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Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB (Bologna) - Bimestrale n.1/2014 – anno XXIII/BO - € 2,00
gennaio/febbraio 2014
Un nuovo anno con il piano
di Lewis e Colli, gli archi
del Belcea e la Franz Liszt
Chamber Orchestra
Musica Insieme vara
le rassegne dedicate
all’Ateneo e alla
contemporanea
The Peasant Girl: Viktoria Mullova
e l’anima gitana della musica
SOMMARIO n. 1 gennaio - febbraio 2014
Musica a Bologna - I programmi di Musica Insieme
Editoriale
13
Imprenditoria e cultura
Universal Music Group - Mirko Gratton
16
Musica Insieme in Ateneo
Note di viaggio di Elisabetta Collina
18
MICO - Musica Insieme COntemporanea
20
Save the date di Fabrizio Festa
Serenate e paesaggi vocali di Anastasia Miro
Interviste
22
24
26
28
Il profilo
30
I luoghi della musica
32
I viaggi di Musica Insieme
34
Il calendario
35
Per leggere
56
Gabor Boldoczki di Bianca Ricciardi
Federico Colli - Paul Lewis di Cristina Fossati
Belcea Quartet di Alessandro Di Marco
Viktoria Mullova di Fulvia de Colle
Modest Musorgskij di Giordano Montecchi
Capolavori in città di Maria Pace Marzocchi
Bruxelles - Bruges - Gand
27-30 marzo 2014
I concerti gennaio / febbraio 2014
Le pagine multicolori di Bortolotto, Werfel, Bonacchi
di Chiara Sirk
Da ascoltare
Incontri sonori: Mullova, Meneses-Pires, Blechacz
di Lucio Mazzi
10
MI
MUSICA INSIEME
58
In copertina: Viktoria Mullova e The Matthew Barley Ensemble (foto Nick White)
EDITORIALE
SAVE THE DATE
23 e 28 gennaio, due date da ricordare.
Il perché è semplice: prendono il via due
iniziative che per Musica Insieme rappresentano da sempre la testimonianza
del nostro modo d’intendere l’attività di
operatore culturale. Stiamo parlando di
Musica Insieme in Ateneo e di Musica Insieme COntemporanea, giunte rispettivamente alla diciassettesima e alla nona
edizione. Sono numeri che contano. Vogliono dire, infatti, che non si è trattato di eventi sporadici, di rassegne nate per
seguire magari la moda del momento o
un’intuizione, oppure sull’onda di un
malinteso senso del marketing. Al contrario, fin dalla loro progettazione sono
state immaginate come il naturale corollario ad un’attività concertistica, I Concerti di Musica Insieme appunto, che già
di per sé non volevano essere un mero
contenitore, solo un palcoscenico su cui
ospitare artisti di chiara fama. E con uno
scopo preciso: dare maggior vigore a
quell’idea di formazione del pubblico,
che riteniamo debba essere uno dei
L’Oratorio di San
Filippo Neri gremito
durante un concerto
di MICO 2013
motori dell’azione culturale, tanto più se
questa va ad inserirsi in un’idea ampia ed
evoluta di cittadinanza. Di conseguenza, proprio gli studenti universitari, in una
collaborazione che ci vede ormai partner
consolidato dell’Università di Bologna,
abbiamo sempre pensato dovessero essere
al centro dell’attenzione di chi fa della
cultura la propria impresa, guardando peraltro al futuro. Lo studente di ieri è il
pubblico di oggi; lo studente di oggi sarà
il pubblico di domani. Ed un pubblico
formato, consapevole, un pubblico che
abbia maturato una sua coscienza critica è un pubblico che passerà nel tempo
il suo testimone, generazione dopo generazione. D’altronde, la cultura e l’arte non possono essere trattate come fossero prodotti usa e getta, da consumare senza neppur leggere l’etichetta, e poi
dimenticare. Anzi, parlare di “consumo
culturale”, come si fa troppo spesso in
questi nostri anni, già implica una nozione transeunte e inconsistente dell’arte
e della cultura stesse. Musica Insieme
non ha mai immaginato di proporsi ad
un pubblico di meri consumatori.
Come invece dimostra l’apprezzamento degli artisti che si alternano sul nostro palcoscenico, abbiamo sempre pensato che far musica significasse condividere un’esperienza, condivisione che
si sarebbe allargata ad una consapevolezza sempre più matura ed ampia persino del proprio essere membri di una
comunità. Quindi, gli studenti da un
lato, la musica dei nostri giorni dall’altro, sono itinerari necessari per arricchire
tale esperienza e magari farla diventare,
anno dopo anno, un piccolo, ma significativo, pezzo di storia della nostra città, sempre guardando al futuro.
Fabrizio Festa
MI
MUSICA INSIEME
13
IMPRENDITORIA E CULTURA
UNIVERSAL MUSIC GROUP
Novità e tradizione
Grandi nomi, spazio ai giovani e al panorama italiano: Mirko Gratton, Direttore
della Divisione Classica e Jazz di Universal Music Italia, ci svela le sue carte vincenti
U
niversal Music Group riunisce
oggi le principali case discografiche dedicate alla musica classica,
raccogliendo l’eredità di etichette che
hanno collaborato con interpreti leggendari, da Karajan a Michelangeli, da Del
Monaco alla Tebaldi, e con grandissimi
compositori del secolo scorso, come Bernstein e Britten. Con il 40% di share del
mercato mondiale, lavora con artisti del
calibro di Pierre Boulez, Alfred Brendel,
Cecilia Bartoli, Riccardo Chailly, Maria
João Pires, Stefano Bollani, Lang Lang,
solo per citarne alcuni. Attraverso la costante attenzione alla qualità, l’ampio spazio lasciato a nuovi grandi talenti e il recupero di incisioni storiche, Universal
Music Italia (ramo italiano, appunto, del
gruppo) affronta la crisi, registrando addirittura un ampliamento del mercato nel
settore ‘classico’, come ci racconta il Direttore della Divisione Classica e Jazz,
Mirko Gratton.
Mirko Gratton
16
MI
MUSICA INSIEME
Universal Music rappresenta etichette
importantissime, spesso leggendarie
per la storia della discografia, da Archiv a Deutsche Grammophon o
Decca, fondate peraltro con grande
‘fiuto’ da inventori, imprenditori e
costruttori di strumenti: oggi che i
download e Youtube imperversano,
quali sono secondo lei le nuove
strade da percorrere, o viceversa i
‘ritorni all’antico’ che premiano?
a ritmi importanti, ed è presumibile che
entro un paio di anni rappresenterà una
percentuale rilevante nel cosiddetto ‘mercato classico’. Inoltre c’è ancora una grandissima fetta di appassionati legata al cd
cosiddetto ‘fisico’, anche grazie al fatto
che i prezzi dei cd di catalogo sono scesi
notevolmente. Oggi si possono trovare
cofanetti con incisioni anche importanti,
che arrivano a costare anche intorno ai
due euro a cd, e sono molto apprezzati».
«La musica classica fatica ancora a trovare
la sua strada nel mercato del download digitale per tante ragioni. Innanzitutto i
portali non sono quasi mai studiati appositamente per l’appassionato di musica
classica e presentano spesso problemi di
tracciabilità dei brani ricercati; infine c’è
un problema di qualità e di velocità del
download e di necessità di materiale esplicativo di accompagnamento che non è
stato ancora completamente superato. Ciò
detto, lo scarico digitale sta aumentando
Come descriverebbe la situazione
della discografia oggi, in particolare
in Italia, e quali sono, nel vostro ambito, le strategie messe in campo per
arginare la crisi economica?
«La strada scelta da Decca e Deutsche
Grammophon è da sempre quella di ‘insistere’: firmare gli artisti migliori, senza
compromessi nella qualità, e sviluppare
nuovi talenti, investendo risorse notevoli
per metterli nelle condizioni di esprimere
al meglio il loro talento. A questo, in
molti paesi, ed in particolare in Italia, abbiamo affiancato una intensa produzione
locale, sia creando un vero e proprio roster
(in Italia abbiamo contratti con una trentina di artisti, ed abbiamo realizzato, con
grande soddisfazione, numerose incisioni,
fra cui quelle con Abbado, Chailly, Bollani, Bahrami, Prosseda, Cascioli, Baglini,
Dego, e tanti altri), sia assemblando cofanetti con incisioni internazionali a prezzi
competitivi, che stanno incontrando un
notevole gradimento da parte del pubblico. Quello appena trascorso è stato un
anno particolarmente importante per noi,
tanto che alla fine di ottobre 2013 il repertorio classico è cresciuto dell’80% e
oltre rispetto all’anno precedente. Una
grande soddisfazione, in tempi di grande
crisi generale, che ci spinge a fare sempre
di più e a migliorarci».
Dal suo punto di vista ‘privilegiato’,
qual è a suo avviso il profilo del-
l’ascoltatore medio della classica, ovvero quali gli orientamenti principali
nell’acquisto di musica in Italia?
avuto l’onore di ospitare il suo debutto discografico con un recital chopiniano per
l’etichetta Decca)».
«È difficile dirlo, e gli studi sono molto lacunosi in proposito. Sicuramente non c’è
un unico profilo: c’è uno ‘zoccolo duro’
importante, formato da grandi e piccoli
collezionisti, a cui va il nostro ringraziamento, e che cerchiamo sempre di soddisfare con produzioni di alta qualità, ma
anche una fetta notevole di giovani, e
meno giovani, che con piacere scoprono
quanto la musica classica in realtà possa
essere bella, e addirittura ‘trendy’. L’importante è indirizzare questo nuovo pubblico ed aiutarlo a distinguere la qualità.
Il cd non è un pezzo di metallo, ma è ciò
che contiene: è come una tela, che ha
poco valore in sé, ma che assume valori diversi se dipinta da Tiziano o da un pittore
dilettante. Non è molto diverso da quello
che succede per una Stagione concertistica, credo».
Quali sono invece gli artisti ‘storici’ di
Universal? Ha qualche ricordo particolare?
Com’è nata e come si caratterizza la
sezione “Crossover”, un ambito a cui
anche Musica Insieme sta dando spazio nelle ultime Stagioni?
«Crossover è un termine che non amo
molto, anche perché è stato svuotato del
suo significato originario per metterci di
tutto. Di fatto dovrebbe essere un progetto che travalica il suo target tipico, o il
suo ambito di riferimento originale, andando in territori diversi: quindi il classico
che deborda nel pop, o viceversa, per fare
un esempio, creando commistioni il più
possibile geniali. Trovo invece che molto
spesso sia solo una scorciatoia per integrare nell’ambito classico progetti astrusi,
o addirittura di pessimo gusto. Bisogna
stare attenti. Ci sono senz’altro esempi di
grandissima qualità: ad esempio Ludovico Einaudi, un antesignano nella ricerca
di nuovi percorsi, ed è a questi che dobbiamo guardare».
Quanto spazio dà oggi Universal ai
talenti emergenti?
«Tantissimo spazio. È importante però
mantenere una medietas, senza correre
dietro a meteore. Per fortuna Universal ha
saputo mantenere un equilibrio fra nuovo
e antico, e i giovani che lanciamo hanno
sempre cose importanti da dire: mi vengono in mente, per fare due recenti
esempi, i pianisti Jan Lisiecki o Daniil
Trifonov (quest’ultimo di fatto scoperto
proprio da noi in Italia, visto che abbiamo
«Quando si parla di una casa discografica
storica come la nostra ci sono centinaia di
artisti da citare, e davvero farei torto ricordando qualche nome singolo. Lavoro
da ventotto anni per questa azienda e ho
avuto la fortuna di incontrarne tanti: forse
questo è il lato più bello del mio lavoro.
Mi permetto di citare il solo Georg Solti,
avendolo incontrato per la prima volta a
Bologna, la vostra città, nel 1986, quando
fu invitato per i festeggiamenti dell’Università. Grande uomo: la sua è stata una
generazione con storie drammatiche alle
spalle, che mi ha fatto riflettere tantissimo su concetti come libertà, ricchezza,
intelligenza, e che aveva avuto la fortuna
di conoscere di persona compositori come
Strauss, Rachmaninov, Bartók. Come dimenticare i racconti di Bolet su Rachmaninov, o di Solti su Strauss, ad esempio?
Di recente mi sono impegnato personalmente a mantenere vivo il ricordo dell’arte
di questi personaggi storici, inaugurando
una linea di cofanetti antologici a prezzi
accessibili, che sta ottenendo un grandissimo successo: sembra incredibile, ma
nomi come Solti, Davis, Bolet, Mengelberg, Arrau, Ozawa, rischiano di sparire
dagli scaffali dei negozi di dischi. Sarebbe
una perdita incolmabile per le giovani generazioni. Abbiamo appena inaugurato
una pagina su Facebook, “Classical Collections”, che promuoverà proprio queste
raccolte storiche».
Quali sono i progetti più importanti a
cui sta lavorando in questo periodo?
«Le novità nel periodo natalizio sono tante.
Se proprio devo fare una scelta, direi le Sinfonie di Brahms dirette da Chailly, le Invenzioni e Sinfonie bachiane, interpretate
da Bahrami, Tu scendi dalle stelle, il disco
natalizio interpretato da un tenore molto
particolare come Frate Alessandro, il concerto di Dvořák con la Mutter ed il recital
di debutto su Deutsche Grammophon di
Daniil Trifonov. Ci stanno dando enormi
soddisfazioni anche due mega-progetti italiani: la serie di cd sulla musica sinfonica di
Nino Rota, diretta da Grazioli, e l’integrale
dei concerti per violino di Viotti – davvero
bellissimi – con Rimonda».
