ROBERT CASTEL SEMINARIO CRIE NAPOLI 14-15 MAGGIO 2002 I DILEMMI DELL`IDEOLOGIA SECURITARIA : IL RITORNO DELLE “CLASSI PERICOLOSE “ ? Ho proposto per questo seminario un titolo forse un po’ approssimativo, che devo esplicitare . Il mio intento è quello di riflettere, insieme a tutti voi, sulla nozione di rischio, sulla sua complessità e sulla proliferazione dei suoi usi, che rende conto della difficoltà di contenerli. Che cosa vuol dire essere protetti dai rischi ? A mio avviso, riflettere sui rischi vuol dire anche riflettere sulle protezioni, sulla sicurezza. Quali sono le condizioni richieste per essere al sicuro, per contenere i rischi ? Forse quello che sto per dire è in parte indotto da ció che accade attualmente in Francia, dove si riscontra un’ esasperazione della preoccupazione per la sicurezza . Essa ha avuto delle conseguenze politiche importanti poichè le elezioni presidenziali del 2002 si sono in gran parte giocate su questo tema. La sinistra le ha perse, in larga misura, perchè non si è fatta carico di tale questione. Da allora, l’attuale governo fa di tale questione la principale preoccupazione della sua azione politica, intraprendendo una sorta di caccia alla delinquenza pronando la 1 « tolleranza zero » : essere spietati verso i fattori d’insicurezza. E il principale bersaglio di tali campagne sicuritarie sono soprattutto i giovani che abitano quelle che in Francia si chiamano « le banlieues » : le periferie, i quartieri deprivati che circondano le grandi città. Questi giovani, spesso di origine immigrata, sono appena qualche centinaio di migliaia, ma sono stigmatizzati e trattati come se costituissero una classe pericolosa. Una « classe pericolosa » : cosa vuol dire ? L’espressione rinvia al modo in cui è stata qualificata una parte della classe operaia del XIX secolo. Vi sono innumerevoli descrizioni di ció che allora veniva chiamato « il pauperismo » : uno stato di miseria, ma anche di immoralità, delle popolazioni ammassate alle periferie delle città industriali nella promiscuità, nella sporcizia, nel vizio e nella delinquenza. « Classi laboriose, classi pericolose », per riprendere il titolo del libro ben noto di uno storico, Luis Chevalier, che esamina tali descrizioni (si puó anche pensare ai Miserabili di Victor Hugo). Simili descrizioni sono senz’altro esagerate, ma hanno trovato largo consenso. Esse sono come la cristallizzazione, su una particolare frangia della popolazione, di tutti i pericoli e tutte le minacce in cui una società si possa imbattere. Mi pare che vi sia in questo uno schema ben delineato, che aiuta a comprendere la sicurezza e l’insicurezza. Esso ha funzionato in contesti storici e sociali molto diversi. Nelle società pre-industriali, si potrebbe mostrare come i vagabondi abbiano giocato tale ruolo di gruppo stigmatizzato su cui si cristallizzavano le paure della società dell’epoca. E mi sembra che « la questione delle periferie » e dei giovani marginalizzati oggi rinvii a questo stesso schema. Torneró più diffusamene su questo tema, ma mi sembra illuminante per comprendere in che modo si ponga la questione dell’insicurezza e più precisamente la congiunzione, o l’addizione, di due tipi di insicurezza. Vi è ció che si puó chiamare l’insicurezza civile, costituita da rischi che riguardano l’integrità delle persone e dei beni : violenza, delinquenza, furti, criminalità… Ma vi è anche l’insicurezza sociale , costituita dalle situazioni nelle quali le persone non dispongono neppure delle risorse minime che assicurino loro l’indipendenza e sono alla mercè del più piccolo incidente di percorso che possa gettarli nell’incertezza del domani. Oppure vi sono delle zone della vita sociale, come oggi le periferie urbane, in cui questi due tipi di insicurezza si sovrappongono. A mio parere questo è un punto strategico per cogliere i difficili problemi posti dal controllo dei rischi e vi ritorneró più avanti. La questione delle « classi pericolose » non è il mio solo proposito. E’ piuttosto un’illustrazione esemplare di una riflessione più generale che vorrei proporre sulla nozione di rischio in rapporto alla questione della sicurezza, che include anche la prevenzione dei rischi e la questione del ruolo che lo Stato puó giocare in tali operazioni. In effetti è intorno alla 2 questione del controllo dei rischi che lo Stato ha trovato le sue giustificazioi essenziali, che si tratti dello Stato di diritto, per lottare contro l’insicurezza civile, o dello Stato sociale, per lottare contro l’insicurezza sociale. Ma questo è un campo vasto e complesso, che non pretendo di esaurire in questa sede. Desidero soltanto tracciare alcune linee di discussione che mi sembrano importanti. -La prima tenta di precisare in cosa consista la logica del rischio : che cosa vuol dire iniziare a parlare in termini di rischi e di prevenzione dei rischi ? Per non restare troppo in astratto, mi rifarò ad un ambito preciso : quello della medicina mentale, della quale mi sono un tempo occupato. Cosa implica parlare di rischi in tale contesto ? Di qui un primo enunciato che potrebbe intitolarsi « dalla pericolosità al rischio » : delineare il nuovo regime di pensiero e le nuove forme di azione che implica la volontà di spingere la percezione del pericolo in direzione di una prevenzione dei rischi in questo campo. - In secondo luogo, ritengo si debba essere sensibili al fatto che vi sono « diversi tipi di rischi » e diverse maniere di affrontare i rischi. Non ho la pretesa di essere esaustivo, ma insisterò su due punti che mi sembrano particolarmente importanti : il primo ruota attorno alla nozione di rischio civile, che ho evocato a proposito della sicurezza dei beni e delle persone, con alcuni dei problemi relativi alla volontà di sradicare e contenere i rischi ; il secondo attorno al rischio sociale (cos’è un rischio sociale, come controllarlo, in altri termini cos’è la sicurezza sociale nel senso forte del termine. Questo è il punto sul quale insisterò maggiormente, perchè costituisce anche il nucleo del Welfare State ; - Infine, abborderò più rapidamente alcune questioni che ruotano attorno a quella che possiamo chiamare una « nuova generazione di rischi », ecologici e tecnologici, che rende ancor più complessa la problematica dei rischi . Indico sommariamente quale sarà la linea guida del mio intervento. Credo si debba prendere sul serio il tema dei rischi, ma sono altrettanto convinto che si debba diffidare di una certa inflazione contemporanea del riferimento al rischio, contropartita del bisogno disperato di sicurezza che dissolve al limite la possibilità stessa di essere protetti. Riflettere sul rischio forse vuol dire anche interrogare le ideologie della prevenzione totale e del controllo assoluto di tutti i flagelli dell’esistenza, che sono irrealistiche e persino politicamente pericolose. Ma tali propositi sono evidentemente fatti per essere discussi e spero che potremo avere degli scambi aperti su tali questioni. Aggiungo che se vi sono altri punti per voi interessanti che non rientrino nella linea da me tracciata siete invitati a dirlo alfine di inserirli nella discussione. 3 I DALLA PERICOLOSITÀ AI FATTORI DI RISCHIO Nella prima parte del mio intervento, vorrei cercare di caratterizzare il regime di pensiero del rischio, o piuttosto di illustrarlo attraverso un esempio. La medicina mentale mi sembra illustrare abbastanza bene il cambiamento ad un tempo teorico e pratico che induce la promozione sistematica della nozione di rischio e di « fattori di rischio ». Si potrebbe dire che la prima medicina mentale - « l’animismo » - si sia costruita attorno alla nozione di pericolosità. In effetti il « pazzo », o l’ « alienato » dell’epoca, agli inizi del diciannovesimo secolo, è essenzialmente percepito come pericoloso. Va detto che all’epoca si trattava di gravi patologie, rappresentate da qualche decina di migliaia di persone. Cionondimeno, tali individui pongono un problema assai grave : che siano pericolosi, o semplicemente percepiti come tali, essi devono essere neutralizzati ; ma in quanto alienati essi sono irresponsabili e dunque non possono essere condannati. Essi pongono un problema essenziale al momento dell’instaurazione di un regime che si vuole liberale, in rottura con l’assolutismo regio e con l’arbitrio delle lettres de cachet. Come neutralizzare l’alienato senza condannarlo ? L’isolamento terapeutico, inventato dai primi alienisti, é la soluzione a tale problema : l’alienato deve essere rinchiuso, ma é per il suo bene, perché é la sua sola possibilità di guarigione. Egli non sarà punito, ma curato. C’è come un’armonia prestabilita fra l’interesse della società e quello dell’ammalato. Tutta la psichiatria classica si costruisce intorno al modello dell’asilo, che diviene nel diciannovesimo secolo l’ospedale psichiatrico. Colgo l’occasione di questa mia venuta in Italia per rendere omaggio a Franco Basaglia, che ho avuto l’onore di conoscere molto bene e con il quale ho lavorato. Non si tratta di un proposito anneddotico, la sua opera fondamentale condotta negli anni sessanta, e sfociata nella chiusura di questo tipo di internamento dei malati mentali in Italia, illustra al contrario la lunga e tenace persistenza di un simile modello. Questa prima risposta sistematica alla pericolosità del malato mentale ha dato dunque prova di una grande consistenza, ma progressivamente ha rivelato i suoi limiti, che sono di due ordini: -Innanzitutto, essa è debolmente preventiva. Certo, l’ammalato cessa di essere pericoloso, allorchè è rinchiuso, ma bisogna attendere che manifesti dei sintomi gravi per intervenire . 4 -In secondo luogo, tale risposta si rivela sempre più insoddisfacente, a mano a mano che il campo d’indaggine della psichiatria si amplia. Accanto ai « grandi matti » e ai « grandi deliranti », il cui numero non ha mai superato il centinaio di migliaia per un paese come la Francia, si assiste al moltiplicarsi delle patologie leggere, o i cui sintomi sono meno visibili. L’internamento appare così sempre più inadeguato per trattare questi diversi tipi di anomalie, disturbi del comportamento, disfunzioni psichiche di ogni sorta, poichè bisognerebbe internare migliaia di persone. Inoltre, la pericolosità che esse possono presentare è molto più difficile da anticipare. La presa di coscienza dei limiti dell’internamento si è avuta nella metà del diciannovesimo secolo. Cito una lettera che uno psichiatra francese, Morel, indirizza nel 1860 al Prefetto della Senna Inferiore (i medici alienisti dipendono amministrativamente dal prefetto e Morel è medico direttore dell’ospedale psichiatrico del dipartimento). Signor Senatore-Prefetto, L’aumento sempre crescente degli alienati negli asili della Senna Inferiore, gli inconvenienti che ne risultano mi spingono a studiare, come ho fatto per altri dipartimenti, le cause di tale aumento. Credo, innanzitutto, che per rendersi conto del progressivo aumento dei nostri alienati sia importante entrare nel cuore delle cause di ordine intellettuale, fisico e morale che scatenano questa triste malattia. Lo studio delle cause non può effettuarsi prescindendo dagli strumenti forniti dalla statistica. Per operare su una zona vasta come il dipartimento della Senna inferiore, è necessario procedere con ordine e metodo. Penso che se il metodo vuole fornire all’amministrazione delle indicazioni utili, deve studiare successivamente, nei diversi arrondissements della Senna inferiore, le cause che agiscono in maniera funesta sullo stato intellettuale, fisico e morale delle popolazioni. La più legittima conclusione alla quale si giunge, partendo da simili principi, è che la più o meno grande frequenza dell’alienazione, e delle diverse degenerazioni della specie umana, in questo o quel paese, è sempre in rapporto con la frequenza più o meno significativa delle cause perturbatrici della salute fisica e morale degli abitanti di quel paese. Il 5 programma da seguire per studiare efficacemente le conseguenze di tali cause può riassumersi nelle seguenti questioni : 1 Qual è la moralità degli abitanti di un determinato ambiente ? Per rendersi conto di ciò, occorre conoscere il numero dei bambini illegittimi, quello degli attentati contro le persone e le proprietà. Bisogna conteggiare i suicidi, valutare l’estensione della prostituzione, il numero delle morti naturali ed accidentali, ecc. 2 Quali sono le condizioni di nutrizione e di igiene degli abitanti ? Quali le malattie predominanti in questo o quell’ambiente ? Quali influenze esercitano l’industria e le condizioni di vita, la natura del suolo ed il suo tipo di coltura sulle abitudini, il temperamento, la moralità e la salute fisica degli individui ? 3 Qual è il livello di istruzione primaria in ciascuno dei nostri comuni ? Quali sono, in un determinato dipartimento, le cause più frequenti di eccitabilità intellettuale e di emozioni morali ? 4 E soprattutto, qual è la proporzione dell’ubbriachezza ed in che quantità si consumano bevande alcoliche ? Quale azione esercita questa funesta abitudine sulla sterilità delle donne, la breve durata della vita dei bambini, il vagabondaggio, la precocità criminale, l’imbecillità e l’idiozia congenite ? Questa lunga citazione non è forse inutile, perchè esprime una trasformazione decisiva della problematica della malattia mentale. Invece di restare rinchiusa negli asili, la psichiatria deve precedere la follia, esplorare il tessuto sociale prima che la malattia si manifesti. Morel propone quindi un’esplorazione sistematica di quelle che possiamo definire « popolazioni a rischio » ante litteram, in particolar modo quei gruppi sociali il cui stile di vita predispone, a suo parere, a divenire dei malati mentali. Si può in tal senso considerarlo come il precursore di una politica psichiatrica di prevenzione dei rischi. Tuttavia, Morel non può andare molto lontano in tale direzione, poichè non dispone di una tecnologia sofisticata per realizzare il suo progetto. Egli non può che proporre delle indagini poliziesche pesanti ed inaccettabili (non conosciamo la risposta del Prefetto, ma è verosimile che egli non abbia dato seguito a tale richiesta). A dispetto della sua moderna intuizione, Morel è rimasto un medico d’asilo, vale a dire egli stesso legato ad una concezione che possiamo definire « chiusa » della prevenzione : occorre internare gli ammalati che si sospettano essere pericolosi, ma per poterlo fare bisogna attendere che abbiano manifestato tale pericolosità. Dopo Morel, molto dopo, si assiste allo sviluppo di due tecniche innovative. 