Facciamo il punto a cura di Enzo Galbiati [email protected] filosofiacapriate.Enzogalbiati Per iniziare Ringraziamenti (AC, GAEAF, tutti i presenti) e presentazione Premessa: Lasciare a casa i problemi e le ansie e i dolori … Ascoltare, domandare e leggere. Per tutti? Per alcuni? Aperto a tutti e comprensibile a tutti a patto che: • Pazienza, molta pazienza, molta molta pazienza; • Capacità di ascoltare, di porre e di porsi le domande; • Voglia di apprendere, curiosità per la conoscenza (scienze umane – filologiche e scienze naturali – esatte). Il metodo: ascolto, dialogo continuo, studio. Libro di testo: Platone: Simposio, Apologia di Socrate, Critone e Fedone, Mondadori Editore, Collana Oscar classici greci e latini (2005). Parmenide (1) Parmenide di Elea (circa seconda metà del VI secolo – prima metà del V secolo), nel proemio della sua opera Sulla natura (un poema scritto in esametri di cui si sono conservati solo 19 frammenti per complessivi 150 versi), fa tracciare per bocca della dea Giustizia le uniche tre vie di ricerca della verità che possono essere pensate: la via della verità assoluta, la via dell’errore ed infine la via dell’opinione plausibile dei fenomeni e del movimento (fr. 1, vv. 28-32). 1. La via della verità: l’essere è, il non essere non è (fr. 2, vv. 1-8; fr. 6, vv. 1-9; fr. 8, vv. 1-2); è la stessa cosa l’essere e il pensiero (fr. 3, vv. 1): “lo stesso è il pensare e ciò a causa del quale è il pensiero, perché senza l’essere nel quale è espresso, non troverai il pensare” (fr. 8, vv. 34-37). Caratteristiche dell’essere: ingenerato e incorruttibile, senza passato né futuro ma solo eterno presente senza inizio e fine (fr. 8, vv. 1-21), immobile ed immutabile nelle catene del limite (limitato= definito = perfetto; riferimento a Pitagora) e della necessità (fr. 8, vv. 26-33), indivisibile, continuo e tutto eguale perché ogni differenza implicherebbe il non essere (fr. 8, vv. 22-25 e 46-49), sferiforme (fr. 8, vv. 42-44) ed uno (fr. 8, v. 6). [segue] Parmenide (2) 2. La via dell’errore: “anche da quella su cui i mortali che nulla sanno / vanno errando, uomini a due teste: infatti, è l’incertezza / che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati, / sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio, / dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa / e non la medesima cosa, e perciò di tutte le cose c’è un cammino che è reversibile” (fr. 6, vv. 1-9; ma anche il fr. 7, vv. 1-6): prestando fede ai sensi sembra che la realtà sia diversa da quella attestata dalla verità: morire, nascere, movimento, quiete, cioè proprio il non essere. Il vero fatale errore dell’uomo è proprio ammettere essere e non essere allo stesso tempo. Il non essere, infatti, per Parmenide non può essere né pensato né detto, e il regno della verità coincide con quello di ciò che esiste. Chi vuole conoscere la verità e cogliere l’essere, quindi, non può percorrere la via della negazione. 3. La via della spiegazione plausibile dei fenomeni / secondo opinione (fr. 1, vv. 30-31 e fr. 8, vv. 60-61): l’errore è concepire la luce e la notte come contrari, mentre in realtà sono inclusi in un essere superiore (fr. 8, vv. 53-54 e soprattutto fr. 9, vv. 1-4 e per via indiretta Teofrasto, A 46). [segue] Parmenide (3) La via della verità è quella nella quale si adopera soltanto l‘ «essere», l’«è», e si esclude rigorosamente il «non essere» e il «non è». Affermare che «il non essere è» è infatti immediatamente contraddittorio e costituisce la prima e principale via dell'errore; ma da evitare è anche la seconda via dell'errore, costituita dalla contestuale affermazione di essere e non essere. Per intendere tutto ciò è necessario capire esattamente il significato di essere e non essere nel poema di Parmenide. L‘«essere» è l‘ «ente» i cui predicati ontologici (ontologia: la dottrina dell’essere e delle sue forme; a volte è usata come sinonimo di metafisica) vengono elencati nel fr. 8. E’ così evidente l’esistenza dell’essere che non si capisce l’esigenza parmenidea di evitare accuratamente il pericolo di negarlo. Nessun Greco a lui contemporaneo o precedente lo aveva fatto (e tuttavia lo farà in seguito proprio Gorgia). L’insistenza di Parmenide sul valore assoluto di questo «essere» si chiarisce però quando si tenga presente la determinazione che ne dà lo stesso fr. 8, designando ai vv. 35-36 il «νοεῖν» (=noein» = «pensare») come inseparabile «da quell'essere nel quale è espresso»: [segue] Parmenide (4) l’essere di Parmenide non è altro, nel suo motivo originario, che l’ «essere» astraibile come forma comune di tutti gli "è" costituenti le singole affermazioni empiriche. Detto