CARTA D’IDENTITÀ
UNIVERSAL MUSIC GROUP
Presidente
Lucian Grainge
Universal Music Group è storicamente leader nel mercato discografico
classico con le sue etichette Deutsche
Grammophon e Decca (nella quale è
confluito da alcuni anni l’importante catalogo Philips Classics), a cui vanno
aggiunti marchi ad esse collegati,
come Archiv Produktion, L’OiseauLyre, Argo, London, Mercury Living
Presence, fino ai recentissimi Panorama e Mercury Classics. È impossibile elencare in maniera esaustiva il roster artistico di queste etichette: praticamente tutti gli artisti più celebri hanno registrato o registrano per le etichette Universal. Così Deutsche Grammophon è la ‘casa’ di nomi indimenticabili del passato come Karajan, Boehm, Fricsay, Kleiber, Bernstein, Michelangeli, Kempff, ma anche di Abbado, Pollini, Zimerman, Pires, Netrebko, Accardo e tantissimi altri, mentre Decca, a fianco di nomi storici
come Pavarotti, Del Monaco, Tebaldi,
Bergonzi, Simionato, Solti, Bolet, Britten, Richter, Szeryng, Arrau e Carreras,
vanta la presenza nelle sue file di artisti come Chailly, Ozawa, Ashkenazy,
Hogwood, Bartoli, Fleming, Florez.
Fra i talenti recentemente lanciati dalle due etichette si segnalano Trifonov,
Lisiecki, Beczala, Nezet-Seguin, Karadaglic, Dudamel e Yuja Wang. Attente ai giovani artisti, oltre che alle
grandi star, Decca e Deutsche Grammophon recentemente hanno dedicato particolare attenzione al panorama italiano (sia ad artisti nati in Italia,
che a giovani stranieri che hanno eletto il nostro paese come luogo principale
per la loro attività): sono stati siglati importanti contratti con Prosseda, Romanovsky, Dego, Baglini, Cascioli,
Ashkar, De Maria, Lifits, Dindo, Tchakerian, Carbonare, Griminelli e tanti altri. Da segnalare a questo proposito il
particolare successo delle incisioni di
Ramin Bahrami, che per 4 volte si è affacciato nella classifica pop dei dischi
più venduti, e della coppia ChaillyBollani, che con Rapsodia in blue ha
stabilito un record di vendite e di permanenza nelle classifiche, conseguendo l’ambitissimo Disco di platino.
MI
MUSICA INSIEME
17
MUSICA INSIEME IN ATENEO
Note di viaggio
La XVII edizione della rassegna che Musica Insieme, in collaborazione con l’Università,
dedica agli studenti dell’Ateneo bolognese, visiterà idealmente cinque paesi in cinque
concerti, affidati a straordinari talenti del panorama odierno di Elisabetta Collina
Andrea Massimo Grassi
18
MI
MUSICA INSIEME
certo, rivolgendosi per così dire ad un
pubblico del futuro, ossia a quegli studenti la cui preparazione musicale è sempre più affidata all’impegno autodidattico, ad una felice casualità familiare, o
alla propria passione individuale. La longevità di questo progetto dimostra
quanto fu giusta quell’intuizione.
Nel 2014 Musica Insieme in Ateneo
giunge infatti alla sua diciassettesima
edizione: i cinque concerti che avranno
luogo da gennaio ad aprile (offerti come
sempre agli studenti ed al personale dell’Università di Bologna) all’Auditorium
del Laboratorio delle Arti di Piazzetta
Pasolini (ovvero in uno dei molti cuori
pulsanti del mondo universitario bolognese) hanno tutti una parola chiave. Se
la scorsa edizione era stata dedicata ai migliori frutti dell’alta formazione italiana,
il viaggio, geografico quanto temporale,
reggerà le fila dei concerti in programma
per il 2014, portandoci dalla Francia all’Ungheria, dalla Russia all’Inghilterra,
alla Germania, ed esplorando quei repertori che hanno caratterizzato dal Seicento ad oggi l’evoluzione della musica e
del suo strumentario (dalla viola da
gamba al clarinetto, dal piano solo al
quartetto d’archi, all’ensemble da camera).
Ecco quindi l’apertura, giovedì 23 gennaio, con un programma tutto francese,
affidato all’Ensemble Sezione Aurea,
compagine che riunisce artisti dediti all’esecuzione del repertorio europeo del
XVII e XVIII secolo, utilizzando strumenti musicali e relative messe a punto
per quanto più possibili vicini – non
solo per età ma anche per territorialità –
alla genesi del repertorio indagato. A
guidarlo, uno straordinario violinista
come Luca Giardini, perfezionatosi nella
prassi esecutiva storica e spesso ospite di
ensemble di rilievo, tra cui Accademia
Bizantina, la Venexiana, The Orchestra
of the Age of Enlightenment. Accanto al
CALENDARIO 2014
Laboratori delle Arti /Auditorium
(Piazzetta Pier Paolo Pasolini 5/b) ore 20,30
2014 giovedì
23 gennaio
Ensemble Sezione Aurea
Musiche di Rameau, Royer,
Couperin, Marais, Leclaire
2014 martedì
4 febbraio
Orchestra da Camera
del Collegium Musicum Almae Matris
Carlo Tenan direttore
Musiche di Ferrabosco I e II, Vaughan Williams,
Finzi, Warlock, Jacob
2014 giovedì
20 febbraio
Quartetto Lyskamm
Foto Marco Borggreve
O
rmai diciassette anni fa, Musica
Insieme varava uno dei primi
accordi in Italia tra una fondazione privata e un’istituzione accademica: di concerto, letteralmente in questo caso, con l’Università degli Studi di
Bologna, nasceva così Musica Insieme in
Ateneo, con il preciso scopo di avvicinare
all’arte dei suoni il pubblico studentesco
attraverso appuntamenti dai programmi
vari e stimolanti, introdotti da conversazioni a carattere divulgativo. Il tutto era
mosso dall’intento di offrire un ulteriore
momento formativo che andasse ad affiancare e arricchire l’esperienza del con-
2014 giovedì
20 marzo
Leonardo Colafelice pianoforte
Musiche di Kurtág, Bartók
2014 lunedì
7 aprile
Andrea Massimo Grassi clarinetto
Musiche di Rachmaninov, Prokof’ev, Stravinskij
Michael Flaksman violoncello
Anna Quaranta pianoforte
Musiche di Schumann, Brahms
in collaborazione con
Centro La Soffitta – Dipartimento delle Arti
violino, il clavicembalo di Federica Bianchi, perfezionatasi con Gordon Murray
e premiata in numerosi concorsi nazionali ed internazionali, ed uno strumento
L’ingresso a tutte le manifestazioni della rassegna è gratuito per gli
studenti ed il personale docente e
tecnico amministrativo dell’Università di Bologna; gli inviti possono essere ritirati presso la sede
dell’URP in Largo Trombetti n. 1
la settimana precedente ciascun
concerto (Lunedì, Martedì, Mercoledì e Venerdì dalle 9 alle 12,30;
Martedì e Giovedì dalle 14,30
alle16,30). Il giorno del concerto, tutti i cittadini potranno ritirare
gli inviti ancora disponibili, recandosi all’URP negli orari di apertura.
Orchestra da Camera del Collegium Musicum Almae Matris
affascinante la cui storia è strettamente
legata alla letteratura musicale francese
(ed i cui fasti si sono rinnovati nell’ultimo ventennio anche grazie a star come
Jordi Savall ed a pellicole come Tutte le
mattine del mondo di Alain Corneau): la
viola da gamba, affidata a Rosita Ippolito, a sua volta ospite di importanti formazioni specializzate nell’esecuzione
della musica antica. Martedì 4 febbraio
si riconfermerà la tradizionale presenza
in cartellone della compagine del Collegium Musicum Almae Matris, diretta
per quest’occasione da Carlo Tenan, con
un programma che ci porterà invece in
Inghilterra, un’Inghilterra che sembra riflettere su se stessa, dal Seicento delle
pavans o delle variazioni sull’In nomine
della liturgia, al Novecento che a sua
volta riprende e rilegge con sguardo moderno le antiche forme e melodie (come
Alman, o l’intramontabile Greensleeves).
Uno sguardo ben riassunto dalle parole
di uno degli autori in programma, Peter
Warlock: «La musica non è né moderna
né antica: c’è tuttavia della buona o della
cattiva musica, ma la data nella quale fu
scritta non ha nessun significato. Le date
ed i periodi storici hanno senso solo per
gli studenti di storia della musica... tutta
la musica antica è stata moderna al
tempo in cui fu scritta… E tutta la
buona musica, di qualsiasi periodo, è
senza tempo». Continuiamo a scorrere il
cartellone, ed ecco che il viaggio di Musica Insieme in Ateneo prosegue alla volta
dell’Ungheria e della Russia, chiamando
a renderne testimonianza altri straordinari talenti, al loro debutto a Bologna. In
Ungheria ci porterà infatti (il 20 febbraio) il Quartetto Lyskamm, formatosi sotto la guida dell’Artemis Quartett presso l’Università delle Arti di
Berlino, vincitore di numerosi
premi, tra cui il Concorso Internazionale di musica da camera
“Guido Papini” 2009, ed ospite
del Festival Mito come della Società del Quartetto di Milano. Nel
suo impaginato, due autori fondamentali per il loro paese, e per il Novecento musicale tout court: Béla Bartók e György Kurtág. In Russia ci
guiderà invece (il 20 marzo) uno strabiliante artista appena diciottenne, quel
Leonardo Colafelice che nel 2012 ha
portato a casa il Primo Premio al Concorso “Chopin” di Szafarnia, e che nella
stagione in corso è già invitato ad esibirsi
in Europa e Stati Uniti, con l’Orchestra
dei Pomeriggi Musicali di Milano e con
la Aarhus Symphony Orchestra danese.
Per lui pagine di grande impegno tecnico, come le Variazioni Corelli di Rachmaninov, le Visions fugitives di Prokof ’ev, e la potenza bruitistica dei Tre
Movimenti da Petruška di Stravinskij. Il
concerto conclusivo, lunedì 7 aprile,
sancisce a sua volta una collaborazione
ormai consolidata com’è quella con il
Centro La Soffitta – Dipartimento delle
Arti dell’Università di Bologna, e lo fa
ospitando un ensemble raro quanto affascinante come il trio di clarinetto, violoncello e pianoforte, rispettivamente
con Andrea Massimo Grassi, Michael
Flaksman e Anna Quaranta, che si alterneranno in pagine di Schumann e
Brahms, per concludere il concerto con
il Trio di quest’ultimo per l’insolito organico appunto di clarinetto, violoncello
e pianoforte. Tutti i concerti saranno
aperti, com’è ormai tradizione, da conversazioni introduttive tenute dai docenti e dagli stessi artisti sul palco, nello
spirito di divulgazione e formazione del
pubblico che da sempre contraddistingue l’impegno di Musica Insieme.
Musica Insieme in Ateneo si realizza grazie al fondamentale contributo di Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, cui si aggiunge la partnership
tecnica di SOS Graphics.
Leonardo Colafelice
MICO - Musica Insieme COntemporanea 2014
Da gennaio a maggio, la nona edizione di Musica Insieme COntemporanea presenta
i ritratti di Grisey e Maderna, e un trittico dedicato alla voce d’oggi di Anastasia Miro
Serenate e paesaggi vocali
U
n percorso, dal titolo davvero
suggestivo di “Paesaggio voce”,
articolato in tre concerti e dedicato alla vocalità moderna e contemporanea, e due concerti-ritratto,
due omaggi che ci guideranno negli
universi sonori di altrettanti compositori, certo molto diversi tra loro sia
nella personalità sia nella produzione,
ma entrambi pietre miliari nel cammino della musica del secondo Novecento. Stiamo parlando di Gérard Grisey (scomparso proprio al limitare del
secolo scorso, nel 1998, cui dedicheremo il concerto d’apertura, il 28 gennaio) e Bruno Maderna, di cui ricorrevano nel 2013 i quarant’anni dalla
morte (e che ricorderemo nella serata
conclusiva del 16 maggio). Queste le
chiavi d’ascolto della nona edizione di
Musica Insieme COntemporanea. La
sede quella già rodata dell’Oratorio di
San Filippo Neri, sotto i riflettori
quello che ormai è a tutti gli effetti
l’ensemble residente della rassegna: il
FontanaMIX.
Dunque, è con “Ritratto Grisey” che
s’inaugurerà MICO 2014, con ciò proseguendo nella serie di “Ritratti” che
l’ensemble realizza da ormai diversi
anni intorno ad importanti composi-
Ensemble Accroche Note
20
MI
MUSICA INSIEME
Monica Bacelli
tori del panorama internazionale (ricordiamo fra gli altri Wolfgang Rihm,
George Crumb, Ivan Fedele, sino a Sofia Gubaidulina e George Aperghis,
protagonisti della scorsa edizione
2013). Quest’anno la scelta (che rientra nell’ambito del progetto “Suona
Francese”) è caduta dunque su Gérard
Grisey. Al centro del concerto, interamente costituito da sue partiture, una
delle più impegnative composizioni
del musicista francese: Vortex Temporum, portato a termine nel 1996. In-
torno a questa, tre pagine particolarmente idonee a dar testimonianza della
sua poetica: il Prologue per viola sola
(1976), Charme per clarinetto (1969)
ed infine la sua rilettura dei Lieder di
Hugo Wolf per voce ed ensemble, ultimata nel 1997. Solisti il mezzosoprano Marie Luce Erard, Valentino
Corvino alla viola e Marco Ignoti al
clarinetto. A dirigere il FontanaMIX
uno dei suoi fondatori: Francesco La
Licata.