6 La prima é quella genica, che si sviluppa a partire dagli inizi del ventesimo secolo. Per evitare che i portatori di un rischio di degenerazione della razza si riproducano, si sterelizzano i deficienti, i ritardati e diverse categorie di malati mentali. Cito un altro testo del Presidente dell’American Psychiatric Association, che nel 1914 dichiarava : « Una guarigione radicale dei mali che comporta l’esistenza di una classe di deficienti a carico sarebbe realizzata se tutti i deboli di spirito, tutti gli alienati incurabili e tutti gli epilettici, tutti gli imbecilli, tutti i criminali recidivi, tutti coloro che soffrono manifestamente di una carenza della volontà e tutti gli ubbriachi inveterati fossero sterilizzati ; è questa una proposta che si evidenzia da sé. Con tali mezzi, potremmo sanare due generazioni di deficienti, con la stessa efficacia con la quale si potrebbe sconfiggere il vaiolo nel mondo, se tutti fossero vaccinati con successo ». Vi è un’altra via di depistaggio sistematico del rischio. Essa consiste nell’autonomizzarlo completamente dal pericolo. Un rischio non è portato da un individuo particolare. Esso è prodotto dall’associazione di fattori di rischio che rendono più o meno probabile l’avvento di un comportamento indesiderato. Il che suppone un certo numero di condizioni che non erano presenti all’epoca di Morel, come delle statistiche solide, una struttura amministrativa efficace per la gestione di tali dati, ecc. Tuttavia, vi è un’importante mutazione. Non si tratta più di farsi direttamente carico di una situazione pericolosa o indesiderata, ma di intercettarla indipendentemente dalla presenza delle persone. Prendo l’esempio di un sistema che aveva iniziato a prendere piede in Francia a partire dal 1976 e che è stato chiamato il sistema GAMIN (gestione automatizzata materna ed infantile). Esso non è stato mai messo a punto completamente poichè nel 1981 un parere negativo della Commissione Informatica e Libertà lo ha giudicato incompatibile con il rispetto della riservatezza e della libertà delle persone. Lo prendo comunque ad esempio, perchè incarna l’ideale tipico del modo di pensare che si ritrova nelle diverse forme attuali di gestione delle « popolazioni a rischio », non solo in Francia ma pure in Italia. Il sistema GAMIN si fondava sull’esame sistematico di tutti i bambini che nascevano in Francia. In effetti c’erano tre esami : alcuni giorni dopo la nascita, alcuni mesi dopo e all’età di due anni. Questo esame aveva l’obiettivo di intercettare tutte le possibili anomalie psichiche, fisiche o sociali che possono colpire il bambino o la madre. Ad esempio, una gravidanza difficile della madre, la sua età troppo avanzata o troppo giovane, il fatto di non essere sposata, o immigrata ecc ... Tali particolarità costituiscono dei fattori di rischio che, come si nota, sono completamente 7 eterogenei. Ad esempio, qual è la relazione fra l’essere madre nubile, avere una gravidanza difficile, essere studentessa ? Si tratta di fattori estremamente indipendenti, bisognerebbe stabilire una relazione. Perchè allevare da sola il proprio figlio costituirebbe un fattore di rischio ? In ragione di una struttura psichica più fragile, o di redditi il più delle volte insufficienti in assenza di un « capo famiglia » che lavori ? Questo non si sa e soprattutto non bisogna saperlo. Poichè quello che i fattori di rischio definiscono non sono degli individui, sono delle popolazioni statistiche le quali, potremmo dire, sono state costruite attraverso la de-costruzione degli individui. Si tratta di un cambiamento considerevole nella maniera di farsi carico non solo della malattia mentale, ma di un certo numero di popolazioni « con problemi », o che vengono percepite come tali, come le popolazioni portatrici di rischi di delinquenza. La grande differenza rispetto alla situazione anteriore è innanzitutto la dissoluzione del soggetto dell’intervento. Non si è più in presenza di un individuo, il che permette una sorveglianza a distanza, una detenzione a distanza. Michel Foucault ha descritto, attraverso il modello del panopticon, un paradigma di sorveglianza proprio delle istituzioni disciplinari. Ma, perchè il panopticon sia efficace, bisogna che il soggetto sia lì, che sia già rinchiuso e posto sotto lo sguardo del sorvegliante. Qui, attraverso l’intercettazione dei fattori di rischio, si può essere intercettati senza essere mai stati visti, è insomma il computer che svolge il lavoro associando dei fattori eterogenei di rischio. Questo determina un considerevole incremento delle possibilità di sorveglianza rispetto alle situazioni diciamo classiche nelle quali gli indiviui pericolosi, o potenzialmente tali, dovevano essere tenuti sotto osservazione. Questa moltiplicazione delle possibilità di sorveglianza è resa possiblile dall’utilizzo di nuove tecnologie statistiche ed informatiche. Un altro punto merita di essere sottolineato : tale passaggio all’intercettazione a distanza ricompone profondamente la relazione fra i professionisti del territorio e gli amministratori delle politiche sanitarie, sociali o penali. Si potrebbe, ad esempio, mostrare come le politiche psichiatriche classiche, quale quella attuata in Francia con la legge del 1838, o più tardi attraverso la « politica di settore », siano state il risultato del compromesso fra gli operatori del territorio, gli psichiatri e gli amministratori del Ministero della Salute . Con l’intercettazione dei rischi, si determina uno squilibrio a favore degli amministratori e dei politici. Sono questi ultimi a scegliere i fattori di rischio, a determinare gli obiettivi da perseguire, ed i professionisti del territorio intervengono come degli ausiliari che applicano le opzioni di coloro che « decidono », come si dice oggi. Il professionista è chiamato come un esperto per fornire delle informazioni e chiarire le opzioni di coloro che prendono le decisioni; ci si potrebbe interrogare sull'attuale proliferazione di questa funzione di 8 consulente, delle commissioni di ogni sorta in seno alle quali gli specialisti non intervengono più come degli esperti. Non voglio piangere sulla perdita di potere degli esperti, che potrebbe avere delle conseguenze quantomeno ambigue. Tuttavia, queste nuove possibilità mi sembrano inaugurare una nuova modalità di ciò che potremmo chiamare il lavoro sull'altro. Il lavoro sull'altro nella sua forma classica mette a confronto due persone, o due gruppi concreti, diciamo un professionista o dei professionisti, oppure dei clienti, nel quadro di ciò che si definisce una relazione di servizio - ad esempio un terapeuta ed un malato, o persino, estendendo un po' il quadro di questa relazione di servizio, un professore ed i suoi allievi, oppure un poliziotto ed i delinquenti dei quali si occupa. Questa forma di lavoro sull'altro pone evidentemente dei problemi, perchè possono esserci dei fallimenti e persino delle depravazioni di questa relazione di servizio, e vi è d'altra parte tutta una letteratura su questo, riguardo alla sociologia delle professioni. Ma con il depistaggio dei rischi si ha a che fare con una maniera completamente diversa di lavorare sull'altro, di intervenire a distanza, che si potrebbe forse definire come una costruzione di profili di popolazioni per destinare loro un trattamento speciale. Si vogliono evitare i pericoli, prevenire i rischi intercettando in anticipo delle popolazioni potenzialmente pericolose. Va colta, in questo mutamento di prospettive, una differenza essenziale sia nel regime di pensiero che nella strategia di intervento. Si passa da un'esperienza concreta, che si ritaglia su un intervento altrettanto concreto (un malato che si cura o un delinquente che si imprigiona), alla presa in conto di una popolazione a partire dalla quale si stabiliscono delle correlazioni fra dei fattori di rischio. Tuttavia, bisogna insistere sul fatto che un rischio così costruito rappresenta una possibilità aleatoria, è la probabilità di un evento indesiderato e non una caratteristica direttamente assegnabile a tale o talaltro individuo concreto. Si può allora immaginare che in una determinata popolazione delle violenze, degli attacchi alle persone ed ai beni saranno commessi, ma non si possono ad esempio rinchiudere preventivamente tutti gli abitanti di un quartiere definito difficile. Certo è vero, come sempre si dice, che « prevenire » è meglio che curare, ma questa evidenza su cui quasi tutti concordano pone una questione molto difficile, quella della natura dell’applicazione e degli eventuali effetti perversi delle tecnologie di prevenzione. Una vera e propria politica preventiva esigerebbe idealmente: 1) La conoscenza esatta delle cause del pericolo da prevenire; 2) Il possesso di tecniche efficaci per combattere tali cause. Vuol dire puntare molto in alto. Ciò ad esempio è possibile in certi settori della medicina, nei quali una malattia come il vaiolo può essere efficacemente combattuta, e persino debellata, grazie al vaccino: il virus è la causa del vaiolo e si è messo a punto un vaccino per immunizzare la popolazione. Ma, nella stessa medicina, ciò non vale per 9 tutte le epidemie conocsiute. Ad esempio, sebbene si conosca la causa dell'aids non si è ancora trovato un vaccino per l'HIV. A maggior ragione, questo discorso vale per la delinquenza e per la malattia mentale, delle quali non si conoscono certamente tutte le cause. C'è bisogno di ipotesi o di teorie, le quali d'altro canto non fanno che combattersi fra loro. E, in ogni modo, non vi sono vaccini contro la schizofrenia, oppure contro la criminalità. Allora, dinanzi ad una popolazione a considerata così a rischio, cosa si può fare di realmente preventivo? Non pongo tali questioni per negare qualsiasi utilità alle politiche di depistaggio dei rischi, ma esse devono invitarci alla vigilanza nella consapevolezza di due problemi. Il primo è quello di aver coscienza del fatto che intercettare il rischio non significa controllarlo. Il depistaggio non possiede, o almeno non possiede in se stesso, un valore assoluto. Esso può costituire una prima tappa per combattere il rischio, ma lascia aperta l'immensa questione della conoscenza di tecniche efficaci di prevenzione. Sarei portato a dire che l'affermazione dei benefici della prevenzione non sia che una dichiarazione ideologica, quasi priva di un reale contenuto se non associata alla conoscenza di strumenti effettivi per combattere i pericoli che si sono intravisti. In secondo luogo, una politica di depistaggio dei rischi può in se stessa presentare dei pericoli, nella misura in cui vi sia una potenzialità di arbitrio nella definizione di ciò che si intende per fattore di rischio. L'ho appena evocata a proposito del programma GAMIN: essere madre nubile, essere immigrata, appartenere ad un ambiente sfavorito ecc sono forse dei fattori di rischio, ma che vuol dire? Al limite, qualunque cosa può portare dei rischi, cioè ogni deviazione in rapporto ad una norma o ad una normalità socialmente costruita. Il che può conferire un potere che possiamo definire come esorbitante agli amministratori di queste politiche preventive, come a quei tecnocrati che popolano i ministeri e a quegli esperti incaricati di decidere cosa è bene e cosa è male. Essi istituiscono la norma ed il margine di variazione legittima in rapporto alla norma. Il fatto che siano generalmente ben intenzionati non è del tutto rassicurante. Non si tratta tanto di attribuire loro intenzioni machiavelliche, quanto di temere che la caccia al rischio apra una sorta di vaso di Pandora: in nome della preoccupazione, che può essere legittima, di combattere i pericoli, si instaura un sospetto generalizzato che può volgersi su tutto e tutti. Perchè di rischi, oggi, se ne vedono ovunque e se ne scoprono ogni giorno: rischi sanitari, alimentari, tecnologici, ambientali ecc. Di qui la ricerca di una prevenzione totale, o di una sicurezza assoluta che rischia di essere il sogno ad occhi aperti di controllare tutte le catastrofi della vita individuale e sociale, che comporta necessariamente una dose di imprevedibilità - sogno che può tramutarsi in incubo spingendo a scorgere il pericolo dappertutto. Bisognerebbe allora istituire degli strumenti di controllo e di sorveglianza di tutti i settori della vita individuale e sociale, il 10 che potrebbe fornire una definizione abbastanza efficace del totalitarismo. Si tornerà su questa referenza generalizzata al rischio, che diviene oggi sempre più invadente, e che mi sembra il rovescio della medaglia di un intento di prevenzione generale. In ogni caso, è un tema che vorrei sottoporre alla discussione. Il depistaggio dei rischi può forse giustificarsi attraverso la preoccupazione di prevenire degli eventi indesiderabili. Ma cosa occorre prevenire, realmente? E in che modo? Spero che le riflessioni che seguiranno sui rischi civili e i rischi sociali apporteranno degli elementi, se non delle risposte definitive, per approfondire i termini di questo dibattito, analizzandolo oggi. Ma vorrei iniziare da quelle osservazioni che ancora oggi restano generali su cosa significa pensare in termini di rischi, ma che invitano a non pensare a priori che il passaggio dal fronteggiare il pericolo al prevenire i rischi si imponga senza problemi come un progresso assoluto del sapere e della pratica. Tale passaggio, del quale ho riassunto il modo in cui si è effettuato nel campo della medicina mentale intesa in senso ampio, è certamente importante. Ma passa esso stesso attraverso numerosi problemi che bisogna cercare di approfondire. II LA LOTTA CONTRO I RISCHI CIVILI E LO STATO DI DIRITTO Vorrei affrontare, in successione, i tre ambiti principali della problematica dei rischi oggi: - la questione di quelli che possiamo chiamare i rischi civili, vale a dire la questione della salvaguardia dei beni e delle persone in uno Stato di diritto e della lotta alla delinquenza. - la questione della lotta contro i rischi sociali, la necessità di assicurare la sicurezza sociale, con il ruolo preponderante dello Stato sociale o del Welfare State. Sarà d'altronde il punto sul quale insisterò maggiormente, non fosse che perchè mi sento maggiormente a mio agio discutendo i problemi che toccano i diritti sociali e la protezione sociale rispetto a quelli che interessano le questioni della sicurezza civile e della delinquenza. Cionondimeno, la problematica della sicurezza civile è importante ed è 11 oggi una preoccupazione estremamente diffusa, e devo almeno cercare di inquadrarla nella problematica di insieme dei rischi. - e aggiungerò i problemi che pone la recente scoperta dei « nuovi rischi », che contribuiscono ad estendere e complessizzare, oggi, questa tematica del rischio. Trattandosi della sicurezza civile, il pericolo da affrontare qui ( poichè noi ci interessiamo alle relazioni pericoli-rischi ) è la violenza fatta ai beni ed alle persone, e la risposta si trova ad essere l'affermazione delle prerogative dello Stato di diritto. Lo Stato di diritto è uno Stato liberale che è completamente diverso dallo Stato sociale inteso come risposta all'insicurezza sociale che si presenterà in seguito. Storicamente, il problema dell'insicurezza civile e dello Stato di diritto si è posto agli inizi della modernità, verso i secoli XVII e XVIII. Non che la questione della violenza sui beni e sulle persone non si sia posta in precedenza, essendo essa stessa tanto vecchia quanto il genere umano. Ma essa si pone sotto la forma che noi oggi le riconosciamo a partire dal momento in cui la società inizia a pensarsi come una società di individui, cioè all'epoca in cui delle costrizioni collettive che ricacciano gli individui in dei sistemi di appartenenze, ma anche di protezioni, tradizionali cominciano a disfarsi, ed in cui l'individuo si ritrova al contempo valorizzato (vedi la Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino del 1789, che è un magnifico manifesto del valore eminente dell'individuo) e fragilizzato. Per illustrare questa promozione ambivalente della nozione di individuo, mi riferisco alla posizione di Thomas Hobbes alla fine del diciassettesimo secolo - non per il piacere di fare un po' di storia della filosofia, ma perchè Hobbes mi sembra essere stato un testimone particolarmente lucido di questo momento storico, allorchè la problematica della modernità si mette in moto. Hobbes è stato, fra le altre cose, testimone della guerra civile in Inghilterra, che abolisce provvisoriamente la regalità. Egli assiste anche alle guerre di religione in Francia, dove lo scontro selvaggio fra cattolici e protestanti fa vacillare l'ordine religioso tradizionale (egli è fra l’altro presente al momento della presa di La Rochelle, l'ultima cittadella protestante in Francia). È anche il testimone, in Inghilterra, dell'esplosione del capitalismo commerciale, che instaura una concorrenza generalizzata degli scambi e fa scricchiolare il vecchio sistema delle corporazioni: Hobbes constata in tal modo la fragilizzazione di tutti i sistemi di regolazione tradizionali, che inserivano gli individui in dei circuiti forti, ad un tempo di costrizioni e protezioni. Hobbes spinge al limite tali constatazioni, anticipa il trionfo completo di tali dinamiche nuove per pensare a come sarebbe davvero una società di individui. Una società di individui non sarebbe più una società propriamente detta. Sarebbe un conglomerato di persone senza diritti, senza leggi, lasciate a loro stesse ed in preda ad una concorrenza sfrenata, alla guerra di tutti contro tutti: « l'uomo è un lupo per l'uomo », dice Hobbes. 