altrimenti: il pensiero di Parmenide parte dal rilievo della molteplicità delle singole designazioni delle cose rispetto all'unità dell'essere con cui esse si predicano e s'affermano. Ma le singole cose non sono soltanto particolari di fronte all'unità dell'essere: sono anche contraddittorie, perché ciascuna di esse «è» in un modo in quanto «non è» in un altro (per esempio: una donna è alta e non bassa, nello stesso tempo), quindi mescola insieme contraddittoriamente l'essere e il non essere. Vero in senso proprio, e quindi reale e quindi pensabile, è soltanto «ciò che è», l‘ «ente», l’ «essere», senz’altra determinazione. Ecco compresa la genesi dell’essere parmenideo e insieme quella delle "vie dell'errore" come metodi in cui, pensata la verità nelle sue determinazioni empiriche, si giunge alla contraddittoria asserzione del «non-essere». [segue] Parmenide (5) Compiuta in forma estrema e universale, l'asserzione del «non essere» costituisce la prima via dell'errore. Affiancata all'asserzione dell'essere, essa dà luogo alla seconda e più comune via dell'errore, percorsa da ogni "opinione" umana che asserisce ed afferma il particolare e quindi somma insieme essere e non essere, e tipicamente rappresentata da Eraclito (se contro questo suo grande contemporaneo, è particolarmente diretta da Parmenide la seconda parte del fr. 6, vv. 6-9). L’ «ente», di cui Parmenide scopre la natura in base a un'analisi della natura logico-verbale del pensiero, non è per lui un «essere» ideale o logico che perciò si distingue dall‘ «essere» reale, ma è anzi, in virtù dell'originaria indistinzione delle sfere ontologica, logica e linguistica propria della mentalità greca arcaica, la stessa realtà nella sua più vera e solida forma. E così l’ «essere» viene definito nel fr. 8 come non nato né perituro, non appartenente al passato e al futuro, ma solo all'eterno presente (giacché, se se ne afferma l'è, deve negarsene il fu e il sarà); [segue] Parmenide (6) non interiormente diverso o diviso, e perciò tutto compatto e pieno; non mobile; e, infine, neppure infinito, perché l'infinità è imperfezione, e quindi definito nella più perfetta forma geometrica, quella della sfera (attributo, quest'ultimo, tipico per la singolare tendenza del pensiero greco verso il finito, ma insieme problematico per il carattere di assolutezza dell'ente parmenideo, che doveva escludere da sé ogni non essere, cioè ogni negazione e determinazione). Tutti questi attributi sono dedotti da Parmenide in base a quella che egli chiama (fr. 8, vv. 15-16) «distinzione dell'è dal non è»: l'esclusione, cioè, di ogni predicazione di "non essere", che venga a contraddire la purezza della predicazione dell‘ «essere». Che i predicati che risultano da tale analisi logico-verbale abbiano poi per Parmenide immediato valore ontologico, non deve sorprendere quando si pensi, come già detto, al carattere primitivo di questo pensiero non ancora giunto alla distinzione dell'ontologia dalla logicagnoseologia (gnoseologia: la teoria dei metodi di conoscenza o in alcuni casi, come questo di Parmenide, la teoria della conoscenza stessa) e quindi portato a considerare il vero come reale e il reale come vero. [segue] Parmenide (7) Questo è proprio il solo significato legittimo della cosiddetta identità parmenidea di essere e pensiero: identità che non esiste nel senso di un'adeguazione e dissoluzione del pensiero nell'essere (né avrebbe potuto, perché per tale riflessa identificazione sarebbe stata necessaria una precedente distinzione), bensì esiste nel senso della primitiva e irriflessa unità, onde ciò che si trova "vero" nel pensiero e nella parola viene sentito come senz'altro "reale". La stessa indistinzione tra sfera logico-verbale e sfera ontologica si ripete a proposito di quel mondo «secondo opinione» in cui l'uomo incorre quando, obbedendo alla conoscenza sensibile, crede alle forme particolari delle cose e deve quindi, per spiegarle, mescolare il non-essere all'essere. Eppure anche l'errore logico-verbale «secondo opinione» assume, nella sua possibilità e nella sua attuazione, un aspetto di realtà: altrimenti non si giustificherebbero quegli aspetti d'indiscussa oggettività, che pur presenta questa parmenidea dottrina dell'empirico, e nel cui rilievo è il motivo di verità delle altre interpretazioni. [segue] Parmenide (8) Anche la teoria dell'errore viene quindi ad essere in un certo modo «reale». E le molteplici forme del mondo dell’opinione sono per Parmenide gli stessi «nomi» (fr. 8, vv. 38 segg. e fr. 19) che sommandosi, come predicati particolari, alla pura asserzione dell‘ «è» producono la determinazione, e quindi la contraddittoria sintesi