richiamo alla norma generale di cui all’art. 1337 c.c. Cass. 10 agosto 1991,
n. 8733.
La seduzione con promessa di matrimonio, che per configurare fatto illecito civile, fonte di risarcimento del danno patrimoniale per la persona sedotta, non richiede gli estremi dell’illecito penale
previsto dall’art. 526 c.p., essendo sufficiente alla sua realizzazione la mera colpa dell’agente, non
trova deroga con riguardo alla relativa responsabilità ex art. 2043 c.c. in relazione all’evoluzione dei
costumi e della legislazione, nonché ai mutamenti della coscienza sociale, che impongono al giudice
soltanto una maggiore attenzione nell’accertamento di un comportamento dolosamente ingannevole o
colposamente fuorviante e nella ricerca, sulla base di prove concrete e certe, del fondamento dei pregiudizi da “disistima sociale” o da “perdita di occasioni matrimoniali” senza affidarsi a valutazioni discrezionali presuntive. Cass. 10 agosto 1991, n. 8733.
In tema di risarcimento del danno derivante da seduzione con promessa di matrimonio, non è
configurabile il concorso di colpa del soggetto passivo, comportando un comportamento colpevole di
questi nella valutazione della serietà, ragionevolezza ed attualità della promessa, il difetto della stessa
antigiuridicità della condotta dell’agente. Cass. 27 novembre 1986, n. 6994.
Nell’azione di risarcimento dei danni da seduzione con promessa di matrimonio, il termine di prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui la sedotta acquista la certezza che il seduttore non
manterrà la promessa. Cass. 19 dicembre 1980, n. 6568.
10.6. Risarcimento del danno per mancata attuazione di direttiva comunitaria.
La mancata trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie 75/362/Cee e 82/76/Cee - non autoesecutive in quanto, pur prevedendo lo specifico obbligo di
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
retribuire adeguatamente la formazione del medico specializzando, non ne consentivano la quantificazione - fa sorgere, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di giustizia, il diritto degli
interessati al risarcimento del danno cagionato per il ritardato adempimento, consistente nella perdita
della chance di ottenere i benefici - essenziali per consentire un percorso formativo scevro, almeno in
parte, da preoccupazioni esistenziali - resi possibili da una tempestiva attuazione delle direttive medesime. Cass., 11 marzo 2008, n. 6427.
In tema di risarcimento del danno subito dal privato in conseguenza della tardiva attuazione delle
direttive comunitarie sull’istituzione di corsi di specializzazione medica con previsione di adeguata retribuzione per i partecipanti, il risarcimento non è subordinato alla prova, da parte degli specializzandi, che
i corsi frequentati dal 1983 al 1991 abbiano avuto le stesse caratteristiche di quelli indetti a partire dal
D.Lgs. n. 257/91, trattandosi di una circostanza comunque non imputabile agli specializzandi, ma allo
stesso legislatore che ha tardivamente recepito la direttiva comunitaria. Pertanto, il danno subìto costituisce una conseguenza immediata e diretta (ai sensi dell’art. 1223 c.c.) dell’illecito aquiliano commesso
dallo Stato italiano che ha violato precisi obblighi nel non recepire tempestivamente le direttive comunitarie richiamate. Cass. 12 febbraio 2008, n. 3283.
Le disposizioni di una direttiva comunitaria non attuata hanno efficacia diretta nell’ordinamento dei
singoli stati membri - sempre che siano incondizionate e sufficientemente precise e lo stato destinatario sia
inadempiente per l’inutile decorso del termine accordato per dare attuazione alla direttiva - limitatamente ai
rapporti tra le autorità dello stato inadempiente ed i soggetti privati (cosiddetta efficacia verticale), e non
anche nei rapporti interprivati (cosiddetta efficacia orizzontale). Cass. 25 febbraio 2004, n. 3762.
In tema di risarcibilità del danno subito dal singolo in conseguenza della mancata attuazione di
direttiva comunitaria non autoesecutiva da parte del legislatore italiano, deve riconoscersi il diritto del
privato al risarcimento del danno, sia che l’interesse leso giuridicamente rilevante sia qualificabile come
interesse legittimo sia come diritto soggettivo, qualora lo Stato membro non abbia adottato i provvedimenti attuativi nei termini previsti dalla direttiva stessa e allorché si verifichino le seguenti condizioni,
conformemente ai principi più volte enunciati dalla Corte di Giustizia: a) che la direttiva preveda l’attribuzione di diritti in capo ai singoli soggetti; b) che tali diritti possano essere individuati in base alle disposizioni della direttiva; c) che sussista il nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato e
il pregiudizio subito dal soggetto leso. Cass. 16 maggio 2003, n. 7630.
Le disposizioni di una direttiva comunitaria non attuata hanno efficacia diretta nell’ordinamento dei
singoli stati membri - sempre che siano incondizionate e sufficientemente precise e lo stato destinatario
sia inadempiente per l’inutile decorso del termine accordato per dare attuazione alla direttiva - limitatamente ai rapporti tra le autorità dello stato inadempiente ed i soggetti privati (cosiddetto efficacia verticale), e non anche nei rapporti interprivati (cosiddetto efficacia orizzontale), a meno che - come precisato
dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nella sentenza 12 luglio 1990 in causa 188/89, Foster siano invocate nei confronti di un organismo il quale, indipendentemente dalla sua forma giuridica, sia
stato incaricato con atto della pubblica autorità di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio di
interesse pubblico e disponga a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle
norme che si applicano nei rapporti tra singoli. Cass. 23 gennaio 2002, n. 752.
Considerata la funzione risarcitoria o quanto meno indennitaria - cioè di compensazione di una perdita patrimoniale, a prescindere dalla illiceità della sua causa - della “indennità” disciplinata dall’art. 2,
comma 7, D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 80, diretta a compensare il danno subito dal lavoratore per effetto
della tardiva attuazione, da parte dello Stato italiano, della direttiva comunitaria in materia di tutela
dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, la indennità stessa non conseguirebbe il suo scopo ove non includesse il danno da ritardo, secondo una disciplina corrispondente a
quella delle obbligazioni risarcitorie, resa necessaria anche ai fini dell’ottemperanza alle prescrizioni della
giurisprudenza comunitaria riguardo al risarcimento del danno da mancata attuazione di una direttiva
comunitaria, secondo cui non possono essere applicate condizioni formali e sostanziali meno favorevoli
di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna. D’altra parte, il mancato richiamo, da parte
del citato comma 7, del comma 5 del medesimo articolo 2, che prevede la decorrenza degli interessi e
della svalutazione monetaria dalla data di presentazione della domanda, si giustifica proprio con il fatto
che per le fattispecie di insolvenza perfezionatesi quando la direttiva non era stata ancora attuata la
domanda non avrebbe potuto essere proposta tempestivamente. Cass., 27 settembre 1996, n. 8552.
10.7. Attività sportiva.
Chi si rompe un braccio durante una gara amichevole al “braccio di ferro” non può appellarsi alle
regole fissate dalla federazione italiana di questo sport per ottenere il risarcimento dei danni. Potrà,
invece, richiamare soltanto le norme di comune prudenza che se non osservate faranno scattare l’indennizzo per le lesioni riportare. Cass. 22 ottobre 2004, n. 20597.
In materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad un infortunio sportivo,
qualora siano derivate lesioni personali ad un partecipante all’attività a seguito di un fatto posto in essere
da un altro partecipante, il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il
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2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento
lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una
violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco, con la conseguenza che sussiste in ogni
caso la responsabilità dell’agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli
stessi non integrino una violazione delle regole dell’attività svolta; la responsabilità non sussiste invece
se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell’attività, e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie
dell’attività sportiva specificamente svolta, l’atto sia a questa funzionalmente connesso. In entrambi i casi,
tuttavia il nesso funzionale con l’attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte
che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport
praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la
qualità delle persone che vi partecipano. Cass. 8 agosto 2002, n. 12012.
10.8. Danno da fumo.
L’utilizzo sulle confezioni di sigarette di un messaggio pubblicitario considerato ingannevole, come il
segno descrittivo “light”, lede un interesse giuridicamente rilevante e perciò giustifica il risarcimento del
danno, indipendentemente dall’esistenza di una specifica disposizione che vieti l’espressione impiegata.
Cass. 4 luglio 2007, n. 15131.
Costituisce apprezzamento in fatto non censurabile in Cassazione, in quanto adeguatamente motivato, la circostanza che il giudice d’appello abbia ritenuto provato il nesso di causalità tra le malattie della
lavoratrice e l’intolleranza al fumo presente nell’ambiente di lavoro, sulla base delle certificazioni mediche esibite in giudizio e senza ricorso alla consulenza tecnica d’ufficio. Cass. 16 novembre 2006, n. 24404.
L’attività di produzione e vendita di sigarette non può ritenersi attività pericolosa ai sensi dell’art.
2050 c.c. in quanto, poiché le singole sigarette non possiedono un’intrinseca potenzialità lesiva, la pericolosità del prodotto può derivare unicamente dall’uso smodato, consapevole e volontario, dei prodotti di
tale attività; né vengono adoperati mezzi pericolosi in quanto i macchinari impiegati per il confezionamento e lo smercio non presentano alcuna particolarità o potenzialità dannosa. Neppure può il produttore di sigarette ritenersi responsabile per i danni da fumo ex art. 2043 c.c. posto che la produzione e
vendita di sigarette è attività lecita, regolarmente autorizzata dallo Stato e che il fumo è un’abitudine, non
una forma di dipendenza: nonostante smettere di fumare sia difficile, milioni di persone vi riescono e non
è corretto affermare che i fumatori perdono il controllo delle loro capacità decisionali. Inoltre, con sicurezza sin dagli anni ‘30, i rischi che il fumo comporta erano largamente noti all’intera società italiana, sicché
i fumatori, ben sapendo della nocività del fumo, e iniziando a fumare - e continuando - hanno accettato il
rischio delle conseguenze di tale condotta: il danno che ne è derivato non è quindi risarcibile, ex art.
1227 c.c., non potendosi dolere dei danni subiti colui che tiene una condotta negligente non adottando
cautele minime ed ampiamente conosciute di prudenza. Non è ipotizzabile la responsabilità extracontrattuale dei produttori di sigarette per omessa informazione del consumatore sui pericoli del fumo, posto
che l’obbligo gravante sul produttore, quando non sia stato espressamente sancito da specifiche disposizioni di legge, può ragionevolmente sussistere solo nel caso in cui il prodotto posto in commercio abbia
una pericolosità intrinseca e sempre che l’utilizzatore non sia stato posto in grado di rappresentarsi la
possibilità di eventuali conseguenze dannose correlate ad un determinato uso. Siccome la nocività del
fumo e la difficoltà a smettere sono fatti noti, l’eventuale colpa omissiva dei produttori non può che
essere assorbita dalla colpa della vittima ex art. 1227 c.c. in base al principio della c.d. assunzione del
rischio. Trib. Brescia 10 agosto 2005.
Va affermata la responsabilità del produttore di tabacchi per omessa informazione dei rischi connessi al consumo di tabacco, a prescindere dall’inesistenza di un obbligo giuridico antecedente all’entrata in vigore della legge 29 dicembre 1990, n. 428: il soggetto interessato alla produzione e al commercio
del tabacco non poteva essere ignaro degli studi scientifici circa la nocività del fumo tanto da dover
provvedere con mezzi adeguati a realizzare campagne di informazione rivolte ai consumatori. Una capillare informazione dei rischi connessi al fumo di sigarette avrebbe, a parere dei giudici, contribuito a
tutelare la salute, diritto fondamentale del cittadino tutelato dalla Carta Costituzionale (art. 32). Tale inerzia
divulgativa sui rischi del fumo non permetterebbe, sempre a giudizio della Corte, di superare la presunzione di colpa a carico dell’ETI, con conseguente affermazione di responsabilità per esercizio di attività
pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c. App. Roma 7 marzo 2005, n. 1015.
Contra: Il fumo, pur essendo un fattore di rischio di una patologia cancerosa, non soddisfa il concetto
di condizione necessaria per il nesso eziologico ex art. 2043 c.c. Trib. Napoli, 15 dicembre 2004.
In tema di danno da fumo non risulta invocabile l’art. 2050 c.c. poiché la norma in esame fa riferimento alle “attività pericolose”, e non già alle mere “condotte” pericolose: “le prime ricorrono allorché
l’attività presenti una notevole potenzialità di danno a terzi, mentre nulla rileva se un’attività, normalmente
innocua, diventi pericolosa per la condotta di chi la esercita. Sicché, ai fini dell’art. 2050 c.c., non è
rilevante una mera condotta soggettiva pericolosa, idonea a far sorgere la responsabilità soltanto secondo la regola dell’art. 2043 c.c. Una certa attività non può essere ritenuta “pericolosa” sol perché coloro
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
che la praticano non adottano normalmente le cautele che sarebbero opportune, giacché in tal modo si
assumerebbe a parametro valutativo non già l’attitudine dell’attività a recare danno, bensì il grado di
diligenza comunemente riscontrabile”. Trib. Roma, 4 aprile 2005.
10.9. Danno da emotrasfusione.
In tema di responsabilità civile aquiliana - nella quale vige, alla stregua delle regole di cui agli art. 40 e
41 c.p., il principio dell’equivalenza delle cause temperato da quello della causalità adeguata - il nesso di
causalità consiste anche nella regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”;
ne consegue che - sussistendo a carico del Ministero della sanità (oggi Ministero della salute), anche
prima dell’entrata in vigore della L. 4 maggio 1990, n. 107, un obbligo di controllo e di vigilanza in materia
di raccolta e distribuzione di sangue umano per uso terapeutico - il giudice, accertata l’omissione di tali
attività con riferimento alle cognizioni scientifiche esistenti all’epoca di produzione del preparato, ed
accertata l’esistenza di una patologia da virus HIV, HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di
emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell’insorgenza della malattia e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta,
avrebbe impedito il verificarsi dell’evento. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 582.