12 Altrimenti detto, una società di individui lasciati a se stessi sarebbe una società di insicurezza totale, che vivrebbe sotto una minaccia permanente, nell'onnipresenza del pericolo. Persino la legge del più forte non basta a stabilizzare la situazione, perchè un forte rischierà sempre di trovare qualcuno che è più forte di lui, a meno che qualcuno più debole di lui non abbia la forza di assassinarlo nel sonno. Neppure la legge del più forte costituisce una società. Da questa sorta di tipo ideale di una società di individui, che certamente è spinto al limite, Hobbes ha tratto una conslusione radicale, che lo ha reso impopolare, ma sulla quale credo si debba riflettere seriamente: solo uno Stato che abbia pieni poteri può assicurare una sicurezza totale. Esso è il solo garante possibile, se posso dirlo, contro la violenza civile. E per assumere pienamente tale funzione, lo Stato deve avere tutti i poteri. Cito Hobbes nel Leviatano: “ Il potere se è estremo è buono, perchè è utile alla protezione ”. E Hobbes aggiunge: « È nella protezione che risiede la sicurezza ». Solo uno Stato forte, molto forte, può uscire dal pericolo permanente degli individui abbandonati alla concorrenza, alla ricerca del loro interesse, all'affermazione del loro potere. Evidentemente, io non difendo il Leviatano, che ritengo essere una rappresentazione assai spaventosa del totalitarismo. Tuttavia, penso anche che Hobbes abbia avuto un'intuizione molto profonda: lo Stato opera, innanzitutto, come un riduttore di rischio e la sicurezza civile, il fatto di vivere in una società pacificata, non è un fatto scontato. Soprattutto in una società moderna, che Hobbes osserva con puntualità diventare una società capitalista, gli individui sono in competizione gli uni con gli altri, vi sono vincitori e vinti. In questa società, la sicurezza non può che essere il risultato di un’attenta costruzione politica. Essa deve essere imposta, poichè non risulta dalla maniera in cui gli individui vivono spontaneamente fra loro in una società moderna. È questo il motivo per il quale essi formano uno Stato che combatte il pericolo rappresentato dalla coesistenza di individui votati alla sola ricerca del loro interesse personale. Si può certo pensare che Hobbes abbia dato alla sua argomentazione una forma provocatoria, o estremista, che può scioccare. Ma ciò non deve farci dimenticare che la costruzione politica della sicurezza ha sempre un costo, che solo uno Stato dotato di mezzi possenti può assicurare. Fortunatamente, la forma sotto la quale si è imposto lo Stato moderno a partire dalla fine del diciottesimo secolo non è stato l'assolutismo del Leviatano. Esso ha elaborato una costruzione più complessa e sottile, con in particolare un'esigenza di separazione dei poteri fra l'esecutivo, il legislativo ed il giudiziario che fa si che nessuna istanza, almeno in linea di principio, sia dotata di un potere assoluto. Questa separazione dei poteri, nonchè l'esigenza per lo stesso potere politico di rispettare la Costituzione e di obbedire alla legge, è al cuore di ciò che si chiama lo Stato di diritto. Ciononostante questo Stato di diritto, che si imporrà sotto la forma dello 13 Stato liberale a partire dal diciannovesimo secolo, riterrà qualcosa di essenziale della lezione di Hobbes. Così per John Locke, che è stato il grande teorico dello Stato liberale e che scrive una trentina di anni dopo Hobbes, è la proprietà a poter dare sicurezza all'individuo. Allorchè l'individuo non è più preso nei sistemi delle dipendenze-protezioni tradizionali, delle quali Locke, come Hobbes, osserva l'indebolimento, soltanto la proprietà può conferirgli un minimo di indipendenza sociale. La proprietà costituisce quella specie di solco a partire dal quale l'individuo può mobilizzare le proprie risorse ed esistere per se stesso. È la proprietà che assicura contro i rischi della miseria, delle malattie, delle disgrazie. È la proprietà che protegge e che può offrire l'assicurazione di non ricadere nell'altrui dipendenza. Un proprietario non andrà a morire miseramente all'ospizio, non avrà nemmeno bisogno di diventare cliente di un uomo politico e di vendere il suo voto. Egli può essere socialmente indipendente. Questo pone d'altronde l'enorme problema degli individui non proprietari- i lavoratori che non hanno che la forza delle proprie braccia per vivere o per sopravvivere- sul quale si ritornerà fra poco. Intanto, bisogna ben comprendere che all'inizio della modernità la proprietà appariva necessaria per conferire uno statuto all'individuo. Ecco perchè il diritto alla proprietà figura nella Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino. Ecco anche perchè, durante l'epoca rivoluzionaria, la difesa della proprietà non è prerogativa esclusiva dei gruppi conservatori o politicamente moderati ( oggi si direbbe "borghesi" ). Dei rivoluzionari radicali come Robespierre, Saint-Juste, i Sanculotti parigini difendono una concezione del cittadino-proprietario, artigiano o piccolo contadino, la cui indipendenza è assicurata dalla proprietà. Non vi sono stati che dei gruppi ultr-minoritari, come Gracco Babeuf e i suoi compagni, che abbiano rivendicato un ordine politico nuovo che non fosse fondato sulla proprietà privata. Ma occorre anche ben comprendere che, se è la società che assicura l'individuo contro i rischi sociali, è lo Stato che assicura la proprietà. La principale funzione dello Stato moderno che si costruisce è quella di garantire la proprietà, perchè la proprietà è la condizione della sicurezza e dell'indipendenza sociale. John Locke lo dice esplicitamente nel suo Secondo Trattato del Governo: « Il fine essenziale che perseguono gli uomini che si uniscono per formare una Repubblica e sottomettersi ad un governo è la preservazione delle loro proprietà ». Per Locke la proprietà non è solo il possesso dei beni, è anche la proprietà della loro persona, la qual cosa Locke precisa: « ...la preservazione della loro proprietà, cioè della loro vita, della loro libertà e dei loro beni, che chiamo con il nome generico di proprietà ». E lo Stato è necessario perchè, come in Hobbes, solo lo Stato può garantire l'integrità dei beni e delle persone. 14 Mi pare che sia questo il compito essenziale dello Stato moderno, che si va affermando a partire dalla fine del diciannovesimo secolo. È lo Stato liberale, che spesso si qualifica come “ Stato minimo ”, poichè, almeno in principio, non deve intervenire nell'ambito sociale o in quello economico. Ma non bisogna fare confusione. Questo Stato minimo non è uno Stato debole. Lo si è anche chiamato Stato di Polizia, il cui mandato è quello di garantire l'ordine pubblico, cioè di assicurare la sicurezza dei beni e delle persone. E per fare questo, potrà all'occasione essere spietato. È questo Stato di ispirazione liberale che nella Francia del diciannovesimo secolo ha soffocato la rivolta degli operai parigini nel 1848 o la Comune di Parigi nel 1871. Ma è, nello stesso tempo, uno Stato di diritto, poichè il suo mandato è effettivamente quello di far rispettare il diritto, il quale comprende il diritto alla proprietà ed alla sicurezza delle persone. Mi sembra sia effettivamente il nucleo di ciò che fino ad oggi chiamiamo lo Stato di diritto: scongiurare i rischi di violenze contro le persone e contro i beni, impiegando dei mezzi legali. Poichè questo Stato si è dotato di un'armatura estremamente complessa di leggi e principi giuridici - a differenza di uno Stato totalitario come il Leviatano di Hobbes - per esercitare questo potere nel quadro legale. Questi dispotismi sono consegnati in quei grandi monumenti giuridici che sono, in Francia, il codice civile ed il codice penale. Tale mi sembra essere il quadro politicogiuridico della lotta contro i rischi civili e contro gli attacchi alla sicurezza dei beni e delle persone. Se si vuole essere giusti, bisogna riconoscere che tale quadro si sforza accuratamente di evitare l'arbitrio, di combattere le tendenze assolutistiche di uno Stato di tipo leviatano. Così questo Stato di diritto si è dotato di istituzioni specifiche, in particolare la giustizia e la polizia, che hanno il monopolio dell'esercizio legittimo della violenza di Stato. Si chiama in generale delinquenza l'insieme di atti che trasgrediscono la legge sotto il duplice aspetto della sicurezza dei beni e della sicurezza delle persone. In uno Stato di diritto, la delinquenza deve essere sanzionata e la polizia e la giustizia sono gli organismi specializzati che hanno il mandato di esercitare tale repressione in un quadro legale. In rapporto alla legge, si potrebbe dire che la delinquenza rappresenti una sorta di residuo: essa è l'insieme dei comportamenti che resistono alle regole dello Stato di diritto, il cui obiettivo è quello di eliminare i rischi che attentano alla sicurezza dei beni e delle persone. In tal senso, la repressione della delinquenza è legittima, a condizione che essa stessa si eserciti in un quadro legale. In linea di principio, non penso che si possano sollevare delle serie obiezioni a questa costruzione. In altre parole, la lotta contro la violenza civile mi sembra legittima in una società, e particolarmente in una società democratica. Non si può veramente “ fare società ” con i propri simili senza la pace civile, se si vive sotto la minaccia permanente della violenza, del furto, dello stupro o dell'aggressione. La sicurezza civile è un bene e si 15 potrebbe persino dire che essa debba essere un diritto, in una democrazia. Tale è, in ogni caso, la posizione che difenderei, e della quale bisognerà evidentemente discutere. Tuttavia, nei fatti le cose sono più complesse, ed anche se ci si attiene a tale eposizione bisogna constatare che essa pone, oggi, un problema. In effetti, come dicevo all'inizio del mio intervento, attualmente assistiamo, in Francia - è lo stesso anche in Italia? - ad una richiesta disperata di sicurezza, che ha recentemente avuto conseguenze politiche molto gravi. Così, l'elezione presidenziale dell'Aprile 2002 in Francia si è largamente giocata intorno alla questione dell'insicurezza, ed il sentimento di insicurezza ha molto influito sulla popolarità del Fronte Nazionale di JeanMarie Le Pen. La preoccupazione per la sicurezza, che si tramuta a volte in ossessione securitaria, appare d'altronde paradossale, poichè noi viviamo attualmente in Francia - come in Italia, o, più in generale, nell'Europa Occidentale - in una delle società più sicure che siano mai esistite. Ciò appare evidente se ci guardiamo intorno: in più della metà del pianeta l'insicurezza è onnipresente (basta paragonare la vita quotidiana in una città come Parigi o Napoli a quella di una città dell'America Latina, o della striscia di Gaza, o a Gerusalemme). Ma ciò è altrettanto evidente se ci si guarda un po' indietro nella storia, la quale insegna come tutta la storia dell'umanità sia stata attraversata da una violenza permanete. Dunque, è paradossalmente proprio nelle società della sicurezza, che potremmo dire circondate ed attraversate da protezioni, che il sentimento di insicurezza è onnipresente. Per rendere conto di questo paradosso, credo si debba comprendere che il sentimento di insicurezza non corrisponde necessariamente ad un'assenza di protezione. Può determinarsi un rapporto complicato con le protezioni, come accade quando si ha la sensazione di essere protetti, ma che le protezioni delle quali si fruisce siano fragili e minacciate e che noi rischiamo di perderle, ed è un sentimento oggi estremamente diffuso. Oppure ancora, si può avere la sensazione di essere protetti contro taluni rischi, ma questo relativo conforto accresce la nostra sensibilità al rischio e fa emergere nuovi pericoli alla nostra coscienza. Prenderò uno o due esempi, poichè tali questioni sono abbastanza complicate, ma nello stesso tempo sono importanti per cercare di comprendere la congiuntura paradossale nella quale si sviluppa oggi il sentimento di insicurezza. Queste statistiche sembrano mostrare un certo aumento della delinquenza negli ultimi venti anni: il numero dei delitti, dei furti, di quelle che chiamiamo "le inciviltà" (degradazione di beni, spinte, aggressioni fisiche e verbali, ingiurie ecc...) sembra in aumento. Tuttavia, occorre notare che questo aumento della delinquenza, che non è trascurabile, concerne essenzialmente i beni ed i comportamenti che vengono qualificati come asociali. I delitti contro la proprietà sono dieci volte più numerosi degli attacchi alle persone. Non si tratta di una progressione della grande 16 criminalità, degli assassinii, benchè continuino a verificarsi eventi tragici ed uccisioni seriali fortemente mediatizzate, ma che non costituiscono una novità assoluta, si pensi a Jack lo Squartatore e a Gilles de Ray. Altrimenti detto, le persone fanno esperienza dell'insicurezza soprattutto attraverso l'esperienza della paura del furto, della degradazione dei beni, di vaire forme di depredazione, di comportamenti asociali. Non dico questo per sottovalutare il peso di simili esperienze, che possono minare gravemente la vita quotidiana delle persone, in particolar modo in talune zone urbane come le periferie o i quartieri popolari, dove esse sono particolarmente frequenti ( e si tornerà domani su questa questione). Ma sottolineo che il sentimento di insicurezza può svilupparsi sul fondo di una società fortemente securizzata - vale a dire nella quale è stata scongiurata un'insicurezza di massa che è stata una costante storica nelle società attraversate da lotte intestine, da scontri permanenti e sanguinolenti. Si potrebbe così ipotizzare che il sentimento di insicurezza si sposti come su di un cursore: allorchè alcuni rischi sono controllati, i rischi che sussistono appaiono con particolare visibilità, sospinti da un bisogno di sicurezza che resta esigente anche quando si potrebbe credere che abbia delle buone ragioni di cui essere soddisfatto. Il che, a mio avviso, mostra come non si debba pensare l'insicurezza come il contrario della sicurezza, cioè come una sorta di stato di natura alla Hobbes in cui il pericolo sarebbe onnipresente. In altre parole, nel nostro tipo di società il sentimento di insicurezza consisterebbe soprattutto in un rapporto con le protezioni. E, al punto in cui siamo, in Francia come in Italia, in uno Stato di diritto, questo Stato di diritto promette in qualche modo la sicurezza dei beni e delle persone: che lo Stato ci protegga, è lì per questo. Dunque che in tale contesto permanga l'insicurezza, un'insicurezza residuale che è la delinquenza comune, sembra inaccettabile e quasi scandaloso. Si rimprovera allora allo Stato di non svolgere il suo lavoro, si critica la sua impotenza nell'assicurare