dell'essere e del non essere. In questa concreta determinazione, essere e non essere assumono l'aspetto di elementi fisici (luce e tenebre, o caldo e freddo, ecc.), la cui sintesi dà origine ai singoli aspetti sensibili del reale. Così anche l'interpretazione della dottrina dell'opinione conferma la genesi logico-verbale del pensiero parmenideo, e insieme l'originaria e primitiva connessione onde quel carattere logicoverbale è in esso ancora connaturato col carattere propriamente reale di ciò che è. Gorgia (1) In netta polemica con Parmenide e Zenone, Gorgia, nella sua opera Sul non essere, elabora la sua celebre tesi tripartita: 1. nulla esiste; 2. se anche esistesse, non sarebbe afferrabile con il pensiero; 3. se anche fosse afferrabile con il pensiero, non sarebbe esprimibile con le parole. Con la prima tesi, Gorgia intende smontare il concetto di “essere” di Parmenide, che è passibile di determinazioni contraddittorie (per Parmenide, infatti, esso è finito, mentre Melisso lo concepisce infinito). Con la seconda tesi, che si può accettare come vera solo una volta ammessa la falsità della prima, ritroviamo le posizioni relativistiche di Protagora e la mancata identità di essere e pensiero, cui fa da appendice la sfiducia nelle possibilità del pensiero umano di cogliere la verità (Gorgia fa notare come l’uomo può pensare cose che non esistono, come i carri che volano). Con la terza tesi, che è vera se si ritengono false la prima e la seconda, Gorgia sottolinea la differenza qualitativa tra linguaggio e realtà, tra le parole e le cose. Ne deriva una concezione dell’uomo rinchiuso nel suo universo mentale e linguistico, che sarà oggetto di un confronto serrato nell’ambito della riflessione filosofica dei secoli successivi. [segue] Gorgia (2) Gorgia (3) Gorgia (4) Platone: Il Fedone (1) Il Fedone (in greco: Φαίδων, sottotitolo: Sull'anima) è uno dei più celebri dialoghi di Platone che lo ha composto probabilmente fra il 386 e il 385 a.C. Argomento centrale del dialogo è l'immortalità dell'anima. I personaggi principali del dialogo diretto sono due: Fedone di Elide, allievo di Socrate e voce narrante del dialogo; fondò ad Elide una scuola socratica che, alla sua dissoluzione, fu trasferita a Eretria. Ci racconta di lui Diogene Laerzio: «Fedone di Elide, degli Eupatridi, fu catturato insieme con la caduta della sua patria e fu costretto a stare in una casa di malaffare (o in un bordello). Ma schiudendo la porta riuscì a prendere contatto con Socrate e alla fine, per incitamento di Socrate, Alcibiade, Critone e i loro amici lo riscattarono. Da allora divenne libero e si dedicava alla filosofia». In realtà, secondo le notizie pervenutaci attraverso altre fonti, Fedone venne fatto prigioniero durante la battaglia tra Elide e Sparta e poi acquistato da un ateniese mercante di schiavi. Servendo il pasto nella dimora del suo nuovo padrone, rispose al posto di questi a una domanda di un illustre invitato di nome Socrate. Stupito per lo spirito e per la bellezza di Fedone, Socrate acquistò il giovane dal suo amico e ne fece un suo discepolo; [segue] Platone: Il Fedone (2) Echecrate di Fliunte, filosofo pitagorico e interlocutore di Fedone nel dialogo diretto. I personaggi principali del dialogo narrato sono: Socrate, filosofo e maestro di Platone; Simmia di Tebe, filosofo allievo, in un primo momento, del filosofo pitagorico Filolao, in seguito "convertitosi" alla dottrina di Socrate; Cebète di Tebe, altro ex-allievo di Filolao, amico di Simmia; Critone, facoltoso cittadino ateniese, amico e allievo di Socrate nonché protagonista del dialogo platonico omonimo. Molti altri personaggi erano presenti al momento della morte di Socrate. Platone è invece stranamente assente, forse malato (59 b): in realtà, nessun'altra fonte antica parla per quell'epoca di una malattia del filosofo tanto grave da impedirgli di assistere il maestro nelle ultime ore. Con la sua assenza Platone forse vuole affermare che il dialogo non sarà una cronaca puntuale della morte di Socrate, quanto piuttosto una sua ricostruzione letteraria in linea con lo spirito dialogico del maestro. L’espediente del dialogo narrato consente la descrizione di un’atmosfera che è del tutto particolare e di fondamentale importanza per gli eventi ed i ragionamenti che vi si svolgono in un modo che nessun dialogo diretto renderebbe possibile. [segue] Platone: Il Fedone (3) In collegamento con gli eventi descritti con gli stati psicologici degli astanti e degli interlocutori di Socrate, vanno visti i vari argomenti che vengono presentati e discussi e se ne potrà capire la natura ed il significato, rifiutando un’analisi di tipo esclusivamente