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Martedì 14 Gennaio 2014
Fismic Confsal
La Fismic commenta il Job act proposto dal segretario del Pd Renzi
Sì alla riforma del lavoro
Cuneo fiscale e semplificazioni prioritari
di
Giulia Batani
U
n contratto unico si
può discutere, a patto che non sia l’unico
contratto. Con queste parole inizia il nostro
commento alla presentazione
sintetica del «Job act» fatta
dal segretario del Partito democratico, Matteo Renzi, sul
suo blog personale.
Nella Parte A (Sistema) si
sollecita, tra le altre cose, una
riduzione «del 10%» del costo
dell’energia per le aziende e
uno spostamento della tassazione dal lavoro alle rendite.
Il target, in questo senso,
è una riduzione del 10%,
dell’Irap: «Chi produce lavoro», spiega la bozza, «paga di
meno, chi si muove in ambito
finanziario paga di più, consentendo una riduzione del
10% dell’Irap per le aziende
che offrono nuovi posti di lavoro». Sembrano positive le
iniziative che intende sostenere Renzi, annunciate nella
prima parte della legge, come
ridurre il costo per le aziende,
soprattutto quelle piccole per
far ripartire la produttività;
rendere digitale ogni azione
di pagamento e l’adozione
dell’obbligo di trasparenza
per partiti, amministrazioni
pubbliche e sindacati.
Altra novità anticipata da
Renzi è l’eliminazione della
figura del dirigente a tempo
indeterminato nel settore
pubblico. Un dipendente pubblico è a tempo indeterminato
se vince un concorso. Un dirigente no. Stop allo strapotere
delle burocrazie ministeriali,
secondo la bozza. Un attacco
che arriva con un tempismo
perfetto, nei giorni del pasticcio tra il ministero dell’Istruzione e quello dell’Economia
sui 150 euro chiesti indietro
agli insegnanti.
La seconda parte si concentra invece sull’aspetto lavorativo per la creazione di
nuovi posti di lavoro, il che
rappresenta sicuramente un
argomento nobile e che ci preme maggiormente, visto che
Matteo Renzi
la nostra azione quotidiana
si basa proprio sulla difese e
la realizzazione di ulteriori
posti di lavoro, ma che cosa
pensa di fare il neo-segretario
del Pd? Di istituire un unico
piano industriale con l’indicazione delle singole azioni
operative necessarie, ovvero
omologare ogni azienda, ogni
luogo di lavoro e costringerle a seguire un unico piano
industriale, il che ci pare
paradossale, proprio perché
ogni azienda ha prerogative ed aspetti diversi l’una
dall’altra, e così deve essere
anche il loro stesso piano industriale, ad hoc per la sua
riuscita.
Renzi ha sempre parlato di
una necessità di riformare il
mercato del lavoro, semplificandolo. E noi siamo assolutamente d’accordo. Proponiamo di destinare tutte le
risorse della spending review
alla riduzione del cuneo fiscale e di semplificare le norme
sul lavoro sulla base del principio di sussidiarietà. Ossia
fissare alcuni pochi contenuti inderogabili e demandare
alla contrattazione aziendale
e individuale tutto il resto.
Questa a nostro avviso dovrebbe essere la Grande Riforma del Mercato del Lavoro
che permetterebbe realmente
alle imprese di liberarsi delle eccessive rigidità imposte
dalle regole attuali e darebbe
la spinta ad una crescita occupazionale in grado di farci
recuperare il gap con il resto
dei maggiori Paesi industrializzati.
Certo, è improprio chiamarlo unico considerato che
non cancellerà tutti gli altri
istituti oggi esistenti. Le
imprese, se se ne riducono i vincoli, useranno l’apprendistato
per collegare al
meglio scuola e lavoro. Anche il contratto a termine
sarà scelto per
la stagionalità,
la sostituzione
o altre esigenze
contingenti e lo
dobbiamo anzi
semplificare. Discorso analogo per
il lavoro intermittente, importante nei
picchi di lavoro non
programmabili. Il punto
è che questo, chiamiamolo
contratto prevalente, affronta
solo una parte del problema.
Ma è proprio l’ultimo capitolo, quello sulle regole, su
cui sono puntati i fari, aspettando il 16 gennaio, quando il
testo definitivo sarà presentato alla Direzione nazionale
del Pd.