una sicurezza totale. Si accusano così, ed è oggi un discorso molto frequente, i giudici di essere troppo lassisti nei confronti dei delinquenti, o i poliziotti di essere inefficaci. E' un'ipotesi che si può avanzare per poter così comprendere anche la sensibilità verso altri rischi rispetto a quelli che concernono la delinquenza, e che spesso si chiamano " nuovi rischi " e che sono emersi di recente, non essendo prima oggetto di preoccupazione. Voglio prendere un esempio che è senza dubbio un po' forte, ma che ben illustra ciò che cerco di dire. Da sempre, per l'umanità in generale, e sfortunatamente ancora oggi in numerose zone, il principale rischio alimentare è la fame: il fatto di non avere da mangiare, semplicemente. Ma nelle nostre società cosidette sviluppate questo rischio è stato scongiurato ed in Francia come in Italia, fortunatamente, forse nessuno muore più di fame. Tuttavia il rischio alimentare, per molti nostri contemporanei, si è spostato, e si potrebbe dire che è ormai nel piatto: la paura di mangiare la carne della mucca pazza o 17 uno di quei prodotti cancerogeni che si scoprono quasi ogni giorno. Insomma per alcuni la paura di mangiare ha sostituito quella di non avere da mangiare. Dicevo che questo esempio è forse un po' forte, ma esemplifica questo assunto che credo importante: non esiste rischio in sé. Esiste, piuttosto, una costruzione di rischi che si fa, almeno in parte, in riferimenro alle protezioni delle quali già si beneficia. È anche perchè si gode di protezioni che si può avere la sensazione di correre dei rischi. Il che vuol dire che la sicurezza non è mai data, e senza dubbio mai potrà essere data una sicurezza totale in via assoluta, poichè allorchè un certo livello di sicurezza è raggiunto, l'esigenza di sicurezza cresce. In ogni caso, è l'ipotesi che propongo per rendere conto della pregnanza del sentimento di insicurezza in delle società come la nostra e suppongo tale ipotesi possa valere anche per l'Italia. La questione dell'insicurezza si sposta perchè si sposta la questione dei rischi da combattere e l'esigenza di sicurezza si fa sempre più imperiosa. Si tratta di un punto che evidentemente è da discutere, ma prima discuterò un'implicazione più politica di una simile ipotesi. Credo che in questo desiderio di sicurezza, che diviene sempre più imperioso, la concezione stessa dello Stato di diritto possa essere minacciata dalla difficoltà, e forse dall'impossibilità, di realizzare quest'esigenza rispettando le forme legali. Si constata in effetti che questo Stato è sospettato di lassismo, di mancanza di efficacia nella lotta contro l'insicurezza civile. Di qui la forza del modello proposto da Hobbes nel Leviatano: l'idea che solo uno Stato assoluto possa essere assolutamente efficace. Al contrario, il rispetto delle procedure giuridiche, ad esempio lo stretto controllo della polizia da parte della giustizia, può nuocere all'efficacia della repressione della delinquenza e il delinquete potrà trarre profitto dallo stretto legalismo. La lotta contro questo tipo di rischi, che ho chiamato civili, può essere assolutamente efficace senza che lo Stato disponga di un'autorità assoluta? Mi sembra che l'attuale situazione in Francia illustri questa difficoltà. Si osserva in effetti una frustrazione securitaria che si è tradotta in un'accresciuta domanda di autorità rivolta allo Stato, ed alla quale d'altronde l'attuale governo si sforza di rispondere. Si tratta, ad esempio, della concezione della "tolleranza zero" in materia di delinquenza: arrivare insomma a zero rischi, a sradicare completamente la delinquenza. Ma tale esigenza può essere integralmente assicurata nel rispetto delle regole democratiche di uno Stato di diritto? Non dico questo per suggerire che la preoccupazione di sicurezza sia secondaria - si può anche pensare che la pace civile nel quotidiano sia essenziale per poter vivere in democrazia- ma forse bisogna, allo stesso tempo, comprendere che questa esigenza è essenziale, e che tuttavia essa non può essere perfettamente realizzata senza correre il rischio di scivolare nel non-diritto. 18 In ogni caso, è ciò che sembra suggerire non solo l'esempio della Francia, ma anche quello di altri Paesi come gli Stati Uniti d'America che affermano il loro forte attaccamento ai diritti dell'uomo, al punto di volerli imporre agli altri. Ma il modo in cui gli Stati Uniti conducono la "guerra al terrorismo", come essi stessi dicono, mostra bene come questo Stato che si prende a modello si conceda delle libertà rispetto al diritto. Al di là di queste prospettive attuali, in Francia e negli Stati Uniti, non vi è in questo una tentazione che minaccia tutti gli Stati di diritto? Per dirla in altre parole, la domanda di sicurezza totale non è condannata ad essere disattesa, a suscitare sempre una frustrazione, almeno nel quadro di una società democratica? Questa è la ragione per la quale ho presentato il modello di Hobbes, non perchè io nutra un'inclinazione per il despotismo, al contrario, ma Hobbes ci consente di pensare le condizioni di una sicurezza totale che sarebbe al limite uno Stato totalitario. E non si tratta di un modello scolastico, perchè attraverso lo stalinismo ed il nazismo si possono vedere delle forme attualizzate del Leviatano di Thomas Hobbes. Dopo essersi imposte con la forza ed aver continuato a tenersi in piedi attraverso la forza, la Germania nazista e lo Stato sovietico hanno senza dubbio garantito una certa sicurezza interna e la delinquenza ordinaria non sembra aver posto particolari problemi. Ma si può suggerire che il prezzo da pagare sia stato esorbitante. Forse bisogna avere il coraggio di trarre la conseguenza di tali osservazioni: che non si può giungere allo sradicamento completo dei fattori di insicurezza civile nel quadro di uno Stato di diritto. Vi è in ogni caso una forte tensione, se non una contraddizione, fra l'esigenza di uno stretto rispetto delle forme legali e la ricerca della sicurezza assoluta. Mi pare si tratti di un'implicazione dello stesso tipo di quella scorta nel primo punto di riflessione da me proposto, a proposito del depistaggio sistematico dei rischi e della preoccupazione di una prevenzione totale contro i rischi. Non si rischia, per arrivare a rischio zero, di adoperare mezzi lesivi delle libertà e contrari al diritto? Si potrebbe discutere delle implicazioni politiche della caccia ai rischi. Vi sono certamente delle ragioni e delle giustificazioni assai serie al fatto di combattere i rischi - e se ne avrà fra poco la conferma a proposito dell'indispensabile lotta che va condotta per scongiurare i rischi sociali- ma dinanzi a questa urgenza di una caccia ai rischi, di una prevenzione generalizzata contro tutti i rischi, lo Stato di diritto non si trova in una posizione scomoda? III LA LOTTA CONTRO I RISCHI SOCIALI E LO STATO SOCIALE 19 Nell'ambito di questa riflessione sui rapporti fra rischi e sicurezza, o rischi e protezioni contro gli stessi, ho proposto in un primo tempo di caratterizzare il pensiero sul rischio attraverso la sua differenza rispetto al fronteggiare il pericolo: definizione di popolazioni a rischio che permettono di attuare delle politiche preventive, con tutte le ambiguità che esse presentano. In seguito, ho proposto di conferire una particolare importanza a due grandi tipi di rischi, i rischi civili, che riguardano la sicurezza dei beni e delle persone e dei quali abbiamo parlato ieri, ed i rischi sociali e la lotta all'insicurezza sociale, che impegneranno la nostra attenzione oggi. È a partire dall'esigenza di combattere i rischi sociali, che lo Stato moderno si è costruito un ruolo nuovo ed essenziale, diverso dallo Stato di diritto del quale si è parlato ieri: lo Stato sociale, o Welfare State. Senza la pretesa di offrirne una definizione dotta, possiamo qualificare il rischio come un evento che, sopraggiungendo, degrada lo Statuto sociale di un individuo. Ad esempio un incidente, una malattia, la perdita di un lavoro rischiano di far vacillare un individuo. Egli perde le risorse che gli erano necessarie per vivere con un minimo di indipendenza e cade nell'insicurezza sociale, nell'incertezza del domani, sotto la minacci della decadenza sociale. L'insicurezza sociale è stata la condizione generale di una gran parte di quello che veniva chiamato il popolo, in particolar modo di coloro che non vivevano che della forza delle loro braccia per garantire il proprio sostentamento, il che significa la stragrande maggioranza dei lavoratori. L'insicurezza sociale è stata sempre una costante nella storia, benchè le sue espressioni siano state spesso e volentieri discrete. Si tratta, in effetti, di persone che spesso non hanno voce in capitolo, se non quando la loro disgrazia esplode in rivolte o rivoluzioni. Ma si può affermare che nelle società pre-industriali, cioè fino al diciottesimo secolo, una buona metà della popolazione europea versasse in questa situazione di vulnerabilità sociale, cioè minacciata di scivolare nel bisogno, infoltendo le fila dei mendicanti e dei vagabondi, magari a causa di un cattivo raccolto o di un inverno particolarmente rigido. Questo problema è stato la grande questione sociale fino alla fine del diciottesimo secolo almeno e su questo ci si potrebbe dilungare se avessimo più tempo... Ma, in rapporto a ciò che dicevo ieri, ci si potrebbe sorprendere dell'indifferenza della quale hanno dato prova i liberali nei confronti di tale questione. Fondando lo Stato di diritto sulla proprietà, facendo del cittadino un individuo proprietario, essi escludevano dal patto sociale ciò che, molto prima di Marx, un autore del periodo rivoluzionario chiamava “ la classe non proprietaria ”. Eppure, la situazione alquanto spaventosa in cui versava questa “ classe non proprietaria ” era una realtà ben evidente al momento della formazione dello Stato moderno. Non evocherò che una sola testimonianza, ma che non è scelta a caso e che cito spesso perchè è dell'abate Seyiès. L'abate Seyiès è stato il principale fautore della Dichiarazione dei diritti dell'Uomo e del Cittadino, cioè di 20 quel testo che afferma con clamore la libertà e l'indipendenza dell'individuo. Ma, qualche anno prima di questa dischiarazione, nei suoi appunti Seyiès parla « di quegli sfortunati votati ai lavori più penosi, produttori dell'altrui godimento, che ricevono in cambio appena ciò di cui sostentare il loro corpo sofferente e bisognoso di cure, quella folla di strumenti bipedi che non posseggono che delle mani atte a guadagnare poco ed un'anima affaticata ». E Seyiès aggiunge: « Sono questi, quelli che voi chiamate uomini? ». E bisogna ammettere che essi non sono degli uomini nel senso compiuto del termine, individui sovrani della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino. Ma, esprimendo un simile giudizio, Seyiès non esprime, o non esprime soltanto, un pregiudizio di classe. Egli opera una constatazione che si potrebbe qualificare come sociologica ante litteram. Questi individui che « non posseggono che delle mani atte a guadagnare poco » sono i numerosi lavoratori dell'epoca, “ operai a giornata ” che, in città o in campagna, sopravvivono giorno per giorno. È ciò che Marx chiamerà il proletariato, o piuttosto, poichè il proletariato industriale non esiste ancora alla fine del diciottesimo secolo, sono i piccoli salariati dell'epoca, “ genti di pena e di braccia ”, la frangia inferiore dei lavoratori. Essi non solo sono miserabili, sono anche disprezzati, persino da qualcuno come Seyiès, che non è uno spirito particolarmente reazionario. In questa fase, si assiste all'emergere della questione sociale moderna, con la comparsa di nuove categorie di lavoratori, non solo poveri ma anche privi di riconoscimento sociale e senza protezioni. Questa “ classe non proprietaria ” è il nucleo del salariato moderno. E questa situazione si aggrava progressivamente, fino ad estendersi, nel diciannovesimo secolo, con lo sviluppo del proletariato. Con l'industrializzazione, il numero di questi salariati miserabili si moltiplica e si rischia di vedere moltiplicarsi anche il numero delle persone ridotte ad una condizione di “ quasistrumenti bipedi ”, per riprendere l'espressione dell'abate Seyiès, una proliferazione di “ nuovi barbari ”, secondo una qualifica che sarà utilizzata nella prima metà del diciannovesimo secolo. È il tema « classi laboriose-classi pericolose ». Tale questione è stata analizzata, all'epoca, sotto il nome di “ questione del pauperismo ”, ed ha costituito il centro della riflessione di tutti gli osservatoeri sociali a partire dagli anni 1820-1830. Senza esagerare, si potrebbero qui citare decine e decine di libri, di libelli, di saggi attorno alla questione del pauperismo. Citerò soltanto uno di questo autori, Villeneuve de Bargemont, il quale nel 1834 fornisce una definizione abbastanza sintetica del fenomeno nel suo Trattato sull'economia politica cristiana. "L'indigenza, sotto il nome nuovo e tristemente energico di pauperismo, invade diverse classi sociali. Essa tende ad accrescersi progressivamente, 21 proprio in ragione della produzione industriale. Essa non è più un incidente, bensì la condizione forzata di una parte dei membri della società. Il pauperismo costituisce una minaccia all'ordine politico e sociale". Vi è all'epoca un ampio consenso su questo punto, che si tratti di autori situati piuttosto a destra, come nel caso di Villenuve de Bargemont o Tocqueville, il quale ha scritto un Saggio sul pauperismo, o a sinistra come Engels, l'alter-ego di Marx, che fornisce un'allucinante descrizione di Manchester, la città inglese che fu all'epoca al vertice del capitalismo industriale. In un certo senso, ci si potrebbe meravigliare di questa onnipresenza della tematica del pauperismo nel diciannovesimo secolo. Degli storici moderni hanno sottolineato che si trattava di una realtà relativamente minoritaria in seno al mondo del lavoro. Infatti, si tratta degli operai della prime concentrazioni industriali e delle loro famiglie, che si calcolano essere state in Francia, nel 1840, circa mezzo milione, vale a dire circa un decimo del mondo operaio, ancora ampiamente dominato dall'artigianato, ivi compreso l'artigianato rurale, ancora assai fiorente fino alla fine del diciannovesimo secolo. Ma è proprio questo che risulta essere interessante per comprendere la costituzione di una classe pericolosa: la cristallizazione su una minoranza dei pericoli che una società si rappresenta. Perchè una simile cristallizzazione? Perchè queste persone che compongono la popolazione del pauperismo sono concepite, ad un tempo, come dentro e fuori la società. Dentro, poichè la maggioranza di questi operai lavora, anche se spesso ciò avviene sotto forme estremamente precarie, con compiti particolarmente devalorizzanti, ciò che oggi chiameremmo i lavori sotto-qualificati. Ma, nello stesso tempo, essi sono essenziali allo sviluppo dell'industrializzazione. Essi sono dunque nella società, ma, contemporaneamente, sono lasciati parzialmenete fuori dalla società stessa, perchè si tratta, generalmente, di immigrati che vengono dalle campagne ad ammassarsi alle periferie delle città, i quali importano alla città una cultura di origine rurale percepita dai cittadini e dai borghesi come una non-cultura. Questi proletari, dice Auguste Comte con un'espressione efficace, « fanno numero nella società moderna senza esservi incasellati », cioè integrati. Essi non sono inseriti nei circuiti dominanti degli scambi, non occupano una posizione stabile, né nel lavoro, né nelle strutture familiari. Di qui, lo sviluppo di un