“Maderna Sérénade” il titolo, poi, dell’ultimo concerto, un progetto presentato lo scorso dicembre alla Cité de la
Musique di Strasburgo e che, grazie
all’incontro (voluto e sostenuto dal Festival “Suona Francese/Italiano”) fra
l’Ensemble Accroche Note e il FontanaMIX, vuol mettere in luce il più
autentico spirito maderniano: gioia di
fare musica insieme, insaziabile curiosità per i differenti linguaggi musicali e
autentica passione per tutte quelle
istanze innovative di cui infine è fatta
la tradizione. Attorno alle tre Serenate
di Bruno Maderna che costituiscono il
fulcro del programma, i due ensemble
presenteranno quattro nuovi lavori di
Paolo Aralla, Igor Ballerau, Gilberto
Cappelli e Marco Antonio Perez Ramirez, dedicati alla figura del maestro
veneziano. I tre appuntamenti centrali
hanno invece, come accennavamo più
sopra, il titolo suggestivo di “Paesaggio
Voce”. La voce, infatti, è al centro dei
programmi di queste serate. La voce
impegnata in pagine che hanno segnato la storia della musica moderna e
contemporanea, come nel concerto del
13 febbraio, quando ascolteremo le
esperte Monica Bacelli e Valentina
Coladonato impegnate nelle celeber-
rime Folk Songs di Luciano Berio, ma
anche nella più rara Kantrimusik di
Mauricio Kagel, in un impaginato dov’è messa in primo piano la relazione
fra le nuove espressioni della vocalità e
il patrimonio delle tradizioni vocali del
folklore. Se infatti le undici Folk Songs
di Berio rappresentano una vera e propria ‘traduzione’, ora lirica ora vivace e
divertita, di melodie genuinamente popolari, Kantrimusik, eseguita per la
prima volta durante le Donaueschinger
Musiktage nel 1975, «intreccia due
soggetti: musica ‘dalla campagna’ e musica ‘sulla campagna’, ovvero musica
folklorica e sinfonia pastorale. Ma non
è un montaggio di citazioni da entrambe, né si tratta di quadri idilliaci»,
racconta lo stesso Kagel. Gli otto movimenti e sette intermezzi di questa pastorale attinta a diversi paesi rifuggono
infatti ogni facile montaggio di citazioni popolari o quadro idilliaco, come
conclude Kagel: «Ogni volta che i compositori hanno steso le loro ‘memorie
della vita in campagna’, l’aspetto aneddotico e illustrativo del linguaggio musicale ha avuto il sopravvento. Ora che
possiamo inserire materiale sonoro
concreto, abbiamo l’opportunità di fare
sintesi diverse fra naturalismo, impressionismo ed espressionismo veristico».
Il 25 marzo, poi, affidato al soprano
Livia Rado e sotto la direzione di
Marco Angius, ecco proposto per
“Paesaggio Voce II” quel Pierrot Lunaire di Arnold Schoenberg, rapida-
Musica Insieme COntemporanea
CALENDARIO 2014
Oratorio di San Filippo Neri
(Via Manzoni 5) ore 20,30
2014 martedì
28 gennaio
FONTANAMIX ENSEMBLE
Marie-Luce Erard mezzosoprano
Valentino Corvino viola
Marco Ignoti clarinetto
Francesco La Licata direttore
RITRATTO GRISEY
Musiche di Gérard Grisey
13 FONTANAMIX ENSEMBLE
febbraio 2014 giovedì
Monica Bacelli voce
Valentina Coladonato voce
Francesco La Licata direttore
PAESAGGIO VOCE I
Musiche di Kagel, Berio
25 FONTANAMIX ENSEMBLE
marzo 2014 martedì
Livia Rado soprano
Valentino Corvino violino
Marco Angius direttore
PAESAGGIO VOCE II
Musiche di Ghisi, Maderna, Schoenberg
16 FONTANAMIX ENSEMBLE
aprile 2014 mercoledì
Iris Lichtinger voce e flauti dolci
Chiara Telleri oboe
Eva Zahn violoncello
Walter Zanetti chitarra
Marco Angius direttore
PAESAGGIO VOCE III
Musiche di Evangelisti, Maderna, Sarto,
Gervasoni, La Licata
16 ENSEMBLE ACCROCHE NOTE
maggio 2014 venerdì
FONTANAMIX ENSEMBLE
Françoise Kubler voce
Giovanni Hoffer corno
Francesco La Licata direttore
MADERNA SÉRÉNADE
Musiche di Maderna, Aralla, Perez Ramirez,
Cappelli, Ballereau
Eva Zahn
e Sofia Gubaidulina
durante le prove
del concerto
del 7 aprile 2013
di MICO
Valentino Corvino
mente assurto a pagina simbolo della
trasformazione di un mondo, e non
solo in senso musicale. Il Pierrot, stravolgente capolavoro della vocalità da
camera del Novecento, verrà qui proposto accanto alla prima esecuzione
italiana di Abroad (per voce, strumenti
ed elettronica, su testi di Pessoa) del
giovane compositore Daniele Ghisi, il
cui lavoro si è peraltro già fatto strada
nei teatri di tutta Europa.
Terzo appuntamento dell’itinerario
“Paesaggio Voce”, il 16 aprile: un appuntamento nel quale verranno proposte le prime esecuzioni assolute di
opere di Nicola Evangelisti e Andrea
Sarto, mentre in prima italiana saranno
presentate pagine di Stefano Gervasoni
e Francesco La Licata, tutti brani caratterizzati dal rapporto fra la voce (in
questo caso quella di Iris Lichtinger) e
un particolare strumento solista.
ACQUISTO BIGLIETTI
I biglietti saranno in vendita
presso l’ORATORIO DI SAN
FILIPPO NERI (Via Manzoni,
5 Bologna), il giorno del concerto
a partire dalle ore 19.
PREZZI: Posto unico € 10.
Abbonati Musica Insieme, studenti
Università e Conservatorio € 7.
MI
MUSICA INSIEME
21
L’INTERVISTA
GABOR BOLDOCZKI
Il canto degli ottoni
F
Considerato l’erede ideale del grande Maurice André, il trombettista ungherese
si esibirà il 13 gennaio in un capolavoro assoluto di Šostakovič, al fianco
dei connazionali della Franz Liszt Chamber Orchestra di Bianca Ricciardi
ra i più brillanti artisti della sua generazione, Gabor Boldoczki si è imposto a livello nazionale giovanissimo, aggiudicandosi a 14 anni il Primo Premio del Concorso
Ungherese di tromba, e poco più tardi ha ricevuto la propria
consacrazione internazionale, con la vittoria al “Grand Prix de
la Ville de Paris”, la più importante competizione in assoluto per
il suo strumento. Esibitosi insieme alle più prestigiose orchestre
nei teatri di tutta Europa, nel 2013 è stato insignito del “Franz
Liszt Honor Prize”, la più alta onorificenza del Ministero della
Cultura Ungherese.
Come è nata la sua passione per la musica e in particolare per il suo strumento?
«La mia passione per la musica è iniziata davvero molto presto.
Mio padre era un insegnante di strumenti a fiato, e quindi mi
ha incoraggiato fin da piccolo ad imparare a mia volta a suonare
uno strumento. Così ho iniziato a studiare il pianoforte a otto
anni, e un anno dopo mio padre mi ha regalato una tromba. Mi
sono subito trovato a mio agio con questo strumento, e ho studiato molto insieme a lui. Il giorno del mio ventesimo compleanno, ho vinto il terzo premio al Concorso Internazionale di
tromba di Ginevra, ed è stato in quel momento che ho deciso
di diventare un musicista di professione».
Quali sono stati i suoi maestri più importanti, non solo dal
punto di vista musicale?
«Sicuramente mio padre ha esercitato una grande ispirazione su
di me nel mio processo di crescita, oltre ad influenzare la mia carriera come musicista. Un altro importante maestro è stato Reinhold Friedrich, professore di tromba al Conservatorio di Karlsruhe. Era nella giuria
dell’“ARD Music Competition” di Monaco
e del Concorso Internazionale “Maurice André” di Parigi, quindi in seguito ho deciso di
studiare con lui; è un musicista fantastico,
un bravo maestro e una persona davvero affettuosa».
Foto Marco Borggreve
La sua attività concertistica la porta ad esibirsi in tutto il mondo; come descriverebbe
il suo rapporto con il pubblico nei tanti
paesi in cui è invitato a suonare?
«Tenere concerti in tutto il mondo mi riempie
davvero di grande soddisfazione. Il posto in cui
preferisco in assoluto esibirmi è sempre il teatro dove ancora mi devo esibire – che sia il
Musikverein di Vienna o una piccola sala. Il
mio rapporto con il pubblico è sempre la cosa più importante,
mi piace comunicare con le persone che frequentano i concerti
e condividere con loro la mia esperienza musicale».
Quale potrebbe essere secondo lei un compositore del
passato o del presente da riscoprire?
«Amo molto la musica di Fazil Say, specialmente il suo Concerto
per tromba che ho avuto l’onore di suonare in prima assoluta
nel 2010 al Festival di Mecklenburg Vorpommern; è un musicista eccezionale e un grande amico. Sono anche molto emozionato perché Krzysztof Penderecki comporrà un’opera per me.
Credo che sia molto importante incoraggiare i compositori
contemporanei a scrivere nuove opere per tromba, in modo che
il repertorio vada via via espandendosi».
Come descriverebbe i suoi partner nel concerto per Musica Insieme?
«Suonerò a Musica Insieme con i miei connazionali della Franz
Liszt Chamber Orchestra; è un ensemble eccezionale, che proprio quest’anno celebra il cinquantesimo anniversario dalla
sua fondazione. A noi si unirà uno straordinario solista come
Alexander Romanovsky, ed insieme suoneremo il Concerto di
Šostakovič in do minore per pianoforte, tromba e archi».
Vuole descriverci questo Concerto di Šostakovič , che
peraltro rappresenta un unicum nel repertorio?
«Secondo me è semplicemente un capolavoro. In origine era
stato composto per essere un concerto per tromba e orchestra,
mentre il pianoforte venne aggiunto durante il processo di
composizione per farne un doppio concerto. Si tratta di un’opera
ricca di sentimento e di momenti di contrasto fra l’atteggiamento satirico dell’autore e la sua profonda malinconia; è
un’opera che amo davvero molto suonare».
La tromba è uno strumento che nella classica possiede un
repertorio non sterminato, ma ricco di capolavori: quali
sono a suo avviso i ‘must’ per tromba solista?
«Non ci sono così tante opere per tromba, come ce ne sono per
il pianoforte, ma ci sono molte possibilità di ampliare il repertorio grazie alle trascrizioni e alla musica dei compositori contemporanei. Il mio ultimo cd, Tromba Veneziana, è un album
di trascrizioni di Vivaldi che ho registrato con l’ensemble Cappella Gavetta; Vivaldi ha scritto solo un concerto per tromba,
così ho arrangiato una selezione dei suoi lavori per altri strumenti. Questa esperienza mi ha dato la possibilità di ‘cantare’
con il mio strumento. Amo suonare queste opere accanto al repertorio classico per tromba, e non vedo l’ora di condividere
questi pezzi con il pubblico durante il mio prossimo tour».
INTERVISTA DOPPIA
FEDERICO COLLI - PAUL LEWIS
Al di là del suono
I
Dall’Italia all’Inghilterra, due raffinati interpreti ci presentano il loro programma
per Musica Insieme, raccontandoci anche, con profondità e passione, la loro
filosofia artistica di Cristina Fossati
l primo, inglese, ha calcato i palcoscenici delle più prestigiose
sale da concerto d’Europa e d’oltreoceano, sebbene il suo
nome resti particolarmente legato alla Wigmore Hall di
Londra dove è apparso in più di 40 occasioni, suonando con le
principali compagini, dalla London Symphony Orchestra alla
Los Angeles Philharmonic, dai Wiener Symphoniker alla Australian Chamber Orchestra. Il pubblico bolognese lo ricorderà
di certo per le sue apprezzatissime interpretazioni schubertiane,
che lo hanno visto protagonista fra l’altro della rassegna dedicata
al compositore viennese per Musica in Santa Cristina 2011/12.
Il secondo è bresciano, ma in Inghilterra ha avuto la sua grande
consacrazione, aggiudicandosi il 1° Premio con Medaglia d’oro
“Daw Aung Sun Suu Kyi” al Leeds International Piano Competition nel 2012: nella Town Hall di Leeds, registrato dal vivo
da BBC Radio 3 e BBC Four, ha suonato il Quinto Concerto
di Beethoven con l’Orchestra Sinfonica Hallé di Manchester diretta da Sir M. Elder. Dall’Italia all’Inghilterra, Paul Lewis e Federico Colli si raccontano in questa intervista in cui emergono
due personalità diverse per formazione e sensibilità, ma con una
caratteristica comune: un sincero, spontaneo legame con il pubblico che li ascolta.
Nei vostri ricordi, qual è stato il più bel concerto (suonato
o ascoltato)?
Paul Lewis: «Questa è una domanda troppo difficile! Un concerto
che mi ha impressionato davvero molto è stato quello di Benedetti Michelangeli che andai a sentire alla Barbican Hall
di Londra quando avevo 14 anni. Quella fu davvero
una grande occasione per me».
Federico Colli: «Sono spiritualmente molto legato ai
concerti tenuti da Sokolov nel Teatro della mia città.
Ricordo, quasi sei anni fa, una sua interpretazione
della Sonata in do minore di Schubert: ero seduto
sulle scale del teatro, entrato di soppiatto, ogni antro
era zeppo di pubblico. Ricordo l’impressione che mi
rese incapace di alzarmi, l’incredulità di fronte a tale
chiarezza di libertà e di idee. È stato un concerto che mi
ha trasfigurato e rivelato».
Foto Sarah Ferrara
Qual è a vostro avviso un compositore
del passato o del presente da riscoprire?
Paul Lewis: «Nell’ultimo periodo ho lavorato sulla Sonata per pianoforte di
Julius Reubke, e credo che sia un lavoro
che meriterebbe una maggiore noto24
MI
MUSICA INSIEME
rietà. Questo compositore non ha scritto molte opere e morì
molto giovane, ma quello che ci ha lasciato è straordinario».
Federico Colli: «La musica contemporanea è come un enorme calderone nel quale è necessario (necessario perché possibile) far
luce, portando a galla le opere più meritevoli. Scrivere musica
oggi è l’impresa più ardua – e paradossalmente più banale – mai
immaginata. Rifuggendo ogni accademismo, ogni preconcetto,
sono le libere idee a dover inverarsi nella musica, i pensieri di ordine filosofico e storico a dover parlare, pensieri che trovano nell’arte – oggi più che mai – il loro più grande accomunamento.
Ritrovo questi temi fondamentali nella musica di un mio caro
amico e mentore: Alberto Bonera».
Quali sono stati i vostri più importanti punti di riferimento
(non solo dal punto di vista musicale)?
Paul Lewis: «La mia famiglia; mi ha sempre aiutato a rimanere
con i piedi per terra».