logico che non tenga conto di componenti extralogiche importanti: in particolare, del tipo di interlocutore e della reazione che l’argomento suscita in lui. Forse nessun dialogo come il Fedone offre tanto materiale di riflessione in proposito. La struttura generale dell’opera appare legata dal principio alla fine ad una serie di motivi che vengono ripresi via via con successivi approfondimenti e che ascendono dal livello di dati esterni, apparentemente occasionali e quasi trascurabili, ad elementi dotati di intrinseca necessità che conferiscono significato anche a quanto precede. Occorre infine ricordare che l’evento narrato – cioè la morte di Socrate - è della massima importanza; esso rappresenta in un certo senso per Platone il farsi stesso della Filosofia: il punto in cui la Filosofia (come «amore della sapienza», come «aspirazione e desiderio della sapienza»), tocca il suo temine (la conquista della sapienza), anche se essa risulta, come totalità, umanamente irraggiungibile. [segue] Platone: Il Fedone (4) La vita e morte di Socrate, nella descrizione platonica, appaiono da un lato come espressione del giusto rapporto tra mondo sensibile e mondo intelligibile, dall’altro come suprema conferma che la verità, condizione della ricerca filosofica, esiste realmente e che la vita dell’uomo assume significato soltanto nella misura in cui egli la cerca e crede in essa. La vita umana assume significato soltanto attraverso la conoscenza: l’ascetismo che Socrate propone, la conquista della massima purezza dell’anima, non sono una forma di macerazione per una colpa, un’espiazione religiosa e mistica ante litteram, ma la condizione necessaria per l’esercizio non offuscato della ragione; l’aldilà promesso è la vita dell’Essere vero, la piena attuazione della conoscenza. La vita come «esercizio di morte» è dunque da intendersi come esercizio di conoscenza, come ricerca del sapere, come filosofia. Ed il fatto che si attui appieno solo nell’aldilà vale ad indicare che la filosofia avrà fine solo con la fine della storia dell’uomo. [segue] Platone: Il Fedone (5) Cornice del dialogo (57 a – 58 a) Echecrate chiede a Fedone di narrare a lui e ai suoi allievi le ultime ore di Socrate, poiché le notizie giunte da Atene al riguardo sono poche e vaghe. Fedone, presente al momento dell'esecuzione, accetta di buon grado, e inizia a narrare ciò che accadde quel giorno, riportando i discorsi intrattenuti da Socrate con i due filosofi tebani Simmia e Cebète. Il dialogo diretto (quello fra Fedone ed Echecrate) si svolge, per l'appunto, a Fliunte. Dopo un mese di prigionia, è infine giunto per Socrate il giorno dell'esecuzione, momento per lungo tempo rimandato, poiché dovevano far ritorno le navi che ogni anno venivano mandate a Delo in onore di Apollo, per ringraziarlo di aver aiutato Teseo a liberare Atene dal pericolo del Minotauro (58 b). Appresa la notizia dal messo degli Undici (collegio di magistrati ateniesi preposti alle prigioni, scelti a sorte uno per ciascuna delle 10 tribù, con in più un segretario; erano assistiti, specialmente nell’esecuzione della condanna, da aiutanti), gli allievi si riuniscono attorno al maestro per passare insieme a lui le ultime ore. In carcere Socrate è tranquillo e, dietro l’invito di Apollo apparsogli in sogno, ha iniziato a comporre poesie, mettendo in musica i propri insegnamenti (60 d - 61 c). In questo senso, Platone ci informa che il Fedone può essere inteso come il «canto del cigno» di Socrate (85 a). [segue] Platone: Il Fedone (6) Socrate inizia a discutere della propria condizione di condannato a morte con quelli che saranno i suoi interlocutori nel dialogo: i tebani Simmia e Cebète, già allievi del pitagorico Filolao (61 d). Non è casuale il richiamo a Pitagora la cui dottrina poneva grande attenzione ai concetti di anima, armonia, metempsicosi e purificazione. Socrate afferma infatti che la sua condizione non è affatto da compiangere, poiché qualsiasi filosofo, in quanto tale, desidera morire; ciò non significa, però, che la morte debba essere ricercata o anticipata attraverso il suicidio che è un atto considerato empio, cioè contro il volere degli Dei. L'apparente contraddizione che si viene a creare si scioglie nel momento in cui Socrate prende in esame il fatto che, come affermano certi Misteri (presso gli antichi greci e romani, erano chiamati così i riti di iniziazione e culti segreti quali i misteri eleusini, dionisiaci, orfici, ecc.; i misteri si configuravano come particolari sistemi religiosi segreti, differenziati dalla religione pubblica della collettività e circoscritti a una cerchia di iniziati), il corpo è come un carcere, da cui non