vero e proprio razzismo di classe, e la parola non è troppo forte quando si viene a conoscenza delle descrizioni fornite di questi “ nuovi barbari ”, che sono come degli aggressori che « dai sobborghi delle città minacciano come dei barbari di trascinare tutto con sé al loro passaggio ». Sono come dei selvaggi moderni, moderni perchè sono 22 il prodotto stesso dello sviluppo della modernità attraverso l'industrializzazione - ed è questo paradosso che scuote profondamente gli osservatori dell'epoca. Ipotizzo che vi sia in ciò un movente profondo, che consente di comprendere la relazione che una società intrattiene con i suoi margini. Per una società vi sono dei nemici esterni, che all'occasione si combattono -è la logica della guerra contro i “ veri stranieri ”, oserei dire. Ma vi sono anche dei nemici interni, che sono nello stesso tempo parzialmente esterni perchè importano nella società una cultura che sembra straniera, come i rurali per la città, che vivono in condizioni assai precarie e sembrano atipici ed immorali- e si può comprendere che tali condizioni assai precarie di esistenza non predispongano a condurre una vita regolata: ubbriachezza e violenza degli uomini, facilità di costumi e prostituzione delle donne sono parte delle descrizioni del pauperismo, senza dubbio esagerate, ma non completamente inventate. Ciò che mi sembra confermare tale ipotesi è il fatto che lo stesso meccanismo si produca in contesti assai diversificati. Si tornerà fra poco sulla questione delle periferie, o dei quartieri difficili, così come essa è attualmente percepita, perlomeno in Francia. Ma in principio questo ruolo di classe pericolosa è stato ricoperto nella società pre-industriale dai vagabondi, quegli individui completamente distaccati sia dal lavoro che da qualsiasi iscrizione territoriale. Il vagabondo è un pigro ed un errante, un esempio limite di ciò che mi sono riproposto di chiamare la desaffiliazione, la completa rottura dei rapporti di lavoro e delle relazioni di sociabilità. Come per il pauperismo, si potrebbero citare centinaia di testimonianze che stigmatizzano i vagabondi, terrori delle campagne e principali responsabili dell'insicurezza nelle città. E su questi sfortunati si sono abattute delle misure repressive estremamente crudeli: le galere, l'impiccagione, la bandizione, il marchiaggio a fuoco... Così su questi vagabondi si sono cristalliazate gran parte delle paure delle società pre-industriali, alle quali comunque non mancavano validi motivi per sentirsi minacciate. Senza dubbio, i vagabondi erano numerosi, all'epoca, e potevano essere talvolta pericolosi, soprattutto allorchè si organizzavano in bande. Ma nella maggiorparte dei casi i vagabondi erano dei poveri esseri che lasciavano una campagna che non poteva più nutrirli, o una città nella quale non avevano lavoro perchè non inseriti nell'organizzazione corporativa dei mestieri. I vagabondi rappresentano questa frangia della popolazione che le strutture della società preindustriale non riescono ad integrare e che sono respinti ai margini. Si potrebbe dire che questa politica nei riguardi dei vagabondi abbia costituito una forma di politica sociale, e persino la prima politica sociale condotta dai poteri politici dell'epoca- la regalità a livello nazionale, le municipalità a livello delle città- per tentare di sradicare il male sociale rappresentato dal vagabondaggio. Tali politiche sono d'altronde fallite perchè su più di un 23 quarto di secolo- dalla metà del quattordicesimo alla fine dell'Ancien Régime- si susseguono gli stessi tipi di editti regali o municipali che condannano il vagabondaggio senza riuscire a controllarlo. Allora, non dico che la situazione dei proletari sia uguale a quella dei vagabondi - i vagabondi non erano iscritti da nessuna parte, ed era questo il loro dramma; mentre i proletari sono utili, e persino indispensabili alla società industriale, i vagabondi sono degli “ inutili al mondo ”, per riprendere la formula usata in un processo che si concluse con l'impiccagione di un povero vagabondo nel quindicesimo secolo. Si è potuto cercare, al limite, di sradicare la questione del vagabondaggio sopprimendo i vagabondi, mentre non si potrebbe immaginare di sopprimere i proletari, poichè essi sono inseriti nell'ordine industriale che si sta man mano costruendo. Per questo occore moralizzarli, socializzarli, integrarli. E per fare questo occorre far svolgere allo Stato una fuonzione diversa da quella repressiva, prevalsa per il trattamento del vagabomdaggio. È lo sviluppo di un'altra funzione dello Stato, lo Stato in un ruolo sociale, lo Stato sociale, che che andrà ad operare essenzialmente come un riduttore di rischi: ridurre i rischi combattendo l'insicurezza sociale. Dico questo in una forma talmente schematica da poter apparire caricaturale. Ma cercherò di esplicitare questo processo. Se disponessi di maggior tempo, potrei illustrare come nel diciannovesimo secolo questa soluzione, che va ad imporsi, non fosse la sola possibile. Vi sono stati tentativi rivolti in altre direzioni: lo sviluppo della filantropia per cercare di moralizzare queste classi pericolose senza il ricorso allo Stato. La filantropia è stata estremamente importante nel diciannovesimo secolo, in particolare attraverso lo sviluppo di un paternalismo padronale nelle grandi industrie dell'epoca che ha posto in essere delle vere e proprie istituzioni sociali, ma in una forma totalmente privata. Vi sono anche, all'altra estremità dello scettro politico, le diverse versioni del socialismo rivoluzionario e del marxismo, che riguardano le rivendicazioni di una classe operaia che si struttura nella sua opposizione al paternalismo filantropico ed al capitalismo ed intende scuotere a fondo i rapporti di produzione abolendo il salariato. Evidentemente, si potrebbe parlare per ore di queste opzioni, che rappresentano anche delle risposte alla questione sociale così come si pone nel diciannovesimo secolo, a partire dall'esistenza del proletariato. Ma il mio proposito non è quello di fare la storia completa di questo periodo. Mi limito a cercare di far comprendere la risposta che ha prevalso, e che era lungi dall'essere evidente all'epoca. La sintetizzerò dicendo che essa è sfociata nella costituzione di una nuova forma di proprietà, la proprietà sociale, che determinerà delle protezioni e delle sicurezze (la sicurezza sociale) per i non proprietari. Questa sorta di invenzione di una proprietà sociale mi sembra costituire il nucleo della risposta alla questione sociale che si elabora a partire dalla fine 24 del diciannovesimmo secolo, ed anche il nucleo di ciò che si chiama lo Stato sociale, o Stato assistenziale. In cosa consiste la proprietà sociale? Parto dalla citazione di Alfred Fouillée, uno dei rappresentanti di quella corrente di pensiero vicina alla Terza Repubblica (anche Durkheim appartiene a questa corrente) che cerca una via di mezzo fra il laissez-faire dei liberalisti, indifferenti alla questione sociale, e l'estremismo dei socialisti rivoluzionari, che vogliono risolverla minando le fondamenta della società e collettivizzando al proprietà. Come dicevo, mi soffermo su questa posizione non per scelta ideologica, ma perchè questa è la scelta che, come si vedrà, si è finalmente imposta. Alfred Fouillée dunque, in un libro scritto nel 1884 ed intitolato La proprietà sociale e la democrazia, dice quanto segue: "Lo Stato può, senza violare la giustizia ed in nome della giustizia stessa, obbligare i lavoratori ad un minimo di previdenza e di garanzie per l'avvenire. Giacchè queste garanzie di capitale umano sono come un minimo di proprietà, essenziale a qualunque cittadino per essere libero ed uguale agli altri, e sempre più necessaria per evitare la formazione di una classe proletaria fatalmente condannata alla servitù o alla ribellione". Questo testo è estremamente ricco e contiene l'essenziale di quella formula che comincia timidamente ad attuarsi a partire dalla fine del diciannovesimo secolo e soprattutto durante il ventesimo. Si vede in esso come sono articolate le diverse componenti delle moderne politiche sociali: - Un nuovo ruolo dello Stato: "Lo Stato può, senza violare la giustizia ed in nome della giustizia stessa persino imporsi ... È il nucleo dello Stato sociale- lo Stato può e deve intervenire nelle questioni sociali. È trasgredire ciò che è sempre stato un tabù per il liberalismo, un divieto di Stato al di là delle funzioni minime dello Stato di diritto del quale si è parlato ieri. - In secondo luogo, lo Stato deve dunque intervenire esigendo dai lavoratori "un minimo di previdenza e di garanzie per l'avvenire". Questo Stato si dà per obiettivo quello di securizzare l'avvenire dei lavoratori, assicurando una sicurezza sociale. E il modo privilegiato, o in ogni caso uno dei modi privilegiati d'intervento dello Stato sarà quello di promuovere l'assicurazione abbligatoria: obbligare i lavoratori ad assicurarsi contro i rischi sociali, il che stabilizzerà il loro avvenire, invece di condannarli a vivere alla giornata nell'insicurezza sociale. E l'assicurazione obbligatoria sarà effettivamente la grande tecnologia in grado di controllare i principali rischi sociali. Vi è una relazione privilegiata fra la tecnologia assicurativa e l'intervento statale. L'assicurazione, come sappiamo, non è un'invenzione del diciannovesimo secolo, né tantomeno un'invenzione statale. Essa esiste già sotto forma privata ( si vedano le assicuraziohni marittime, a partire almeno già dal quattordicesimo secolo ) e persino in campo sociale essa ha 25 importanti applicazioni con le mutuali, le società di previdenza ecc. Ma queste mutuali, incoraggiate dal movimento filantropico che evocavo pocanzi, restano delle iniziative private. Esse diventano un'obbligazione di Stato e ciò va a modificare profondamente la loro natura. È ciò che d'altronde spiega la ferma opposizione dei liberali e dei filantropi a questo obbligo assicurativo, che si traduce nella legge sugli incidenti sul lavoro del 1898 e nella legge sulle pensioni operaie e contadine del 1910. Ma ogni volta vi sono voluti anni di accanite controversie prima che esse si imponessero. - Il prodotto di questo obbligo assicurativo è, dice Fouillée, quello di dare « come un minimo di proprietà essenziale ad ogni cittadino ». Si tratta di un minimo di proprietà che fornirà al lavoratore un minimo di indipendenza. Egli avrà delle risorse di base per non dipendere dagli altri e potrà essere un "cittadino libero ed eguale agli altri"- vale a dire libero come lo erano solo i proprietari, prima di queste garanzie di capitale umano. Forse Fouillée qui esagera un po', dicendo che si giunge ad una vera uguaglianza con l'insieme dei cittadini. Appare evidente come questo minimo di proprietà non sopprima le ineguaglianze fra le condizioni sociali. Ma essa fornisce almeno le condizioni di base che consentono di essere un cittadino a pieno titolo, poichè l'indipendenza sociale è assicurata. - Infine, Fouillé trae l’implicazione socio-politica di questa innovazione. Essa è la risposta alla questione del pauperismo ed al duplice pericolo che esso rappresenta: o il persistere di una situazione di totale decadenza dei proletari nella dipendenza del bisogno, oppure che tali proletari, « che altro non hanno da perdere, se non le loro catene », come aveva detto Marx poco tempo prima, si rivoltino rovesciando l’ordine borghese. Si tratta di una via di mezzo fra uno statu quo politico che mantiene una miseria di massa ed un’opzione rivoluzionaria che farebbe tabula rasa del passato. Non credo di aver sovrainterpretato questo testo. Esso presenta una sorta di programma che andrà a costituire un’ asse portante, per non dire l’asse portante, delle politiche sociali che attuerà la Terza Repubblica e, anche al di là della stessa terza Repubblica, un’ asse portante dello sviluppo dello Stato sociale. Qui risulta chiaro che, come dicevo, questo Stato nel suo ruolo sociale interviene innanzitutto come un riduttore di rischi. Esso garantisce un minimo di sicurezza a coloro che versavano in una permanente insicurezza sociale. Si potrebbe dire che questa proprietà sociale sia un analogon, un equivalente della proprietà privata. Non si tratta di una proprietà nel senso di un patrimonio che si possiede e che è possibile vendere sul mercato. Essa dipende da regolamentazioni legali e giuridiche. Ad esempio, il diritto alla pensione. Io non posso vendere il mio diritto alla pensione così come venderei un oggetto che mi appartiene. Esso dipende da una serie di obbligazioni legali: aver versato per un certo numero di anni dei soldi, ecc. Ma una volta che tali obbligazioni siano state 26 soddisfatte, si dispone effettivamente di un diritto, si riceve come un diritto questa pensione che assicura un minimo di proprietà. Ciò non vuol dire che vi sia la possibilità di vivere nell’opulenza, ma perlomeno affranca da quell’indegnità e da quella miseria che costituivano la condizione generale del vecchio lavoratore che non fosse più in grado di lavorare. Senza voler fare del melodramma, si può affermare che si trattasse spesso di una condizione spaventosa. Questi rischiava di ammalarsi gravemente per poi finire in suoi giorni in un ospizio. Oppure poteva talvolta essere preso a carico dai suoi figli, che non erano molto più ricchi di lui, cadendo così in un’ulteriore forma di dipendenza. La pensione esemplifica perfettamente la funzione della poprietà sociale. Essa non consente di vivere nel lusso, ma costituisce comunque una vittoria su ciò che di più drammatico vi era nell’insicurezza sociale. Essa costituisce una proprietà per la sicurezza. Bisogna sottolineare un’ulteriore specificità di questa proprietà sociale: essa è in larga misura costruita a partire dal lavoro. Un salariato, per definizione, lavora per qualcun altro. Il salariato, dunque, come dicevano i giuristi, costituisce un rapporto di subordinazione, ed è la radice della denuncia dello sfruttamento dei lavoratori. Tale dipendenza permane sempre, altrimenti detto si è sempre in un sistema capitalista. Ma ormai il lavoratore lavora anche, in parte, per se stesso. Una porzione del prodotto del suo lavoro sfugge alle leggi del mercato. Egli finanzia anche la propria sicurezza e quella della sua famiglia. Si tratta di ciò che viene chiamato il salario indiretto. Una parte del salario fa in qualche modo ritorno al lavoratore sotto forma di protezioni, fornendogli dei diritti sociali, come quello alla pensione. Tale mutamento non costituisce una rivoluzione nel senso di uno sconvolgimento dei sistemi di produzione. In tal senso, si tratta di un’opzione riformista e non rivoluzionaria. Ma, nello stesso tempo, si tratta di una trasformazione abbastanza fondamentale rispetto alla condizione dei proletari degli albori del processo di industrializzazione, che hanno letteralmente « perso la propria vita guadagnandosi di che vivere », per i quali il salario costituiva una relazione puramente commerciale che, nel rapporto di forza con il datore di lavoro, dava luogo ad uno sfruttamento totale. Dunque si può affermare che la proprietà sociale metta fine a questo tipo di situazione e muti qualitativamente la condizione effettiva dei lavoratori. Essa apporta una certa limitazione all’egemonia del mercato sul lavoro. Le esigenze capitaliste di un profitto massimale non sono più in grado di esercitare un dominio assoluto sul mondo del lavoro, perchè il salario include ormai delle contropartite di natura sociale relative alla protezione dei lavoratori. Nell’ambito di un regime il quale rimane capitalista il