In tema di responsabilità extracontrattuale per danno causato da attività pericolosa da emotrasfusione, la prova del nesso causale, che grava sull’attore danneggiato, tra la specifica trasfusione ed il contagio da virus HCV, ove risulti provata l’idoneità di tale condotta a provocarla, può essere fornita anche con
il ricorso alle presunzioni (art. 2729 c.c.), allorché la prova non possa essere data per non avere la
struttura sanitaria predisposto, o in ogni caso prodotto, la documentazione obbligatoria sulla tracciabilità
del sangue trasfuso al singolo paziente, e cioè per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro
la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato. Ove i danni subiti da un paziente contagiato
da Hcv siano addebitati, a titolo di responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa, alla struttura sanitaria presso cui era stata praticata la trasfusione con sangue infetto, il soggetto leso è tenuto a fornire la
dimostrazione del nesso causale tra la specifica trasfusione e il contagio, che può essere fondata su
meccanismi presuntivi, qualora la struttura sanitaria non abbia prodotto la documentazione obbligatoria
sulla tracciabilità del sangue trasfuso al singolo paziente. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 582.
Ove risulti accertato il nesso causale tra il comportamento omissivo di una struttura ospedaliera e
dell’amministrazione sanitaria e il contagio da Hiv subito da una paziente, ai fini della prova del nesso
causale tra quest’ultimo evento e il contagio subito dal marito che aveva con lei intrattenuto rapporti
sessuali, occorre fornire la dimostrazione, in termini probabilistici, del legame tra esposizione al rischio e specifico evento lesivo, la quale, in presenza di una legge causale generale e in assenza di fattori
alternativi, può essere fondata su meccanismi presuntivi (nella specie, si è ritenuta erronea la ricostruzione del giudice di merito che, basandosi unicamente su un certificato medico che conteneva un giudizio di
verosimiglianza sul contagio per via sessuale, aveva escluso la prova del nesso causale, omettendo di
valutare ulteriori elementi di fatto e non considerando né la circostanza notoria che i rapporti sessuali
sono uno dei principali veicoli di diffusione dell’Hiv, né la mancata deduzione da parte dei convenuti di
ipotetici fattori alternativi di infezione). Sussiste il nesso causale tra il comportamento omissivo di una
struttura ospedaliera e dell’amministrazione sanitaria e il contagio da Hiv subito da una paziente, a seguito di emotrasfusioni e dell’assunzione di emoderivati, allorché il contagio risulti avvenuto in un periodo
nel quale si conosceva la pericolosità delle somministrazioni di derivati e delle trasfusioni ai fini della
trasmissione del virus e, dunque, l’evento dannoso non poteva considerarsi, per la scienza e per la regola
statistica, imprevedibile ed improbabile. In caso di danni conseguenti ad infezioni da Hiv, contratte da
soggetti emotrasfusi, ove all’amministrazione sanitaria si addebiti l’omessa vigilanza sul sangue e sugli
emoderivati, non è invocabile la responsabilità a suo carico per l’esercizio di attività pericolose. La prescrizione del diritto al risarcimento del danno subito da chi abbia contratto per contagio una malattia
decorre dal giorno in cui essa viene percepita quale danno ingiusto conseguente all’altrui condotta dolosa o colposa, ovvero può essere percepita come tale, in relazione all’ordinaria diligenza del soggetto leso
e tenuto conto delle comuni conoscenze scientifiche dell’epoca. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584.
La responsabilità del ministero della Salute, legittimato passivo nell’azione di risarcimento del danno da trasfusione di sangue infetto, non si configura come responsabilità aggravata ai sensi dell’articolo
2050 del c.c., bensì come illecito aquiliano ex articolo 2043 del c.c. Circa il nesso di causalità, assume
valenza colposa anche la condotta omissiva antecedente alla scientifica prevedibilità dell’evento, se evitabile mediante il rispetto delle norme cautelari poste a tutela dell’integrità psicofisica dell’individuo. (Nella specie, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della Salute alla refusione dei danni subiti da un
minore contagiato per emotrasfusione, nonostante il virus fosse stato trasmesso precedentemente alla
scoperta del test di riferimento). Trib. Roma, 3 gennaio 2007; conforme Trib. Rimini, 22 luglio 2006.
10.9.1. Danno da emotrasfusione. Il giudice competente a risarcire il danno.
La pretesa di chi, a causa di vaccinazioni obbligatorie, abbia riportato lesioni o infermità con conseguente menomazione permanente della integrità psicofisica, ad un indennizzo da parte dello Stato, ha
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2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
natura di diritto soggettivo tutelabile innanzi al giudice ordinario, atteso che a seguito di C. cost. 6
luglio 2004, n. 204, risulta caducata la previsione che attribuiva alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo le controversie riguardanti (tra l’altro) “le attività e le prestazioni di ogni genere, anche di
natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi, ivi comprese quelle rese nell’ambito del
servizio sanitario nazionale”. Le sezioni unite hanno deciso l’importante questione del riparto della giurisdizione in riferimento alla domanda di indennizzo per i danni riportati a seguito di una vaccinazione
obbligatoria. L’art. 1 L. 25 febbraio 1992, n. 210 attribuisce a chiunque, a causa di vaccinazioni obbligatorie, abbia riportato lesioni o infermità, con conseguente menomazione permanente dell’integrità psicofisica, il diritto a un indennizzo da parte dello Stato. In virtù di questa norma, ha precisato la sentenza, non
è consentito dubitare della consistenza di diritto soggettivo della situazione giuridica, avvalorata ulteriormente dalle circostanze che l’amministrazione è chiamata a svolgere accertamenti e valutazioni di
tipo tecnico, con esclusione di qualunque potere discrezionale e che, ai sensi dell’art. 6, avverso il
giudizio sanitario della commissione medico-ospedaliera è esperibile l’azione davanti al G.O. competente. Inoltre, nella specie neppure è configurabile la giurisdizione esclusiva amministrativa, in quanto, a
seguito della Corte cost., n. 204 del 2004, è stata espunta la previsione relativa alle “attività e prestazioni
di ogni genere, anche di natura patrimoniale, rese nell’espletamento di pubblici servizi, ivi comprese
quelle rese nell’ambito del S.s.n. (art. 33 comma 2 lett. c) D.Lgs. n. 80 del 1998, nel testo sostituito dall’art.
7 lett. a) L. n. 205 del 2000), con la conseguenza che, nella materia dei pubblici servizi, sono rimaste
devolute al G.A. in sede esclusiva solamente le “controversie relative a concessioni di pubblici servizi,
escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla P.A. o dai gestore di un pubblico servizio in un procedimento disciplinato dalla L. 7 agosto 1990, n.
241, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio e alla vigilanza e controllo nei confronti
del gestore”. La conclusione è che le controversie relative a tutte le prestazioni erogate nell’ambito del
S.s.n., nella sussistenza di un rapporto obbligatorio tra cittadini e amministrazione, sono attribuite
alla competenza del G.O., ai sensi del criterio generale di riparto della giurisdizione definito dall’art. 2 L.
20 marzo 1865 n. 2248, all. E, presupposto dall’art. 442 c.p.c. Cass., Sez. Un., 8 maggio 2006, n. 10418.
10.10. Intesa anticoncorrenziale.
In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno lungolatente, l’azione risarcitoria da intesa anticoncorrenziale, proposta ai sensi del secondo comma dell’art. 33 della legge 10 ottobre 1990, n. 287,
si prescrive, in base al combinato disposto degli artt. 2935 e 24977 c.c., in cinque anni dal giorno in cui
assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e del danno e della sua ingiustizia, mentre resta a carico di chi eccepisce la prescrizione
l’onere di provarne la decorrenza, e il relativo accertamento compete al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se sufficientemente e coerentemente motivato. Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305.
L’azione risarcitoria, proposta dall’assicurato - ai sensi del 2° comma dell’art. 33 della legge n. 287 del
1990 (norme per la tutela della concorrenza e del mercato) - nei confronti dell’assicuratore che sia stato
sottoposto a sanzione dall’Autorità garante per aver partecipato ad un’intesa anticoncorrenziale tende
alla tutela dell’interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla
legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale (interesse che può
essere direttamente leso da comportamenti anticompetitivi posti in essere a monete delle imprese), nonché alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell’aver pagato un premio di polizza superiore a
quello che l’assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato. In siffatta azione l’assicurato ha l’onere di allegare la polizza assicurativa contratta (quale condotta finale del preteso danneggiante) e l’accertamento, in sede amministrativa, dell’intesa anticoncorrenziale (quale condotta preparatoria) e il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso causale tra quest’ultima ed il danno lamentato anche
attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare
gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare
l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano,
comunque, concorso a produrlo. Accertata, dunque, l’esigenza di un danno risarcibile, il giudice potrà
procedere in via equitativa alla relativa liquidazione, determinando l’importo risarcitorio in una percentuale del premio pagato, al netto delle imposte e degli oneri vari. Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305.
L’intesa vietata ha una possibile valenza plurioffensiva e può pertanto ledere, oltre alla struttura concorrenziale del mercato, anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori dell’intesa. La legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti di mercato,
ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere
competitivo. Chi allega il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura
concorrenziale del medesimo e ne chieda dunque la dichiarazione di nullità, presupposto dell’eventuale
risarcimento, deve rivolgersi alla Corte d’appello. La ratio della dichiarazione di nullità di cui all’art. 33 legge
n. 287/90 è di togliere alla volontà anticoncorrenziale “a monte” ogni funzione di copertura formale dei
comportamenti “a valle”, e dunque di impedire il conseguimento del frutto dell’intesa consentendo anche
nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi effetti. Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207.
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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Poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c. (Sezioni unite, 500/1999) che colui che subisce danno da
una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione a monte, ancorché non
sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione,
l’azione di cui all’art. 33 della L. 287/1990. Cass., Sez. Un., 4 febbraio 2005, n. 2207.
Dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa
dalla Autorità Antitrust ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990, non discende automaticamente la
nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa, i quali mantengono la loro
validità e possono dar luogo solo ad azione di risarcimento danni nei confronti delle imprese da parte dei
clienti. Cass. 11 giugno 2003, n. 9384.
10.11. Danno all’ambiente.
Il risarcimento del danno ambientale deve comprendere sia il pregiudizio prettamente patrimoniale arrecato a beni pubblici o privati, sia quello - avente anche funzione sanzionatoria - non patrimoniale rappresentato dal vulnus all’ambiente in sé e per sé considerato, costituente bene di natura pubblicistica, unitario ed immateriale. Ne consegue che la condanna del responsabile sia al ripristino dello
stato dei luoghi, sia al pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento non costituisce una
duplicazione risarcitoria, allorché la prima condanna sia volta ad elidere il pregiudizio patrimoniale e la
seconda quello non patrimoniale. Cass. 17 aprile 2008, n. 10118.
Integra il danno ambientale civilmente risarcibile in sede penale anche quello derivante medio tempore dalla mancata disponibilità di una risorsa ambientale intatta, ovvero le cosiddette «perdite provvisorie», già previste quali componenti del danno risarcibile dalla Direttiva 2004/35/CE e già considerate ristorabili dalla giurisprudenza di legittimità sotto forma di «modifiche temporanee dello stato dei luoghi»
nell’interpretazione dell’articolo 18 della legge 394/86 (istitutiva del ministero dell’Ambiente). La risarcibilità delle perdite temporanee è giustificata dal fatto che qualsiasi intervento di ripristino ambientale, per
quanto tempestivo, non può mai eliminare quello speciale profilo di danno conseguente alla perdita di
fruibilità della risorsa naturale compromessa dalla condotta illecita, danno che si verifica nel momento in
cui tale condotta viene tenuta e che perdura per tutto il tempo necessario a ricostituire lo status quo.
Cass. pen. 2 maggio 2007, n. 16575.
La violazione delle norme di edilizia e di tutela ambientale contenute negli strumenti urbanistici o
nei regolamenti di igiene che, in quanto contengono discipline sulle distanze, svolgono anch’essi funzione integrativa dell’art. 872 c.c. è fonte di responsabilità risarcitoria nei confronti dei privati confinanti, dovendosi ravvisare nei loro confronti un danno oggettivo o in re ipsa; tale danno non consiste
solo nel deprezzamento commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di esso (aspetti che
vengono superati dalla tutela ripristinatoria) ma anche nella indebita limitazione del pieno godimento del
fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti pregiudizievoli
egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale. Cass. 17 maggio 2000, n. 6414.
Poiché dall’estrazione di materiale da una cava può derivare sia un danno prettamente patrimoniale ai singoli beni, pubblici o privati, sia un danno all’ambiente, bene di natura pubblicistica, unitario e
immateriale, il risarcimento dell’uno o dell’altro, benché entrambi rientranti nella tutela aquiliana (art.
2043 c.c.), costituiscono domande diverse. Cass. 3 febbraio 1998, n. 1087.
Con riferimento all’azione di risarcimento del danno ambientale promossa dal comune, deve distinguersi tra il danno ai singoli beni di proprietà privata o pubblica, che trovano la loro tutela nelle regole
ordinatorie, e il danno all’ambiente, considerato, in senso unitario, quale bene immateriale a sé stante,
ontologicamente diverso dai singoli beni che ne formano il substrato ed oggetto di specifica tutela da
parte dell’ordinamento, indipendentemente dall’incidenza del fatto illecito sui singoli beni o valori che ne
sono componenti. Cass. 3 febbraio 1998, n. 1087.
Nell’ordinamento giuridico italiano la protezione dell’ambiente, bene che assurge a valore primario e
assoluto, è imposta dai precetti costituzionali di cui agli art. 2, 3, 9, 32, 41 e 42 cost., mentre l’art. 18 L. 8
luglio 1986, n. 349 ha funzione solo ricognitiva; pertanto, la configurabilità dell’ambiente come bene
giuridico e il diritto al pieno risarcimento per la sua lesione in capo agli enti pubblici territoriali non
trova la sua fonte genetica in tale legge, bensì nella Carta costituzionale considerata come diritto
vigente e vivente nonché della norma generale dell’art. 2043 c.c. Cass. 3 febbraio 1998, n. 1087.
In caso di azione per “danno ambientale” proposta dall’ente locale in conseguenza della costruzione
di un fabbricato eseguita senza la prescritta concessione, l’obbligazione risarcitoria accertata dalla statuizione del giudice penale in favore dell’ente locale costituitosi parte civile non viene meno per effetto
della sanatoria ottenuta ai sensi della L. n. 47 del 1985, inutilizzabile per elidere le conseguenze sanzionatorie civili dell’illecito. Cass. 2 settembre 1997, n. 8398.