Federico Colli: «Sono molto legato ai miei amici defunti, che purtroppo non ho mai conosciuto: Bach mi insegna il timore dell’Assoluto, Mozart la semplicità mai frivola, Beethoven la bramata disfida nei confronti del Cielo, Liszt la vacuità delle troppe
parole, Schumann la fortunata meraviglia con cui interpretare il
magma che ci muove. Insomma, sono gli amici con cui condivido la mia quotidianità. A volte rispondono, a volte mi consigliano. Sono pieno di gratitudine per ogni persona che ha saputo
darmi qualcosa di buono, donarmi qualche seme che nella mia
anima, col tempo, è germogliato. La mia prima insegnante, Anita Battioni, che ha fatto della musica un
gioco infantile mai noioso; il mio primo Maestro,
Sergio Marengoni, che mi ha traghettato dalla
fanciullezza alle porte della maturità; Konstantin Bogino che mi insegna la sofferenza, la solitudine e la stremante abnegazione quotidiana
sullo strumento; Boris Petrushansky, che mi insegna le idee; Enzo Restagno, che come una
lanterna dalla luce mai fioca mi consiglia e mi
sprona in ogni ambito della mia vita professionale; Franco Scala, che mi insegna la saggezza del saper vedere lontano; Marian
Rybicki, che ha creduto in me in un
momento difficile della mia vita
musicale; Pavel Gililov, che mi insegna l’arte della diplomazia».
Federico Colli
Foto Harmonia Mundi - Eric Manas
Fra i premi e i riconoscimenti (anche verbali) che avete ottenuto nella vostra carriera, qual è il più importante?
Paul Lewis: «Parlare con qualcuno che ha assistito a un tuo concerto e vedere che è stato trasportato dalla tua musica in maniera
totalmente sincera. Questo è il premio più grande».
Federico Colli: «Siamo perennemente insoddisfatti di noi stessi:
per questo, troviamo nella nostra volontà la forza di voler sempre essere migliori di quel che già siamo. I premi sono segni che
confermano di essere sulla giusta strada. Le parole si conservano
sempre nel cuore: in Polonia, lo scorso giugno, dopo un concerto
molto raffinato con musiche di Mozart e Schubert, un ragazzo
non vedente si avvicina a me dicendomi: “Grazie Maestro,
ascoltandola mi è parso di poter vedere nuovamente davanti ai
miei occhi immagini colorate”».
C’è un’opera pianistica a cui siete particolarmente legati,
e se sì per quali motivi?
Paul Lewis: «Tutto quello che suono, non sono in grado di scegliere un’opera sola».
Federico Colli: «Sicuramente Gaspard de la Nuit di Ravel. Lo studio di quest’opera è stato per me formativo e totalizzante: ho imparato che le opere non sono creazioni esterne alla nostra anima,
ma diventano parte integrante del nostro destino; ho imparato
a dialogare e accettare le inquietudini e i demoni che abitano
dentro il cuore di un artista; ho imparato che, per fare di questi
capolavori un’opera d’arte, è necessario che la propria vita sia essa
stessa un’opera d’arte».
Maestro Lewis, il programma che presenta per Musica Insieme traccia una storia del pianoforte da Beethoven a
Busoni, con opere che hanno rivoluzionato sia l’uso dello
strumento che la concezione formale: quali sono gli
aspetti più interessanti che ha voluto mostrare in questa
antologia musicale?
Paul Lewis: «Ho voluto mettere in evidenza l’incredibile originalità delle opere nella seconda metà del XIX secolo e il contrasto tra realtà e fantasia che passa attraverso tutto il programma».
C’è un motivo per cui ha deciso di alternare le due Sonate
op. 27 di Beethoven ad altrettante elaborazioni di Busoni
dei Corali bachiani?
Paul Lewis: «Sì, certo: i Corali di Bach sono opere che si percepiscono come molto connesse alla terra, ma che tuttavia cercano
di stabilire un legame con un luogo che è al di là. Entrambe le
due Sonate di Beethoven op. 27 – quasi una fantasia – cominciano come se si fosse in un luogo al di là. Per questo ho voluto
ricreare questa sensazione di connessione correndo attraverso le
opere senza neanche una pausa».
In che modo secondo lei la rilettura di Busoni arricchisce
i preludi bachiani?
Paul Lewis: «Il modo di suonare è sicuramente di Busoni, ma la
musica è ancora di Bach. La ricchezza della sonorità del pianoforte è una meravigliosa aggiunta ai Preludi-Corali, pur mantenendone il senso originale».
Due anni fa ha eseguito i capolavori di Schubert per la
rassegna Musica in Santa Cristina. Che ricordo ha del
pubblico bolognese?
Paul Lewis: «Un pubblico molto attento, informato e preparato».
Maestro Colli, nel 2012 ha vinto il Primo Premio al “Leeds
International Piano Competition”; trova sensibili diffe-
Paul Lewis
renze fra il pubblico anglosassone e quello italiano?
Federico Colli: «Ogni pubblico, dal Brasile al Giappone, dal
Messico alla Russia, ascolta ed apprezza in modo diverso, perché
diversi sono il mondo culturale e le categorie di pensiero a cui
appartiene. Comunque, tra anglosassoni e italiani non ho notato
sostanziali differenze».
Il suo programma sembra mostrare le evoluzioni e rivoluzioni della sonata in appena mezzo secolo di storia:
quali sono a suo avviso i ‘punti cruciali’ dei tre lavori?
Federico Colli: «Il mio programma, una sorta di pacco preconfezionato, vuole essere una proposta che lascia all’ascoltatore un
senso di unità e coerenza. Esso mostra il concetto di sonata così
come era al comincio (Mozart), nella sua apoteosi di profondità
e grandiosità (Beethoven) e nel suo lento ma rovinoso disfacimento, nella decomposizione della forma vincolata a favore di
una vitalità libera, di una freschezza irrefrenabile del sentire
(Schumann)».
Un paio di anni fa ha partecipato insieme al suo collega
Casadei a un noto programma televisivo di Canale 5, Italia’s Got Talent. Cosa ricorda di questa esperienza? Crede
che l’utilizzo dei nuovi media possa aiutare ad avvicinare
i giovani al mondo della musica classica?
Federico Colli: «Ci siamo divertiti tanto, ma abbiamo anche capito quali regole e quali dogmi governano il mondo della televisione. Il proponimento di demitizzare il rito del concerto, la
voglia di svestire il frac e di avvicinarsi in modo non convenzionale al pubblico dei non addetti ai lavori, insomma il desiderio
di portare la musica colta a chiunque – principii che ci avevano
indotto a partecipare alla trasmissione – sono risultati mere illusioni giovanili. Soprattutto, abbiamo purtroppo capito che viviamo in un’epoca in cui il culto della bellezza, nella sua essenza
più vera, non esiste più. Ma non sarà la bellezza a salvare il
mondo, bensì la verità».
Progetti futuri?
Paul Lewis: «Una combinazione di varie cose: Brahms, Haydn,
Liszt, Schoenberg e molto altro!».
Federico Colli: «Studiare. Tutto il resto viene di conseguenza».
MI
MUSICA INSIEME
25
L’INTERVISTA
BELCEA QUARTET
Omaggi inglesi
I
Debutta a Bologna il Quartetto formatosi a Londra, ma composto da musicisti
di tre nazionalità diverse, uniti da una forte amicizia che li ha fatti sentire
“una cosa sola fin dal primo momento” di Alessandro Di Marco
l Belcea ben rappresenta lo stato attuale dell’arte nell’aristocratico contesto del quartetto d’archi. Oggi, infatti, l’intersecarsi delle diverse scuole, e di
conseguenza dei differenti stilemi interpretativi che avevano caratterizzato le vicende di questo ensemble per tutto il secolo scorso, è il dato di maggior interesse.
Così non sorprende che il Belcea sia nato
– correva l’anno 1994 – nel fecondo ambiente londinese del Royal College of Music, ma a fondarlo siano stati una violinista rumena – Corina Belcea appunto – ed
un violista polacco, Krzysztof Chorzelski.
A loro volta, sommandosi così alla formazione londinese, eccoli portatori di
un’esperienza formativa che li aveva visti
seguire il magistero di due grandissimi
quartetti, quali l’Alban Berg e l’Amadeus.
A tutto questo s’aggiunge l’esperienza ancora diversa, maturata in terra di Francia,
dei loro due compagni di viaggio: il violinista Axel Schacher ed il violoncellista
Antoine Lederlin. Altro elemento che caratterizza la nouvelle vague del quartetto
d’archi nel terzo millennio è l’interesse
per la musica moderna e contemporanea
da un lato, che sembra sempre più unirsi
– vero e proprio segno dei tempi – a
quello per il sostegno alle attività musicali
di formazione destinate alle nuove generazioni. Lo sguardo sul contemporaneo,
peraltro, come dimostra il programma
che presenteranno nel loro debutto a Bologna, si estende spesso a quello verso il repertorio antico, in un ulteriore stratificarsi di suggestioni e suggerimenti.
Lasciamo che sia proprio la violinista Corina Belcea a raccontarci la vicenda artistica di quello che oggi è uno dei quartetti
protagonisti della scena internazionale.
Il Quartetto Belcea è nato nel 1994 è
lei ne è stata la fondatrice. Com’è
26
MI
MUSICA INSIEME
avvenuto il vostro primo incontro e
quali sono stati i vostri primi passi
sulla scena musicale?
«È vero, siamo nati nel 1994. Al di là del
comune amore per la musica da camera
e per il repertorio quartettistico, ad unirci
è stata l’amicizia fra tre di noi (il violista,
il violoncellista ed io eravamo già amici
ai tempi in cui frequentavamo la Yehudi
Menuhin School, dove sono stata per tre
anni prima di passare al Royal College of
Music). Inoltre, last but not least, ci ha
unito il profondo rispetto e l’ammirazione per il Quartetto Chilingirian, che
allora insegnava al Royal College. Personalmente, ho sempre amato il modo di
suonare e di insegnare del primo violino, Levon Chilingirian, e fremevo nell’attesa di poter andare a lezione da lui.
Così il nostro primo incontro è stato
particolarmente emozionante, tanto più
che Laura, l’elemento che ancora non
conoscevamo, ha dimostrato la stessa
acuta curiosità nell’esplorare il repertorio
quartettistico. Insomma, ci siamo sentiti
una sola cosa fin dal primo momento. Il
primo pezzo che abbiamo affrontato è
stata l’op. 18 n. 1 di Beethoven, davvero
una grande sfida per noi. Poi, più tardi,
è cominciata la carriera vera e propria. In
quel momento ci siamo resi conto di
quanto sarebbe stata dura la nostra vita,
poiché l’attività quartettistica richiede
molto lavoro e sacrifici. Tra di noi – eravamo tutti più giovani – c’è stato anche
chi ha sentito come troppo restrittiva
quella scelta, che lo allontanava da ogni
altra (come la composizione, oppure
semplicemente la vita da studente), ed è
stata la maturità di Krzysztof, di pochi
anni più vecchio di noi, a tenerci uniti.
Sulla scena internazionale ci siamo arrivati cominciando con le masterclass con
il Quartetto Amadeus in Austria e Francia, e poi con l’Alban Berg, che abbiamo
incontrato regolarmente nel perfezionamento per la Hochschule di Colonia.
Un grandissimo aiuto è arrivato quando
abbiamo ottenuto il sostegno dallo
“Young Concert Artist Trust”, che ci ha
permesso di realizzare concerti sia in
Gran Bretagna sia all’estero».
Parlando del programma che presenterete a Bologna, ritiene possibile
tracciare una linea che unisca Purcell
a Britten in una sorta di “via inglese”
alla musica per archi? Ovvero, ritiene
che esista una possibile relazione
nella produzione musicale britannica
tra l’antico e il moderno?
«Come Britten stesso ebbe a dire: “Uno
dei miei scopi è cercare di restaurare la
struttura del linguaggio musicale inglese,
quella brillantezza, libertà e vitalità che
sono divenute stranamente rare dalla
morte di Purcell”. Britten è stato un
grande ammiratore di Purcell, e riportò
alla ribalta numerose sue composizioni,
anche incorporandole all’interno delle
proprie, come nel caso di The Young Person’s Guide to the Orchestra, che ha appunto per sottotitolo Variazioni e Fuga su
un tema di Purcell: ed ancora, eccolo modellare i suoi Five Canticles sui Divine
Hymns di Purcell; ed avvicinandoci al nostro repertorio, non possiamo non ricordare che il suo Secondo Quartetto per archi, realizzato nel 1945, fu composto
come un omaggio a Purcell».
Il Quartetto Belcea ha registrato l’integrale dei Quartetti di Britten. Il
Terzo, e ultimo, è una composizione
davvero speciale, scritto com’è un
anno prima della morte, e con esplicite citazioni dalla sua ultima opera
Morte a Venezia. Quale via interpre-
«È davvero una composizione fuori dall’ordinario ed è uno dei brani che sentiamo più vicini ai nostri cuori. All’inizio
non è stato facile per chi di noi veniva da
una cultura più sanguigna, quella dell’Europa Orientale, afferrare l’arte tutta
britannica dell’understatement, ma alla
fine, con l’aiuto dei nostri colleghi, con il
magistero dell’Amadeus, un po’ alla volta
ci siamo avvicinati a quel modo davvero
elusivo, delicato, ma commovente, di
scrivere per archi. L’aver potuto ascoltare
i componenti dell’Amadeus, che ci parlavano di quella musica in maniera tanto
intima, ci ha permesso di conoscere sempre più a fondo questo suo lavoro. Del resto, l’Amadeus aveva eseguito il Terzo
Quartetto davanti a Britten a casa sua, ed
è stata questa l’unica volta che il compositore lo ha ascoltato prima di morire.