mercato è quindi, in una certa misura, inquadrato dalla proprietà sociale. Nello stesso tempo, lo Stato costituisce il garante necessario di questa forma di equilibrio, poichè queste regolamentazioni derivano dalla legge. Si stabilisce, dunque, un certo qual compromesso , ed 27 è proprio in ciò il nucleo di quello che viene chiamato “ il compromesso sociale ” della società salariale, che toccherà il suo vertice verso gli anni 1970 - compromesso fra le esigenze di mercato di una produzione massimale di ricchezze e l’esigenza di una sicurezza minima per quegli uomini e quelle donne i quali producono tali ricchezze, cioè i lavoratori che continuano, nella maggiorparte dei casi, ad appartenere alla “ classe non proprietaria ”. Ma ormai non si tratta più di quei proletari che « non avevano altro da perdere all’infuori delle loro catene ». Il mutamento anche delle implicazioni politiche, in direzione del riformismo, piuttosto che della rivoluzione, costituisce la ragione per la quale le più radicali tendenze del movimento operaio hanno, almeno in un primo momento, combattutto tali misure, ad esempio opponendosi violentemente alla legge sulle pensioni operaie e contadine, votata in Francia nel 1910. Ecco, dunque, quello che mi sembra essere il nucleo della proprietà sociale. In tutta evidenza, ho affermato tutte queste cose in una maniera estremamente sintetica, e forse talvolta troppo schematica, ma tale brevità era dettata dai limiti oggettivi del mio intervento; se avessi avuto maggior tempo a disposizione, ne avrei approfittato per esplicitare le innumerevoli peripezie attraverso le quali un simile sistema si sia progressivamente costituito. In particolare, avrei sottolineato il modo in cui si sia passati dalle prime realizzazioni, di portata piuttosto limitata, all’insieme sistematizzato delle protezioni sociali. Ho pocanzi evocato la legge del 1910 relativa alle pensioni operaie, la quale ha interessato un numero relativamente limitato di salariati, vale a dire tutti coloro che all’epoca si trovavano al di sotto di una determinata soglia salariale, in quanto l’idea dominante era ancora quella che i salariati più “ agiati ” dovessero in un certo qual modo assicurarsi da soli, nella logica della proprietà privata. Questa misura ha dovuto interessare all’incirca un milione di persone, tanto più che la maggiorparte dei beneficiari virtuali morivano assai prima dell’età della pensione, cioè i sessantacinque anni. Dunque avrei sottolineato in che modo si sia passati da queste prime realizzazioni, tutto sommato piuttosto mediocri ( “ una pensione per i defunti ”, diceva la CGT dell’epoca, che vi si opponeva con tenacia ), a quella che François Ewald ha chiamato, in un altro periodo della sua vita, “ la società assicurativa ” – una società in grado di “ coprire ”, attraverso questi tipi di assicurazioni contro i rischi, innanzitutto l’insieme dei salariati, e in un secondo tempo praticamente persino l’insieme della popolazione, nel periodo che è succeduto alla Seconda Guerra Mondiale. Inche modo tutto ciò è potuto accadere? François Ewald, nel suo libro intitolato Lo Stato assistenziale ha avuto ragione nel sottolineare la forza del modello assicurativo, poichè in larga misura è proprio la mutualizzazione dei rischi sociali ad aver permesso di 28 vincere i rischi stessi. Tuttavia, la tecnologia assicurazionista non ha giocato da sola. Vi è un contributo da aggiungere ad analisi come quella di Ewald, ispirate d’altronde da Michel Foucault, e che ho presentato ne Le Metamorfosi della questione sociale. Dietro simili trasformazioni si gioca un processo sociologico di fondo che è quello della generalizzazione e diversificazione del salariato . Allorchè la legge del 1910 sulle pensioni viene applicata, il salariato è ancora, essenzialmente, il salariato operaio. Esso rappresenta, in Francia, all’incirca i tre quarti dei salariato, fino alla fine degli anni 1930. È su questo blocco centrale della società, che nello stesso tempo è anche il più vulnerabile, che le assicurazioni puntano nell’intento di stabilizzarlo, oppure di integrarlo nella società industriale: far uscire questi salariati, per la maggiorparte miserabili, dalla situazione di insicurezza sociale nella quale essi versano. Ma, progressivamente, si operano contemporaneamente, come dicevo, una generalizzazione ed una diversificazione del salariato. Verso il 1970, i salariati rappresentano quasi l’ 80 % della popolazione attiva totale, a detrimento di altre categorie di lavoratori, contadini, artigiani, piccoli imprenditori. Ma, nello stesso tempo, il salariato si è diversificato. Gli operai rimangono i più numerosi, certamente, ma, soprattutto al di sopra di loro, si sviluppano rapidamente delle nuove categorie di salariati, impiegati, professioni intermediarie, quadri medi e superiori. Questa società è così diventata, dopo la Seconda Grande Guerra, quella che possiamo chiamare una società salariale, e questo non soltanto in Francia, bensì in tutta l’Europa occidentale. Sempre per motivi di tempo, non mi è possibile in questa sede relazionare nei particolari tutto questo processo, ma vorrei portarmi direttamente nel suo punto di sbocco, verso la metà degli anni 1970, poco prima che la situazione cominci piano piano a degradarsi. Una sociatà salariale non è solamente una società nella quale la maggiorparte della popolazione attiva è salariata – il che è comunque vero, poichè in Francia, come senza dubbio in Italia, a quell’epoca all’incirca l’ 80 % della popolazione attiva era salariata. Ma essa è anche, e soprattutto, una società all’interno della quale la stragrande maggioranza dei membri è assicurata, e gode di protezioni sociali forti. Queste protezioni, la maggiorparte delle quali sono state costruite espressamente a partire dal salariato stesso, assicurano dunque, quasi a tutti, una sicurezza. Certamente restano, ai margini, degli individui o dei gruppi più o meno marginali che non sono coinvolti nel processo di modernizzazione ( quello che in Francia si è chiamato “ il quarto Stato ” ), ma si ritiene, in generale, che queste siano delle categorie residuali, in via di riassorbimento nella dinamica del progreso sociale. Si può dunque pensare che l’insieme della società sia assicurato dai principali rischi sociali. 29 Questa società non è una società egualitaria. La società salariale, ivi compreso nel suo periodo di massima crescita, ha lasciato sussistere delle forti diseguaglianze. Le differenze fra le varie categorie della stratificazione sociale – ad esempio quelle che sussistono fra gli operai ed i quadri – non si sono molto attenuate. L’immagine che si dovrebbe impiegare per descrivere gli anni di maggior accrescimento della società salariale, quelli che hanno seguito la Seconda guerra mondiale, è forse quella di una scala meccanica, di un escalator sul quale tutto si eleva, mentre la distanza fra le categorie poste sui diversi gradini resta pressappoco la stessa. Dunque, e contrariamente a quello che spesso si dice allorchè si parla di “ Stato Assistenziale” , vi è relativamente poca redistribuzione dei benefici del progreso economico e sociale, tranne forse in direzione dei più poveri. Al contrario, si sono stabilizzate delle forti protezioni. Si potrebbe affermare che la società salariale consista in un continuum differenziato di posizioni . La formula può forse apparire un po’ pedante, ma è certamente precisa. La differenziazione sociale fra le posizioni rimane determinante, ad esempio fra quelle due categorie di salariati che sono gli operai specializzati poco qualificati e gli ingegneri, e le differenze non attengono semplicemente al reddito. Ma, nello stesso tempo, continuum, continuità di posizioni, poichè queste diverse categorie godono del medesimo tipo di protezioni, protezione sociale e diritto al lavoro, le quali hanno un potere, appunto protettore, assai consistente. Si tratta in ogni caso di un’idea che vi sottopongo e sulla quale insisto, perchè credo che non sia stata sufficientemente sottolineata. D’altronde è la ragione per la quale non mi piace l’espressione “StatoAssistenziale”, che non adopero mai. Questa spinge a pensare che il Welfare State sia una sorta di distributore di benefici, che sparga a destra e a manca sussidi di ogni sorta – un po’ come la Provvidenza divina è ritenuta ricolmatrice di doni dai cristiani. E spesso è anche a partire da tale rappresentazione che i nemici dello Stato sociale condannano quest’ultimo come un dispositivo dispendioso e rovinoso, che deresponsabilizza i suoi beneficiari colmandoli, appunto, di benefici che non hanno ottenuto né meritato attraverso i loro sforzi. Senza stabilire un’opposizione assoluta fra il ruolo distributore ed il ruolo protettore dello Stato sociale, penso che si debba insistere principalmente sul ruolo protettore. “ Fare del sociale ” non significa semplicemente ridistribuire. Si prenda l’esempio della pensione, del quale ho già avuto modo di illustrare come essa fosse una realizzazione particolarmente significativa della proprietà sociale. In Francia, ma credo che tale situazione sia molto vicina a quella dell’Italia, ad un buon salario corrisponde una buona pensione, mentre ad un piccolo salario corrisponde una piccola pensione. Il ruolo ridistributore della pensione, se esso esiste, è 30 dunque stremamente debole. Al contrario il suo ruolo protettore è assai forte. È evidente se paragonato alla situazione precedente come quella del proletario degli inizi dell’industrializzazione. La pensione ha limitato l’insicurezza sociale. Anche il piccolo pensionato dispone di quel minimo di risorse e diritti che gli consente di non cadere in situazioni più o meno degradanti di assistenza. Per concludere con questo sviluppo della proprietà sociale nel dettaglio , nel merito del quale non posso entrare, a conclusione di tale processo, negli anni 1970 , prenderò ad esempio il caso di uno dei suoi beneficiari. Prendiamo un tecnico impiegato in una grande impresa. Egli non è necessariamente proprietario, se non forse dei beni di consumo correnti, i suoi mobili, i suoi vestiti, la sua macchina etc... . Al contrario, egli gode di un salario relativamente confortevole. Ed anche e soprattutto ha delle protezioni e dei diritti che sembrano garantirgli un’avvenire sicuro per sè e per la sua famiglia, anche quando avrà superato l’età lavorativa ( pensione ). In termini di indipendenza sociale, egli può perfettamente rivaleggiare con un proprietario, con quei piccoli reddirieri che descrive ad esempio Balzac, tesi alla difesa del loro piccolo patrimonio. Questo tecnico non ha effettivamente bisogno di rendite, non rischia di essere rovinato da una cattiva congiuntura come hanno potuto esserlo numerosi redditieri, che avevano ad esempio sovvenzionato dei crediti prima della rivoluzione bolscevica. Questo salariato rappresenta uno dei modelli di individuo moderno indipendente, così come illustrato nei giornali alla moda degli anni sessanta: il giovane quadro dinamico, libero, affrancato dai pregiudizi arcaici, curioso, relativamente colto, etc. A ben vedere, è questo un modello di individuo moderno. Vi è così un modo di uscire dall’inscurezza sociale dall’alto. Ma tale individuo è così perchè egli dispone di supporti costruiti a partire da una condizione salariale solida. Si può tradurre questo dicendo che vi è uno statuto dell’impiego al quale sono riagganciate delle protezioni e dei diritti. La costituzione di uno statuto dell’impiego è stata lunga, attraverso una moltitudine di conflitti e di compromessi , ed ha permesso di vincere , per la maggioranza della popolazione, i principali rischi sociali. Una funzione essenziale del Welfare State è stata contribuire alla costituzione di questo statuto del’impiego. In tutta evidenza, lo Sato non ha influito da solo su questo processo. Il compromesso sociale che ho già evocato è il risultato di una negoziazione , spesso conflittuale, fra le diverse “parti sociali ”, come si suol dire – sindacati dei salariati, patronato ... Ma il ruolo dello Stato è stato non di meno essenziale nell’amito di questa costruzione. Non solo è stato un partner nella negoziazione collettiva, ma è proprio lui a conferire forza di legge agli equilibri nei quali essa sfocia. 31 [PAUSA] Ciò che ho cercato di presentare attraverso lo sviluppo della prorpietà sociale è, schematicamente, la risposta che è prevalsa fino alla metà degli anni settanta in Francia, ma anche, con delle varianti non trascurabili e delle quali sarebbe interessante discutere, in Italia ed in diversi paesi dell’Europa occidentale. Questo non vuol dire che simili trasformazioni siano state totalmente egemoniche . Restavano comunque degli individui e dei gruppi che non venivano iscritti in questi sistemi generali di protezione. Così “ il quarto mondo ”, che ho già evocato e che rivelava da forme più particolariste di protezioni. Ma si credeva anche in generale che si trattasse di popolazioni in via di riassorbimento nella dinamica generale del progresso sociale. Ma questa dinamica si è infranta a partire da quella che è stata chiamata “la crisi” degli inizi degli anni 1970 , e che si rivela essere molto più di una crisi passeggera, corrispondente senza dubbio ad un mutamento di regime del capitalismo, al tramonto del capitalismo industriale. Ma una delle conseguenze più consistenti di questa “ grande trasformazione”, come direbbe Karl Polaniy, è stato il nuovo aumento del’insicurezza sociale , che non rinvia – almeno non ancora – al pauperismo del diciannovesimo secolo ma che destabilizza alquanto profondamente quei dispositivi di protezione dai rischi sociali dei quali si è appena vista l’attuazione. Vi sarebbe molto da dire sulla natura e l’ampiezza di tale mutamento, ma uno dei modi di cogliere ciò che è accaduto è trarre le conseguenze della destabilizzazione dal modello classico dell’impiego, che è stato la chiave di volta della struttura della società salariale. Questo modello dell’impiego corrisponde ad uno statuto stabile al quale erano riagganciate delle protezioni e dei diritti altrettanto stabli, ma ciò che bisogna comprendere, è che queste protezioni erano legate alla stessa struttura dell’impiego. Si diceva che “un lavoratore occupava un impiego” , cioè è dall’impiego che egli traeva sia delle obbligazioni (lavorare in un certo modo, per un certo tempo, etc..), che delle protezioni. Se tale struttura ha funzionato bene per stabilizzare la codizione salariale, ciò dipende innanzitutto dalla permanenza delle condizioni di lavoro nella durata. Si tratta della presenza maggioritaria di ciò che si chiama in Francia il contratto a tempo indeterminato, il C.D.I. , che in principio assicura la permanenza dell’impiego sulla lunga durata. Ma anche questo modello dell’impiego stabile riposa sulla permanenza dei compiti di lavoro: omogeneità delle categorie professionali, stabilità dei posti di 32 lavoro, gestione in continuo delle carriere professionali... Questa permanenza dello statuto dell’impiego sfuggiva largamente alle fluttuazioni del mercato ed ai cambiamenti tecnologici che erano molto meno rapidi di adesso. È questa struttura che è rimessa in questione dalla frammentazione degli impieghi e dalla flessibilizzazione dei compiti. Questo è un punto sul quale bisogna insistere perchè è il nucleo della grande trasformazione attuale che ha iniziato a manifestarsi con la crisi degli anni 1970. Allorchè si è iniziato a parlare di questa “crisi” in un primo tempo si è stati particolarmente sensibili ad alcune delle sue manifestazioni più spettacolari, come la disoccupazione di massa , che è