Diagnosi e manuali diagnostici Non esistono test diagnostici specifici per il Ddai. Significa che la diagnosi avviene attraverso la verifica, con interviste a genitori ed insegnanti, della presenza di un certo numero di sintomi (in questo caso: comportamenti) e la loro permanenza nel tempo. Per chiarire facciamo due esempi: per la diagnosi di dislessia si utilizzano test specifici, che attraverso prove standardizzate su migliaia di casi, rilevano le capacità del soggetto più o meno compromesse inerenti lettura, scrittura, comprensione, velocità; ed il numero di errori: se i test danno un certo punteggio si pone una diagnosi certa, in caso contrario, no. Per diagnosticare una polmonite non basta accertare tosse ed espettorato, febbre e dolore acuto, si deve procedere, per averne la conferma diagnostica, ad esami radiologici (a volte approfonditi con una TAC), se necessario poi un esame del sangue confermerà o meno la presenza di infezioni… insomma la conferma dell’ipotesi diagnostica avviene attraverso dati oggettivi, strumentalemente rilevabili. Per diagnosticare il Ddai, non esistono esami di questo genere. L’oggettivo dei dati diagnostici per il Ddai consiste nel verificare che diverse persone - genitori, operatori scolastici e sanitari - che osservano del bambino condividono la stessa opinione, ovvero leggono nello stesso modo i comportamenti del bambino. Manuali diagnostici e Ddai I medici, per riconoscere e diagnosticare le malattie fanno riferimento anche ad alcuni manuali diagnostici. I più diffusi nel mondo sono due: il DSM e l’ICD. L’americano DSM (Diagnostic and statistical Manual of Mental Disorders), pubblicato dalla APA per la prima volta nel 1952 (American Psychiatric Association), oggi è alla quarta revisione (DSMIV-Text Revision o DSM-IV-TR, APA, 2000), quella attualmente in uso - in attesa della quinta revisione, prevista per il 2013 -. Le edizioni precedenti: DSM I, 1952; DSM II, 1968; DSM III, 1980; DSM IV, 1994 DSM IV-TR, 2000. Quest’ultima edizione classifica un numero di disturbi mentali pari a tre volte quello della prima. Il Ddai fino al 1968 non era citato nel DSM, non esisteva, come ci spiega l’AIDAI (Associazione Italiana Disturbo Attenzione e Iperattività): Solo nella seconda edizione del DSM (APA, 1968) si fece menzione del DDAI con l’etichetta diagnostica “Reazione Ipercinetica del Bambino”. La scelta di questo termine enfatizzava l’importanza dell’aspetto motorio a scapito di quello cognitivo. (…). Tuttavia anche nel DSM-II (APA 1968) non venivano specificati i criteri per poter formulare una diagnosi, anche perché i primi DSM erano manuali descrittivi più che nosografici. Il DSM-III (APA, 1980) rappresentò una vera e propria rivoluzione nella procedura clinicadiagnostica in quanto prevedeva un sistema di valutazione multiassiale con specifici criteri diagnostici per ogni disturbo; esso inoltre includeva un sistema diagnostico orientato in senso evolutivo, strutturato specificatamente per i disturbi dell’infanzia. Nel DSM-III, il termine diagnostico utilizzato per riferirsi al DDAI era “Disturbo da Deficit dell’Attenzione”. Tale cambiamento nosografico, da Sindrome Ipercinetica a Disturbo da Deficit dell’Attenzione (DDA), presupponeva un mutamento nella lettura della sindrome, a vantaggio degli aspetti cognitivi rispetto a quelli comportamentali. Tale mutamento fu reso possibile soprattutto dagli studi di Virginia Douglas (1972, 1979) la quale sottolineava la centralità dei deficit cognitivi rispetto a quelli motori, inquadrati come un epifenomeno dei primi. Nel DSM-III (APA, 1980) venivano descritti due sottotipi di DDA: con o senza Iperattività. I sintomi previsti erano 16, suddivisi in tre categorie: disattenzione (5 sintomi), impulsività (6 sintomi) e iperattività (5 sintomi). Secondo tali criteri, il bambino, per essere diagnosticato