L’accertamento - di fatto - della esistenza di fattori di inquinamento ambientale - nella specie da
rumore, conseguente a ricerche geotermiche - dannosi per l’integrità psicofisica, non si risolve nell’accertamento della liceità dell’attività, ossia dell’osservanza della disciplina che ne regola l’esercizio onde tutelare l’interesse pubblico ambientale, ma può estendersi a considerare parametri di tollerabilità diversi da
– 2849 –
2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
quelli provvisoriamente vigenti (art. 6 D.P.C.M. 1 marzo 1991), e previsti (art. 2 stesso provvedimento) in
base alla destinazione delle aree, ancora da delimitare da parte del Comune. Cass. 19 luglio 1997, n. 6662.
L’ambiente in senso giuridico costituisce un insieme che, pur comprendente vari beni o valori - quali
la flora, la fauna, il suolo, le acque ecc. - si distingue ontologicamente da questi e si identifica in una
realtà, priva di consistenza materiale, ma espressiva di un autonomo valore collettivo costituente,
come tale, specifico oggetto di tutela da parte dell’ordinamento, con la L. 8 luglio 1986, n. 349, rispetto ad
illeciti, la cui idoneità lesiva va valutata con specifico riguardo a siffatto valore ed indipendentemente
dalla particolare incidenza verificatasi su una o più delle dette singole componenti, secondo un concetto
di pregiudizio che, sebbene riconducibile a quello di danno patrimoniale, si caratterizza, tuttavia per una
più ampia eccezione, dovendosi avere riguardo - per la sua identificazione - non tanto alla mera differenza
tra il saldo attivo del danneggiato (nella specie, il parco nazionale d’Abruzzo, che lamentava il taglio
abusivo di piante) prima e dopo l’evento lesivo, a determinare in concreto una diminuzione dei valori e
delle utilità economiche di cui il danneggiato può disporre, svincolata da una concezione aritmeticocontabile. Cass. 9 aprile 1992, n. 4362.
L’art. 18 della L. 8 luglio 1986, n. 349 istitutiva del Ministero dell’ambiente, che, dopo aver previsto la
responsabilità risarcitoria nei confronti dello Stato a carico degli autori di fatti illeciti che compromettano
l’ambiente (arrecandovi danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto od in parte), stabilisce, per tale materia, la giurisdizione del giudice ordinario, facendo salva quella della Corte dei conti
solo per il caso di cui all’art. 22 del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (giudizio di rivalsa per le ipotesi nelle quali
l’amministrazione, a seguito di lesione di diritti del terzo, provocata dal proprio dipendente in connessione con un danno ambientale, abbia provveduto a risarcire detto terzo), trova immediata applicazione
nelle controversie in corso, ove sia ancora in discussione la giurisdizione. Pertanto, in applicazione di
detta norma, la quale, peraltro, non si pone in contrasto con gli artt. 103 e 25 cost. (sentenza della Corte
costituzionale n. 641 del 1987 ed ordinanze della medesima Corte n. 719 ed 898 del 1988), ed è coerente
con la delimitazione del danno cosiddetto erariale a quello che si traduca in una accertata perdita di tipo
finanziario per la pubblica amministrazione, deve negarsi la giurisdizione contabile della Corte dei conti,
per pretese risarcitorie nei confronti di funzionari che abbiano dolosamente o colposamente cagionato
pregiudizio all’ambiente (nella specie, inquinamento delle acque del Tirreno, in relazione all’indebita autorizzazione di scarichi industriali di imprese private), trattandosi di azioni devolute alla cognizione del
giudice ordinario. Cass., Sez. Un., 25 gennaio 1989, n. 440.
10.12. Danno da atti o comportamenti processuali.
L’articolo 96 comma 2 c.p.c. non autorizza il risarcimento in ogni caso di inesistenza del diritto tutelato, ma impone la verifica dell’assenza della normale prudenza nel richiedere la misura cautelare, con la
precisazione che la prova della colpa dell’agente, versandosi in tema di responsabilità aquiliana, incombe
su colui che chiede il risarcimento dei danni. Cass. 27 aprile 2006, n. 2359.
L’art. 96 c.p.c., che disciplina tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti
processuali, si pone con carattere di specialità rispetto all’art. 2043 c.c., di modo che la responsabilità
processuale aggravata (ad integrare la quale è sufficiente, nelle ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 96
citato, la colpa lieve, come per la comune responsabilità aquiliana), pur rientrando concettualmente nel
genere della responsabilità per fatti illeciti, ricade interamente, in tutte le sue ipotesi, sotto la disciplina
dell’art. 96 cit. La decisione in ordine a tale responsabilità, sia per l’an che per il quantum, è devoluta, in
via esclusiva, al giudice a cui spetta di conoscere il merito della causa. (Nella specie, la S.C. ha cassato la
sentenza impugnata che aveva accolto la domanda generica dell’attore di risarcimento danni da responsabilità aggravata per iscrizione di ipoteca giudiziale e, decidendo nel merito, ha dichiarato improponibile la domanda stessa). Cass. 23 marzo 2004, n. 5734; conforme Cass. 17 ottobre 2003, n. 15551.
Per la configurabilità del risarcimento del danno da responsabilità processuale aggravata ai sensi
dell’art. 96, comma 2, c.p.c., in ipotesi di esecuzione della sentenza di primo grado iniziata o compiuta
senza normale prudenza, è sufficiente che il creditore abbia fatto ricorso al procedimento esecutivo
benché nella specifica situazione l’accoglimento del gravame con l’annullamento o la riforma della sentenza posta in esecuzione fosse in concreto sufficientemente probabile e prevedibile; la relativa valutazione spetta al giudice di merito, che deve adeguatamente motivare in ordine alla sussistenza o meno di
tale elemento soggettivo. Cass. 17 ottobre 2003, n. 15551.
Chi intende chiedere il risarcimento del danno per l’eseguita esecuzione forzata illegittima, può agire
soltanto, ai sensi dell’art. 96, comma 2, c.p.c. - norma speciale rispetto all’art. 2043 c.c. - dinanzi al giudice
dell’opposizione all’esecuzione, funzionalmente competente sia sull’an che sul quantum; pertanto è inammissibile una domanda di condanna generica, con riserva di agire in un separato giudizio per il quantum che,
per espressa previsione normativa, può essere liquidato anche d’ufficio. Cass. 24 maggio 2003, n. 8239.
Colui che chiede il risarcimento del danno a causa di un’azione possessoria ritenuta ingiustamente
attivata può agire soltanto, ai sensi dell’art. 96, comma 2, c.p.c. - norma speciale rispetto all’art. 2043 c.c.
- dinanzi al giudice del procedimento possessorio, in quanto soltanto quel giudice è competente a valutare la temerarietà dell’azione proposta, oltre che a provvedere sulle spese. Cass. 23 aprile 2001, n. 5972.
– 2850 –
TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
Il creditore che abbia iscritto ipoteca su beni eccedenti l’importo del credito vantato non può mai
essere chiamato a rispondere, nei confronti del debitore, per danni da illecito aquiliano ex art. 2043 c.c.,
non consentendolo le disposizioni di cui agli artt. 2740 (circa l’assoggettabilità di tutti i beni del debitore,
presenti e futuri, alla responsabilità patrimoniale), 2828 (che legittima il creditore ad iscrivere ipoteca
giudiziale su qualsiasi immobile di proprietà del debitore) e 2877 stesso codice (con il quale sono poste a
carico del debitore richiedente le spese per l’eventuale riduzione, mentre sono a carico del creditore le
sole spese derivanti da riduzione dell’ipoteca per eccesso nella determinazione del credito). Resta, peraltro, salva la possibilità di configurare, a carico del creditore procedente, una ipotesi di responsabilità
processuale, a tenore dell’art. 96, comma 1, c.p.c., qualora quest’ultimo, convenuto per la riduzione
dell’ipoteca, resista in giudizio con mala fede o colpa grave. Cass. 29 settembre 1999, n. 10771.
La fattispecie della responsabilità processuale aggravata, prevista dall’art. 96 c.p.c. con carattere
di specialità rispetto a quella generale della responsabilità ex art. 2043 c.c., trova, in sede di fallimento,
il suo analogo nella figura della responsabilità prevista dall’art. 21 L. fall., il quale contempla che, nel
caso di revoca del fallimento, le spese di procedura ed il compenso al curatore siano a carico del creditore istante che sia stato condannato ai danni per avere chiesto la dichiarazione di fallimento, per colpa.
Sotto un tal punto di vista, ferma la specialità della disciplina di cui all’art. 21 cit., va distinta l’ipotesi in cui
la revoca della dichiarazione consegua alla inesistenza del credito fatto valere dall’istante, da quelle dipendenti dalla mancanza di alcuno dei presupposti (processuali o sostanziali) necessari per la dichiarazione stessa. Nella prima ipotesi, infatti, si rende sufficiente l’aver agito senza la normale prudenza nel
richiedere la dichiarazione di fallimento; nelle seconde invece si richiede invece una condotta dolosa o
gravemente colposa. Cass. 15 giugno 1999, n. 5934.
La cognizione dei casi di responsabilità aggravata per atti o comportamenti processuali della parte,
tra i quali le trascrizioni delle domande giudiziali, è devoluta in via esclusiva al giudice cui spetta di
conoscere il merito della causa dall’art. 96 c.p.c., che esaurisce tutte le ipotesi di responsabilità processuale, sicché resta preclusa ogni possibilità di invocare i principi generali della responsabilità per fatto
illecito ex art. 2043 c.c. Pertanto, qualora la domanda di risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. dipendente dalla trascrizione della domanda giudiziale sia stata respinta con sentenza passata in giudicato, non è
consentito riproporre la pretesa risarcitoria allegando la violazione del principio del neminem laedere.
Cass. 23 maggio 1994, n. 5022.
10.13. Danno biologico, esistenziale e morale.
V. sub art. 2059.
10.14. Danno da vizi della cosa.
Nell’ipotesi di risarcimento a carico del venditore per i danni derivati dai vizi della cosa, l’azione
risarcitoria si prescrive a decorrere dalla consegna del bene venduto (nella fattispecie, la data della stipula
del contratto, avente ad oggetto dei mobili, non coincideva con quella della consegna dei beni. Dopo
l’installazione, da un pensile si era staccato un cristallo, del peso di circa tre chili, che aderiva alla parte in
legno del pensile grazie ad un biadesivo, crollando sull’istante e ferendola alla testa). Cass. 6 febbraio
2008, n. 2797.
10.15. Casistica.
L’esistenza di postumi permanenti di modesta entità, che cambiano le mansioni lavorative del
danneggiato dal sinistro, non comportano l’obbligo risarcitorio da riduzione della capacità lavorativa
specifica e, quindi, da reddito lavorativo; tali postumi, infatti, sono risarcibili a titolo di danno alla
salute, non di danno patrimoniale atteso che non è rilevante il dato che per effetto dei postumi la
prestazione dell’attività lavorativa si sia resa più faticosa, pur rimanendo inalterata la retribuzione. Cass.
17 gennaio 2008, n. 868.
Il rapporto di partecipazione all’associazione cui fa capo una palestra è distinto e strumentale rispetto
all’accesso dei soci all’uso degli impianti e delle attrezzature; si tratta, infatti, di un modello di utilizzazione configurabile come un rapporto di servizio. Va, pertanto, confermata la configurabilità del danno biologico e morale per la vittima di un incidente causato in palestra da una cyclette difettosa, atteso che non
deve escludersi in capo all’infortunato la legittimazione ad agire per il solo fatto che egli sia membro
dell’associazione che gestisce la struttura sportiva. Cass. 17 gennaio 2008, n. 858.
In tema di responsabilità extracontrattuale, con riferimento al cosiddetto caso di insidia o trabocchetto del manto stradale, in esso ricomprendendosi i pertinenti marciapiedi, la parte danneggiata, in presenza di un fatto storico qualificabile come illecito ai sensi dell’art. 2043 c.c., ha l’onere della prova degli
elementi costitutivi di tale fatto, del nesso di causalità, del danno ingiusto e della imputabilità soggettiva,
mentre l’ente pubblico, preposto alla sicurezza dei pedoni e detentore del dovere di vigilanza - tra l’altro
- sulla sicurezza dei tombini che possono aprirsi sui marciapiedi, ha l’onere di dimostrare o il concorso di
colpa del pedone o la presenza di un caso fortuito che interrompe la relazione di causalità tra l’evento ed
il comportamento colposamente omissivo dell’ente stesso. Cass. 11 gennaio 2008, n. 390.
– 2851 –
2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
La fusione di società mediante incorporazione avvenuta prima della riforma del diritto societario di
cui al D.Lgs. n. 6 del 2003 ed all’introduzione dell’art. 2504 bis c.c., realizza una situazione giuridica corrispondente a quella della successione universale e produce gli effetti, tra loro indipendenti, dell’estinzione
della società incorporata e della contestuale sostituzione, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo a questa, della società incorporante, per cui quest’ultima, al pari di qualsiasi successore
universale, assume la stessa posizione processuale dell’attore, con tutte le limitazioni ed i divieti ad essa
inerenti. Ne consegue che la stessa non può proporre domande nuove per l’attribuzione di diritti autonomi ed indipendenti dal diritto successorio, mentre le si debbono riconoscere i diritti fatti valere dal dante
causa, anche quelli azionati prima della successione, ma acquisibili solo nel corso del tempo. Spetta
quindi alla società incorporante il risarcimento dei danni derivanti da illecito permanente (nella specie
illecita captazione di acque pubbliche), iniziato prima della fusione i cui effetti dannosi si siano però
protratti anche successivamente. In tema di abusiva captazione di acque pubbliche, posta in essere dalla
cassa per il mezzogiorno per aver attivato, senza concessione di derivazione, un impianto di acquedotto,
sussiste la responsabilità della Regione cui l’impianto stesso è stato trasferito “ex lege” (art. 148 D.P.R. 6
marzo 1978, n. 218) e che abbia fruito dell’abusiva derivazione di acqua sia pure attraverso la gestione
dell’acquedotto, del quale ha conservato la disponibilità, tramite un gestore privato, atteso che in tema di
conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni attribuiscono a queste, oltre che
la competenza in materia di derivazione di acque pubbliche (e delle relative concessioni ed approvazioni
progettuali), in esito al trasferimento ex art. 4, comma 1, L. 15 marzo 1997, n. 59 ed art. 89 D.Lgs. 31 marzo
1998, n. 112, anche la gestione, in generale, del demanio idrico (art. 86 D.Lgs. n. 112 cit.), per cui compete
alla Regione il controllo di legalità sulle attività aventi ad oggetto il demanio idrico. In tema di abusiva
captazione di acque pubbliche, può essere risarcito al danneggiato anche il danno futuro, purché il pregiudizio possa essere determinato sulla base di ragionevole e fondata attendibilità, ma agli effetti della
sua quantificazione va tenuto conto dell’eventualità dell’accoglimento di domanda di sanatoria da parte
del fruitore della derivazione, incidente sulla prognosi di permanenza della situazione dannosa nella sua
entità. Cass., Sez. Un., 28 dicembre 2007, n. 27183.