Si parte dalla semplificazione delle norme, con la
«Presentazione entro otto
mesi di un codice del lavoro
che racchiuda e semplifichi
tutte le regole attualmente
esistenti e sia ben comprensibile anche all’estero» e si
passa alla riduzione delle
forme contrattuali caratterizzata, ed è questo uno dei
capitoli più attesi, dal nuovo
contratto di inserimento a
tutele crescenti.
La strada è quella già
tracciata della «Flexsecurity» scandinava, con l’introduzione di una nuova forma
contrattuale più «snella» per
i datori di lavoro destinata
però a crescere - in termini di
garanzie per i lavoratori – a
mano a mano che il rapporto
di lavoro prosegue.
In attesa di conoscere il
merito compiuto della proposta, avanziamo subito una
critica: Renzi aveva parlato
di tre mesi come tempo massimo perché il Paese si potesse dotare di regole moderne
ed efficaci per riformare il
mercato del lavoro e aveva
anche ipotizzato un possibile attacco finale al totem della sinistra radicale italiana
costituito dall’art. 18 dello
Statuto dei lavoratori. Qua
invece si parla di otto mesi e
non di tre e scompare quasi
del tutto il possibile pensionamento dell’art. 18 dello
Statuto.
Altra novità, la creazione
di un assegno universale di
disoccupazione, esteso anche
alla fetta di lavoratori - prevalentemente precari - che
oggi ne sono esclusi. Indennità però vincolata, sulla
sorta del modello nordico, all’
«obbligo di seguire un corso
di formazione professionale
e di non rifiutare più di una
nuova proposta di lavoro».
Per tale questione il grande
limite è la completa assenza
di qualunque riferimento di
come si possono trovare le risorse finanziarie necessarie
per sostenere l’assegno universale di disoccupazione e
di come questo si integrerà
con il neonato Aspi ed inoltre se questa nuova misura
supererà le attuali forme di
ammortizzatori sociali (cig,
cigs, cassa in deroga, indennità di mobilità ecc.) e di
come anche attraverso questo nuovo assegno si possa
affrontare o meno l’annoso
problema dei cosiddetti esodati. Ci sembrano tali questioni di non piccolo conto,
visto che, secondo gli ultimi
dati Istat, i disoccupati sono
ufficialmente il 12,7% del to-
tale e i disoccupati under 24
arrivano al 41,6; a questi bisognerebbe anche aggiungere
il considerevole numero dei
cosiddetti scoraggiati (coloro
che non hanno lavoro, ma non
sono iscritti alle liste di disoccupazione) che le statistiche
collocano intorno ai 3 milioni
di persone. Visto e considerato i limiti della spesa pubblica italiana, i ritardi della
spending review e la previsione che nell’anno in corso,
nonostante le nuove tasse, il
rapporto deficit/pil sarà per i
primi mesi dell’anno oltre il
3,7%, la questione delle risorse finanziarie da destinare al
nuovo ammortizzatore sociale universale non ci sembra
di poco conto.
Perché non pensare che
all’interno di alcuni principi
fondamentali possano essere
le parti a disciplinare coerentemente il proprio rapporto di
lavoro? È in azienda che ci si
adatta. E questo lo si può fare
in termini collettivi, cioè con
la contrattazione aziendale.
Ma anche in termini individuali, purché assistiti e il tutto certificato. Siamo d’accordo
che un licenziamento senza
giusta causa vada sanzionato
con la reintegra o un giusto
indennizzo. È un principio
fondamentale. Ma perché la scelta tra reintegra o risarcimento
non la rimettiamo
alle parti? Anche
lo stesso eventuale
contenzioso: perché
non devolverlo a
priori ad un collegio
arbitrale? E così si
potrebbero affrontare pure altri temi.
Le norme per farlo ci
sono già per l’accordo
aziendale nell’articolo
8 della manovra 2011.
Basta applicarle e integrarle. E si può così sostituire lo Statuto dei lavoratori
con uno moderno, semplice
perché sussidiario in favore
della contrattazione aziendale e individuale assistita e
certificata.
Se l’obiettivo è portare il
lavoro prepotentemente in
primo piano nell’agenda di
governo 2014 occorre rilanciare il ruolo della contrattazione in azienda. In quella
sede le parti, datori e lavoratori, si guardano negli occhi.
E all’interno di alcuni principi fondamentali si possono
adattare le regole e le tutele
alle concrete circostanze. O in
termini collettivi. Ma anche
attraverso contratti individuali assistiti e certificati per
evitare eventuali abusi.
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