possiamo liberarci di nostra iniziativa: gli uomini sono infatti proprietà degli Dei, e sarebbe un gesto oltremodo blasfemo togliersi la vita senza che essi lo abbiano ordinato apertamente (62 a-c). [segue] Platone: Il Fedone (7) Cebète tuttavia obietta a Socrate che, se gli uomini si trovano veramente nelle mani di padroni così buoni e savi come sono gli Dei, non vi sarebbe alcun motivo di desiderare la morte. A tali parole, Socrate risponde enunciando quello che sarà il fine del dialogo: la vita del filosofo è preparazione alla morte (63 b - 69 e). In altre parole: Socrate tenterà di dimostrare che nulla di male può accadere all'uomo buono né in vita né in morte, e che anzi, anche dopo la morte l'anima continuerà ad esistere (63 b-c). Continuando nella risoluzione del precedente paradosso, la morte è intesa come separazione dell'anima dal corpo. Il filosofo non si cura del corpo e dei suoi piaceri, ma ambisce al perfetto sapere (il giusto in sé), che appartiene solo all'anima. La morte, dunque, in quanto liberazione dal corpo, è una purificazione per l'anima. La vita del filosofo sarà allora un continuo esercizio di preparazione alla morte, purificando sempre più l’anima (64 a-68 b). In questo senso solo i filosofi sono coraggiosi e temperanti, mentre gli altri uomini, paradossalmente, lo sono per paura e intemperanza: la virtù infatti è vera conoscenza e la purificazione da ogni altra passione, il che è prerogativa del filosofo, non dell'uomo comune (68 b-69 e). Con questa prima dimostrazione generale si conclude quella che è la prima parte del dialogo. [segue] Platone: Il Fedone (8) La prima dimostrazione è portata avanti con molta attenzione dal filosofo, così da persuadere completamente i suoi due interlocutori. Il discorso di Socrate sulla morte come distacco dell'anima dal corpo viene accettato di buon grado dai due tebani. Tuttavia, ciò che ancora non li convince è l'effettiva immortalità dell'anima una volta uscita dal corpo. Come afferma infatti Cebète, gli uomini «temono che, nell'atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, subito come soffio o fumo si dissipi e voli via». Inoltre, la persistenza dell'anima dopo la morte non basta per affermare che essa sia immortale: essa deve conservare anche «potere e intelligenza», cioè mantenere la propria coscienza individuale (70 b). Socrate risponde a queste obiezioni con tre diversi argomenti: Prima prova dell’immortalità dell’anima: argomento dei contrari (70 c-72 e). Anzitutto, Socrate mostra come ogni cosa tragga origine dal proprio contrario. Dal forte si genera il debole, dal grande il piccolo, dal veloce il lento, e, perché ciò avvenga, tra i due contrari vi deve essere un processo che permetta di passare dall'uno all'altro (per esempio: il crescere e il decrescere, il raffreddarsi e il riscaldarsi…). La stessa cosa accade per il vivere e il morire: dal vivo si genera il morto, e allo stesso modo, con il processo contrario del rivivere, dal morto si genera il vivo. E se è possibile rivivere, è necessario che le anime non scompaiano, ma continuino ad esistere anche fuori dal corpo. D'altra parte, se si esclude che dal morto nasca il vivo, si dovrebbe ammettere che una legge di natura («i contrari si generano dai contrari») non abbia valore universale, il che è impossibile. [segue] Platone: Il Fedone (9) Seconda prova dell’immortalità reminiscenza (72 e-78 b). dell’anima: argomento della Cebète richiama allora la dottrina della reminiscenza socratica, secondo cui ogni nostro apprendimento è in realtà un ricordo di qualcosa conosciuto in precedenza, prima della nostra nascita. Ma, obietta Simmia, come può Socrate dimostrarlo, quali prove dà di questa teoria? Il filosofo richiama anzitutto l'attenzione su alcune basi condivise: se qualcuno ricorda qualcosa deve averla vista in precedenza; inoltre il ricordo di una cosa può smuoverne un altro (un oggetto, per esempio, ricorda l'innamorato) e tale associazione può avvenire anche di fronte alle semplici immagini dipinte di tali oggetti. Ora, noi diciamo che queste associazioni sono possibili in base alla somiglianza o alla dissomiglianza tra gli oggetti: ma il concetto di "simile", ovvero l'uguale in sé, da dove proviene? Poiché noi infatti lo conosciamo, è necessario che da qualche parte lo abbiamo visto e conosciuto, e siccome in questa vita abbiamo esperienza di oggetti uguali, ma non dell'uguale in sé, è necessario che sia successo in una vita precedente. A questo punto, Socrate può ricollegarsi al precedente argomento e riaffermare che le anime sono immortali e posseggono conoscenza. [segue] Platone: Il Fedone (10) Terza prova dell’immortalità dell’anima: argomento dei composti (78 b - 80 b), ovvero ciò che è composto può decomporsi. Nonostante tutto, Simmia e Cebète non sono ancora persuasi dalle parole di Socrate, e riportano la credenza di molte persone, secondo la quale l'anima, dopo la morte del corpo, si dissolve nell'aria. Socrate però allontana subito tali timori: solo ciò che composto può decomporsi e, dissolvendosi nelle sue parti, perire. L'anima invece è simile alle idee le quali - e qui Socrate fornisce l'unica definizione delle idee presente nell'intero corpus dell’opera platonica - sono quelle cose che «permangono sempre costanti e invariabili», le uniche che si possano pertanto dire «non composte». Essendo dunque congenere alle idee, e quindi di natura elementare e invisibile, l'anima non può modificarsi né tanto meno perire. Dimostrazione di questa superiorità dell'anima sul corpo è anche il fatto che è la prima a governare sul secondo, e non viceversa. Dopo queste tre prime dimostrazioni Socrate passa a descrivere il destino che le anime avranno dopo la morte (81 d e sgg.). La seconda parte del dialogo termina poi con un ulteriore discorso di Socrate circa la virtù dell'anima e l'importanza della filosofia. [segue] Platone: Il Fedone (11) La dottrina dell'anima-armonia La terza parte del dialogo inizia con un momento di stallo. Socrate e gli allievi rimangono in silenzio a riflettere su quanto appena detto, mentre Simmia e Cebète restano discosti a parlare tra di loro. Interrogati da Socrate, i due tebani affermano di non essere ancora del tutto persuasi e di avere altri dubbi circa l'effettiva immortalità delle anime. Per tale motivo, propongono a Socrate altre due obiezioni. Simmia afferma che il ragionamento proposto in precedenza si adatta anche all'idea che l'anima sia simile a un accordo musicale: come l'accordo è prodotto da uno strumento e non gli sopravvive una volta che lo strumento è rotto, allo stesso modo l'anima potrebbe essere un prodotto del corpo e dissolversi con esso. Cebète invece propone un'analogia con un tessitore di mantelli il quale, dopo aver fabbricato e usurato vari mantelli nel corso della propria vita, alla fine muore prima di aver consumato anche l'ultimo: non può essere allora che anche l'anima, dopo aver vissuto varie vite, alla fine si dissolva e muoia come il tessitore? Socrate accetta queste due ultime obiezioni, ribadendo che dovrà rispondervi subito, poiché in futuro non ne avrà più l'opportunità. [segue] Platone: Il Fedone (12) Il timore di Socrate, il vero lutto da scongiurare, non è infatti la propria morte, bensì la «morte del logos»: come afferma parlando con il giovane Fedone accarezzandogli i capelli, bisogna impegnarsi con tutte le forze per giungere, attraverso la maieutica, a un risultato positivo per la propria indagine. In caso contrario, il rischio è quello che il ragionamento muoia e, di conseguenza, si cada nella misologia - ovvero si inizi a diffidare del logos come strumento di indagine (89 b-c). Socrate si sofferma quindi su quanto detto da Simmia. Il filosofo tebano ha riproposto una teoria di origine pitagorica, la dottrina dell’anima-armonia: poiché infatti il corpo è l'unione ben temperata di caldo e freddo, umido e secco, e via dicendo, è possibile pensare che l'anima sia l'accordo che armonizza questi elementi - e che quindi, come qualsiasi armonia, essa scompaia con la scomparsa del corpo (85 e - 86 d). Dopo aver richiamato l'attenzione su alcuni punti condivisi delle precedenti dimostrazioni, Socrate obbietta a Simmia che l'anima non può essere paragonata ad un accordo poiché, mentre l'anima governa il corpo e ne regola le passioni, l'armonia di uno strumento non può governare lo strumento stesso; al contrario, subisce delle modificazioni a seconda di quelle cui va incontro lo strumento (92 e – 93 a). [segue] Platone: Il Fedone (13) Simmia, accettando allora la dottrina della reminiscenza, deve rifiutare quella dell’anima-armonia (94 b - e). Inoltre, se tutte le anime fossero armonie, dovrebbero essere tutte uguali - mentre sono diverse - e dovrebbero sottostare ai desideri dei corpi, in quanto loro prodotti - mentre si è detto che avviene l'esatto contrario (93 a – 95 a). La «seconda navigazione» e la ricerca delle cause prime (95 a – 99 d) Persuaso Simmia, Socrate deve ora rispondere a Cebète la cui obiezione, tutt'altro che ingenua, richiede di cercare «la causa della generazione e della corruzione delle cose» (96 a). Pertanto, prima di rispondervi, il filosofo decide di richiamare l'attenzione sul metodo che si deve adoperare nelle indagini filosofiche e che in realtà costituisce un’autobiografia intellettuale di Socrate. Socrate racconta