Inoltre siamo stati invitati molte volte al
Festival di Aldeburgh, dove abbiamo registrato l’integrale di Britten e molti dei
nostri cd: così siamo venuti a contatto
con il mondo che Britten amava. Ecco il
frusciare del vento alle spalle della sala da
concerto dello Snape Maltings, quella
speciale solitudine, con la quale a volte
vieni in contatto visitando quell’affascinante parte dell’Inghilterra, il canto degli
uccelli che ritrovi nel terzo movimento ed
infine, ovviamente, l’unicità della bellezza
di Venezia, che ha ispirato il finale. Abbiamo cercato di trasferire tutto questo
nella nostra interpretazione e di farlo sentire al pubblico. Spesso ho avuto la sensazione che il pubblico, infatti, percepisse
il senso della morte incombente provato
dal compositore e da lui descritto nel finale: l’ultimo accordo, che Britten stesso
aveva definito come “una domanda”, e
l’ultima nota tenuta del violoncello solo,
che suona un po’ come il rallentare ed il
fermarsi del battito cardiaco attraverso il
monitor in una stanza d’ospedale. Del
resto, con la consueta modestia, Britten,
dopo aver ascoltato l’esecuzione dell’Amadeus, rivolgendosi al suo amico
Hans Keller, che lo aveva convinto a scrivere quel Terzo Quartetto, disse semplicemente: “It works” (“funziona”)».
Perché un’opera di Mozart in chiusura di programma?
«Le Fantasie di Purcell possono essere
Foto Ronald Knapp
tativa avete scelto per affrontare
un’opera così particolare?
suonate, a nostro avviso, solo all’inizio.
Per noi rappresentano l’equivalente moderno di un’introduzione di un gruppo di
viole, che poi inviti ad ascoltare una musica più intima, qual è quella del Terzo di
Britten. L’ovvio legame tra Purcell e Britten ci porta a chiudere la prima parte.
Mozart serve forse a risollevare lo spirito,
dopo l’atmosfera meditativa e non proprio
ottimistica della Passacaglia di Britten».
seguirli regolarmente, con la stessa passione e attenzione che noi, da studenti,
abbiamo ricevuto. L’altro aspetto importante dell’attività del Trust sono le commissioni di nuovi lavori, commissioni che
possiamo realizzare grazie ai nostri sostenitori e cercando di lavorare con compositori che sentiamo affini. Un giorno riusciremo a convincere anche Thomas Adès
a scrivere un lavoro per noi…».
Vorrebbe dirci qualcosa a proposito
del “Belcea Quartet Trust”?
Questo sarà il vostro debutto a Bologna, ma avete già suonato in Italia.
Cosa pensate del pubblico italiano?
«Il “Belcea Quartet Trust” nasce dalla necessità di avere una maggiore autonomia
in alcune aree della nostra attività. L’insegnamento è una parte rilevante del nostro impegno. Ciò che per noi fa la differenza è la motivazione in chi studia. Così
abbiamo potuto in tutta autonomia scegliere tre Quartetti per noi promettenti e
«Sì, abbiamo suonato in Italia molte volte.
La più recente a Genova, dove abbiamo
realizzato l’integrale dei quartetti di Beethoven. Abbiamo trovato il pubblico italiano non solo attento e caloroso, ma soprattutto capace di ascoltare in silenzio e
di reagire in maniera davvero positiva».
MI
MUSICA INSIEME
27
L’INTERVISTA
VIKTORIA MULLOVA
Nel cuore della musica
La violinista russa, presenza costante dei nostri cartelloni, torna a Bologna con uno
dei suoi eccentrici progetti insieme al violoncellista e arrangiatore Matthew Barley,
puntando dritto all’anima gitana della musica di Fulvia de Colle
«L
ei è il cuore pulsante intorno al quale ruota tutto».
Così ha definito Viktoria
Mullova il pianista Julian Joseph, che
ascolteremo insieme a lei a Bologna in
The Peasant Girl. Per il pubblico di Musica Insieme, ogni incontro con la violinista russa è anche l’occasione per superare le tradizionali definizioni di genere,
incontrare nuovi repertori e organici inediti (nel 2009 l’abbiamo ascoltata insieme a Giuliano Carmignola in un programma per duo di violini, nel 2011 ha
riletto le sonate di Beethoven accompagnata dal fortepiano): esplorazioni musicali, insomma, rese possibili da una
tecnica impeccabile, ma anche dalla curiosità di un’artista ‘colta’ dal cuore di
paesana, come ci racconta in questa intervista. In The Peasant Girl, che unirà
Viktoria Mullova alla band capitanata
dal violoncellista e arrangiatore (nonché
suo consorte) Matthew Barley, si riuniranno anche l’Europa dell’Est, la Russia
e l’America, il Mediterraneo e i Balcani,
il gypsy e il jazz. Il programma allinea infatti, accanto ai due compositori-etnomusicologi Bartók e Kodály, nomi come
John Lewis del Modern Jazz Quartet, o
i Weather Report, band americana animata da leggende quali Jaco Pastorius,
Joe Zawinul, Wayne Shorter. E poi le
tradizioni russe, come in Yura, che s’intrecciano al Mediterraneo del DuOud,
ossia un duo di autori e virtuosi di oud
tunisini.
Ci racconterebbe innanzitutto come
è nato questo originale progetto?
“
«Nel 2000, con Matthew Barley abbiamo realizzato un progetto dal titolo
Through the Looking Glass, che è approdato anche a Bologna per Musica Insieme: si trattava del nostro primo progetto in assoluto in cui uscivamo dalla
musica ‘classica’ in senso stretto, ed era
un’operazione molto difficile perché ancora nessuno sapeva esattamente che
cosa fosse, cosa ne sarebbe nato...
Quando abbiamo cominciato invece a
preparare The Peasant Girl l’idea era
molto più chiara: avevamo scoperto che
tantissima musica è influenzata dalle tradizioni est-europee e gitane. Non solo la
classica, ma anche molte canzoni jazz
sono piene di queste influenze: abbiamo
deciso quindi di dividere idealmente il
programma a metà, con una parte classica che comprenderà i Duetti di Bartók
e una Sonata di Kodály, entrambi compositori che hanno raccolto un gran numero di melodie popolari magiare ‘sul
campo’, usandole, o comunque rifacendosi ad esse nelle loro composizioni. Poi
ci sarà la musica jazz, con gli arrangiamenti di brani che hanno risentito
molto di queste influenze gitane, da
Django di John Lewis a Pursuit of the
Woman with the Feathered Hat dei Weather Report, e molto altro».
Anche il titolo The Peasant Girl proviene da una canzone dei Weather
Report...
«Fino ad un certo momento non sapevamo proprio come intitolare questo
progetto, poi parlando del mio passato,
mentre preparavamo un libro autobio-
grafico che ho scritto con la collaborazione di un’amica, Eva Maria Chapman,
lei rideva e diceva, “Tu suoni Bach e
Beethoven, ma provieni pur sempre da
una famiglia di contadini!”; è assolutamente vero, e mi ha fatto pensare che io
sono davvero ‘contadina’, pur suonando
musica molto raffinata... Mentre parlavamo di questo insieme a mio marito,
stavamo ascoltando in sottofondo un
brano dei Weather Report che Matthew
aveva già intenzione di arrangiare, ma
del quale non conoscevamo ancora il titolo: quando abbiamo scoperto che quel
brano si intitolava proprio The Peasant,
ci è venuta l’idea di dare il nome The
Peasant Girl all’intero progetto».
From Russia To Love – The Life and
Music of Viktoria Mullova è il titolo
della sua biografia, scritta appunto
dalla Chapman con la sua collaborazione. Che cosa le ha dato il ‘la’?
«Con Eva Maria abbiamo parlato a
lungo delle mie origini, dei miei avi. La
mia famiglia (che viveva in un villaggio
ucraino) era molto povera, ed i miei
hanno sofferto tantissimo durante la
guerra e la rivoluzione sovietica. Quello
che volevo fare era proprio raccontare
delle mie origini contadine, e poi di
come andavano le cose nell’Unione Sovietica al tempo in cui sono cresciuta,
sino alla storia della mia rocambolesca
fuga negli Stati Uniti attraverso Finlandia e Svezia, nel 1983 [quando Viktoria
Mullova e il suo compagno dovettero attendere tutto il fine settimana nascosti in
una camera d’albergo di Stoccolma poiché
Adoro la musica brasiliana, e fra qualche mese pubblicherò un nuovo
cd, Stradivarius in Rio, interamente ideato e prodotto da me
28
MI
MUSICA INSIEME
“
l’Ambasciata americana era chiusa per le
celebrazioni dell’Independence Day, ndr].
Tutto il resto è venuto dopo. Ho semplicemente pensato che sapere come andavano le cose in un certo periodo storico fosse molto importante, e potesse
interessare tutti».
Oltre agli arrangiamenti originali dei
brani classici e non, Matthew Barley
ha composto per lei anche un altro
pezzo in programma: Yura, dedicato
a suo padre, ed ispirato alla visione
del Lago Bajkal in Siberia.
«Sì, e proprio il giorno dopo che l’abbiamo eseguito per la prima volta, mio
padre è morto. Matthew l’aveva scritto
due mesi prima pensando a lui, che peraltro era già molto malato».
Ritiene che accostare molti generi
musicali, anche più ‘leggeri’, possa
aiutare la causa della divulgazione,
specie fra i giovani che non sempre
frequentano le sale da concerto?
«Credo di sì, il punto è che si tratta semplicemente di musica molto bella e interessante, inoltre c’è tanta improvvisazione (io stessa ho imparato ad
improvvisare dopo una vita intenta ad
eseguire le note ‘scritte’!), di modo che
ogni concerto è diverso dagli altri. Con
questo programma abbiamo tenuto oltre
50 concerti in tre anni, un tour che si coronerà praticamente a Bologna, prima di
dedicarci ad un nuovo repertorio...».
Dai concerti di Bach (che presentiamo più avanti in questo numero,
nella rubrica Da ascoltare) al jazz,
sembrerebbe che lei volesse esplorare l’intero universo violinistico: ha
già in cantiere un nuovo progetto?
«Sì, si chiamerà Stradivarius in Rio:
uscirà fra pochi mesi – il montaggio è già
ultimato – un cd con arrangiamenti di
canzoni brasiliane da me realizzato insieme a una chitarra, due percussioni, e
Matthew Barley al basso. Adoro questo
repertorio, e tengo particolarmente a
questo progetto, che ho ideato io in
prima persona, mentre per gli altri miei
incontri musicali al di fuori della classica
il ‘colpevole’ è stato sempre mio marito.
Credo che quella brasiliana sia una musica bellissima, chi la ascolta non può
non provare gioia».
Tornando a The Peasant Girl, il violino è tradizionalmente un protago-
nista della musica est-europea e zigana: come cambia il modo di suonarlo, e quale strumento usa per
questo particolare repertorio?
«Ho due strumenti, un Guadagnini del
1750 che uso per la musica barocca e
classica, come i concerti di Bach, Vivaldi, o Beethoven, mentre il mio Stradivari “Julius Falk” (del 1723) lo uso per
tutto il resto, come nel caso di The Peasant Girl, o del disco che abbiamo registrato a Rio. Ovviamente cambia tutto,
sia a seconda dello strumento che del
repertorio; quando sono impegnata nei
miei progetti crossover, tutto è molto più
rilassato, e considero una mia grande
fortuna poter eseguire molti generi musicali diversi».
In un repertorio come questo, molto
contano anche creativamente gli interpreti e, come dicevamo, l’improvvisazione.
«Sì, anche grazie ad artisti provenienti da
un ambiente non classico, come il pianista Julian Joseph che mi ha dato molto
supporto, ho potuto imparare ad improvvisare: la mia ‘prima volta’ come improvvisatrice è stata praticamente solo
un anno fa, e lo ritengo molto liberatorio e importante per eseguire un repertorio come quello di The Peasant Girl o
Stradivarius in Rio. Suonare con mio
marito Matthew Barley, poi, è una bella
esperienza e ci permette di non separarci troppo a lungo, viaggiando insieme
per le nostre tournée. Il fatto poi che entrambi adoriamo il repertorio che eseguiamo aggiunge gioia alla gioia. Per
The Peasant Girl in particolare, Matthew
ha scritto tutti gli arrangiamenti, me li
ha per così dire cuciti addosso, mentre
Stradivarius in Rio è un progetto interamente mio: per la prima volta sono stata
io ad occuparmi di tutto, dalla scelta
delle musiche alla loro produzione».
The Peasant Girl insomma è anche
un incontro fra due mondi, il classico
e il ‘popolare’...
«Infatti: oltre a me, il percussionista Sam
Walton proviene dal repertorio classico,
mentre Paul Clarvis, che suona con noi
anche in Stradivarius in Rio, proviene
da un ambito meno accademico. Ma a
me piace particolarmente suonare con
colleghi che provengono dagli ambienti
musicali più vari, è stimolante».
MI
MUSICA INSIEME
29
IL PROFILO
MODEST MUSORGSKIJ
Natura e verità
Ritratto di un compositore il cui genio fu riconosciuto solo postumo:
un anti-accademico che amava il linguaggio della natura e della propria terra, come
nei Quadri di un’esposizione in programma per Musica Insieme di Giordano Montecchi
Q
ualche mese fa, su questa pagina, scrivendo di Dvořák, abbiamo citato una frase di Debussy riferita a Musorgskij: «egli ha
numerosi diritti alla nostra devozione».
Obbligatorio ricuperarla, ora che questa
paginetta è dedicata proprio a lui: Modest
Petrovič Musorgskij. La gratitudine che
Debussy gli riserva, scrivendo nel 1901
sulla Revue Blanche, sarebbe stata certamente ricambiata da parte di Musorgskij,
se solo questi fosse vissuto più a lungo, anziché finire tristemente la sua esistenza nel
1881, a soli 42 anni, distrutto dall’alcool.
È infatti anche grazie alla sconfinata ammirazione che Debussy nutrì per la sua
musica, che l’autore del Boris Godunov
avviò finalmente la sua carriera postuma
nei panni del genio, quale egli era, anziché
del naïf di talento quale fu considerato durante la sua vita, e specialmente dai suoi
compagni e amici pietroburghesi che compativano la sua testardaggine e si credevano musicalmente più ferrati di lui.