11. Responsabilità della P.A.
11.1. Natura giuridica e presupposti.
L’art. 103 cost. non consente di ritenere che il G.A. possa conoscere di controversie di cui non sia
parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicché la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del
Presidente di una Provincia in proprio, cui si imputi la violazione di un impegno contrattuale a non revocare per l’intera durata del mandato due assessori provinciali, che si erano dimessi da consiglieri provinciali per assumere l’incarico di assessore, va proposta dinanzi al G.O., non ostando a ciò la chiamata in
causa a fini di manleva dell’ente pubblico, stante l’inderogabilità per ragioni di connessione della giurisdizione. Cass., Sez. Un., 5 marzo 2008, n. 5914.
La soluzione della questione del riparto della giurisdizione, rispetto ad una domanda di risarcimento
danni per la lesione della propria integrità psico-fisica proposta da un pubblico dipendente nei confronti
dell’Amministrazione, è strettamente subordinata all’accertamento della natura giuridica dell’azione di
responsabilità in concreto proposta, in quanto, se è fatta valere la responsabilità contrattuale dell’ente
datore di lavoro, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, nel caso di controversia relativa a rapporto di pubblico impiego non soggetto alla privatizzazione, mentre, se è stata dedotta la responsabilità extracontrattuale, la giurisdizione spetta al G.O. Al fine
di tale accertamento, non possono invocarsi come indizi decisivi della natura contrattuale dell’azione né
la semplice prospettazione della inosservanza dell’art. 2087 c.c., né la lamentata violazione di più specifiche disposizioni strumentali alla protezione delle condizioni di lavoro, allorché il richiamo all’uno o alle
altre sia compiuto in funzione esclusivamente strumentale alla dimostrazione dell’elemento psicologico
del reato di lesioni colpose e/o della configurabilità dell’illecito. Siffatta irrilevanza dipende da tratti propri
dell’elemento materiale dell’illecito, ossia da una condotta dell’amministrazione la cui idoneità lesiva possa esplicarsi indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini come nei confronti dei propri
dipendenti, costituendo in tal caso il rapporto di lavoro mera occasione dell’evento dannoso; mentre, ove
la condotta dell’amministrazione si presenti con caratteri tali da escluderne qualsiasi incidenza nella sfera
giuridica di soggetti ad essa non legati da rapporto di impiego, la natura contrattuale della responsabilità
non può essere revocata in dubbio, poiché l’ingiustizia del danno non è altrimenti configurabile che come
conseguenza delle violazioni di taluna delle situazioni giuridiche in cui il rapporto medesimo si articola e
si svolge. Cass., Sez. Un., 4 marzo 2008, n. 5785.
In tema di risarcimento del danno, con riferimento all’appalto di opere pubbliche, gli specifici poteri di
autorizzazione, controllo ed ingerenza della P.A. nella esecuzione dei lavori, con la facoltà, a mezzo del
direttore, di disporre varianti e di sospendere i lavori stessi, ove potenzialmente dannosi per i terzi, escludono ogni esenzione da responsabilità per l’ente committente. La domanda di affermazione della responsabilità per cosa in custodia (in virtù dell’art. 2051 c.c.) deve essere considerata, dal giudice d’appel-
– 2852 –
TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
lo, diversa e nuova e, dunque, inammissibile, rispetto a quella che in primo grado aveva avuto ad oggetto
la normale responsabilità per fatto illecito (ai sensi dell’art. 2043 c.c.) solo nel caso in cui essa implichi
l’accertamento di fatti in tutto o in parte diversi da quelli allegati e provati nel primo giudizio. Pertanto,
allorquando, invece, sin dall’atto introduttivo della causa l’attore abbia riferito il danno all’azione causale
svolta direttamente dalla cosa (nella specie, dai ponteggi che avevano consentito l’accesso dei ladri
all’immobile della ricorrente danneggiata), l’invocazione della speciale responsabilità di cui all’art. 2051
c.c. si risolve nella richiesta di una diversa qualificazione giuridica del fatto, consentita al giudice d’appello. Cass. 22 febbraio 2008, n. 4591.
In caso di annullamento da parte del G.A. della graduatoria degli aspiranti assegnatari di alloggi
realizzati dall’Istituto autonomo case popolari (Iacp) e di successiva emissione, da parte del sindaco del
Comune (divenuto competente in materia, ai sensi dell’art. 95 D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 e dell’art. 54 L.
5 agosto 1978, n. 457), di un provvedimento di assegnazione dell’alloggio in favore del ricorrente vittorioso nel giudizio amministrativo, qualora quest’ultimo non sia riuscito ad ottenere la disponibilità dell’alloggio per l’opposizione del precedente assegnatario ed il sindaco ometta di provvedere tempestivamente,
in via di autotutela, all’annullamento della precedente assegnazione e di emettere il decreto di rilascio
costituente titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 11, comma 12 (richiamato dall’art. 16), D.P.R. 30 dicembre
1972, n. 1035, il comportamento della P.A. è censurabile ex art. 2043 c.c. anche sotto il profilo della
colpa, per aver lasciato inalterata la posizione di coloro che non avevano più diritto ad occupare l’immobile e per aver tardivamente immesso l’avente diritto nel possesso dell’immobile assegnatogli;
pertanto, l’Amministrazione è tenuta al risarcimento dei danni anche non patrimoniali cagionati al privato,
in conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto, a prescindere dalla rilevanza
penalistica della fattispecie. Cass. 22 febbraio 2008, n. 4539.
In tema di risarcimento dei danni da incidente scolastico accaduto ad un alunno di scuola media
statale laziale, deve riconoscersi la responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. della regione Lazio
per violazione dell’art. 22 L. reg. n. 29 del 1992, contenente l’obbligo per l’ente territoriale di provvedere
alla copertura assicurativa per qualsiasi evento lesivo subito dagli alunni delle scuole, nel caso in cui la
polizza infortuni contenga l’espressa esclusione della garanzia assicurativa per alcune spese sanitarie,
eziologicamente riconducibili al sinistro. Cass. 14 dicembre 2007, n. 26293.
L’inosservanza da parte della P.A., nella gestione e manutenzione dei beni che ad essa appartengono,
delle regole tecniche, ovvero dei canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato
dinanzi al G.O. non solo ove la domanda sia volta a conseguire la condanna della P.A. al risarcimento
del danno patrimoniale, ma anche ove sia volta a conseguire la condanna della stessa ad un “facere”,
giacché la domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell’amministrazione, ma attività soggetta al
rispetto del principio del “neminem laedere”. Né è di ostacolo il disposto dell’art. 34 del D.Lgs. n. 80 del
1998, come sostituito dall’art. 7 L. n. 205 del 2000, là dove devolve al G.A. le controversie in materia di
urbanistica ed edilizia giacché, a seguito dell’intervento parzialmente caducatorio recato dalla sentenza n.
204 del 2004 della Corte cost., nell’attuale assetto ordinamentale, la giurisdizione esclusiva nella predetta
materia non è estensibile alle controversie nelle quali la P.A. non eserciti alcun potere autoritativo finalizzato al perseguimento degli interessi pubblici alla cui tutela sia preposta. (Nelle specie, le Sez. Un., in
sede di regolamento preventivo, hanno dichiarato la giurisdizione del G.O. in controversia nella quale
taluni proprietari di un fondo, a seguito di ripetute e pregiudizievoli esondazioni sul proprio terreno di
acque derivanti da una conduttura collegata al depuratore comunale, avevano convenuto in giudizio il
Comune per sentirlo condannare, oltre al risarcimento dei danni patrimoniali subiti, anche all’esecuzione
delle opere necessarie ad impedire la periodica fuoriuscita delle acque). Cass., Sez. Un., 13 dicembre
2007, n. 26108.
In tema di domanda di risarcimento dei danni che si assumono prodotti dall’esercizio di poteri
amministrativi, deve farsi applicazione dell’art. 2043 c.c., stante la natura necessariamente non contrattuale della responsabilità civile dell’amministrazione pubblica, per la sussistenza della quale, pertanto, occorre che il danneggiato provi l’imputabilità del fatto a titolo di dolo o di colpa, non essendo
consentito desumerla dalla sola illegittimità del provvedimento. Tuttavia, allorché la illegittimità del
provvedimento derivi dal vizio di violazione di legge per mancata osservanza di prescrizioni dettate
da norme giuridiche e non risultino fatti positivi escludenti la colpa nel caso concreto, il giudice deve
ritenere provato l’elemento psichico della condotta. Cass. 23 aprile 2004, n. 7733; conforme Cass. 24
marzo 2004, n. 5941.
Contra: Con la L. n. 241 del 1990 i principi di efficienza, di economicità e di partecipazione del privato
al procedimento amministrativo sono diventati criteri giuridici positivi, per cui il contatto del cittadino con
l’Amministrazione è oggi caratterizzato da uno specifico dovere di comportamento nell’ambito di un
rapporto che, in virtù delle garanzie che assistono l’interlocutore dell’attività procedimentale, diviene
specifico e differenziato. Ne consegue che il fenomeno, tradizionalmente noto come lesione dell’interesse legittimo, costituisce in realtà inadempimento alle regole di svolgimento dell’azione amministrativa, ed
integra una responsabilità che è molto più vicina alla responsabilità contrattuale, con le relative conseguenze di accertamento della colpa”. Cass. 10 gennaio 2003, n. 157.
– 2853 –
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
La normativa sulla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. ha la funzione di consentire il risarcimento del danno ingiusto, intendendosi come tale il danno arrecato non iure, il danno, cioè, inferto in
assenza di una causa giustificativa, che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la
qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo. Peraltro, avuto riguardo al carattere atipico del
fatto illecito delineato dall’art. 2043 c.c., non è possibile individuare in via preventiva gli interessi meritevoli di tutela: spetta, pertanto, al giudice, attraverso un giudizio di comparazione tra gli interessi in conflitto, accertare se, e con quale intensità, l’ordinamento appresta tutela risarcitoria all’interesse del danneggiato, ovvero comunque lo prende in considerazione sotto altri profili, manifestando, in tal modo, una
esigenza di protezione. Ne consegue che anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un
diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e, quindi, dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per
effetto dell’attività illegittima della P.A., l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto
interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo. Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500.
In caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti della P.A. al fine di stabilire se la
fattispecie concreta integra un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c. il giudice deve
procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) accertare la sussistenza di un evento
dannoso; b) stabilire se l’accertato danno sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua
incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato
nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo), dell’interesse legittimo (funzionale alla protezione
di un determinato bene della vita, la cui lesione rileva ai fini in esame) o dell’interesse di altro tipo, pur se
non immediato oggetto di tutela in quanto dall’ordinamento preso in considerazione a fini diversi da
quelli risarcitori (e quindi comunque non qualificabile come interesse di mero fatto); c) accertare sotto il
profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una
condotta (positiva od omissiva) della P.A.; d) stabilire se l’evento dannoso sia imputabile a dolo o colpa
della P.A., non trovando al riguardo applicazione il principio secondo cui la colpa della struttura pubblica
dovrebbe considerarsi sussistente in re ipsa in caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo. Cass. 29 marzo 2004, n. 6199.
L’attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi
nei limiti posti dalla legge e dalla norma primaria del neminem laedere, codificata nell’art. 2043 c.c., per
cui è consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato, da parte della pubblica amministrazione, un
comportamento colposo tale che, in violazione della suindicata norma primaria, abbia determinato la
violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione,
dettati dall’art. 97 Cost., la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenze stabilite dall’art.
2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale, ancorché
il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario. Cass. 27 gennaio 2003, n. 1191; conforme
Cass. 17 ottobre 2001, n. 12672.
In tema di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per esercizio illegittimo della
funzione pubblica, il giudice ordinario è chiamato ad applicare un criterio d’imputazione della responsabilità non correlato alla sola illegittimità del provvedimento, bensì ad una più complessa valutazione, estesa
all’accertamento della colpa, dell’azione amministrativa denunciata come fonte di danno ingiusto. Ne
deriva che - stante la diversità di ambito del giudizio dinanzi al giudice ordinario sulla domanda risarcitoria rispetto a quello, che si svolge dinanzi al giudice amministrativo, rivolto ad accertare l’illegittimità del
provvedimento impugnato ed al conseguente annullamento dello stesso - deve escludersi che la pronuncia del giudice amministrativo di annullamento del provvedimento impugnato determini una preclusione da giudicato nel giudizio civile ed impedisca all’autorità giudiziaria ordinaria l’esercizio del poteredovere di procedere ad autonomo esame degli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria ivi azionata. (Principio espresso in fattispecie anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 80 del 1998). Cass. 4
aprile 2003, n. 5259.
Il dovere di comportamento del soggetto pubblico (e quindi la misura della colpa) si definisce non
solo in funzione delle specifiche regole che disciplinano il potere, ma anche, e soprattutto, sulla base di
criteri diretti a valorizzare il concreto atteggiarsi delle condotte poste in essere dall’amministrazione.