di essersi dedicato in gioventù allo studio della natura e di aver indagato le cause di tutte le cose senza però riuscire a rintracciare una causa prima. Sconfortato da risultati così deludenti, che per di più lo avevano confuso su quanto già sapeva, Socrate racconta di aver pensato di abbandonare quel genere di studi, finché un giorno non sentì leggere «da un tale» (forse da Archelao, suo maestro) alcuni passi del libro di Anassagora. [segue] Platone: Il Fedone (14) Nel libro di Anassagora veniva addotta come causa di tutte le cose una mente ordinatrice (νοῦς = nous). Entusiasta, il giovane Socrate si era affrettato a leggere l'opera di Anassagora, ma la delusione fu grande quando si accorse che il filosofo riduceva tutto a cause materiali, come l'aria, l'etere, l'acqua (98 c). Secondo simili tesi, commenta Socrate, sarebbe come cercare di spiegare la sua presenza in carcere adducendo a cause i suoi nervi e la conformazione dei suoi muscoli, invece che la sua scelta di accettare la decisione del tribunale. Fu così che, non trovando né maestri né soluzioni, Socrate decise di mutare «modo di navigazione», ricorrendo qui alla nota metafora della «seconda navigazione» (99 c – 101 e). Non vi è tra gli studiosi un'interpretazione condivisa di questa metafora, ma sembra comunque chiaro che Socrate abbia deciso di abbandonare lo studio degli enti (gli oggetti sensibili) per dedicarsi a quello delle cause prime, ben più difficoltoso. Come appare infatti dalla metafora dell'acqua (99 d 5-6), non è possibile guardare direttamente le cose senza finire accecati: è dunque necessario ricorrere ad un filtro, ovvero ai discorsi (λόγοι = logoi). Rivolgendosi ai λόγοι è però facile perdersi. [segue] Platone: Il Fedone (15) Per porre rimedio a questo pericolo, afferma Socrate, è necessario procedere con cautela: partendo da una regola generale, riconosciuta ben solida, se ne trarranno le conseguenze, le quali andranno messe in relazione con l'ipotesi di partenza, così da valutare se sono d'accordo oppure no, e quindi se sono accettabili o meno. Nel caso, poi, si dovesse dar ragione dell'ipotesi di partenza, bisognerà procedere allo stesso modo, ponendo via via altre ipotesi di valore sempre più universale, fino a raggiungere l'universalità massima (101 c - e). In questo modo è possibile scoprire le cause prime (cioè le cose in sé, le idee, le forme) e quindi, per esempio, affermare che, se di due uomini uno è più alto dell'altro, il primo supera il secondo non tanto e non solo per la testa, ma perché partecipano dell'idea della grandezza in sé che consente di fare tale paragone. L'ultimo argomento sull’immortalità dell’anima (100 a – 106 e): l’anima è immortale ed indistruttibile. Fatte queste premesse, Socrate può ora occuparsi dell'obiezione di Cebète. Nel precedente ragionamento si è detto che le cause prime sono le idee, di cui partecipano gli oggetti sensibili (100 a). [segue] Platone: Il Fedone (16) Ora, le realtà in sé hanno la caratteristica di non accettare in sé il proprio contrario - senza con ciò negare la legge secondo cui il contrario nasce dal contrario, poiché se il piccolo nasce dal grande, non per questo partecipa dell'idea del grande. Anche tra le cose, accade lo stesso: alcuni oggetti partecipano di uno solo dei contrari (per esempio, la neve del freddo, il due del pari) e quando ad essi si avvicina qualcosa che partecipa dell'idea contraria, essi o periscono o vanno via. Per esempio, la neve, che per essenza è fredda, se avvicinata al caldo si scioglie, e lo stesso i numeri pari, se sommati a quelli dispari diventano dispari (103 c – 105 b). Questo ragionamento viene applicato all'obiezione in campo: anche l'anima infatti partecipa essenzialmente di un'idea, quella della vita, e per questo motivo essa non potrà morire, poiché altrimenti l'idea della vita non sarebbe più vita; perciò, quando l'anima entra in contatto con la morte, non potendo accogliere su se stessa tale idea, essa se ne andrà via salva e incorrotta (106 e). Socrate ha così dimostrato una volta per tutte che l'anima è per essenza immortale e incorruttibile. A Simmia e Cebète non resta che concordare con lui che bisogna prendersi cura della propria anima e mantenerla sana attraverso l'esercizio della virtù. [segue] Platone: Il Fedone (17) Il mito escatologico conclusivo (107 c – 114 c) Ma Cebète, nonostante non possa confutare gli argomenti di Socrate, non riesce ancora ad essere completamente persuaso. Socrate allora racconta, come conclusione del dialogo, un mito. Spiegazione: μῦϑος = parola, discorso, racconto, favola, leggenda: narrazione fantastica tramandata oralmente o in forma scritta, con valore