Tutto sommato è abbastanza facile riassumere Musorgskij in due parole: un sov-
versivo radicale e intransigente della dottrina compositiva classico-romantica, in
particolare di matrice tedesca. A questo
proposito, tanto citata quanto eloquente è
la celebre lettera spedita a Nikolaj RimskijKorsakov il 15 agosto 1868: «Il mio parere
è che tanto più si è semplici e sinceri,
tanto più si è convincenti... Perché volete
imitare i tedeschi? ... Oh che effetti inutili!
Quanto rovinate la buona musica!». Ancora a proposito dello sviluppo sinfonico:
«Sembra che abbiate paura di scrivere alla
Korsakov e non alla Schumann... Basta
con lo sviluppo sinfonico... Quando l’artista si mette a rielaborare, resta insoddisfatto e quando essendo già soddisfatto si
mette a rifare o, ancor peggio, a far delle
aggiunte, allora tedescheggia e rimastica
quanto ha già detto. Noi non siamo ruminanti ma onnivori. – Contraddizioni! –
Seguiamo la natura». La “natura” era il
chiodo fisso di Musorgskij, animato com’era da un’incrollabile fede nel realismo
estetico. Egli fece di tutto per travasarla
nella propria musica – e non di rado vi
riuscì lasciando sconcertati i suoi contemporanei e noi: ma se i primi scuotevano la testa, Debussy e anche noi restiamo a bocca aperta per certe intuizioni
di libertà e originalità tali da scavalcare a
pie’ pari il suo tempo, offrendo modelli
che sono tuttora da godere e approfondire. Musorgskij voleva un canto che riproducesse come un sismografo l’espressione della lingua russa. Rifiutava l’idea
dello sviluppo perché ammirava la costruzione formulaica, le ripetizioni variate
della musica contadina. Rifiutava i precetti dell’armonia con una nettezza degna
di certi mavericks americani alla Ives o
alla Zappa. E cercava suoni ‘altri’: neri e
Modest Musorgskij (1839-1881) in un ritratto di Il'ja
Repin eseguito pochi giorni prima della sua morte
30
MI
MUSICA INSIEME
pesanti come la terra, taglienti come il
ferro, limpidi come l’acqua. Oppure che
riportassero amorevolmente alla memoria
i dipinti di Viktor Aleksandrovič Hartmann, uno dei suoi migliori amici, deceduto a 39 anni. Dopo la sua morte, nel
1874, a Pietroburgo gli dedicarono una
grande esposizione i cui quadri si sono
trasformati in una pietra miliare della letteratura pianistica ottocentesca.
Ci vollero però decenni prima di riuscire
a cogliere la grandezza di Musorgskij, anziché liquidarla come dilettantismo tanto
geniale quanto maldestro. Ma leggiamo
ancora Debussy: «Nessuno ha parlato alla
parte migliore di noi con accento più tenero e profondo: egli è unico e lo resterà
per la sua arte senza schemi e senza formule disseccanti. Mai una sensibilità più
raffinata si è tradotta con mezzi così semplici; [...] tutto vi si regge e si compone per
piccoli tocchi successivi, connessi da un legame misterioso e da un dono di luminosa chiaroveggenza».
Ma Debussy non era l’unico innamorato
di Musorgskij. La partitura del Boris gliel’aveva fatta conoscere un amico compositore, Jules de Brayer, «la cui fronte di
veggente – scrive Debussy – si direbbe
mandi lampi fatidici quando parla di Musorgskij, che egli pone molto al di sopra di
Wagner». Nella cerchia debussysta anche
Pierre Louÿs era convintissimo di questa
superiorità: non una boutade, ma un giudizio di portata storica. Poiché è proprio
tramite Musorgskij che si crea quella sorta
di “asse” franco-russo che avrà in Stravinskij il suo campione e che imprimerà alla
storia quella svolta che sappiamo, le cui
decisive implicazioni, alternative al mainstream austro-tedesco, sono oggi ancora in
corso di elaborazione, sia sul piano storiografico, sia, ciò che forse più conta, sul
piano della composizione.
I LUOGHI DELLA MUSICA
Capolavori in città
In occasione della mostra a Palazzo Fava che porterà a Bologna il più celebre dipinto
di Vermeer, scopriamo le altre opere con soggetto musicale del maestro fiammingo
D
di Maria Pace Marzocchi
al fondo buio e senza tempo, la
Ragazza con l’orecchino di perla
ci guarda. Giunse alle collezioni
del Mauritshuis all’Aia nel 1902, dopo
più di due secoli di ‘latitanza’. Era il 1696
quando ad Amsterdam fu battuta all’asta
e dispersa la collezione del tipografo di
Delft Jacob Dissius, che contava una ventina di dipinti di Jan Vermeer. Appena
venne collocata in una delle sale del museo (la dimora seicentesca del conte di
Nassau-Siegen Johan Maurits, affacciata
su uno specchio d’acqua), di questa
“Monna Lisa olandese” si disse che “più di
qualsiasi altro Vermeer sia dipinto con
polvere di perle”.
Dall’8 febbraio prossimo, la celebre tela
sarà esposta a Bologna in Palazzo Fava, ultima tappa, ed unica in Europa, di un tour
mondiale consentito dalla chiusura del
Mauritshuis per restauri ed ampliamenti,
prima del ritorno alla sua sede nell’estate
2014, insieme agli altri quaranta dipinti
del Seicento olandese che l’hanno accompagnata e che saranno in mostra: ritratti di
Rembrandt e Franz Hals, scene di interni
e di vita popolare, paesaggi, nature morte,
scene di genere ed una di musica, la Suonatrice di violino dipinta nel 1626 da Gerrit van Honthorst (Gherardo delle notti in
Italia), donata al museo dell’Aia nel 1995.
Anche nella produzione di Vermeer –
trentasette le tele concordemente riconosciute dalla critica – compaiono alcuni
dipinti di soggetto musicale: giovani
donne intente a suonare una spinetta o
una chitarra nelle tranquille stanze di ricche case borghesi. Le si potrebbe accomunare alla copiosa produzione di scene
di genere realizzata da tanti maestri olandesi, se non fosse per quell’arcana atmosfera sospesa nella trama di uno spazio
prospettico vero e metafisico ad un
tempo, per quella luce che viene dalla finestra vetrata sulla sinistra della tela, e insieme dall’occhio lucido e poetico del pittore, per quei colori di luce, gialli e azzurri
sempre imitati e mai più raggiunti.
Una luce bianca e dorata invade la stanza
che accoglie La lezione di musica (firmata
nel 1665 “I V Meer”) di proprietà di Sua
In alto: Jan Vermeer (1632-75), La lezione
di musica (1665). A sinistra: Jan Vermeer,
Ragazza con l’orecchino di perla (1665-66)
32
MI
MUSICA INSIEME
Maestà la Regina Elisabetta II [non esposta a Palazzo Fava, ndr], che nel 1762 approdò alle collezioni reali inglesi con il
nome di Van Mieris, pittore allora ammiratissimo, quando invece nome e fama di
Vermeer erano cancellate dalla memoria
della pittura, pur nel fascino intatto dei
suoi dipinti, sempre ammirati magari
sotto un nome diverso (anche Rembrandt,
l’unico pari a Vermeer per vertici di assoluto). La giovane “suonatrice di spinetta”
è ritratta di schiena (ma ne scorgiamo il
volto riflesso nello specchio), assorta nel
cogliere l’ultima vibrazione della nota che
si acquieta, appena emanata dal prezioso
strumento, che dal fregio del pannello anteriore con arabeschi e cavallucci marini si
direbbe del famoso artigiano di Anversa
Andreas Ruckers. Accanto a lei, in piedi,
nel nero abito della moda del tempo, è ritratto il maestro di musica (o forse un
giovane amante?). Ma dentro al quadro
c’è anche Vermeer, presenza elusa eppur
restituita dal cavalletto nello specchio, al
modo di Jan Van Eyck nel Ritratto dei coniugi Arnolfini, al modo di Velazquez ne
Las Meninas.
Seminascosto dal tavolo coperto da un
tappeto, un violoncello è posato sul pavimento a riquadri di marmo che arretrano
verso il fondo secondo un’impeccabile
prospettiva. Il quadro è stato letto come
armonia dell’amore, sottesa al ruolo metaforico della musica, come si legge nel
motto scritto sul coperchio della spinetta:
“MUSICA LETITIAE COMES MEDICINA DOLORUM”. La musica compagna della gioia e balsamo per i dolori…
La ragazza con l’orecchino di perla.
Il mito della Golden Age.
Da Vermeer a Rembrandt
Capolavori dal Mauritshuis
Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni
Bologna, via Manzoni 2
8 febbraio - 25 maggio 2014
I VIAGGI DI MUSICA INSIEME
Bruxelles - Bruges - Gand
27-30 marzo 2014
B
Musica Insieme, che da 20 anni propone viaggi culturali che affiancano la visita
delle principali capitali europee all’ascolto di concerti nelle sale più prestigiose,
organizza un nuovo viaggio alla scoperta del Belgio
ruxelles, Bruges e Gand saranno
le mete del viaggio che Musica
Insieme organizzerà il prossimo
marzo, proseguendo una consolidata
tradizione che ci ha visto accompagnare i nostri abbonati nelle principali
capitali europee – e non solo – della
musica: San Pietroburgo e Mosca, Parigi, Londra, Madrid, Amsterdam,
Berlino, Copenhagen, Oslo, Istanbul,
sono alcune delle mete raggiunte in
quasi un ventennio di viaggi, nati con
il preciso obiettivo di conoscere realtà
musicali e culturali – dagli artisti ai
siti più importanti – di altri Paesi.
La partenza è prevista nel pomeriggio
di giovedì 27 marzo con volo diretto
Lufthansa per Bruxelles. La sistemazione dei nostri ospiti avverrà presso
l’Hotel Royal Windsor (5 stelle),
situato nel centro storico di Bruxelles, a due passi dalla Grand Place e
dai principali monumenti cittadini.
La mattina di venerdì 28 marzo sarà
dedicata a una visita guidata di Bruxelles, che rivelerà le principali bellezze architettoniche ed i centri più
importanti della vita della capitale
belga: dal quartiere Art Nouveau con
le sue case in stile Liberty, al Parlamento, al quartiere reale con la residenza ufficiale del Sovrano, ed ancora
all’Atomium (vero e proprio simbolo
di Bruxelles, costruito per l’Esposizione Universale del 1958, che raffigura una molecola di ferro ingrandita
165 miliardi di volte), fino alla Grand
Place, con il suo splendido Municipio
gotico e le Case delle Corporazioni.
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MI
MUSICA INSIEME
Nella foto sopra: Bruxelles, la Grand Place
(foto di Eric Danhier). Sotto: una veduta
della città di Bruges. In basso: Julian Rachlin,
protagonista del concerto del 28 marzo
Alla sera di venerdì 28 marzo – la
grande musica sempre al centro dei
nostri progetti culturali – assisteremo,
presso il Teatro Palais des Beaux
Arts (sipario alle 20), al concerto che
vedrà protagonisti l’Orchestre National de Belgique diretta da Andrey Boreyko, solista lo straordinario
violinista Julian Rachlin, artista ben
noto al pubblico di Musica Insieme
per i suoi applauditissimi recital nel
cartellone dei nostri Concerti. Il programma prevede il celebre Concerto
n. 3 KV 216 per violino e orchestra
di Wolfgang Amadeus Mozart, e
nella seconda parte l’intensa Ottava
Sinfonia in do minore op. 65 di
Dmitrij Šostakovič.
Sabato 29 marzo, la giornata sarà dedicata alla visita di Bruges e Gand, rispettivamente capoluoghi delle Fiandre Orientali e Occidentali. Bruges, la
“Venezia del Nord”, rappresenta com’è noto una delle città medievali più
suggestive d’Europa, mentre Gand,
città d’arte e di storiche tradizioni,
dalla pittoresca posizione che si snoda
lungo numerosi canali e isolette, conserva i maggiori capolavori dell’arte
fiamminga. Dopo la visita è previsto il
rientro a Bruxelles, per trascorrere la
serata nella capitale.
Infine, domenica 30 marzo sarà dedicata alle visite individuali, ma sarà
come sempre possibile scegliere anche ulteriori escursioni guidate per la
città, a seconda degli interessi dei nostri ospiti. Nel pomeriggio raggiungeremo l’aeroporto di Bruxelles, dove
un volo Lufthansa (via Francoforte) ci
riporterà a Bologna in serata.
Per tutte le informazioni relative al
viaggio è possibile rivolgersi direttamente alla segreteria di Musica Insieme (tel. 051 271932) oppure all’agenzia Uvet Pomodoro Viaggi di
via Farini, 3 (tel. 051 6102611).