Ciò non determina affatto l’assoggettamento dell’amministrazione ad un diritto speciale (privilegiato) in
materia di responsabilità civile. Piuttosto, il riconoscimento di appositi criteri di specificazione della colpa
si pone in linea di continuità con le più recenti acquisizioni in materia di responsabilità civile, orientate a
relativizzare il concetto di colpa, in funzione del settore dell’attività considerato. Pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di
colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione
delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui
all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie. Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a
dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Cons. St., 19 marzo 2007, n. 1307.
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
È pacifico che l’esclusione della responsabilità in caso di colpa lieve posta dall’art. 2236 c.c. presupponga una “prestazione [che] implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, cioè obbiettivamente risolubili mediante una preparazione professionale superiore a quella normale; in proposito la
dottrina ha argomentato anche nel senso che, comunque, il professionista che si trovi di fronte a un
problema di particolare difficoltà deve agire con una cura corrispondente alle particolari difficoltà del
caso, concludendo che la colpa grave dell’art. 2236 c.c. non sarebbe altro che la colpa lieve valutata
tenendo conto della speciale difficoltà della prestazione, così considerando detta norma come mera specificazione, anziché come eccezione, del principio posto dall’art. 1176, II comma, c.c. L’esclusione di
responsabilità in presenza di mera culpa levis, concerne soltanto le prestazioni che possano implicare
la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, non possa comunque riferirsi all’attività di mera
interpretazione di norme giuridiche. Cons. Giust. amm. Reg. siciliana, 21 marzo 2007, n. 2247.
Il giudice deve formulare il giudizio sulla “colpevolezza” dell’amministrazione - necessaria per il
risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi - affermandola quando la violazione
risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e
giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato
e, viceversa, negandola quando l’indagine presupposta conduce al riconoscimento di un errore scusabile (per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o
per la complessità della situazione di fatto). Cons. St., 10 gennaio 2005, n. 32; conforme Cons. St., 27
febbraio 2007, n. 995.
Allorché sia accertata l’impossibilità oggettiva della vigilanza circa i beni demaniali di vasta estensione e di uso generale della “res”, diventa inapplicabile l’art. 2051 c.c. e, tuttavia, il danneggiato potrà
invocare l’art. 2043 c.c. allo scopo di valutare le caratteristiche del bene demaniale, la sua posizione, le
sue dotazioni ed i suoi sistemi di assistenza, nonché gli strumenti di vigilanza e controllo messi a
disposizione dalla moderna tecnologia. Con riguardo ai danni provocati dal pericolo connesso alla struttura intima del bene demaniale, la visibilità dell’ostacolo non esclude senz’altro la responsabilità del
custode per cattiva o omessa manutenzione della res perché, se questa presenta condizioni di pericolo,
la possibile percezione del rischio da parte dell’utente può far intravedere (sia ex art. 2043 c.c. e sia ex art.
2051 c.c.) un suo possibile concorso di colpa come comportamento rilevante sul nesso causale sotto
l’aspetto di fonte unica o concorrente del danno secondo quanto dispone l’art. 1227 c.c., che richiama il
dovere di autoresponsabilità con relativo onere del danneggiato di farsi carico della parte del danno a lui
imputabile. Giudice di pace Bari, 21 aprile 2008.
11.2. La pregiudiziale amministrativa.
Qualora la pubblica amministrazione abbia, nell’esercizio di un suo pubblico potere, arrecato un pregiudizio, l’azione risarcitoria deve, di norma, essere proposta innanzi al giudice amministrativo. La richiesta di risarcimento del danno non richiede la preventiva impugnazione dell’atto pregiudizievole. Cass.,
Sez. Un., 15 giugno 2006, n. 13911.
Conf.: La domanda di risarcimento del danno non deve reputarsi più subordinata alla pregiudiziale
impugnazione dell’atto amministrativo ritenuto lesivo. Tuttavia ciò non impedisce di riconoscere l’interesse del ricorrente ad ottenere una sentenza di annullamento del provvedimento impugnato, idonea
a spiegare effetti anche nel giudizio civile, quanto meno con riferimento al presupposto oggettivo
dell’azione di responsabilità. Cons. St., 21 giugno 2007, n. 3321.
Contra: Il potere del G.A. di disporre il risarcimento del danno è, nell’attuale ordinamento, secondo
la lettura offerta dalla Corte costituzionale rigorosamente circoscritto alla sola ipotesi del previo annullamento dell’atto amministrativo, giacché la ratio della sua attribuzione, essendo fondata sull’art. 24 cost.,
è quella di evitare a chi ha ottenuto l’annullamento giurisdizionale dell’atto amministrativo di percorrere
tutti i gradi della giustizia ordinaria per ottenere la piena soddisfazione delle posizioni soggettive lese.
Cons. St., 28 luglio 2005, n. 4008; conforme T.A.R. Puglia, Lecce, 4 luglio 2006, n. 3710.
La subordinazione dell’azione risarcitoria a quella caducatoria si presenta come un connotato imprescindibile di un sistema che tutela l’interesse pubblico attraverso la soddisfazione di quello privato e,
commettendo all’individuo l’iniziativa volta a provocare l’intervento del giudice amministrativo, non può
permettersi di rinunciare alla subordinazione in parola a pena di incrinare il sistema di tutela dell’interesse
pubblico. Pur nell’ottica della equiordinazione dell’interesse pubblico e di quello privato e della configurazione della tutela risarcitoria come una forma di tutela della componente privata dell’interesse legittimo,
la sintesi dell’interesse pubblico e di quello privato nell’interesse legittimo comporta la necessità che le
due forme di tutela vadano di pari passo, “simul stabunt simul cadunt”, con la fisiologica subordinazione della tutela risarcitoria a quella impugnatoria. T.A.R. Puglia Lecce 18 luglio 2006, n. 4013
11.3. Danno da omissione o da ritardo nell’adozione di un provvedimento amministrativo.
Chi agisce per ottenere il risarcimento del danno, ex art. 2043 c.c., da tardiva assunzione conseguente a provvedimento illegittimo della P.A. non può allegare la mancata percezione delle retribuzioni che si
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2043
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
sarebbero potute percepire e che sarebbero state versate per la contribuzione assicurativa in ipotesi di
tempestiva assunzione, in quanto queste presuppongono l’avvenuto perfezionamento del rapporto di
lavoro e rilevano sotto il profilo della responsabilità contrattuale. Al contrario, chi pretende il risarcimento
deve allegare e dimostrare i pregiudizi di tipo patrimoniale e/o non patrimoniale che siano eventualmente derivati dalla condotta illecita che si assume essere stata causa del danno lamentato. In tema di
risarcimento da tardiva assunzione dovuta a provvedimento illegittimo della P.A., l’allegazione del danno
ingiusto da parte dell’attore non può consistere nella mera richiesta di accertamento dell’ammontare
delle retribuzioni e dei versamenti contributivi relativi al periodo di mancato impiego in quanto tali voci
presuppongono l’avvenuto perfezionamento del rapporto di lavoro e rilevano sotto il profilo della responsabilità contrattuale, ma deve riguardare tutti i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali conseguenti alla
violazione del diritto all’assunzione tempestiva, quali le spese sostenute in vista del futuro lavoro, le
conseguenze psicologiche dipese dall’ingiusta condizione transitoria di assenza di occupazione e gli esborsi
effettuati per intraprendere altre attività lavorative. Cass. 14 dicembre 2007, n. 26282.
È prospettabile la pretesa al risarcimento conseguente alla mera omissione (o anche ritardo) nell’adozione di un provvedimento, indipendentemente dalla spettanza del bene della vita al quale è preordinato
l’interesse legittimo di tipo pretensivo. Tale pretesa è da ricollegare all’interesse procedimentale avente
ad oggetto il rispetto dei tempi certi dell’azione amministrativa concernente l’esplicazione della competenza amministrativa secondo criteri di correttezza e buonafede. L’inottemperanza da parte dell’Amministrazione del dovere di correttezza, con particolare riferimento ai tempi del procedimento amministrativo,
indica una responsabilità precontrattuale della stessa amministrazione, responsabilità che è modo di
essere di quella aquiliana. Il danno risarcibile è quello derivante (interesse negativo) dalla situazione di
incertezza protratta oltre il termine entro il quale l’azione amministrativa doveva essere conclusa. Cons.
St., 7 marzo 2005, n. 875.
Contra: il ritardo da parte della P.A. nella definizione delle istanze del privato non comporta, per ciò
solo, l’affermazione della responsabilità per danni. Il sistema di tutela degli interessi pretensivi consente
il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse pretensivo assuma a suo oggetto la
tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare un bene della vita); deve pertanto ritenersi che non sia possibile accordare il risarcimento del danno da ritardo della P.A. nel caso in cui i provvedimenti adottati in ritardo risultino di carattere negativo per colui che ha presentato la relativa istanza di
rilascio e le statuizioni in essi contenute siano divenute intangibili per la omessa proposizione di una
qualunque impugnativa. Cons. St., Ad. plen., 20 aprile 2006, n. 7
Conf.: Il cittadino non vanta un diritto soggettivo perfetto alla celere conclusione del procedimento
amministrativo, ma solo un interesse legittimo, con la conseguenza che solo la ritardata adozione di un
provvedimento amministrativo favorevole all’istante può causare un danno risarcibile. Danno da ritardo
risarcibile ex art. 2043 c.c. può essere solo quello che determina una lesione dell’aspettativa (di interesse
legittimo) al rilascio del provvedimento favorevole e non già il danno da mero inadempimento dell’obbligo di provvedere. T.A.R. Puglia Bari, 13 gennaio 2005, n. 56.
Mentre il danno c.d. “da ritardo” è normalmente individuato nella lesione di un interesse legittimo
pretensivo, cagionata dal ritardo con cui la P.A. ha emesso il provvedimento finale, inteso ad ampliare
la sfera giuridica del privato, si ha danno c.d. “da disturbo” nel caso in cui i ricorrenti agiscano per
ottenere il ristoro del pregiudizio subito in conseguenza dell’illegittima compressione delle facoltà di
cui erano già titolari (nella specie, in quanto destinatari del titolo concessorio abilitante la sospesa attività
edificatoria). Cons. St., 12 marzo 2004, n. 1261.
11.4. Occupazione appropriativa.
L’annullamento degli atti della procedura ablativa in sede giurisdizionale elimina con effetto “ex
tunc” la dichiarazione di pubblica utilità e la condotta dell’amministrazione assume le connotazioni
di mera attività di fatto autonoma ed indipendente, senza nesso eziologico con le cause dell’illegittimità con la conseguenza, comune a qualsiasi occupazione senza titolo di beni altrui: a) che il proprietario conserva la titolarità del bene; b) che la perdurante occupazione dell’immobile da parte della P.A.
ha carattere di fatto illecito permanente; c) che il proprietario suddetto, ove rinunci ad avvalersi della
tutela reale e non mostri più interesse per il suo fondo, ha diritto al risarcimento del danno da liquidare
unicamente in base al criterio generale stabilito per qualsivoglia fatto illecito. Inoltre, nel caso di occupazione di una porzione del fondo altrui, non è possibile ricorrere al criterio previsto dall’art. 40 L. n.
2359 del 1865 (poi recepito dall’art. 33 D.P.R. n. 327 del 2001) che riguarda la diversa ipotesi di espropriazione parziale, mentre, in generale, va esclusa l’applicazione dell’art. 43 D.P.R. n. 380 del 2001,
laddove limita l’entità massima del risarcimento nella misura corrispondente al valore del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità, qualora il progetto dell’opera pubblica sia antecedente all’entrata in
vigore del D.P.R. citato. Cass. 5 febbraio 2008, n. 2746.
Qualora l’occupazione d’urgenza di un suolo per l’esecuzione di un’opera pubblica non sia seguita dal
decreto di espropriazione nei termini di legge, la citazione introduttiva del giudizio di risarcimento del
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
2043
danno da occupazione illegittima ha effetto interruttivo della prescrizione e ciò anche se sia stata notificata prima della scadenza del periodo di occupazione legittima, quando cioè il diritto al risarcimento non
sia ancora sorto, essendo la maturazione del diritto, conseguente alla mancata emissione del decreto di
esproprio, una condizione dell’azione che ben può intervenire anche in corso di causa. Cass. 15 febbraio
2008, n. 3789.
Nelle espropriazioni per P.U., quali che siano le modalità e gli istituti attraverso cui l’Amministrazione
espropriante pervenga all’acquisizione dell’immobile privato - autoritativamente mediante decreto di esproprio, contrattualmente mediante cessione volontaria, ovvero in modo anomalo attraverso la sua irreversibile trasformazione - l’obbligo di un corrispettivo correlato al valore venale del bene a carico di
quest’ultima deriva direttamente dall’art. 42, comma 3, cost. Pertanto, allorché il procedimento ablativo
si sia di fatto esaurito mediante occupazione espropriativa ed all’obbligazione dell’espropriante di corrispondere l’indennità di espropriazione, ovvero il prezzo della convenuta cessione volontaria, subentri
quella del risarcimento del danno corrispondente all’intero valore venale dell’immobile ablato, è sufficiente ad interrompere, ex art. 2943 c.c., la prescrizione del credito risarcitorio derivante dalla perdita del
diritto dominicale, che il proprietario faccia comunque valere il proprio diritto al ristoro patrimoniale
dovutogli in conseguenza della vicenda ablativa, e che il relativo atto contenga l’esplicitazione di una
pretesa, vale a dire un’intimazione o richiesta scritta di pagamento del corrispettivo collegata con la
suddetta vicenda, pur se impropriamente denominata. Cass. 14 febbraio 2008, n. 3700.
Nell’occupazione appropriativa o acquisitiva il termine quinquennale da cui decorre la prescrizione
del diritto a pretendere il risarcimento del danno decorre dalla data di scadenza della occupazione
legittima, se l’opera è realizzata nel corso di tale occupazione, oppure al momento della irreversibile
trasformazione del fondo (coincidente con la modifica dello stato anteriore del bene) se essa è avvenuta
dopo la scadenza o in assenza di decreto di occupazione e di urgenza ma sempre nell’ambito di valida
dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. Cass. 30 marzo 2007, n. 7981.