effettivamnete drammatica. Ma, facendo un passo indietro, ci si rende conto che al di là di questa disoccupazione di massa si cela un processo di decollettivizzazione, o di reindividualizzazione del lavoro. E questo su diversi livelli. Riassumo: - Nell’organizzazione del lavoro propriamente detta,vi è un’ esigenza di mobilità, di disponibilita, di responsabilizzazione dei lavoratori o, come si dice oggi, degli “ operatori ”. Per dirla in breve, i grandi collettivi omogenei di lavoro non sono aboliti, ma si frammentano. L’individuo lavoratore è allora sempre più in concorrenza con i suoi pari per far fronte a cambiamenti incessanti. Si ha una frammentazione delle mansioni del lavoro , anche con dei cambiamenti tecnologici, occorre essere riconvertibili, adattabili, flessibili ecc... - Ma anche a livello delle traiettorie professionali propriamente dette si assiste alla stessa mobilizzazione. Si tratta di quello che il sociologo tedesco Ulrick Beck chiama, nel suo libro La Società del rischio, la preminenza di un modello biografico : tocca sempre più all’individuo stesso il compito di farsi carico del proprio percorso professionale, egli deve operare delle scelte, delle riconversioni, far fronte ai più repentini cambiamenti, etc... Così, contemporaneamente alla parcellizzazione dei compiti di lavoro, le traiettorie professionali divengono discontinue e sono sempre più raramente iscritte nelle grandi regolamentazioni collettive dell’impiego stabile. Di qui l’mportanza dei C.D.I., la moltiplicazione delle cosidette “forme atipiche ” di impiego, il lavoro interinale, il lavoro intermittente, il lavoro part-time, etc... Mi sembra tra l’altro che in Italia questa evoluzione si sia risentita in una maniera ancora più drammatica che in Francia. Evidentemente, si tratta qui di un’evoluzione di tendenza. Attualmente, in Francia i C.D.I. risultano ancora essere maggioritari. Tuttavia, se si ragiona in termini di flusso, vale a dire in termini di entrate sul mercato del lavoro, le più discontinue forme di impiego si moltiplicano giorno dopo giorno. In termini concreti, questo significa che l’instabilità dell’impiego sta oramai sostituendosi alla stabilità dell’impiego, divenendo 33 la forma dominante dell’attuale organizzazione del lavoro. Si tratta indubbiamente di una tendenza estremamente forte. Certamente, permangono delle forme ancora stabili di organizzazione del lavoro, ma sicuramente questo processo di de-collettivizzazione e di reindividualizzazione dell’impiego attraversa oramai largamente la maggiorparte delle attuali forme di organizzazione del lavoro, benchè sia inegualmente impiantato a seconda dei settori. Ad esempio, al limite si potrebbe avere, nel settore della “ nuova economia ”, la figura del creatore di start up che è completamente individualizzato e de-collettivizzato. Ma, anche nei bastioni della grande industria, come nella costruzione delle automobili, si riscontrano le stesse tendenze con la costituzione di piccole squadre che gestiscono la propria produzione in modo autonomo. Dunque in linea di tendenza questa enorme trasformazione si impone quasi ovunque nel mondo del lavoro; la si potrebbe forse riassumere dicendo che si assiste ad una generale rimessa in mobilità. Allorchè il capitalismo industriale era caratterizzato dalla preponderanza delle forme di organizzazione collettiva e delle regolazioni collettive, l’attuale mutazione del capitalismo rompe, e in ogni caso affetta gravemente, questa preminenza dei collettivi. Queste trasformazioni comportano evidentemente delle implicazioni importanti sul piano della produzione dei lavoratori e sulla protezione sociale in generale. Come ho già detto, le protezioni riposavano su dei sistemi generali di assicurazioni che “coprivano” delle grandi categorie omogenee di salariati. Attualmente, si è assistito alla moltiplicazione di quelli che si chiamano i minima sociali , cioè delle prestazioni che sono attribuite senza condizione di risorse a degli individui e a dei gruppi che incorrono in particolari difficoltà o che non sono ( o non più ) nel regime generale dell’ impiego. In Francia, il più conosciuto di questi minima sociali è il reddito di inserimento minimo ( R.M.I. ), istituito nel 1989, ma vi sono attualmente otto minima sociali, nonchè una folla di misure particolari di “lotta alla povertà”, o di “lotta contro l’esclusione”. Non si tratta di criticare queste misure, che hanno un’utilità e rappresentano senza dubbio un male minore per delle popolazioni che versano in situazioni molto difficili proprio perchè private dell’impiego. Ma bisogna chiedersi se non si stia assistendo ad una trasformazione del regime stesso delle protezioni . Accanto ai sistemi generali di protezione della società salariale, che conferiscono i più pieni diritti, si avranno sempre più delle misure particolariste, di una qualità inferiore, rivolte ai più deprivati. Si scivolerà così verso una sorta di regime a due velocità . Nello stesso tempo, occorre costatare che anche le protezioni più generali sono minacciate, come illustrano i dibattitti attualmente in corso relativamente ai regimi delle pensioni e della sanità. Parallelamente, si sviluppano queste protezioni che non solo sono inferiori quanto alle risorse finanziarie, ma rischiano anche di assumere un carattere stigmatizzante nella misura in cui sono attribuite sulla base di 34 qualcosa, cioè una deficienza, o in ogni caso sulla base dell’accertamento di una mancanza rispetto al regime comune. È così che l’ R.M.I. , che nasceva da un’intenzione piuttosto generosa, si è percepito nel corso degli anni in maniera sempre più peggiorativa; usufruirne è come essere sospettati di non essere abbastanza coraggiosi da lavorare. Infine, ci si potrebbe chiedere se non sia la stessa concezione di solidarità ad alterarsi. Esiste un forte senso della solidarietà che Durkheim chiama “la solidarietà organica” , che significa che tutti i membri di una società sono legati da relazioni di interdipendenza. Ciò non vuol dire che essi siano uguali in senso stretto, ma che partecipano ad un medesimo insieme sociale perchè ognuno di loro dispone di risorse e di diritti comuni che gli permettono di essere in interrelazione con gli altri. Ma la solidarietà così come la si intende oggi tende piuttosto a somigliare all’assistenza, quando non alla carità. Ad esempio, viene chiamata “allocazione specifica di solidarietà” un’allocazione accordata ai disoccupati arrivati “in fine di diritto”, i quali non godono più dell’assicurazione sulla disoccupazione alla quale essi avevano diritto in funzione del loro precedente lavoro. Si concede loro dunque una “allocazione di solidarietà”. Certamente è meglio di niente , ciò significa che si è solidali nel senso che non si lasciano completamente a se stessi i membri meno fortunati della società. Tuttavia, questa soluzione è molto inferiore all’assicurazione. Questi disoccupati non sono protetti da un diritto che hanno acquisito in ragione del loro lavoro. La comunità se ne fa carico, ma essi hanno davvero un’indipendenza sociale, sono ancora dei cittadini sociali a pieno titolo? La questione di fondo che ci si potrebbe porre è se oggi non si stia assistendo ad una sorta di riscatto della prorpietà privata su quella sociale. Non si tratta di istituire una opposizione assoluta fra queste due concezioni della proprietà. Si potrebbe anche difendere la tesi che la costituzione della proprietà sociale nel senso in cui io l’ho intesa abbia salvato la proprietà privata. Essa non ha reso necessario un tipo di soppressione della proprietà privata, la sua collettivizzazione quale la intendevano diverse correnti del socialismo rivoluzionario e il marxismo ( si pensi alla rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia ). Fra diverse altre ragioni lo statuto protetto del lavoro nella società salariale ha certamente influito per economizzare questo tipo di alternativa alla proprietà privata . Ma oggi le trasformazioni di matrice liberale o neo liberale non portano forse di nuovo in primo piano la figura del proprietario? Non si tratta del proprietario terriero che era la forza dominante della proprietà nella società preindustriale, e neppure della proprietà del redditiere nel diciannovesimo secolo. Nè è il capitano di industria del periodo d’oro del capitalismo industriale. È soprattutto, attraverso la mondializzazione, la figura del capitalismo finanziario a dominare, cioè la ricerca del profitto per il profitto. Questo tipo di proprietà, se avesse la meglio, schiaccerebbe la proprietà sociale e forse lo stesso Stato sociale. 35 Poichè bisogna insistere sui rapporti che esistono fra l’assottigliamento della proprietà sociale e la fragilizzazione dello Stato sociale, ovvero ciò che si potrebbe chiamare la crisi dello Stato nazional Sociale. Questa è un’espressione che Étienne Balibar impiega in un senso vicino a questo e che bisogna presentare con una certa prudenza, poichè non ha niente a che vedere con il nazional socialismo di matrice fascista. Tuttavia tale espressione qualifica in modo alqualnto efficace il tipo di Stato che si è affermato soprattutto nell’europa occidentale dopo la fine della seconda guerra mondiale e che ha costruito questi sistemi di protezioni su una base nazionale. Vi sono certamente delle varianti significative che distinguono fra loro la Francia, l’Italia, la Gran Bretagna, la Germania, la Spagna, il Portogallo, etc... ma vi sono anche delle forti analogie, perchè queste differenti versioni dello Stato sociale avevano il potere di controllare i principali parametri della loro economia attraverso delle politiche economiche di ispirazione Keynessiana. Queste politiche sono state possibili perchè ciascuno Stato disponeva allora di una certa autonomia per impostare la propria politica economica, cosa che gli permetteva anche, soprattutto in periodi di forte crescita, di sviluppare delle politiche sociali molto estese. Tuttavia, con l’europeizzazione e la globalizzazione questo margine d’azione degli Stati Nazionali si è ristretto . Se ne è avuta la prova in Francia dopo l’insediamento dei socialisti nel 1981. Il tentativo di rilancio al contempo economico e sociale del primo governo socialista è fallito. La Francia si è poi avvicinata a certi imperativi dettati dalla concorrrenza economica internazionale , con tutte le sue implicazioni sull’organizzazione del lavoro (decollettivizazione e reindividualizzazione ) e sulle protezioni sociali in direzione di uno scivolamento di sistemi omogenei di assicurazione verso una logica di minima sociali che trae dall’assistenza la protezione sociale. Si nota che tale indebolimento è anche un modo di rimettere in discussione lo Stato nazional sociale pensato dall’ideologia neo liberale dominante come un qualcosa che ostacolava, attraverso le sue regolamentazioni, la libera dinamica del mercato. Evidentemente , si tratta qui di grandi tendenze, che sono obbligato a presentare in modo stringato. Esse formano l’attuale contesto a partire dal quale credo si sia in diritto di parlare di una nuova ascesa dell’insicurezza sociale. Per un numero sempre crescente di persone l’incertezza dell’avvenire ha rimpiazzato la certezza di poter controllare l’avvenire lottando efficacemente contro i principali rischi sociali. Tuttavia questa diagnosi non equivale ad una catastrofe. Siamo in Francia come in Italia in società ancora largamente circondate e attraversate da protezioni. È un’evidenza se paragoniamo la nostra situazione a quella che prevaleva appena secolo fa. La diagnosi più oculata che si possa fare è quella dell’assottigliamento, non del crollo dei sistemi di protezioni. Questo significa che non siamo, o non ancora, in delle società interamente percorse dalle esigenze del mercato. Il che può lascire dei margini di manovra 36 affinchè il crollo non sia ineluttabile e spero avremo un po’ di tempo per discutere di questo. Prima di tutto, poichè abbiamo parlato successivamente dell’insicurezza civile e dell’insicurezza sociale, vorrei discutere una questione che illustra in maniera esemplare il modo in cui questi due tipi di insicurezza si sposano reciprocamente. Sarà anche l’occasione di ritornare un’ultima volta, come avevo annunciato, sulla tematica delle classi pericolose, che riunisce fra il reale e l’irreale la congiunzione fra queste due forme di insicurezza. I vagabondi delle società preindustriali, così come i proletari delgi inizi dell’industrializaazione che ho giàò evocato, rappresentano dei gruppi totalmente privi di mezzi rispetto ai rischi sociali e sono stati essi stessi percepiti come rappresentanti un rischio capitale per la sicurezza civile. Per attualizzare questo schema ( è questo il titolo che avevo proposto per questo seminario: “ Il ritorno delle classi pericolose? ”, sottolineando il punto interrogativo ), mi sembra che questo ruolo sia oggigiorno interpretato dalle popolazioni delle periferie, e più precisamente dai giovani delle periferie, i quali cristallizzano in maniera privilegiata per molte persone i pericoli dell’insicurezza. Innanzitutto, voglio precisare meglio il quadro di quello che si chiama “ il problema delle periferie “, o dei quartieri sensibili. Esso si situa in quei vasti insiemi immobiliari che sono stati costruiti alla periferia delle grandi città francesi. Questi immobili sono stati costruiti alla fine degli anni cinquanta e sessanta per far fronte ad una gravissima crisi degli alloggi che colpì la Francia del dopoguerra. In un primo momento, queste costruzioni in periferia sono riuscite a combattere efficacemente il problema degli alloggi insalubri, il sovraffollamento e la mancanza di alloggi etc... Queste nuove forme di habitat, che erano generalmente costruite da architetti modernisti, sono state soprattutto popolate da degli operai in via di ascesa sociale ed anche da alcune categorie della classe media. Poi è sopraggiunta la “ crisi ”, che non ha evidentemente origine nelle periferie, ma di cui uno degli effetti è stato un cambiamento della popolazione di questo habitat e del profilo sociologico dei suoi abitanti: la disoccupazione dovuta alla deindustrializzazione e l’aumento dei lavoratori immigrati hanno dato vita ad una popolazione fortemente fragilizzata e precarizzata, con un numero altissimo di maghrebini, i cui figli nati in Francia sono chiamati “ beurs” 1. Nello stesso tempo, la qualità delle condizioni abitative si degrada e le popolazioni più agiate lasciano questi spazi appena possibile. Per riassumere, in questi spazi difficili da vivere si sono trovate riunite delle 1 Espressione offensiva, nata dall'approssimata inversione di "Arabe" N.D.T. 37 popolazioni fra le più precarizzate, che accumulano diversi handicap: forti proporzioni di disoccupati o di lavoratori precari, di giovani spesso alla ricerca di un impiego... Prendiamo il caso dei giovani, poichè è su di essi che si cristallizzano le reazioni più ostili. In linea generale, essi sono fuori dal regime dell’impiego regolare. Spesso hanno ricevuto un’istruzione mediocre. Errano freneticamente per strada, anche perchè il loro habitat non è per niente attraente. Talvolta formano delle bande, all’occasione commettono dei delitti, si dedicano ad un’economia informale ai margini della legalità. Talvolta si scontrano con le forze dell’ordine. Soprattutto, sono molto visibili, si raggruppano negli androni delle scale condominiali o nelle piazze come ad ostentare davanti a tutti la loro inutilità sociale e la loro disoccupazione. Bisogna riconoscere che queste condizioni di vita, questa instabilità non predispongono a vivere in