I CONCERTI gennaio/febbraio 2014
Lunedì 13 gennaio 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
FRANZ LISZT CHAMBER ORCHESTRA
GABOR BOLDOCZKI..................................tromba
ALEXANDER ROMANOVSKY...........pianoforte
Musiche di Stravinskij, Šostakovič, Britten, Liszt
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
Lunedì 20 gennaio 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
PAUL LEWIS.....................................................pianoforte
Musiche di Bach/Busoni, Beethoven, Liszt, Musorgskij
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
Lunedì 3 febbraio 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
BELCEA QUARTET
CORINA BELCEA-FISHER........................violino
AXEL SCHACHER............................................. violino
KRZYSZTOF CHORZELSKI.........................viola
ANTOINE LEDERLIN.......................................violoncello
Musiche di Purcell, Britten, Mozart
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”
Lunedì 10 febbraio 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
THE PEASANT GIRL
THE MATTHEW BARLEY ENSEMBLE
MATTHEW BARLEY........................................violoncello
JULIAN JOSEPH................................................pianoforte
SAM WALTON.....................................................percussioni
PAUL CLARVIS...................................................percussioni
VIKTORIA MULLOVA...............................violino
Musiche di Bratsch, Lewis/Bratsch, Bartók, Kodály, Weather Report, Barley, DuOud
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme”
e “Invito alla Musica” – per i Comuni della provincia di Bologna
Lunedì 24 febbraio 2014
AUDITORIUM MANZONI ore 20.30
FEDERICO COLLI.........................................pianoforte
Musiche di Mozart, Beethoven, Schumann
Il concerto fa parte degli abbonamenti: “I Concerti di Musica Insieme” e “Musica per le Scuole”
Per ulteriori informazioni rivolgersi alla Segreteria di Musica Insieme:
Galleria Cavour, 2 - 40124 Bologna - tel. 051.271932 - fax 051.279278
[email protected] - www.musicainsiemebologna.it
Lunedì 13 gennaio 2014
La leggendaria
compagine ungherese
celebra a Musica Insieme
il suo cinquantesimo
anniversario,
accompagnata da
due straordinari solisti
Foto Marco Borggreve
di Mariateresa Storino
Variazioni
neoclassiche
LUNEDÌ 13 GENNAIO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
FRANZ LISZT CHAMBER ORCHESTRA
GABOR BOLDOCZKI tromba
ALEXANDER ROMANOVSKY pianoforte
Igor Stravinskij
Concerto in re
Dmitrij Šostakovič
Concerto in do minore
per pianoforte, tromba e archi
Benjamin Britten
Variazioni su un tema
di Frank Bridge op.10
Franz Liszt
Rapsodia Ungherese in do diesis
minore n. 2 R 106 – trascrizione
per orchestra dÊarchi di Peter Wolf
Introduce Fabrizio Festa, compositore,
docente di Conservatorio e saggista
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MI
MUSICA INSIEME
C
oncerto, variazione: sono termini che, a livelli diversi, rinviano
ad un passato più o meno lontano. La distanza da queste forme, che oggi
appare platealmente evidente non tanto all’ascoltatore quanto al compositore, non inficia il groviglio di riferimenti in esse
contenuti. Sono vocaboli sopravvissuti a
cambiamenti epocali, con riformulazione
e rifusione dei propri elementi costitutivi.
Come definire tali forme? Quali esempi
analizzare per delineare una struttura generale? Quali cautele deve prendere il
compositore moderno al fine di non rimanere solo un emule del passato? Quale inevitabile raffronto l’ascoltatore deve
mettere in atto nel momento della ricezione
per comprendere la specificità delle singole
opere rispetto ad una norma? L’etimologia
dei termini è cristallina, ma non è ad essa
che possiamo aggrapparci volendo avvicinarci a quella nutrita schiera di compositori che, stanchi di ogni retorica romantica, spenta la fiamma dell’“espressionismo”, restii momentaneamente alla corrente avanguardistica, nel corso del Novecento cercano una nuova via maestra su
cui dirigere le proprie energie creative. Dagli anni Venti, e in modo più consistente
nel decennio successivo, molti musicisti
guardano al passato vagliandone la ricchezza
stilistica e formale con sensibilità moderna. Accanto alla pluralità di esperienze musicali si allinea una nuova corrente: il
“neoclassicismo”.
Nel 1920 Ferruccio Busoni definisce i principii della nascente corrente: «Per nuovo
classicismo intendo il dominio, il vaglio e
lo sfruttamento di tutte le conquiste di
esperienze precedenti: il racchiuderle in forme solide e belle». L’approccio al passato
deve essere di tipo intellettualistico; nessun
reflusso di sensualità e soggettivismo di matrice romantica o decadentista; solo musica, solo l’opera nella sua oggettività. Tra
i fautori di un approccio a principii stilistici di matrice barocca e classica, mediato dalla lente dell’intelletto, si staglia la figura di Igor Stravinskij. Dopo aver portato
il “colore russo” alle estreme conseguenze
nelle Noces (1917), con Pulcinella il compositore si richiama al Settecento di Pergolesi: una «virata neoclassica», scrive Roman Vlad. La ricostruzione tuttavia prende corpo nello «specchio del proprio stile»; Stravinskij «conquista» l’Occidente musicale, se ne appropria; non si può parlare di imitazione, né di passiva ricreazione.
Il passato musicale è innervato delle componenti specificamente stravinskiane, quelle stesse componenti che si rintracciano ancora a distanza di più di un ventennio in
una forma tradizionale – almeno nell’intitolazione – quale il Concerto in re per orchestra d’archi. Stravinskij compone il Concerto nel 1946 su richiesta del direttore
d’orchestra e filantropo Paul Sacher, per celebrare i vent’anni dell’Orchestra da Camera di Basilea. Strutturato nei classici tre
movimenti, il Concerto si distende in un
discorso di «spigliata leggerezza», di puro
intrattenimento, privo di qualsiasi vena polemica o intento satirico. Dai colori luminosi e vivaci del primo movimento (Vivace), al cantabile e danzante Arioso, fino
al ritmico Rondò finale, il brano è interamente dominato dall’intervallo di seconda minore. Questa cellula dissonante viene pressantemente ripetuta: trasportata su
gradi diversi della scala cromatica, accresce la tensione armonica senza mai, tuttavia, negare la tonalità d’impianto (re maggiore). Con prescrizioni precise del tocco,
Stravinskij indica ogni particolare dell’esecuzione, quasi con maniacale accuratezza; ogni dettaglio contribuisce all’effetto
complessivo. Se nell’architettura il richiamo alle forme di stampo settecentesco può
essere adombrato dai caratteristici elementi del linguaggio stravinskiano (disposizione ‘anomala’ di accenti, commistioni di funzioni armoniche, reiterazione
di frammenti, frequenti cambiamenti di
tempo), nell’orchestrazione diventa esplicito con la ripartizione tipicamente barocca
dell’orchestra tra un ristretto gruppo di solisti (il concertino) e l’insieme degli archi con
effetto di ripieno (il concerto grosso).
Composto tra il marzo e l’aprile del 1933,
con l’intento di ampliare il repertorio
strumentale sovietico, il Concerto per
pianoforte con accompagnamento di orchestra d’archi e tromba di Dmitrij Šostakovič fu eseguito lo stesso anno nella Sala
I protagonisti
La Franz Liszt Chamber Orchestra, formatasi presso l’Accademia “Franz Liszt” di Budapest, ha debuttato nel 1963, intraprendendo un’intensa attività concertistica, che la vede esibirsi sui palcoscenici più prestigiosi d’Europa, America, Australia e
Giappone. Nei suoi 50 anni di attività ha collaborato con i più importanti solisti, tra cui Argerich, Ojstrakh, Richter, Rostropovič,
Menuhin, Stern, e, più recentemente, con Repin e Perahia. Ha all’attivo più di duecento registrazioni discografiche, per le quali
è stata premiata per ben tre volte al “Grand Prix de l’Academie Française du Disque” di Parigi. Il trombettista ungherese Gabor
Boldoczki, considerato dalla critica come l’erede del grande Maurice André, ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti internazionali, tra cui il “Grand Prix de la Ville de Paris” e il “Prix Davidoff”. Si esibisce con compagini di primo piano come l’Orchestra del
Mozarteum di Salisburgo, l’Orchestra Sinfonica del Teatro Mariinskij e la Kremerata Baltica. Vincitore, appena diciassettenne,
del Concorso internazionale “F. Busoni” di Bolzano, Alexander Romanovsky calca oggi i palcoscenici più rinomati al mondo, esibendosi con orchestre quali Royal Philharmonic Orchestra, Orchestra Nazionale di Santa Cecilia, Filarmonica della Scala, New York Philharmonic e Chicago Symphony Orchestra, collaborando con direttori come Pletnev e Gergiev.
MI
MUSICA INSIEME
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Lunedì 13 gennaio 2014
Filarmonica di Leningrado; il compositore sedeva al pianoforte, l’orchestra locale era
diretta da Fritz Stiedry. Il Concerto si esprime in toni scherzosi, con una vivida gestualità, un vigore forte e a tratti caricaturale, a partire dall’attacco iniziale, giocato
su un’improvvisazione tra pianoforte e
tromba che coglie di sorpresa l’ascoltatore al punto da lasciarlo interdetto: il Concerto è già iniziato? Certo l’effetto doveva
esser ben presente al giovane Šostakovič,
se, qualche mese dopo l’esecuzione, dichiarava di voler «difendere il diritto di ridere all’interno della cosiddetta musica seria», di «non essere turbato quando gli
ascoltatori ridono ad un concerto» con sue
musiche, anzi, di esserne compiaciuto. Il
compositore si era saldamente formato nella tradizione dei classici viennesi, tradizione
le cui forme e melodie potevano diventare materiale per nuove opere. Il Concerto è un esempio tangibile del neoclassicismo di Šostakovič, della sua volontà «di
essere vecchio in un nuovo modo», delle
possibilità di filtrare il passato con la sensibilità novecentesca senza apparire demodé.
Šostakovič non si limita a riprendere formule compositive (compreso il contrappunto canonico), ma inserisce citazioni di
musiche proprie e altrui: da Haydn all’Appassionata di Beethoven, dai canti
popolari ebraici ad un tema tratto dalle sue
stesse musiche composte per il testo teatrale Il povero Colombo del drammaturgo
Erwin Dressel. Nel quadro di una chiarezza
classica, il Concerto si articola in quattro
movimenti: ad un Allegro moderato in cui
si annidano immagini ironiche e deformate, segue un tempo Lento che mitiga la
temperie compositiva del movimento introduttivo con un lirismo quasi crepuscolare. Qui la tromba e il pianoforte duettano alla pari;
la scrittura è elegante,
misurata; sullo sfondo
il caldo tono dei
violoncelli e la voce
solitaria dei violini.
DA ASCOLTARE
Impresa improba quella di sintetizzare il lunghissimo percorso discografico del
celebre complesso ungherese. Dal 1976 ad oggi si contano in catalogo oltre
duecento incisioni, il cui repertorio spazia dal barocco al moderno, senza mancare nessuno dei passaggi intermedi. Certo domina il primo, con una predilezione spiccata per le opere di Antonio Vivaldi e quelle di Johann Sebastian
Bach: questi i compositori registrati nei primi tre lavori discografici, del 1976
appunto, per la Hungaroton. La casa discografica ungherese avrà l’esclusiva
sino alla fine del secolo scorso, poi la Franz Liszt Chamber Orchestra troverà
accoglienza in diverse etichette, tra le quali le prestigiose Teldec (per i suoi tipi
nel 2000 inciderà le Sonate di Rossini) e Harmonia Mundi. È per quest’ultima
che la FLCO realizza ben due versioni della Musica per percussioni, archi e celesta di Bartók (1992). L’attività discografica si dirada in questi ultimi anni, ma
il catalogo si arricchisce di tessere importanti, quali la registrazione della Passione secondo Matteo di Bach (Red Bus Classical – 2011) e un’antologia di Concerti per tromba, solista Edward Tarr (Christophorus – 2012).
Il Moderato successivo è solo un momento di passaggio che, senza soluzione di continuità, porta ad un Allegro con brio dal piglio militaresco con squilli di tromba a mo’
di fanfara.
Come in Stravinskij e in Šostakovič, anche in Benjamin Britten il rapporto con
il passato è privo di pathos: nessuna nostalgia, nessun rammarico. Il passato è la
linfa vitale di cui nutrirsi per poter procedere nel nuovo secolo, ma allo stesso
tempo è la gabbia da cui liberarsi per affermare la propria identità. Con le Variations on a Theme of Frank Bridge op. 10,
Britten rende omaggio al suo maestro. Siamo nel 1937, Britten inizia ad affermarsi in campo internazionale con un proprio
linguaggio. Le Variations si configurano
come una sintesi degli stili del passato in
cui le risorse timbriche degli strumenti ad
arco sono esplorate con eleganza e profondità. Dopo un Lento maestoso, introdotto il tema di Bridge (tratto dai Tre Idilli per quartetto del 1906), il compositore sfrutta le risorse formali ed espressive acquisite nel periodo di studio: dal recitativo dell’Adagio della prima
variazione al procedere elegante
della March; a seguire una leggiadra Romance a cui ribatte
un’Aria italiana, parodia di co-
loratura rossiniana. Il Settecento fa capolino con una Bourrée classique, seguita da
un Wiener Walzer. Non manca il virtuosismo in Moto perpetuo, né il lamento di
una Funeral March. Ancora un Chant e poi
la dotta scrittura contrappuntistica in
una Fugue and Finale. Se ciascuna delle dieci variazioni di cui si compone il brano presenta tratti della tradizione fortemente connotati, che rendono inevitabile una lettura
sullo sfondo di epoche passate, questi non
impediscono al compositore di vivificare
il noto con un linguaggio armonico pieno di ambiguità, riccamente cromatico e
deliberatamente dissonante. L’effetto all’ascolto è di straniamento, come nei due
Concerti di Stravinskij e Šostakovič. Abbiamo forme cariche di espressività, di rinvii ad altro da sé già nei titoli, che costringono a mediare tra fascinazione sonora
e percezione consapevole. Perfino la trascrizione per archi di Peter Wolf della Rapsodia Ungherese n. 2 di Liszt richiede una
doppia lettura. La Rapsodia non subisce
alcuna metamorfosi, solo un cambiamento timbrico; gli archi intensificano il
carattere magiaro ed accentuano alcuni
tratti popolareggianti sfruttando abilmente sia la varietà di registri che il tocco; ma è realmente possibile ascoltarla prescindendo dall’originale per pianoforte?
Lo sapevate che...
La Franz Liszt Chamber Orchestra, fondata
nel 1963 nell’ambito dell’omonima
Accademia di Budapest, nel 1992 è
stata insignita dal Governo Ungherese
del titolo di Cavaliere della Cultura
Foto Harmonia Mundi - Eric Manas
Lunedì 20 gennaio 2014
Un’antologia
Il pianista inglese, oggi tra i più apprezzati a livello
internazionale, per la prima volta ospite di Musica
Insieme, ci condurrà in un affascinante viaggio
nella storia del repertorio di Valentina De Ieso
40
MI
MUSICA INSIEME
N
el 1802, lo stesso anno in cui,
meditando il suicidio, scriveva il
suo famoso “Testamento di Heiligenstadt”, Beethoven consegnò alle
stampe uno dei suoi massimi capolavori: la
Sonata op. 27 n. 2, più nota con il titolo
apocrifo di Chiaro di luna. Paradossalmente, quella che è divenuta forse la sonata
più celebre della storia non è una vera e
propria sonata: Beethoven infatti ha intitolato entrambe le composizioni dell’op.