I più riduttivi criteri di computo del risarcimento del danno da occupazione appropriativa previsti
dall’articolo 5-bis, comma 7 bis del decreto legge n. 333 del 1992 si riferiscono alle occupazioni illegittime
di suoli edificabili per causa di pubblica utilità. Unicamente, cioè, ai suoli suscettibili di edificazione ma
non ancora edificati al momento della trasformazione irreversibile del fondo con destinazione a opera
pubblica o a uso pubblico. Tali criteri, pertanto, atteso il carattere eccezionale della norma che li prevede,
non sono applicabili in via analogica al caso in cui il danno risulti liquidato per il deprezzamento dell’edificio contiguo al giardino, in conseguenza dell’occupazione e dell’irreversibile trasformazione di una porzione di quest’ultimo per l’esecuzione dell’opera pubblica, nonché per la perdita degli alberi e della vasca
a ornamento del giardino stesso. Cass. 30 marzo 2007, n. 7981.
Il giudice chiamato a liquidare il risarcimento del danno da occupazione appropriativa, oltre a
dover tener conto dei manufatti distrutti per realizzare l’opera pubblica (art. 23 L. n. 2359/1865, oggi art.
32, comma 2, D.P.R. n. 327/2001, T.U. espropriazione), deve anche considerare, ai sensi dell’art. 41 L. n.
2359/1985 (oggi art. 33 D.P.R. n. 327/2001, T.U. espropriazione), l’esistenza di vantaggi speciali e immediati derivanti alla residua porzione di fondo, rimasta nella disponibilità del proprietario. Cass. 19 gennaio
2006, n. 1058.
Nell’occupazione usurpativa, solo alla data della domanda di risarcimento per equivalente, e alla
logicamente conseguente dismissione della proprietà da parte del danneggiato, si verifica la cessazione della permanenza dell’illecito, dovendosi ritenere che chi domanda l’equivalente del valore dell’area
consente contestualmente la permanenza successiva dell’occupazione già illecita, in tal modo determinando una esimente per la condotta successiva alla domanda stessa, per chi è nel possesso dell’immobile; a tale data, pertanto, deve intendersi maturato il danno per la perdita della proprietà e deve liquidarsi
il valore di mercato di questa. Cass. 24 novembre 2005, n. 24819.
11.5. Occupazione acquisitiva.
In tema di risarcimento del danno da occupazione acquisitiva, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 349 del 2007), dell’art. 5 bis, comma 7 bis D.L. 11 luglio 1992, n. 333
convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 1992, n. 359, la liquidazione va fatta, anche nei giudizi
pendenti, sulla base del valore di mercato del bene occupato. Cass. 14 gennaio 2008, n. 591.
L’indennizzo di cui si tratta, essendo destinato, a norma dell’art. 42 della Costituzione, a tener luogo
del bene espropriato, non può superare in nessun caso il valore che esso presenta in considerazione
della sua destinazione legale, il valore, cioè, che il proprietario ne ritrarrebbe se decidesse di porlo sul
mercato con la destinazione stabilita dallo strumento urbanistico, senza che si possa tener conto di
altre destinazioni di fatto impresse dal proprietario (nella specie, il ricorrente aveva dedotto di essere in
possesso di autorizzazione alla gestione di un esercizio commerciale per la vendita di prodotti alimentari), né del valore dell’azienda, rimasta estranea alla espropriazione dell’immobile. Cass. 31 marzo
2008, n. 8384.
Ai fini del risarcimento del danno per l’irreversibile destinazione del fondo, illegittimamente occupato, alla realizzazione dell’opera pubblica, con conseguente estinzione del diritto di proprietà del privato e
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
l’acquisizione del bene a titolo originario in capo all’ente costruttore, occorre far riferimento al valore
dell’immobile al momento in cui il fatto illecito si è consumato - ossia a quello della radicale trasformazione del fondo, se è intervenuta durante l’occupazione illegittima, ovvero, se essa si è verificata durante l’occupazione legittima, a quello della scadenza di quest’ultima - esprimendo poi il valore stesso
in termini monetari che tengano conto del fenomeno inflattivo fino alla data della decisione. Non può,
invece, farsi riferimento al valore all’epoca della decisione per poi procedere alla devalutazione fino al
momento dell’illecito, atteso che, vertendosi in tema di illecito istantaneo, il risarcimento deve tradursi
nel ripristino della perdita patrimoniale prodottasi alla data del suo verificarsi, senza che possano andare
a vantaggio o a nocumento del danneggiato le vicende del mercato immobiliare nel periodo successivo
al giorno in cui egli ha perso il diritto di proprietà. Cass. 11 febbraio 2008, n. 3189.
La temporaneità del criterio di computo stabilito dall’art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11
luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall’art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n.
662, le congiunturali esigenze finanziarie che la sorreggono e l’astratta ammissibilità di una regola risarcitoria non ispirata al principio della integralità della riparazione del danno non costituiscono elementi
sufficienti a far ritenere che, nel quadro dei princìpi costituzionali, la disposizione censurata realizzi un
ragionevole componimento degli interessi a confronto, tale da contrastare utilmente la rilevanza della
normativa CEDU. Questa è coerente con l’esigenza di garantire la legalità dell’azione amministrativa ed il
principio di responsabilità dei pubblici dipendenti per i danni arrecati al privato. Per converso, alla luce
delle conferenti norme costituzionali, principalmente dell’art. 42, non si può fare a meno di concludere
che il giusto equilibrio tra interesse pubblico ed interesse privato non può ritenersi soddisfatto da una
disciplina che permette alla pubblica amministrazione di acquisire un bene in difformità dallo schema
legale e di conservare l’opera pubblica realizzata, senza che almeno il danno cagionato, corrispondente al
valore di mercato del bene, sia integralmente risarcito. Pertanto l’art. 5-bis, comma 7-bis, del decretolegge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall’art. 3,
comma 65, della legge n. 662 del 1996, non prevedendo un ristoro integrale del danno subito per
effetto dell’occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione, corrispondente al valore
di mercato del bene occupato, è in contrasto con gli obblighi internazionali sanciti dall’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU e per ciò stesso viola l’art. 117, primo comma, della Costituzione. Corte
cost., 24 ottobre 2007, n. 349.
11.6. Problemi di riparto di giurisdizione.
In tema di espropriazione, qualora la realizzazione di opera pubblica non riguardi l’intera area interessata dalla dichiarazione di pubblica utilità, rientrano nella giurisdizione amministrativa sia la domanda di
restituzione della porzione non utilizzata (da qualificarsi come richiesta di reintegrazione in forma specifica conseguente alla detenzione illecita eccedente il periodo di occupazione legittima), sia quella di risarcimento del danno per la perdurante occupazione della porzione stessa e per l’occupazione appropriativa
della porzione trasformata, atteso che in ciascuna di tali domande la condotta lamentata si collega indirettamente alla dichiarazione di pubblica utilità, i cui effetti sono terminati. Rientra nella giurisdizione ordinaria la domanda di risarcimento del danno causato dall’occupazione di mero fatto di un’area, interclusa tra
il vecchio ed il nuovo tracciato di una strada statale pubblica, che non sia stata prevista nel progetto
approvato dell’opera pubblica, né nelle varianti successive e, quindi, non è compresa nella tacita dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, alla quale l’occupazione dedotta (nella specie invasione dell’area con
materiale di risulta dei lavori eseguiti) non è connessa neppure indirettamente. Rientra nella giurisdizione
ordinaria la domanda con cui il proprietario di fondi limitrofi ad una strada pubblica di nuova costruzione,
deducendo che questa è stata realizzata senza adeguata regimentazione del deflusso delle acque meteoriche e che ciò ha comportato l’allagamento dei suoi terreni, chieda la modifica delle canalizzazioni per il
deflusso stesso ed il risarcimento del danno causato dall’allagamento, dovendo poi il giudice del merito
ritenere la propria competenza, qualora si chieda un risarcimento connesso a generica imperita od imprudente condotta non jure dei costruttori della strada pubblica, o quella speciale del tribunale regionale
delle acque, se la domanda lamenti la violazione di regole tecniche nella costruzione delle opere idrauliche. Cass., Sez. Un., 20 marzo 2008, n. 7442.
Spetta alla giurisdizione del giudice ordinario la domanda con la quale il privato chieda il risarcimento del danno conseguente a meri comportamenti illeciti posti in essere dalla P.A., prospettati come
occupazione usurpativa, qualora il giudice amministrativo abbia rigettato l’impugnazione proposta dal
privato avverso il provvedimento acquisitivo emesso dalla P.A., ai sensi dell’art. 43 del D.P.R. n. 327 del
2001, non valendo a radicare la giurisdizione del giudice amministrativo né l’art. 43, il quale è applicabile
soltanto nel caso in cui l’impugnazione proposta dal privato avverso l’atto di acquisizione sia accolta e la
P.A. (qualora non intenda restituire l’immobile al privato) chieda la liquidazione del danno in favore dello
stesso, né l’art. 34 D.Lgs. n. 80 del 1998 (come modificato dall’art. 7 della legge n. 205 del 2000, nel testo
risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004) o l’art. 53 del D.P.R. n. 327 del 2001 (nel
testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 191 del 2006), trattandosi di comportamento
– 2858 –
TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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illecito nel quale non è ravvisabile un atto di esercizio del pubblico potere e non potendo il sopravvenuto
atto di acquisizione, ove legittimo, mutare la “causa petendi” della domanda risarcitoria che, essendo
fondata sulla dedotta lesione del diritto di proprietà al di fuori di un procedimento ablativo, deve essere
conosciuta dal giudice ordinario, ai sensi degli artt. 103 e 113 della Costituzione (fattispecie concernente
l’occupazione di un immobile e la realizzazione di un’opera, in mancanza della dichiarazione di pubblica
utilità e su aree non comprese nel progetto approvato nei modi di legge e nel piano particolareggiato di
esproprio). Cass., Sez. Un., 5 marzo 2008, n. 5925.
Nel sistema normativo conseguente alla L. n. 205 del 2000, l’autonoma domanda risarcitoria proposta nei confronti della P.A. per attività provvedimentale asseritamente illegittima - e che, dunque, investe, in linea di principio, una posizione di interesse legittimo - va rivolta al giudice amministrativo, il
quale non può rifiutarsi di esercitare su di essa la propria giurisdizione a motivo della mancata pregiudiziale impugnazione del provvedimento del quale si predica l’illegittimità. Cass., Sez. Un., 16 novembre 2007, n. 23741.
Va ascritta al G.A. la giurisdizione nelle controversie avente ad oggetto il risarcimento del danno,
ove vi sia stato l’annullamento di atti amministrativi, perché, pur essendo venuto meno, con essi, il
fondamento all’esercizio del potere, ragioni di economia processuale, non disgiunte dalle esigenze di
ragionevole durata del processo, inducono alla concentrazione, davanti a un unico giudice, delle pronunce sui diritti consequenziali all’annullamento, anche se la vicenda giurisdizionale amministrativa si
sia già conclusa, subentrando in tal caso esigenze di razionalità e coerenza nell’ordinamento. (Nella
fattispecie trattasi di azione risarcitoria del danno per un’occupazione posta in essere in base a dichiarazione di pubblica utilità in precedenza annullata dal giudice amministrativo). Cass., Sez. Un., 19 febbraio 2007, n. 3724.
La fattispecie, qualificabile come “occupazione usurpativa”, ovvero come manipolazione del fondo
di proprietà privata in assenza di dichiarazione di pubblica utilità, è costituita da un comportamento di
fatto dell’amministrazione, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità, che è ravvisabile anche per i
terreni nei quali si sia verificato uno sconfinamento, nel corso dell’esecuzione dell’opera pubblica, da
aree legittimamente occupate: essa costituisce un illecito permanente in alcun modo ricollegabile all’esercizio di poteri amministrativi, onde l’azione risarcitoria del danno che ne è conseguito rientra nella
giurisdizione del G.O. Cass., Sez. Un., 13 febbraio 2007, n. 3043.
Contra: A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 2004 (che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34 della legge n. 80 del 1998, come sostituito dall’art. 7, comma 1, lett. b)
della legge 21 luglio 2000, n. 205, nella parte in cui ricomprende nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo anche i comportamenti, estendendo detta giurisdizione “anche alle controversie nelle
quali la pubblica amministrazione non esercita - nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici - alcun pubblico potere”), non rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie (qualificate come ipotesi di occupazione
usurpativa), relative ai casi in cui alla procedura di occupazione d’urgenza dell’immobile non abbia fatto
seguito la procedura di espropriazione nel termine di validità del decreto di occupazione d’urgenza.
Cons. St., 26 maggio 2006, n. 3191
Va affermata la giurisdizione del giudice ordinario quante volte il diritto del privato non tolleri
compressione per effetto dì un potere esercitato in modo illegittimo il quale incìda, ad esempio,sul
diritto alla salute o all’integrità fisica, ovvero quando l’amministrazione agisca in posizione di parità con i
soggetti privati,e in genere quando il suo operato sia ascrivibile a mera attività materiale perché l’esercizio del potere non è riconoscibile nella specie neppure come indiretto ascendente della vicenda dedotta
in giudizio. Cass., Sez. Un., 7 febbraio 2007, n. 2688.
Quante volte si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una pubblica amministrazione a soggetti
ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l’atto sia capace
di esplicare i propri effetti perché il potere non incontra ostacolo in diritti incomprimibili della persona,
la tutela giudiziaria deve essere chiesta al giudice amministrativo. Al giudice amministrativo potrà essere chiesta la tutela demolitoria e, insieme o successivamente, la tutela risarcitoria completiva. Ma la
parte potrà chiedere al giudice amministrativo anche solo la tutela risarcitoria, senza dover osservare
allora il termine di decadenza pertinente all’azione di annullamento. Cass., Sez. Un., 13 giugno 2006, n.
13659 e n. 13660; conforme Cons. St., Ad. plen., 9 febbraio 2006, n. 2.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità della segnalazione, da parte di un istituto di credito alla Centrale Rischi della Banca d’Italia,
dell’esistenza di un credito in sofferenza, nonché alla condanna dello stesso istituto di credito al risarcimento del danno. Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, n. 7037.