con DDA, doveva presentare almeno tre sintomi di disattenzione e tre di impulsività; mentre se al DDA si associava l’Iperattività allora dovevano essere presenti almeno altri 2 sintomi. Nel 1987 fu pubblicato il DSM-III-R, il quale rappresentò forse un arretramento rispetto alla precedente edizione in quanto furono eliminati i sottotipi e fu introdotta l’attuale etichetta Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (DDAI). Furono rimosse le tre categorie di sintomi a favore di un’unica lista di 14 comportamenti in cui disattenzione, impulsività e iperattività erano considerati di pari importanza per poter formulare una diagnosi di DDAI. In base al DSM-III-R (APA, 1987) era sufficiente che il bambino manifestasse almeno 8 sintomi in due contesti per almeno 6 mesi per ricevere una diagnosi di DDAI. Le conseguenze di questi cambiamenti furono che il campione di soggetti con DDAI, secondo il DSM-III-R (1987), aumentò di circa il 26% rispetto a quelli diagnosticati seguendo il DSM-III (1980). Tale fenomeno fu evidente soprattutto tra i maschi, mentre le femmine con DDAI diminuire in quanto presentano maggiori problematiche attentive rispetto a quelle comportamentali (Lahey & Carlson, 1991). Sintomi primari e criteri diagnostici. Secondo le stime dell’Associazione degli Psichiatri Americani il DDAI è presente tra la popolazione in età scolare in percentuali comprese tra il 3% e il 5%; con un rapporto maschi/femmine che va da 4:1 a 9:1 (APA, 1994). Dalla pubblicazione della terza edizione riveduta del DSM (DSM-III-R, 1987), il Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività è diventata la sindrome infantile più studiata in tutto il mondo; si stima infatti che in quest’ultimo secolo siano stati pubblicati oltre 6000 tra articoli scientifici, capitoli e manuali. L’ultima descrizione nosografica del DDAI appartiene al DSM-IV (1994) che ha ripreso alcune tematiche del DSM-III (APA, 1980), tra cui la suddivisione dei sintomi in disattenzione, iperattività e impulsività, e la possibilità di individuare dei sottotipi. Tratto da http://www.aidaiassociazione.com/storia.htm, consultato il 19.08.11 Criteri diagnostici del DSM-IV Disattenzione 1. spesso non riesce a prestare attenzione ai particolari o commette errori di distrazione nei compiti scolastici o in altre attività; 2. spesso ha difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco; 3. spesso sembra non ascoltare quando gli si parla direttamente; 4. spesso non segue le istruzioni e non porta a termine i compiti scolastici o i propri doveri, non a causa di un comportamento che si oppone alle regole sociali; 5. spesso ha difficoltà a organizzarsi nei compiti e nelle attività; 6. spesso evita ad impegnarsi in compiti che richiedono sforzo mentale prolungato (come compiti a scuola o a casa); 7. spesso perde gli oggetti necessari per i compiti e le attività quotidiane; 8. spesso è facilmente distratto da stimoli estranei; 9. spesso è sbadato nelle attività quotidiane. Iperattività 1. spesso muove con irrequietezza mani o piedi o si dimena sulla sedia; 2. spesso lascia il proprio posto in classe o in altre situazioni in cui ci si aspetta che resti seduto; 3. spesso scorrazza e salta dovunque in modo eccessivo in situazioni in cui è fuori luogo; 4. spesso ha difficoltà a giocare o a dedicarsi a divertimenti in modo tranquillo; 5. spesso si muove come se fosse guidato da un motorino; 6. spesso parla eccessivamente Impulsività 1. spesso “spara” le risposte prima che le domande siano state completate; 2. spesso ha difficoltà ad attendere il proprio turno; 3. spesso interrompe gli altri o è invadente nei loro confronti (per esempio si intromette nelle conversazioni o nei giochi). Fonte: sito http://www.aidaiassociazione.com/criteri_diagnostici.htm Consultato il 20.08.11 Il clinico, per stabilire se un bambino presenti