spesso religioso e comunque simbolico, di gesta compiute da figure divine o da antenati - esseri mitici - che per un popolo, una cultura o una civiltà costituisce una spiegazione sia di fenomeni naturali sia dell’esperienza trascendentale, il fondamento del sistema sociale o la giustificazione del significato sacrale che si attribuisce a fatti o a personaggi storici; con lo stesso termine si intende anche ciascuno dei temi della narrazione mitica in quanto trattati ed eventualmente rielaborati in opere letterarie o filosofiche (per Platone, rappresentazione verosimile, in forma di allegoria, di realtà inattingibili da parte della ragione): i m. della genesi del mondo e dell’uomo; il crearsi, il diffondersi di un m.; i m. greci, romani, orientali; il m. di Prometeo, di Teseo e Arianna; il m. della spedizione degli Argonauti può essere interpretato come allegoria delle antiche navigazioni; il m. della reincarnazione in Platone. [segue] Platone: Il Fedone (18) Socrate conclude il Fedone raccontando un mito escatologico (escatologia = dottrina che riguarda i destini ultimi dell’umanità e del singolo; è una parte delle credenze coessenziale all’idea stessa della religione sia tra quelle cosiddette «primitive» sia presso le religioni «superiori»), che ha la funzione di descrivere quello che - ragionevolmente - dovrebbe essere il destino delle anime dopo la morte. La Terra è una sfera posta al centro dell'universo, ma quella che noi uomini conosciamo e abitiamo non è che una sua parte. Essa è infatti come una grotta sovrastata dall'aria, di cui noi abitiamo la parte interna - situazione paragonabile a quella degli organismi marini, i quali, vivendo sott'acqua, pensano che il limite del mondo sia il cielo. Inoltre sulla terra, a sua volta, esistono altre cavità e altre voragini, la principale delle quali è quella che Omero e i poeti chiamano Tartaro, in cui confluiscono tutte le acque dei fiumi e dei mari e da cui poi escono di nuovo. In questo luogo, inoltre, vi sono vari fiumi che non mescolano mai le proprie acque, tra i quali i quattro principali sono: l'Oceano, l'Acheronte (che, attraversando luoghi deserti, alla fine giunge all'Acherusiade, dove sono convogliate le anime dei morti prima della loro palingenesi, ovvero il processo di progressiva purificazione e liberazione dell’anima attraverso successive incarnazioni), il Piriflegetonte (in cui scorrono i lapilli e la lava che poi eruttano dai vulcani) e lo Stige (che nasce dalla palude Stigia). [segue] Platone: Il Fedone (19) Per quanto riguarda il destino delle anime nell'Oltretomba, esse dovranno dapprima essere sottoposte a giudizio, in modo da distinguere quelle buone da quelle cattive: le buone ricevono un premio, le cattive vengono relegate per sempre nel Tartaro - o in altro luogo, secondo la colpa -, mentre quelle la cui vita non è stata né buona né cattiva vengono raccolte nella palude dell'Acherusia, dove dovranno purificarsi in vista dei premi futuri. La morte di Socrate (115 b – 118) Dopo tanti discorsi, viene però il momento per Socrate di abbandonare questa vita. La scena descritta da Platone, tuttavia, non è tragica: l'intero dialogo ha infatti dimostrato che all'uomo buono, che ha esercitato la filosofia per tutta la vita, non può succedere nulla di male né in vita né in punto di morte. Si viene così delineando l'immagine di Socrate come anti-eroe tragico, e il Fedone risulta in questo modo l'anti-tragedia per eccellenza. Socrate, con la propria morte, dimostra nella pratica ciò che era andato spiegando durante la propria vita: non può succedere che il saggio soffra senza colpa a causa del proprio destino, ma anzi, gli Dèi non gli imputeranno dolore e sofferenza. [segue] Platone: Il Fedone (20) Questo è il più puro insegnamento che il logos socratico ci ha lasciato, la certezza, secondo ragione, che chi vive una vita morigerata, dedita alla filosofia e alla cura della propria anima, non deve temere alcun male. Giunta l'ora, Socrate abbandona i propri allievi per congedarsi dai parenti, quindi si lava e, date le ultime raccomandazioni ai suoi cari, ribadisce a Critone di non preoccuparsi per la propria sepoltura, poiché la sua anima verrà liberata dal carcere in cui è stata rinchiusa per tanto tempo. Celeberrimo è il finale, dove Socrate, morente per avere ingerito un pharmakon (secondo una discussa tradizione la cicuta) e circondato dai suoi allievi piangenti, chiede al suo fidato amico Critone di ricordarsi di offrire un gallo ad Asclepio (Dio della medicina), in segno di ringraziamento per la liberazione dell’anima dal corpo. Due parole sul programma del 2015. Una parola sul futuro. Siete stati proprio bravi!!