La domanda proposta dal privato nei confronti della P.A. o di suoi concessionari per ottenere il risarcimento del danno alla salute derivante dalle emissioni elettromagnetiche generate da un elettrodotto
è devoluta al giudice ordinario, atteso che la P.A. è priva di qualunque potere di affievolimento del diritto
alla salute garantito dall’art. 32 cost. e, d’altra parte, la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo non potrebbe essere affermata sulla base dell’art. 33 D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, che fa riferi-
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
mento a “tutte le controversie in materia di pubblici servizi”, rientrando, invece, detta controversia tra
quelle “meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cosa”, che il medesimo articolo
esclude dall’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; o sulla base dell’art. 34 D.Lgs.
cit., come modificato dall’art. 7 L. 21 luglio 2000, n. 205, nel testo risultante a seguito della sentenza della
Corte cost., n. 204 del 2004, perché la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica ed edilizia, prevista da detta norma, ha come presupposto oggettivo il nesso - nella specie insussistente - tra atti e provvedimenti della P.A., e dei soggetti ad essa equiparati, ed uso del territorio; o sulla
base dell’art. 35 del medesimo D.Lgs., poiché è nelle controversie devolute alla sua giurisdizione che il
giudice amministrativo può conoscere delle questioni relative al risarcimento del danno. Cass., Sez. Un.,
ord. 21 marzo 2006, n. 6218.
È esclusa dalla giurisdizione del giudice ordinario l’azione risarcitoria avente a oggetto il pregiudizio
derivante da un atto amministrativo definitivo per difetto di tempestiva impugnazione, al giudice ordinario essendo precluso il sindacato in via principale sull’atto o sul provvedimento amministrativo. Ma quando non venga in contestazione il legittimo esercizio dell’attività amministrativa - come avviene nel
caso in cui l’atto amministrativo sia stato annullato o revocato dall’Amministrazione nell’esercizio del
suo potere di autotutela, ovvero sia stato rimosso a seguito di pronuncia definitiva del giudice amministrativo, ovvero ancora abbia esaurito i suoi effetti per il decorso del termine di efficacia ad esso
assegnato dalla legge - l’azione risarcitoria rientra nella giurisdizione generale del giudice ordinario,
non operando la connessione legale tra tutela demolitoria e tutela risarcitoria. Cass., Sez. Un., 23
gennaio 2006, n. 1207.
La controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta da risparmiatori
nei confronti della Consob per violazione degli obblighi di vigilanza sul mercato mobiliare è devoluta
al G.O., non rientrando tra le controversie in materia di pubblici servizi attribuite alla giurisdizione esclusiva del G.A. dall’art. 33 D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, nel testo introdotto dall’art. 7 L. 21 luglio 2000, n. 205
- quale risultante a seguito della sentenza della Corte cost., n. 204 del 2004 - in quanto detta giurisdizione
esclusiva presuppone che la P.A. agisca esercitando il suo potere autoritativo, ovvero avvalendosi della
facoltà, riconosciutale dalla legge, di adottare strumenti negoziali in sostituzione del predetto potere. A
differenza, infatti, di quanto avviene rispetto ai “soggetti abilitati” - nei cui confronti l’Autorità di vigilanza
esercita una serie di “poteri” diretti ad assicurare che i loro comportamenti siano “trasparenti e corretti” e
la loro gestione sia “sana e prudente” (art. 5 e 91 D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), onde le posizioni di tali
soggetti nei confronti dell’Autorità si configurano, in linea di massima, come interessi legittimi - la Consob non esercita alcun “potere” sui risparmiatori, trattandosi dei soggetti che essa è tenuta a tutelare, con
la conseguenza che la posizione di questi ultimi nei confronti dell’Autorità di vigilanza assume la consistenza del diritto soggettivo: diritto che - proprio perché non collegato ad alcuna relazione di potere con
la P.A. - deve essere tutelato, in caso di violazione, innanzi al G.O., e ciò tanto più quando (come nel caso
di specie) l’azione proposta trovi il suo fondamento in un preteso “comportamento” illecito della P.A. e sia
diretta a conseguire il risarcimento dei danni subiti. (Fattispecie relativa ad azione risarcitoria proposta dal
curatore del fallimento di un agente di cambio e da un creditore ammesso al passivo fallimentare). Cass.,
Sez. Un., 29 luglio 2005, n. 15916.
L’art. 7 della L. n. 205 del 2000, al precedente sistema che, in considerazione della natura intrinseca di
diritto soggettivo della situazione giuridica conseguente all’annullamento del provvedimento amministrativo, attribuiva al giudice ordinario le controversie sul risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti amministrativi, ha sostituito un sistema che riconosce esclusivamente al giudice naturale
della legittimità dell’esercizio della funzione pubblica poteri idonei ad assicurare piena tutela, e quindi
anche il potere di risarcire, sia per equivalente sia in forma specifica, il danno sofferto per l’illegittimo
esercizio della funzione; da ciò consegue che, ai fini del riparto di giurisdizione, è irrilevante la circostanza che la pretesa risarcitoria abbia, o non abbia, intrinseca natura di diritto soggettivo. Corte cost.,
11 maggio 2006, n. 191.
Nel disegno voluto dal costituente, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo non può mai avvenire per il solo fatto che parte in causa sia la P.A., ma deve avvenire sulla base
della concreta situazione giuridica dedotta in giudizio (diritto soggettivo od interesse legittimo). Corte
cost., 6 luglio 2004, n. 204.
11.7. Risarcimento ed ottemperanza.
Deve escludersi, anche alla luce della disciplina dettata dall’art. 35 D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, la
possibilità che la domanda di risarcimento del danno possa venire per la prima volta formulata in sede di
ottemperanza. Essa sarebbe, in tale ipotesi, una domanda del tutto nuova che, come tale, è bensì proponibile, ma è soggetta all’ordinario vaglio, articolato su due gradi di giudizio, del giudice della cognizione.
L’ottemperanza ad una decisione di annullamento per difetto di motivazione comporta solo la riedizione
del potere da parte dell’amministrazione, tramite l’adozione di un nuovo provvedimento. Cons. St., 1
febbraio 2001, n. 396. Contra: T.A.R. Campania Napoli 4 ottobre 2001, n. 4485 secondo cui è ammissibile
una domanda di risarcimento danni per lesione di interessi legittimi proposta con ricorso per ottempe-
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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ranza cumulativamente con la domanda alternativa di esecuzione del giudicato. La pretesa incompatibilità ontologica tra azione di esecuzione del giudicato e azione di cognizione deve ritenersi superata in
seguito all’entrata in vigore della L. n. 205 del 2000. Il risarcimento per equivalente può essere disposto
dal giudice dell’ottemperanza a completamento della tutela giurisdizionale di annullamento, quando il
rimedio ripristinatorio non abbia potuto conseguire risultati satisfattivi, allo scopo di garantire una tutela
giurisdizionale effettiva. Quando per l’ottemperanza sia competente il giudice di primo grado, si può
ammettere - in applicazione del principio di conversione degli atti processuali - la proposizione di un solo
“ricorso cumulativo contenente sia la richiesta di esecuzione del giudicato sia la domanda risarcitoria”; ciò, però, sempre nell’assunto che “quella risarcitoria” è “un’ordinaria azione cognitoria”, concettualmente del tutto distinta, come tale, dalla domanda di ottemperanza che ha natura bensì mista (ed è in ciò
che si differenzia dall’esecuzione civile), ma pur tuttavia prevalentemente esecutiva. Cons. Giust. Amm.
Reg. Sicilia, 19 ottobre 2006, n. 587.
Il proprietario del fondo illegittimamente occupato dalla P.A., in esito alla declaratoria di illegittimità
dell’occupazione e all’annullamento dei relativi provvedimenti, può legittimamente domandare nel giudizio di ottemperanza sia il risarcimento, sia la restituzione del fondo che la sua riduzione in pristino.
Cons. St., 30 gennaio 2006, n. 290.
11.8. Prescrizione.
In seguito al venir meno della pregiudiziale amministrativa, ossia della necessità che venga proposta prima l’azione di annullamento dell’atto illegittimo e poi la richiesta di indennizzo; il termine di prescrizione dell’azione di risarcimento contro la P.A. decorre dalla data dell’illecito e non da quella del passaggio in giudicato della sentenza di annullamento dell’atto lesivo da parte del giudice amministrativo, in
quanto l’esistenza dell’atto amministrativo illegittimo non costituisce più un impedimento all’esercizio
dell’azione risarcitoria. Cass., Sez. Un., 8 aprile 2008, n. 9040.
Condizione necessaria per la domanda di risarcimento del danno cagionato da un provvedimento
amministrativo illegittimo è la pronuncia che riconosce l’illegittimità di provvedimenti dalla cui esecuzione sorgono i danni lamentati; è perciò dal passaggio in giudicato della decisione del giudice amministrativo che può avere inizio il decorso del periodo di prescrizione per la proposizione della domanda
risarcitoria. Cons. St., Ad. plen. 9 febbraio 2006, n. 2.
In tema di risarcimento del danno patito a seguito di illegittima dichiarazione di decadenza dalla
concessione amministrativa per l’esercizio del servizio di pubbliche autolinee, il termine di prescrizione inizia a decorrere dal giudicato di annullamento del provvedimento lesivo nel caso di silenzio inadempimento sull’istanza diretta alla reintegrazione nel servizio la prescrizione della pretesa risarcitoria
inizia a decorrere da quando si verifica il silenzio - inadempimento, e dunque, allo scadere del termine
assegnato con l’atto di diffida notificato. Cons. St., 6 settembre 2004, n. 5995.
11.9. Responsabilità della P.A. per gli atti compiuti dai suoi dipendenti.
In tema di responsabilità diretta della P.A. per fatto lesivo derivante dall’operato dei suoi dipendenti,
non può essere esclusa la sussistenza del rapporto di occasionalità necessaria tra l’attività del dipendente e l’evento lesivo in presenza dell’eventuale abuso compiuto da quest’ultimo o dall’illegittimità
del suo operato, qualora la condotta del dipendente medesimo si innesti, comunque, nel meccanismo
dell’attività complessiva dell’ente. Ne consegue che il riferimento della condotta del dipendente alla P.A.
può venire meno solo quando egli agisca come semplice privato, per un fine strettamente personale ed
egoistico, ed il suo comportamento, non importa se colposo o doloso, non sia perciò diretto al conseguimento di fini istituzionali che, in quanto propri della amministrazione, possono anche considerarsi propri
dell’ufficio nel quale il dipendente stesso è inserito. Cass. 30 gennaio 2008, n. 2089.
Nel caso che un dipendente della P.A. abbia commesso un atto illecito e si accerti che ciò è avvenuto
in quanto i superiori gerarchici del dipendente stesso hanno omesso di emanare le direttive opportune
per prevenire la commissione, da parte dei lavoratori ad essi subordinati, di atti come quello predetto
(vigilando poi sull’applicazione delle direttive medesime), è configurabile la responsabilità diretta della
P.A. per il comportamento omissivo di detti superiori, sussistendo sia la riferibilità di tale atto alla stessa
P.A. (una volta assodato che nella fattispecie concreta la predetta emanazione rientrava tra i compiti di chi
aveva funzioni dirigenziali nella struttura amministrativa in questione), sia l’esistenza di un rapporto di
causalità tra il comportamento omissivo di detti superiori e l’evento dannoso (una volta accertato che nel
caso concreto senza l’omissione in questione non si sarebbe realizzato l’atto illecito del dipendente subordinato direttamente produttivo del danno) in base alla regola secondo cui causa causae est causa
causati. Cass. 17 gennaio 2008, n. 864.
Per valutare l’efficienza causale del comportamento omissivo della P.A. rispetto al verificarsi dell’evento dannoso (compiuto dal proprio dipendente agente di polizia), e dunque la sussistenza della
culpa in vigilando della P.A., occorre accertare se il compimento dell’azione che la P.A. aveva l’obbligo di
porre in essere sarebbe servito a scongiurare il determinarsi dell’evento (nel caso di specie, il mero
richiamo del dipendente pubblico, che avrebbe comportato il ripristino delle guancette originali del calcio
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LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
della pistola d’ordinanza, non sarebbe valso ad impedire l’evento, dovendosi questo ascrivere esclusivamente al fatto colposo dell’agente). Cass. 30 novembre 2006, n. 25479.
Presupposti della responsabilità diretta della pubblica amministrazione per atti compiuti dai suoi
dipendenti sono l’esistenza di un rapporto di causalità tra l’atto o il comportamento del dipendente e
l’evento dannoso e la riferibilità di tale atto alla stessa P.A. Nel compiere il relativo accertamento, il
giudice deve stabilire altresì se il danno sia qualificabile come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su
di un interesse rilevante per l’ordinamento, e valutare secondo i normali criteri della prudenza la eventuale colpa dell’agente, nonché l’eventuale esistenza di norme regolamentari. (Fattispecie relativa all’uso di
armi da parte di carabiniere che, per sventare una rapina, aveva esploso un colpo di pistola il quale
aveva attinto, ferendolo, un terzo). Cass. 9 febbraio 2004, n. 2423; conforme Cass. 13 novembre 2002, n.
15930.
Affinché ricorra responsabilità della pubblica amministrazione per un fatto lesivo posto in essere dal
proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica
- deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità
all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal
dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con
abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio
o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca
come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente
estraneo all’amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra
l’attività del dipendente e la P.A. Cass. 18 marzo 2003, n. 3980.
Presupposto della responsabilità diretta della P.A. per fatto del proprio dipendente è la cosiddetta
“occasionalità necessaria”, che sussiste tutte le volte in cui la condotta del dipendente sia strumentalmente connessa con l’attività di ufficio. La riferibilità dell’atto o del comportamento del dipendente alla
P.A. va esclusa solo relativamente a quelle attività strettamente personali del dipendente stesso in relazione alle finalità istituzionali e non legate neppure da un nesso di occasionalità con i compiti affidatigli
(principio affermato in un caso di lesioni colpose cagionate ad un carabiniere da un colpo di arma da
fuoco sparato da altro carabiniere). Cass. 12 agosto 2000, n. 10803.