modo particolarmente angelico. Vi sono effettivamente dei tassi di delinquenza e di inciviltà più elevati che altrove, in questi quartieri, e si è anche parlato di alcuni di loro come di zone di non diritto in cui la polizia non osa neppure entrare. Dunque non contesto che dei problemi reali di insicurezza si pongano e debbano essere presi sul serio- tanto più che spesso coloro che subiscono delle violenze quotidiane, o che le temono, sono spesso le persone del quartiere che non hanno i mezzi per vivere altrove. Tuttavia, fare di questi giovani una vera e propria classe pericolosa mi pare eccessivo. Piuttosto si tratta del processo di slittamento della conflittualità sociale che ho già segnalato a proposito dei vagabondi e dei proletari. Non possiamo applicare a questi giovani la formula che Auguste Comte riservava ai proletari degli inizi del diciannovesimo secolo? “ Essi vivono nella società moderna senza esservi inseriti ”. Essi soffrono infatti di un deficit di integrazione, soprattutto se di origine straniera, e si scontrano con l’ostilità dell’ambiente circostante e della polizia. Ma mi sembra che la relazione con il margine esprima nello stesso tempo una relazione con il centro della società. Questi giovani non vivono su un altro pianeta, essi esprimono in una forma limite una situazione infondo generale, o in ogni caso molto comune, con la loro difficoltà nel trovare un impiego e un alloggio decente, le cui cause sono a monte della loro situazione particolare; ecco l’iopotesi che vi sottopongo: è il centro che produce il margine. I proletari dei quali si è già parlato sono spinti al margine, sono percepiti al margine, ma esprimono nei fatti una struttura essenziale del capitalismo industriale, all’epoca dominato dal massimo sfruttamento della forza lavoro. Allo stesso modo i vagabondi sono percepiti come dei fuorigioco sociali, “ inutili al mondo ”, secondo la vecchia formula che ho già citato. Tuttavia, se si osserva più da vicino da dove provengono i vagabondi, la qual cosa ho cercato di fare, si noterà che nove volte su dieci essi provengono dal piccolo popolo delle città o delle 38 campagne, sottoqualificato, come si direbbe oggi, che non trova da mangiare a sazietà nella fattoria a conduzione familiare. Essi partono alla ricerca di un lavoro che nella maggiorparte dei casi non trovano e diventano vagabondi criminalizzati. Perchè mai non trovano lavoro? Perchè l’organizzazione dell’impiego dell’epoca è dominata dal sistema delle corporazioni. Si tratta di un sistema estremamente rigido e chiuso, occorre spesso fare un apprendistato di circa dieci anni per diventare maestri. I vagabondi sono esclusi da questa struttura e sono, se posso permettermi l’espressione, come dei salariati virtuali: essi non hanno che la loro forza lavoro per vivere, ma questa virtualità del lavoro non si realizza perchè non esiste un mercato del lavoro aperto che possa impiegarli. Allo stesso modo, ed anche questo è un rapporto del centro e del margine senza una modalità diversa, è una struttura centrale dell’organizzazione della società industriale che costituisce il proletariato come questa sorta di margine. Ed allo stesso modo i giovani della periferia sono costituiti come un margine stigmatizzato perchè la loro situazione fornisce una rappresentazione limite di problemi che attraversano l’insieme della società nella situazione di “ crisi ” attuale. Si potrebbe fare un’analisi ancora più precisa mostrando come questa aggressività, che almeno in parte si rivolge contro i giovani, sia l’effetto di un risentimento collettivo di gruppi sociali che sono lasciati da parte nella dinamica della modernizzazione che si dispiega nel quadro della mondializzazione, come una parte della classe operiaia un tempo integrata nella società industriale. Questi gruppi vivono la loro attuale traiettoria come un declino ed hanno una reazione collettiva di rigetto. Una reazione che potremmo chiamare “ da piccoli bianchi ” – come forse sapete, quest’espressione ha designato in principio una parte della popolazione bianca del Sud degli Stati Uniti, la quale viveva in condizioni assai modeste alla fine della Guerra di Secessione, e si trovava palmo a palmo con i Neri poveri quanto lei, ma che avevano guadagnato la propria indipendenza sociale. Il razzismo anti-nero, nelle forme durevoli e cruente che ha assunto, si ancorava in quel contesto, ma faccio l’ipotesi che anche un meccanismo socio-antropologico abbia giocato un ruolo. Questo risentimento collettivo è proprio di gruppi che vivono un declino sociale, e si rivolge su altri gruppi ad un tempo vicini ma diversi. Non è sui nuovi neri piantatori di cotone, che i piccoli bianchi hanno rivolto il loro disprezzo, ma su altri “piccoli Neri ” la cui condizione non era troppo diversa dalla loro. Il risentimento collettivo si rivolge a coloro con i quali si è messi in concorrenza e che si accusa di prendre il proprio posto, di essere dei parassiti. Mi sembra vi sia insomma un risvolto del razzismo che prescinde dalle situazioni particolari. Questo risentimento collettivo si rivolge oggi, in Francia, sugli immigrati, soprattutto su quelli di origine maghrebina, che si 39 accusano di rubare impieghi ed usufruire di prestazioni sociali che dovrebbero essere riservate agli “ autentici francesi ”, come si suol dire, etc... Così si può comprendere, almeno in parte, ciò che per molti ha costituito una sorpresa, cioè il voto per l’estrema destra alle elezioni presidenziali dell’aprile 2002. Il nucleo centrale dell’ideologia del Fronte Nazionale è una posizione violentemente anti-immigrata in nome della “ preferenza nazionale ”. Perchè, anche se non fa piacere, bisogna riconoscere che Jean-Marie Le Pen è arrivato in testa grazie al voto dei disoccupati, dei lavoratori più precari e di talune categorie operaie - dunque una parte delle persone che un tempo votavano a sinistra. Si può interpretare questo voto come una reazione di gruppi che hanno l’impressione di essere lasciati da parte, e che ufficialmente lo sono, nelle attuali trasformazioni in direzione dell’europeizzazione, della globalizzazione e della modernizzazione. Questa reazione si rivolge su gruppi effettivamente molto vicini ed in concorrenza sul piano del lavoro, fomentando il razzismo, come ho detto, e l’esclusione, con tutte le implicazioni delinquenziali ad essa connesse. Lo Stato di diritto ha il dovere di arginare la delinquenza, ma l’errore in cui si può cadere in una situazione così tesa è quello di confondere la lotta all’insicurezza civile con la lotta contro l’insicurezza sociale, arrivando a credere che lo sradicamento della delinquenza possa risolvere tutti i problemi di insicurezza; problemi come la disoccupazione di massa non si risolvono attraverso l’intervento delle forze armate. Ancorare la questione generale dell’insicurezza su una nuova classe pericolosa vuol dire stigmatizzare un gruppo di capri espiatori i quali, anche se non sono sempre innocenti, non possono comunque essere ritenuti responsabili di tutta la miseria del mondo.. Ma si vede anche il significato politico di tali operazioni. Combattendo energicamente la delinquenza in nome della “ tolleranza zero ” si ostenta che lo Stato svolge il suo dovere di garante dell’ordine pubblico. Ma nello stesso tempo, nell’ordine sociale si difende un’ideologia liberale che indebolisce lo Stato sociale ed alimenta un’insicurezza sociale che a sua volta alimenta l’insicurezza civile. Si tratta dello stesso spirito che animava l’antica lotta al vagabondaggio. I poteri politici dell’epoca si sono energicamente mobilitati, con dei successi d’altronde assai limitati, per sradicare il pericolo rappresentato dai vagabondi. Ma queste misure non toccavano l’ordine sociale, in particolare l’organizzazione corporativista del mercato del lavoro, che alimentava il vagabondaggio. I giovani delle periferie urbane non sono certamente dei vagabondi, né sono paragonabili in tutto ai proletari del diciannovesimo secolo, ma mi pare vi sia nella posizione di questi gruppi e nel tipo di trattamento che è riservato loro una sorta di omologia strutturale che ci chiarisce i rapporti che una società intrattiene con i suoi margini e che mi pare più ricca di una qualifica in termini di “ esclusione ”. In ogni caso, questa è l’ipotesi che volevo sottomettere alla discussione e spero potremo farlo fra poco. Ipotesi 40 che, naturalmente, non ha la pretesa di rendere conto dell’insieme delle questioni che costituiscono oggi la problematica dell’insicurezza. Ecco perchè vorrei, prima di concludere, sottolineare un’altra dimensione che mi sembra importante per rendere conto del paradosso dal quale siamo partiti: che nelle società come le nostre, le quali possono apparire come le società più sicure che mai siano esistite, il senso di insicurezza è onnipresente. Questo paradosso si chiarisce, almeno in parte, se si tiene conto dell’apparizione di un nuovo tipo di rischi che si aggiungono a quelli civili e sociali, i “ nuovi rischi ” . Senza dubbio, non esiste una relazione diretta fra le due serie di fenomeni, ma, a partire dagli anni 1980, si sviluppano delle preoccupazioni nuove, accanto a quelle suscitate dai rischi civili e sociali: quelle suscitate dai rischi industriali, tecnologici, ecologici, naturali. E come un effetto boomerang dei processi di controllo della natura che si sono sviluppati con la modernità – “ rendere l’uomo padrone e possessore della natura ”, diceva Descartes. Ma tale lavoro sulla natura può avere delle contropartite negative sull’uomo e sul suo ambiente. Ulrich Beck parla di “ società del rischio ”, per qualificare la società contemporanea. Egli iscrive il rischio nel cuore dell’esperienza sociale contemporanea: “ La terra è divenuta un luogo spregevole ”, ha scritto, come se la catastrofe fosse il nostro solo orizzonte temporale. Ma credo si debba conservare una distanza critica in rapporto all’inflazione contemporanea del riferimento al rischio. Innanzitutto perchè essa rappresenta un’estensione in rapporto a ciò che si intendeva classicamente per rischio. Nel senso proprio del termine, un rischio è un evento prevedibile, del quale si possono valutare la probabilità di manifestazione e i danni che esso può comportare. I nuovi rischi, invece, non sembrano poter essere controllati né previsti. Pensiamo a Tchernobil, alla mucca pazza, all’effetto serra. Fino a che punto si possono chiamare rischi? Non credo si possa chiamare rischio ogni avvenimento nefasto, ogni minaccia, ogni pericolo. La vita individuale e sociale è fitta di pericoli, non fosse che per la dose di imprevedibilità che inevitabilmente essa comporta. La morte è un rischio? Mi sembra che nessuna società possa prefissarsi come obiettivo ultimo quello di securizzarsi completamente. Ci si può chiedere se parlare con Ulrich Beck di “ società del rischio ” o con Giddens, di “ cultura del rischio ” non comporti, se posso dire, il rischio, di fabbricare pericoli e paure. Vuol dire in ogni caso porre la minaccia al cuore dell’avvenire, ma senza possedere i mezzi per controllarla, contrariamente alla riflessione su alcuni rischi sociali che sono naturalizzabili o ad alcuni rischi sanitari che sono controllabili attraverso delle tecnologie preventive appropriate. 41 Un pensiero consapevole del rischio è, mi pare, un pensiero che fa del rischio un riduttore di incertezza . Si è visto con le politiche sociali e lo si potrebbe verificare attraverso l’esame delle politiche sanitarie. Ma ci si può chiedere se la generalizzazione della nozione di rischio non faccia del rischio un moltiplicatore di insicurezza , più che un riduttore. Al limite, si potrebbe rinunciare a combattere i rischi, perchè non vi sono tecnologie possibili di riduzione dei rischi. Ritroviamo qui una riflessione che avevamo tentato ieri sulle ambiguità di una preoccupazione generalizzata di prevenzione, che pone l’aspirazione alla sicurezza così in alto che si condanna in partenza ad essere disattesa – si può parlare di frustrazione securitaria . Si può anche capire che la sensibilità verso i nuovi rischi alimenti l’insicurezza. Essa si aggiunge alle inquietudini che riguardano i rischi civili e sociali, senza che vi siano relazioni causali fra queste serie. Si tratta piuttosto di una correlazione storica, ma che va in direzione dell’aggravamento del sentimento di insicurezza. Non bisogna confondere il sentimento di insicurezza con l’assenza di protezioni. Tutto avviene come se un rafforzamento della sicurezza potesse anche avere l’effetto di soddisfare una richiesta di sicurezza che si fa sempre più insaziabile proprio perchè in parte è soddisfatta. Degli antenati non molto lontani si sarebbero forse sentiti al sicuro se fossero stati protetti da rischi quali le carestie, le razzie di guerra, le incursioni dei briganti... Con ciò non voglio dire che le moderne forme del sentimento di insicurezza siano da considerare come il capriccio di una popolazione garantita, ma bisogna comprendere la specificità attuale del rapporto dell’uomo con la sicurezza, che rischia di ritorcerglisi contro ponendo al cuore della vita sociale un sentimento di insoddisfazione. Per concludere, suggerirei una distinzione. Bisognerebbe diffidare del confusionismo che alimenta all’infinito il riferimento al rischio e, nello stesso tempo, prendere sul serio la ricerca della sicurezza. Il che sfocia in due proposte: da un lato guardarsi dall’attuale inflazione della nozione di rischio, che lo confonde con pericoli e minacce. La caccia ai rischi può condurre a delle trappole. A cosa serve gridare al rischio senza avere i mezzi per controllarlo? Non dico che non si debbano cercare tali mezzi, ma che al riferimento ai rischi si debba associare una riflessione sui mezzi per prevenirli e combatterli. La realizzazione della sicurezza ci pone dinanzi a delle sfide difficili da affrontare. Stiamo uscendo dal capitalismo industriale, caratterizzato da un’organizzazione collettiva della produzione che aveva permesso l’edificazione di protezioni sociali contro i rischi del lavoro. Il nuovo capitalismo è caratterizzato dall’ipermobilità e dalla crescente individualizzazione che si è presa in esame. Per cui non è possibile conservare tutti i dispositivi di protezione validi per la società salariale: la 42 vera sfida sarebbe affiancare alla mobilità delle protezioni. Mi viene in mente quello che Alain Supiot chiama uno statuto del lavoratore mobile: affiancare dei diritti e delle protezioni che garantiscono la sicurezza sociale non solo allo statuto dell’impiego, giacchè quest’ultimo ha perso molta consistenza, ma alla persona stessa del lavoratore. Diritti che il lavoratore poteva così esercitare in dei periodi di non impiego, o di impiego saltuario, nei momenti di riconversione che saranno sempre più necessari per affrontare positivamente i cambiamenti, etc... Ciò che propongo è più facile a dirsi che a farsi, ma esistono già delle proposte interessanti, ad esempio nell’opera di Supiot Al di là dell’impiego, che è d’altronde un lavoro collettivo effettuato per conto della Commissione europea di Bruxelles. Le proposte propongono numerosi problemi di definizione, attuazione e finanziamento. Si tratta piuttosto di un cantiere in piena attività, che indica la direzione nella quale muoversi per securizzare le traiettorie del lavoro- è questo un punto strategico della lotta all’insicurezza sociale, ma vi sono anche altri cantieri da esplorare, per innestare nuove protezioni sociali nella nuova congiuntura che ha iniziato a delinearsi dalla metà degli anni settanta. Traduzione di Clelia Castellano 43