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PRIMO PIANO
Giovedì 6 Settembre 2012
Dietro la difesa del segretario e l’attacco a Renzi, in realtà c’è chi difende il proprio potere
Tutti per Bersani, tutti per sé
Ecco come cambiano le strategie nel Pd in vista delle primarie
DI
ANTONIO CALITRI
D
ifensori d’ufficio troppo
interessati ad evitare a
Pier Luigi Bersani il
confronto con Matteo
Renzi. Scendono, invece, in
campo per la prima volta uniti
come non era mai accaduto dalla
fondazione del Pd, soltanto per
tutelare la propria quota di potere. Appena Renzi ha fatto sapere
che salirà sul camper delle primarie, a partire dal prossimo 13
settembre, nel Pd è scattata la
difesa a oltranza del segretario.
Difesa per la verità non richiesta. E più il sindaco di Firenze
attacca i «dinosauri» incollati
alla poltrona del Parlamento, più
questi si trasformano in scudi
umani del segretario. Insomma,
per la prima volta si è scatenato
il fuoco unito contro lo sfidante.
Massimo D’Alema lo ha subito
bollato come «inadatto» a governare. Franco Marini ha bocciato le primarie sgangherate e ha
chiesto regole nuove. Fuori dal
Pd, anche Nichi Vendola si è
schierato in difesa degli equilibri
e contro il nuovo, denunciando
«una campagna di santificazione su grandi giornali e da parte
di alcune grandi lobby politicoeditoriali a favore di Renzi».
Di fatto, seppure non può dirlo
pubblicamente, il primo a non
lotta al sindaco, il famoso patto
che prevede in caso di vittoria
per Veltroni la presidenza della
Camera, per il presidente del
Copasir il ministero degli esteri, per Franceschini la segreteria
del partito e così via, ieri Bersani
ha potuto smentire la cosa dicendo che «non ci sono in corso
né patti grandi,
né patti medi,
né patti piccoli.
Io lavoro per un
partito unito,
rinnovato, contendibile e senza padroni». E
così facendo ha
negato pubblicamente quelle
poltrone a chi ci
aveva già messo
gli occhi sopra e
se le stava intestando. Ma già
Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi
qualche giorno
zareno, le vorrebbe fare anche
fa un bersaniano come Matse si dovesse andare al voto con
teo Orfini aveva chiesto che
il proporzionale. Non facendole
«non siano nominati ministri
o facendosi aiutare dai capicoresponenti Pd che abbiano già
rente, Bersani continuerebbe a
avuto esperienze di governo».
dover rispettare le quote e di
Insomma, più uniti al fianco di
fatto avere le mani legate. Così
Bersani, quelli del Pd sembra
ieri, proprio Renzi gli ha fatto il
no uniti nel difendere il proprio
primo piacere in questa strana
status quo. Che proprio Bersani,
partita. Grazie ai suoi attacchi
grazie a Renzi, vorrebbe smansulla spartizione sottobanco già
tellare.
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decisa in cambio dell’unità nella
volere essere difeso è proprio
Bersani che le primarie le vorrebbe fare per davvero e senza
aiuti da parte di vari D’Alema,
Bindi, battere Renzi e rinnovare
il partito e l’eventuale squadra
di governo. Ci terrebbe così tanto il segretario a fare le primarie
che, come trapelava ieri dal Na-
IL CORSIVO
Il peccato di Renzi,
l’aria da bravo ragazzo
A Matteo Renzi la nomenklatura democratica può perdonare tutto, anche gli elettori (mica pochi) che preferiscono lui a
Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi e Massimo D’Alema. Può
perdonargli persino la giovane età (un quarantenne, per loro,
è una specie di pargoletto, al quale invidiare la merendina, la
paletta, il secchiello, e le coccole di mamma e papà). Ma non gli
potrà mai perdonare quell’aria da bravo ragazzo (il sindaco di
Firenze deve dedicare metà del suo tempo a provare le espressioni da bravo ragazzo davanti allo specchio). Loro, le vecchie
lenze e carampane della politica, tutto sembrano, infatti, tranne
che brave persone (non diciamo ragazzi). Vivono di prepotenza,
facendo la faccia feroce ai loro nemici, non soltanto esterni ma
anche interni, perché non c’è peggior nemico d’un falso (o d’un
ex) amico. Non conoscono le buone maniere e anzi disprezzano
la buona educazione. E adesso ecco che arriva questo fiorentino
alto mezza bibita, con una mamma che ancora lo mette a dormire, gli allunga il biberon, gli rimbocca le coperte. Non è uno
di noi, noi siamo gente adulta, gente dura. Lui alza la mano per
chiedere la parola, come a scuola, mentre noi alziamo la voce
per interrompere, con un’imprecazione, chi sta parlando. Noi
siamo dei combattenti, e gli ultimi nostri tifosi sono dei vecchi
comunisti ed extraparlamentari tabagisti e catarrosi, lettori
del Manifesto, crassamente ignoranti. Renzi piace alle mamme
(comprese le nostre) e ai giovani che ascoltano con imbarazzo le
nostre patetiche storie di lotta di classe e d’occupazioni universitarie (compresi i nostri figli e nipoti). Lui è un bravo ragazzo,
noi siamo la Casta.
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MARTINI È STATO SOPRAFFATTO, IN QUESTI GIORNI, DA PANEGIRICI ACRITICI, ECCESSIVI ED INTERESSATI
Il cardinale del dialogo. Certo, ok. Ma con chi e come?
DI
L
GIANFRANCO MORRA*
a morte ha colto il cardinal
Martini nella vasta casa
dei Gesuiti a Gallarate.