o meno un problema di attenzione/iperattività, deve accertare la presenza, sia a casa che a scuola, di almeno sei dei nove sintomi [almeno sei dei nove sintomi di disattenzione, e/o almeno sei dei nove sintomi di iperattività/impulsività, quindi da un minimo di 6 ad un massimo di 12 sintomi su 18, v. sotto] di ciascuna area (disattenzione o iperattività-impulsività), per un periodo minimo di 6 mesi. Inoltre, tali comportamenti devono essere stati osservati prima dei 7 anni di età e il bambino, a causa di queste manifestazioni, deve accusare una serie di difficoltà scolastiche e sociali (con gli adulti e i coetanei). Se il bambino presenta tali atteggiamenti ma non ha problemi di adattamento a casa, in classe e non ha problemi di rendimento scolastico non ci sono gli estremi per affermare che presenti il DDAI. Criteri diagnostici dell’ICD-10 L’altro manuale diagnostico, altrettanto diffuso in Europa, è l’ICD (International Classification of Diseases), stilato dall’OMS-WHO - Organizzazione Mondiale della Sanità - nel 1948 ed oggi alla decima edizione (ICD-10, OMS-WHO, Ginevra, 1993). “I 18 sintomi presentati nel DSM-IV sono gli stessi contenuti nell’ICD-10 (OMS, 1992), l’unica differenza si ritrova nell’item (f) della categoria iperattività-impulsività (Parla eccessivamente) che, secondo l’OMS, è una manifestazione di impulsività e non di iperattività.” Fonte: sito http://www.aidaiassociazione.com/criteri_diagnostici.htm Consultato il 20.08.11 A noi interessa, dell’ICD-10 , il Capitolo V, quello che include i disturbi psichici e comportamentali di natura organica, dovuti all'uso di sostanze psicoattive, affettivi, nevrotici, legati a disfunzioni fisiologiche, disturbi della personalità, dello sviluppo psicologico e comportamentali, perché tra questi viene inquadrato il Ddai. Nonostante la descrizione di comportamenti e sintomi sia praticamente sovrapponibile, come sopra citato, il codice ICD-10 si avvale di una categoria diagnostica più ristretta comprendente persone con sintomatologia e disabilità più gravi mentre, come abbiamo visto, il DSM-IV-TR adotta una definizione più ampia, tale da ricomprendere tre sottotipi di ADHD diversi. Per l’ICD-10, affinché venga fatta una diagnosi corretta di ADHD, una persona deve presentare: almeno sei dei nove sintomi di disattenzione, uno dei quattro sintomi di impulsività e tre dei cinque sintomi di iperattività. (10/18) Per il DSM-IV-TR la persona potrebbe presentare: - almeno sei dei nove sintomi di disattenzione, e/o almeno sei dei nove sintomi di iperattività/impulsività in base al DSM-IV; - oppure uno schema persistente di disattenzione e/o iperattività/impulsività che si manifesta più frequentemente e in modo più grave di quanto tipicamente osservato negli individui con un livello comparabile di sviluppo; - o i sintomi devono essere comparsi da almeno sei mesi; - o alcuni sintomi si sono manifestati molto presto (prima dell’età di sette anni); - o i sintomi generano problemi invalidanti in una o più sfere (per es. a scuola, sul lavoro o a casa); - o problemi invalidanti clinicamente significativi nel comportamento sociale, scolastico o occupazionale. ********* Una considerazione non marginale Curiosamente, mentre nella Sanità Pubblica italiana nelle prescrizioni delle prestazioni i codici utilizzati sono quelli dell’ICD-9 e dell’ICD-10, per le ricerche condotte in Italia sul Ddai sono stati utilizzati i criteri del DSM-IV e del DSM-IV TR, frutto di una cultura medica estranea alla nostra: in Italia nessuno affida una diagnosi ai soli questionari: tutti controllano la situazione familiare, le frustrazioni cui è sottoposto il bambino nella vita affettiva, il quoziente intellettivo, la percezione sensoriale… ed arrivano ad una diagnosi per ‘esclusione’ più che ad una diagnosi di comorbilità (due patologie compresenti nello