La responsabilità civile personale dei funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici in caso
di violazione dei diritti dei terzi, a norma dell’art. 28 cost. - che si applica anche ai soggetti, come i sindaci
dei comuni, svolgenti funzioni pubbliche senza essere legati all’ente pubblico da un rapporto di servizio non presuppone necessariamente l’abuso delle funzioni di ufficio per il perseguimento di fini personali,
essendo sufficiente l’imputabilità almeno colposa dell’atto dannoso al pubblico amministratore o dipendente, derivante da violazione delle regole di comune prudenza o di leggi o regolamenti alla cui osservanza la P.A. sia vincolata, salvo specifica determinazione da parte del legislatore ordinario del grado di
colpevolezza, così come operato con l’art. 23 t.u. n. 3 del 1957 sugli impiegati dello Stato, applicabile, in
difetto di regolamentazioni specifiche (cfr. peraltro l’art. 58 L. n. 142 del 1990, di rinvio, per gli amministratori e per il personale degli enti locali, alle disposizioni vigenti in materia di responsabilità degli impiegati civile dello Stato), anche alle altre categorie di soggetti responsabili, in via analogica o in quanto
espressione di un principio generale. (Fattispecie relativa ad azione risarcitoria promossa da impiegato
comunale in relazione alla lamentata assegnazione di mansioni incompatibili con il suo stato di salute).
Cass., 18 febbraio 2000, n. 1890.
11.10. Diffusione di informazioni inesatte da parte dalla P.A.
La responsabilità della P.A. per illecito extracontrattuale - che può essere fatta valere dal privato
con azione di risarcimento del danno davanti al giudice ordinario - è astrattamente configurabile anche nella diffusione di informazioni inesatte, in quanto lede la posizione (meritevole di tutela) del
privato in contatto con la P.A. di affidamento nella stessa, tenuto conto che questa deve ispirare la
propria azione a regole di correttezza, imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.). Peraltro, per
l’affermazione in concreto della sussistenza della responsabilità extracontrattuale della P.A., non può prescindersi dal requisito soggettivo richiesto dall’art. 2043 c.c. e cioè dall’accertamento della colpa (o del
dolo), riferibile non già al funzionario agente, ma all’amministrazione come apparato. Ne consegue che
non può escludersi, in linea di principio, la rilevanza dell’errore scusabile commesso dalla P.A., dovendosi
valutare in concreto nel singolo caso la eventuale sussistenza di detto carattere di scusabilità dell’errore
stesso.Nel compimento di tale accertamento, da effettuarsi ex ante, di spettanza del giudice del merito ed
incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato, l’errore sulla interpretazione della norma,
in presenza della regola della inescusabilità dell’error iuris, deve essere considerato eccezionalmente
scusabile solo se imputabile ad una oggettiva oscurità della norma medesima, o se altrimenti inevitabile
alla stregua dei parametri forniti dalla Corte costituzionale (sent. n. 364 del 1988, ed altre). A siffatte
ipotesi è da ricondurre l’adeguamento da parte della P.A. alla interpretazione della norma in atto dominante in sede giurisprudenziale, in quanto il vigente ordinamento assegna in ultima istanza proprio ai
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TITOLO IX - DEI FATTI ILLECITI
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giudici, sia pure con riferimento al solo specifico caso di volta in volta sottoposto al loro esame, la interpretazione e l’applicazione della legge. Cass. 9 febbraio 2004, n. 2424.
Nell’ipotesi in cui l’erronea comunicazione all’assicurato in ordine alla posizione contributiva abbia determinato la sua scelta - fondata sul ragionevole affidamento circa la situazione portata a sua
conoscenza - di sospendere, prima del raggiungimento del requisito contributivo minimo, il versamento dei contributi volontari cui era stato precedentemente ammesso, deve escludersi, in base ai principi
generali applicabili anche all’ordinamento pensionistico, che l’assicurato possa richiedere la prosecuzione del versamento dei contributi volontari dal momento della sospensione del pagamento. In tal caso,
infatti, l’unico rimedio a disposizione dell’assicurato è l’esperibilità dell’azione di risarcimento dei danni
basata sulla responsabilità dell’Istituto per l’incompleta comunicazione di sua competenza e la conseguente induzione in errore circa l’effettiva entità della posizione contributiva. Cass. 9 aprile 2001, n. 5247.
La responsabilità della P.A. per illecito extracontrattuale - che può essere fatta valere dal privato con
azione di risarcimento del danno davanti al giudice ordinario - è astrattamente configurabile anche nella
diffusione di informazioni inesatte, in omissioni o in leggerezze o negligenze commesse dall’amministrazione nell’esercizio di poteri di vigilanza o di controllo; tuttavia, la proponibilità di siffatta domanda
risarcitoria non dipende solo dalla prospettazione della parte, ma anche dalla configurabilità in concreto,
in relazione ai termini sostanziali della controversia, di un comportamento della P.A. che, superando i
limiti esterni della discrezionalità riconosciutale dalla legge, abbia leso un diritto soggettivo, con la conseguenza che non può considerarsi dedotta l’indicata lesione quando il privato censuri l’attività discrezionale di vigilanza o di cattivo esercizio di poteri di controllo, risolvendosi tali censure in un inammissibile
sindacato del giudice ordinario sulla legittimità o sull’opportunità di atti amministrativi. Cass. 22 novembre 1999, n. 12941; conforme Cass. 15 novembre 1994, n. 9553.
12. Responsabilità delle autorità amministrative indipendenti.
La domanda di risarcimento del danno proposta da risparmiatori nei confronti della Consob per
violazione degli obblighi di vigilanza sul credito e sul mercato mobiliare è devoluta, anche in base al
regime di riparto della giurisdizione introdotto dall’art. 7 L. 21 luglio 2000, n. 205 - il quale ha sostituito, fra l’altro, gli artt. 33 e 35 D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 - al giudice ordinario. Pur avendo, infatti, il
citato art. 33 del D.Lgs. n. 80 del 1998, nel testo vigente, attribuito alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo “tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare”, la suddetta domanda esula dalla giurisdizione
medesima, atteso che la controversia con essa proposta deve farsi rientrare nella categoria delle “controversie meramente risarcitorie che riguardano il danno alla persona o a cose” (che lo stesso art. 33
eccettua dall’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo), dovendosi intendere per
tali le controversie - come quella in esame - che, di per sé (e non per il tipo di tutela che la parte chiede in
concreto), possono assumere a loro contenuto soltanto una pretesa di risarcimento del danno. Né la
giurisdizione del giudice amministrativo può essere affermata in relazione all’art. 35 del D.Lgs. n. 80 del
1998, nel testo vigente, atteso che è nelle controversie devolute alla sua giurisdizione che il giudice
amministrativo può conoscere delle questioni relative al risarcimento del danno ed i risparmiatori, rispetto all’esercizio dei poteri di vigilanza verso gli operatori del settore, non versano in situazione di interesse
legittimo, con conseguente insussistenza anche della giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo. Cass., Sez. Un., 2 maggio 2003, n. 6719.
L’attività della P.A., anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti non solo
dalla legge, ma anche della norma primaria del neminem laedere, sicché, in considerazione dei principi di
legalità, imparzialità e buona amministrazione dettati dall’art. 97 cost., la P.A. stessa è tenuta a subire le
conseguenze stabilite dall’art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua
attività discrezionale, ancorché il sindacato di questa rimanga precluso al giudice ordinario. (Nella specie,
il giudice di merito aveva rigettato una domanda risarcitoria avanzata da alcuni sottoscrittori di titoli atipici
- nell’ambito di una operazione di offerta al pubblico delle quote dell’intero capitale sociale di una società
immobiliare nata per la costruzione di un villaggio turistico nei confronti della Consob, che aveva autorizzato l’operazione finanziaria nonostante la totale non veridicità del prospetto informativo depositato presso
l’ente di controllo nel quadro della disciplina dettata dalla L. n. 77 del 1983 - applicabile, nella specie, ratione
temporis - rigetto motivato sul presupposto che la Consob stessa non avesse, all’epoca, alcuna potestà di
indagare sulla verità dei fatti dichiarati nel prospetto illustrativo delle operazioni finanziarie ad essa sottoposte, bensì soltanto il potere di regolare in astratto i contenuti e le modalità delle informazioni da fornire al
pubblico. La S.C., nel cassare la sentenza impugnata, e nell’affermare il principio di diritto che precede, ha,
per converso, osservato che la responsabilità civile dell’organo pubblico di vigilanza era, nella specie, senz’altro
predicabile, una volta accertata, da un canto, la evidente falsità di dati essenziali del prescritto prospetto
informativo - come, peraltro, evidenziato perfino nell’ambito di una campagna di stampa svoltasi quasi
contestualmente all’operazione finanziaria - e, dall’altro, l’assoluta omissione di qualsivoglia intervento di
tipo istruttorio, integrativo, repressivo su un’operazione che, “prima facie”, non offriva un accettabile livello
di veridicità delle informazioni rilasciate dall’operatore finanziario). Cass. 3 marzo 2001, n. 3132.
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2044
LIBRO QUARTO - DELLE OBBLIGAZIONI
La Consob, quale garante della legalità dell’agire delle società deve accertare l’esattezza e la completezza dei dati e delle notizie comunicati o pubblicati; qualora non informi la propria azione a tali fini,
incorre in responsabilità dovendo la Commissione, nell’esercizio della funzione di vigilanza, tener conto
oltre che dei vincoli esterni rappresentati dall’imparzialità, dalla correttezza, e dalla buona amministrazione, anche di quello interno costituito dall’attivazione della vigilanza nell’interesse pubblico. Cass. 3 marzo
2001, n. 3132.
2044. Legittima difesa.
Non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri [c.p. 52].
GIURISPRUDENZA
1. Generalità; 2. Eccesso colposo di legittima difesa; 3. Legittima difesa putativa.
1. Generalità.
L’art. 2044 c.c. rinvia sostanzialmente, per la nozione di legittima difesa quale situazione idonea ad
escludere la responsabilità civile per fatto illecito, all’art. 52 c.p. Cass. 24 febbraio 2000, n. 2091.
L’art. 2044 c.c., nello stabilire che non è responsabile chi ha cagionato il danno per legittima difesa
di se o di altri, ha operato un rinvio implicito alle disposizioni che in materia penale regolano l’istituto
della legittima difesa. Cass. 16 febbraio 1978, n. 753.
Il litigio con inferte e subite lesioni insorto in seguito al lancio di un pallone in un balcone abitato, con
mancato raggiungimento di una sicura ricostruzione dei fatti, dell’identificazione dei soggetti ai quali
sono da attribuire le ingiurie proferite e le provocazioni attuate con quelli che hanno usato le mani, può
indurre ad un quadro giuridico di riferimento dato dall’art. 2044 c.c. che, rappresentando un principio
radicato anche nella coscienza sociale, afferma non essere responsabile “.chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri”: la codificazione di tale causa di giustificazione esclude l’ingiustizia del
danno, sicché la lesione deve ritenersi prodotta “iure”. Come condivisibilmente rilevato da dottrina e
giurisprudenza, l’art. 2044 c.c. rinvia sostanzialmente per la nozione di legittima difesa “.quale situazione
idonea a escludere la responsabilità civile per fatto illecito, all’art. 52 c.p. che richiede, a tal fine, la sussistenza nella fattispecie, della necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di
un’offesa ingiusta (sempre che la difesa proporzionata all’offesa.): la necessità allude alla possibilità che
quel pericolo attuale possa essere evitato in qualsiasi altro modo anche con il cosiddetto “comodus
discessus”, mentre la proporzione richiama non solo il rapporto tra il bene o il diritto minacciato e quello
poi leso, ma anche i mezzi e le modalità della reazione. Ma quando le testimonianze non offrono adeguata
prova dell’esistenza di un pericolo attuale da cui si dovesse inevitabilmente difendersi con la reazione
fisica messa in opera, sì da poter invocare la legittima difesa, per la cui sussistenza, secondo la migliore
dottrina penalista, si richiede sia che l’agente non avesse alcuna altra via per sventare il pericolo; sia che
il pericolo non potesse essere neutralizzato con una condotta meno lesiva di quella in concreto tenuta
dall’agente, la norma di cui all’art. 2044 c.c. non può trovare ingresso. Potrà, invece, trovare applicazione
l’art. 1227 c.c. a carico del soggetto sceso in strada per far cessare il gioco del pallone, fatto che non può
trovare alcuna ragionevole giustificazione nella asserita necessità di “ricondurre” il convenuto, o chiunque altro, “alla ragione” non essendo quello un compito del cittadino il quale avrebbe potuto, se indispensabile, avvalersi della polizia municipale opportunamente chiamata. Tale comportamento - poco in
sintonia con quelle regole del vivere civile in base alle quali, qualora si venga infastiditi dall’altrui gioco
del pallone e si venga insultati, non si corre in strada per inseguire e prendere l’offensore, ma, se non si
riesce ad ottenere ascolto utilizzando validi argomenti, si avvertono le forze dell’ordine - esprimendo una
tendenza alla regolamentazione fai da tè della vicenda, si è configurato come atteggiamento provocatorio
che il Tribunale in coerenza con l’orientamento di dottrina giurisprudenza ritiene concorrente e produrre
l’evento dal quale deriva il danno, sicché, alla stregua del principio posto dall’art. 1227, comma 1 c.c., una
quota di questo deve rimanere a carico dello stesso danneggiato. In applicazione di tale criterio, tenuto
conto delle ricostruite emergenze di fatto e della loro incidenza causale, il danno risarcibile subisce riduzione di metà. Trib. Milano, 31 gennaio 2007.
2. Eccesso colposo di legittima difesa.
L’art. 2044 c.c., disponendo che la responsabilità per danni sia esclusa quando il danno è arrecato
per difendere sé od altri contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che vi sia proporzione
tra difesa e offesa, scrimina il fatto nella sua interezza. In tal modo si differenzia dall’eccesso colposo di
legittima difesa nel quale, venendo a mancare il requisito della proporzionalità, vi è come conseguenza
che la reazione difensiva, per effetto del suo trasmodare in eccesso, termina di essere legittima dando
luogo ad un fatto illecito soggetto alla sanzione penale e fonte di obbligazione civile risarcitoria. I presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da un’aggressione ingiusta e da una reazione legitti-
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