Che ogni anno ospitava il
raduno dei filosofi cristiani (allora ce n’erano) e dove, nel 1961, lo
conobbi (eravamo relatori sul tema
dell’ateismo). Da allora, ho sempre
ammirato lo studioso della Bibbia e
ne ho seguito le attività, anche sui
mass-media, gli studi e i trionfi, dovuti ad una intelligenza insolita e
ad una programmata moderazione.
Era una sirena del laicismo, i suoi
interlocutori erano per lo più i non
cristiani, molti di loro sono divenuti «atei devoti». «Vedete, diceva
loro, io accetto molto di quanto dite,
perché anche voi, sotto sotto, siete
cristiani».
I giornali hanno intitolato con le
banalità di occasione: «Amava i milanesi», «Ruppe le barriere», «Il vescovo liberal», «Il gigante di Milano».
È prevalso il titolo: «Cardinale del
dialogo». Che è giustissimo. E preoccupante. Che un cristiano debba dialogare, è sin troppo ovvio. Ma dialogare con chi? e, soprattutto, come? Il
dialogo è un mezzo, non un fine, non
è la verità, ma un suo strumento.
Martini ha avuto il merito di realizzare, nel modo più efficace, il dialogo
sbagliato del cristiano. Ha fondato
la «Cattedra dei non credenti» (titolo
opportunistico, ma non solo). In ciò
è stato un grande maestro, capace
di unire uno stile di vita di rigida e
autentica moralità con un integralismo camuffato da dialogo.
E ciò nella piena tradizione del suo
ordine, (quello dei gesuiti, ndr) la cui
strategia, che gli storici collegano
al machiavellismo, è stata sempre
quella di accettare al massimo tutte
le tendenze vincenti nella società e
di aggiungervi poi un «supplemento
di anima» nella speranza di rendere
ancora accettabile una religione ormai così dimenticata, da non essere
più neppure rifiutata. E con la conseguenza di spogliare il cristianesimo della sua scandalosa originalità,
per farne un optional di un mondo
scristianizzato. In ciò, la rubrica da
lui tenuta sul giornale della borghesia laica, con le sue risposte, patetiche e tranquillizzanti, alle lettere di
lettori, è stata davvero esemplare.
In curia il «mite» Martini era inflessibile e coerente. Era nato per
essere un leader. Il suo disegno di
accantonamento della tradizione era
perseguito con un pugno di ferro,
attraverso la scelta di uomini formatisi nella dissoluzione postconciliare e disposti ad adattare la fede a
buonismo, la morale a intenzione, la
teologia a relativismo. Le tendenze
tradizionaliste gli erano indigeste,
ad esempio quella di «Comunione e
liberazione», nei cui confronti non fu
mai tenero. Anche sul piano politico
la tecnica era collaudata: mostrarsi
del tutto distaccato dalle scelte dei
partiti, ma anche combattere quelle
tendenze che si opponevano all’establishment postconciliare, cioè cattocomunista.
Da qui nel 2004, quando scese in
campo Berlusconi, la sua decisa
campagna contro di lui. Non mancò di appoggiare silenziosamente i
gruppi cristiani che si schieravano
dall’altra parte. Ma la cosa non deve
stupire e gli fa onore: da sempre i
gesuiti hanno fatto politica senza
fare politica. Così, nel rapporto col
Papa: è noto che i gesuiti hanno un
quarto voto, l’obbedienza al Pontefice. Con nonchalance, Martini
lo ha sempre dimenticato: di Giovanni Paolo II, che pur nel 1979 lo
aveva chiamato alla cattedra di Milano, fu considerato il contraltare;
con Benedetto XVI non guerreggiò
in Conclave (nonostante la favola
inventata dai progressisti che si
sarebbe generosamente ritirato; in
realtà ebbe, sin dall’inizio, pochissimi voti), ma si oppose più volte alle
sue decisioni: quando ha liberalizzato (non imposto) la messa latina,
Martini lo ha decisamente criticato
sul «Sole-24 ore».
I due papi erano troppo lontani dalle
sue aperture dialogiche e dai suoi
opportunismi dialettici. Con i quali
egli ha sempre aperto alle esigenze attuali del mondo, riscoprendo
un’altra tattica, propria della Compagnia di Gesù, la casistica, che impone la fedeltà ai principii, ma anche la considerazione delle esigenze
dell’epoca: «todo modo para buscar
la voluntad de Dios», (S. Ignazio)
(ogni modo per cercare la volontà di
Dio ndr). Da ciò le aperture ai gay,
alle adozioni da parte dei single, alle
coppie di fatto, al profilattico, alla
bioetica, al matrimonio dei preti, ai
divorziati, per i quali in una intervista su «Repubblica» aveva chiesto un apposito Concilio: in quasi
totale sincronia con ciò che i papi
affermavano in senso opposto, ma
sempre rivendicando la sua fedeltà
alla Cattedra di Pietro. Con la nota
acutezza Giuliano Ferrara, nel necrologio sul «Foglio», ha riassunto
la positiva novità del suo episcopato
con le parole «indifferenza e relativismo». Il cardinal Martini, che ha
servito Dio sempre in buona fede e
spesso anche in fede buona, ha ricevuto da tutti un omaggio entusiasta,
in Duomo, a Milano. Anche da parte di chi condivide quelle scelte del
mondo, che papa Ratzinger chiama
relativismo, nichilismo, anarchismo
morale, ben difficilmente accordabili con la fede cristiana. Il mondo ha
sempre combattuto la Chiesa, quando contava; e l’ha assorbita quando
aveva perso ogni identità. Ratzinger
ci insegna che dobbiamo dubitare
di quei cristiani che sono esaltati
da tutti. Come ci aveva detto Gesù:
«Beati voi quando vi insulteranno,
vi metteranno al bando e vi perseguiteranno per causa mia» (Discorso
della Montagna).
*già ordinario di sociologia
all’università di Bologna