stesso momento), nel qual caso –oltretutto- si dà priorità alla diagnosi di disturbo affettivo. L’uso del DSM-IV è stato dettato dalla scelta forzata di dover confrontare gli studi italiani con quelli anglosassoni, ovvero statunitensi. Che differenza fa? Ce lo spiega ancora Marzocchi: “La principale differenza tra i due manuali è nel modo di definire il disturbo: nel DSM-IV si utilizza il termine Disturbo da deficit di attenzione e iperattività, mentre nell’ICD-10 si utilizza l’espressione Disturbo dell’attività e dell’attenzione. Inoltre per il primo manuale (DSM-IV), il disturbo deve comparire prima dei 7 anni, mentre per l’ICD-10, il secondo, è necessario riscontrare i primi sintomi a 3 anni. Per l’ICD-10 si ha una diagnosi se il paziente presenta almeno 6 sintomi di disattenzione, 3 di iperattività e 1 di impulsività; inoltre se il clinico constata poi la compresenza di comportamenti aggressivi, riconducibili ad un Disturbo della condotta (Dc) o ad un Disturbo oppositivo provocatorio (Dop), in quel caso la diagnosi non è più Ddai ma Sindrome ipercinetica della condotta. [per i quali non è prevista la prescrizione di psicofarmaci come il Ritalin, ndr] L’ICD-10 infatti tende a non ammettere diagnosi associate (comorbilità), ma descrive una specifica sindrome per ogni tipologia di paziente. Nel DSM-IV invece i canoni sono meno restrittivi dell’ICD-10 e si formula una diagnosi di Ddai anche se il paziente manifesta solo 6 sintomi di disattenzione o di iperattività-impulsività. Per tale motivo, nel DSM-IV viene contemplata l’esistenza di tre sottotipi di Ddai (…) A seconda del manuale di riferimento, dunque, si formulano diagnosi diverse, e di conseguenza si rilevano dati differenti relativamente alla diffusione del disturbo: secondo il DSM-IV infatti i pazienti con Ddai sono circa il 5%, mentre secondo l’ICD-10 sono meno del 2%.” (Marzocchi G.M., 2003, Bambini disattenti e iperattivi, Il Mulino, Bologna, pag. 14-15). Da qui, conclude Marzocchi, deriva che “in Europa il disturbo viene riconosciuto meno frequentemente (e da meno tempo) che nell’America del Nord. Personalmente –ci dice Marzocchiritengo che i criteri dell’ICD-10, proprio perché più restrittivi, individuino una tipologia di pazienti molto più omogenea rispetto a quella che si ottiene in base ai criteri del DSM-IV.” (Marzocchi G.M., 2003, cit., pag. 15). Infine Marzocchi segnala la necessità di “elaborare migliori definizioni diagnostiche per i bambini che presentano solo alcuni dei gruppi di sintomi del Ddai (…) e che molto probabilmente soffrono di un’altra sindrome ancora non ben individuata.” (Marzocchi G.M., 2003, cit., pag. 15). In concreto, dunque, utilizzare gli imprecisi criteri del DSM-IV, permette di diagnosticare almeno il triplo dei casi rispetto all’ICD-10. I maligni spiegano che questo giustifica la ricerca e consente di avere i relativi finanziamenti, tanto più elevati quanto maggiore è il numero di casi coinvolti. In pratica, 1 bambino per classe per il DSM-IV, 1 bambino ogni 4 classi per l’ICD-10, 1 bambina ogni 6-8 bambini. Infine, vorrei che ad un primo inquadramento, di recupero del corpo come espressione della persona, aggiungeste le indicazioni dell’ICD-10, secondo il quale i primi sintomi si individuano a tre anni, perché è fondamentale per la qualità specifica dell’intervento psicomotorio. Anche personalmente riconosco difficoltà molto maggiori nel modificare le situazioni oltre i quattrocinque anni, mentre un intervento precoce consente ottimi risultati in tempi ragionevolmente brevi, i quali riducono le motivazioni apportate a favore dell’utilizzazione dei farmaci per questo disturbo; i favorevoli infatti invocano i tempi lunghi delle terapie non farmacologiche tra i fattori che dovrebbero orientare la scelta verso i farmaci, per evitare al bambino periodi di sofferenza troppo lunghi…