27 “Sonata quasi una fantasia”, dichiarando così di aver voluto deliberatamente
interpretare gli schemi formali con una
certa elasticità. La Sonata in mi bemolle
maggiore op. 27 n. 1, composta nel 1801
e dedicata alla principessa Josephine von
Liechtenstein, è introdotta dall’Andante.
Allegro. Andante, in forma di fantasia, costruito su un tema malinconico di note ribattute, una sorta di lamento in pianissimo,
che si ripropone costantemente. Dopo un
pacato Allegro molto e vivace, si presenta
l’Adagio con espressione. Qui i due delicatissimi temi si susseguono con pensosa
leggerezza, portando senza soluzione di
continuità (le due Sonate prevedono l’esecuzione dei movimenti senza pause) all’Allegro vivace, condotto con grandissima
libertà formale. Più nota è la Sonata in do
diesis minore op. 27 n. 2, dedicata alla
contessa Giulietta Guicciardi, della quale
Beethoven scriveva all’amico Wegeler il
16 novembre 1801: «La mia vita è diventata ora più piacevole […]. Questo mutamento lo ha prodotto una cara, incantevole ragazza, che mi ama e che io amo, in
due anni sono questi i soli momenti beati
ed è la prima volta che sento che il matrimonio potrebbe rendere felici, ma purtroppo essa non è del mio ceto sociale».
L’Adagio sostenuto è quanto di più distante
si possa immaginare all’epoca per un
primo tempo di sonata. Beethoven scrive
in partitura “Si deve suonare tutto questo
pezzo dolcissimamente e senza sordini”
per sottolineare la necessità di un’intimità
adatta alla confessione dei più riservati
sentimenti, affidata al tema “puntato”, che
riecheggia per tutto il movimento, fino
all’ultima enunciazione nel registro grave,
una sorta di desolato addio. L’Allegretto, definito da Liszt “un fiore tra due abissi”
conduce al Presto agitato finale, un movimento di rara tragicità in cui quattro temi
si intrecciano e si oppongono con esasperazione crescente, fino al brusco finale.
LUNEDÌ 20 GENNAIO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
PAUL LEWIS
pianoforte
J.S. Bach / F. Busoni
Preludio-Corale „Nun komm
der Heiden Heiland‰ BWV 659
Ludwig van Beethoven
Sonata quasi una fantasia
in si bemolle maggiore op. 27 n.1
J.S. Bach / F. Busoni
Preludio-Corale „Ich ruf zu dir,
Herr Jesu Christ‰ BWV 639
Ludwig van Beethoven
Sonata quasi una fantasia
in do diesis minore op. 27 n. 2
Franz Liszt
Schlaflos! Frage und Antwort R 79
Unstern (Sinistre. Disastro) R 80
R.W. – Venezia R 82
Modest Musorgskij
Quadri di un’esposizione
Introduce Giordano Montecchi. Saggista e
critico musicale per quotidiani e riviste, insegna
Storia della Musica al Conservatorio di Parma
«Ho creduto di lavorare nello spirito di
Bach, mettendo al servizio del suo piano le
estreme possibilità dell’arte odierna, quale
organica continuazione dell’arte sua, come
le estreme possibilità dell’arte del suo
tempo erano divenute mezzo di espressione per lui stesso». Così scriveva nella sua
Autorecensione del 1911 Ferruccio Busoni.
Egli sosteneva di essere stato sospinto verso
Bach da una «misteriosa disposizione del
destino»: suo padre, clarinettista professionista, lo aveva, invece, sempre esortato
a studiare con dedizione il compositore
tedesco. Nel 1898 Busoni trascrive dieci
Preludi di Bach, pubblicandoli nel terzo
volume della sua monumentale “Edizione
Bach-Busoni”. Il preludio al corale, forma
tipica della musica liturgica luterana, è
un’introduzione organistica all’intonazione
del corale, anticipandone il tema ed elaborandolo sotto forma di variazioni: Busoni ne fa invece un raffinato brano di
musica da camera, non limitandosi ad
adattarlo al pianoforte, ma esplorando le
possibilità dello strumento moderno. Nel
Preludio-Corale “Nun komm der Heiden
Heiland” (“Vieni Salvatore delle genti”)
BWV 659, che riprende l’omonimo corale
di Lutero, Busoni mantiene evidente la
struttura polifonica, affidando la melodia
a registri diversi, ma la ammorbidisce creando effetti drammatici tramite le frequenti variazioni d’intensità dal piano al
forte. Il Preludio-Corale “Ich ruf zu dir,
Herr Jesu Christ” (“Ti invoco, Signore
Gesù Cristo”) BWV 639, che riprende invece un corale di Johannes Agricola, maschera la struttura polifonica evidenziando
la cantabilità della delicata melodia, esaltata anche in questo caso da un uso di variazioni di intensità e dalla presenza di
continui “rallentando”. La legittimazione
della libertà nella trascrizione, secondo Busoni, sta nella sorprendente modernità di
Bach, la modernità del saper trovare i
mezzi necessari ad esprimere i propri scopi,
lasciando a chi verrà dopo inesauribili possibilità di interpretazione.
E se nella sua concezione pianistica, Bach
rappresenta l’alfa, Liszt è l’omega, il com-
Paul Lewis
Considerato dalla critica come uno dei migliori artisti della sua generazione,
Paul Lewis, che si è formato con Alfred Brendel, ha ottenuto, fra i molti riconoscimenti, il premio della Royal Philharmonic Society come “Migliore strumentista
dell’anno”, un Diapason d’Or e due Premi Edison, il 25° Premio Internazionale dell’Accademia Musicale Chigiana di Siena, e tre Gramophone Awards. Tiene concerti in tutta Europa, Stati Uniti e Giappone nelle sale più prestigiose, tra
cui la Wigmore Hall di Londra, la Toppan Hall di Tokyo, il Concertgebouw di
Amsterdam, il Kennedy Centre di Washington e la Konzerthaus di Vienna. È
ospite regolare dei festival più importanti, tra cui Lucerne Piano Festival, White
Light Festival a New York, Tanglewood Festival, Schubertiade di Schwarzenberg, Festival di Salisburgo, Edinburgh International Festival e London BBC Proms.
Ha suonato con le maggiori orchestre, fra cui tutte le compagini inglesi, la Los
Angeles Philharmonic, l’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia e la Mahler Chamber Orchestra, e con direttori come Haitink, von Dohnanyi, Sawallisch, Kitajenko,
Davis, Harding. Ha tenuto una serie di concerti a New York, Chicago, Milano
e Torino con la London Symphony Orchestra diretta da Sir Colin Davis, oltre ad
un tour negli Stati Uniti con la Australian Chamber Orchestra.
MI
MUSICA INSIEME
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Lunedì 20 gennaio 2014
pimento, il termine ultimo a cui tendere.
Definizione tanto più calzante se rapportata al tardo Liszt, alle ultime, enigmatiche
composizioni. L’ultimo Liszt presenta arditezze armoniche e ambiguità tonali sconosciute alle opere giovanili e a quelle della
prima maturità. Sono musiche pervase da
un senso di ansia e disperazione, che le discosta totalmente dal resto della sua feconda produzione. Liszt confessò all’amica
Lina Ramann di sentire una profonda tristezza nel cuore, che prima o poi sarebbe
dovuta erompere in suono. Al 1883 risale
Schlaflos! Frage und Antwort (Insonnia! Domanda e risposta) R 79. La prima enunciazione del tema, ora incerta, ora nervosa, concentrata nel registro grave, nella
tonalità di mi minore, simboleggia la ‘domanda’: il perché della morte. Ed ecco
giungere la ‘risposta’, la redenzione, una
melodia delicata, ma solenne, spostata sul
registro acuto, nella tonalità di mi maggiore. Il tema utilizzato è il medesimo,
quasi a suggerire che la risposta è già nella
domanda: la morte come strumento della
Salvezza. Due anni prima Liszt aveva composto Unstern (Sinistre. Disastro) R 80,
dall’emblematico titolo trilingue. Diviso in
tre sezioni, il brano inizia con frammenti
melodici che si interrompono sul tritono,
il lugubre intervallo per secoli chiamato
“Diabolus in musica”, che gli conferisce da
subito un’atmosfera funebre. Segue una
serie di passaggi accordali, quasi squilli di
tromba, sempre più incalzanti, per giungere nel finale ad una sezione in forma di
corale, pensosa e vagante. Pochi mesi
prima della morte di Richard Wagner (che
aveva sposato la figlia di Liszt, Cosima, nel
1870), a Venezia, Liszt aveva composto
La lugubre gondola: egli stesso rivelò di
averla scritta in preda ad una sorta di premonizione. Due mesi dopo compose le
due elegie Alla tomba di Richard Wagner e
R.W. – Venezia R 82, il cui stile emula
emblematicamente quello wagneriano.
Una decina di anni prima Liszt aveva
avuto occasione di studiare ed elogiare
l’opera di un giovane compositore che,
venuto a conoscenza del suo apprezzamento, scrisse ad un amico: «Chissà quanti
DA ASCOLTARE
Lo scorso febbraio, Gramophone ha segnalato come “Disco del mese” la sua
registrazione di una scelta delle Sonate di Schubert, arricchita dai celebri Quattro Impromptus D 899 (Harmonia Mundi, casa per la quale il pianista inglese incide regolarmente). Dopo il lungo intermezzo beethoveniano, dunque Lewis torna a Schubert, dando vita ad un’incisione matura e coinvolgente. Schubert, che aveva affrontato realizzando una registrazione dei cicli liederistici
Schwanengesang, Die schöne Müllerin e Winterreise assieme a Mark Padmore, oltre a un’antologia di duetti pianistici, partner questa volta Steven Osborne. Per trovare altre sonate del viennese bisogna tornare all’inizio della sua
carriera, quando Lewis a Schubert dedicò le sue prime fatiche discografiche
(inclusa un’incisione nel 2006 de La Trota, unica incisione cameristica assieme
ai Quartetti con pianoforte di Mozart). Il resto è sostanzialmente Beethoven,
di cui Lewis ha registrato l’integrale delle Sonate (in 10 cd) e dei Concerti per
pianoforte (con la BBC Orchestra diretta da Bĕlohlávek). A Liszt ha dedicato
un disco nell’ormai lontano 2005, dove, accanto ad un’antologia di brani tratti dalle ultime opere dell’ungherese, troviamo la Sonata in si minore.
nuovi mondi mi si aprirebbero parlando
con Liszt, per sua natura è coraggioso e
probabilmente non avrebbe difficoltà a
fare con noi un’escursione in nuove
terre…». Il giovane compositore era Modest Musorgskij. Una settimana dopo aver
scritto questa lettera, apprese la notizia
della morte di Viktor Hartmann, artista a
cui era legato da un solido rapporto d’amicizia. Visitando la mostra organizzata in
suo onore l’anno seguente, il 1874, a San
Pietroburgo, Musorgskij concepì una delle
sue opere più conosciute, la suite per pianoforte Quadri di un’esposizione, suddivisa
in quindici movimenti, ossia dieci quadri
e cinque Promenades, le ‘passeggiate’ per
spostarsi da un quadro all’altro. Dopo la
prima Promenade, solenne e decisa, viene
presentato il primo quadro, Gnomus, in
cui rapidi passaggi, tremoli e scale si alternano a pause improvvise, a rappresentare
i movimenti sospettosi della malvagia creatura. Segue la seconda Promenade, più pacata e riflessiva, che porta al secondo quadro, Il vecchio castello, che reca in partitura
la dicitura “Andante molto cantabile e con
dolore”: nell’Italia medievale, un trovatore
intona il suo lamento amoroso davanti ad
un maniero avvolto da un paesaggio malinconico. Una terza Promenade conduce il
visitatore ancora turbato verso un nuovo
quadro: Tuileries, il celebre parco parigino
che ospita giochi infantili. Si accede poi al
quadro successivo, Bydlo, il carro tipico
dei contadini polacchi, il cui passaggio è
raffigurato da accordi cadenzati che aumentano di intensità all’avvicinarsi dello
spettatore, per poi divenire un’eco lontana. Dopo una breve Promenade viene
presentato il quinto quadro, Balletto dei
pulcini nei loro gusci, rappresentato da trilli
e ritmi puntati. A seguire è il sesto quadro:
Samuel Goldenberg e Schmuyle, in cui due
temi, uno petulante e acuto e l’altro imperioso, corrispondono alle voci dei due
personaggi. L’ultima Promenade conduce al
settimo quadro: Limoges, il mercato, dove
le contadine, sempre più concitate, cominciano a litigare. Completamente diversa è l’atmosfera del quadro successivo:
Catacombe – Con i morti in una lingua
morta. La prima sezione, statica e drammatica, introduce una seconda parte che
allude alla discesa dello stesso pittore, Hartmann, nelle catacombe. Dopo il nono
quadro, La capanna sulle zampe di gallina
(Baba-Yaga), dalla terrificante atmosfera, si
accede all’ultimo e più celebre, La grande
porta di Kiev. Riferito al progetto di Hartmann stesso per le porte monumentali
della città, in onore dello zar, riprende,
solennizzandolo, il tema iniziale della Promenade, affiancandolo ad un secondo tema
tratto da un inno ortodosso, in una sorta
di celebrazione civile e religiosa della Russia di Alessandro II.
Lo sapevate che...
Lewis è stato il primo pianista nella storia dei BBC Proms a suonare tutti i Concerti di
Beethoven in un’unica stagione. Il ciclo completo è stato ripreso dalla BBC Television
42
MI
MUSICA INSIEME
Lunedì 3 febbraio 2014
Fantasie a 4 voci
Il Quartetto formatosi al Royal College di Londra
quasi vent’anni fa approda per la prima volta a Bologna,
con un tributo a due capisaldi della musica inglese
di Daniele Follero
I
n omaggio all’Inghilterra, paese
troppo spesso relegato dalla storia
della musica ai margini della tradizione europea, il Belcea Quartet, formatosi per l’appunto a Londra, dedica alle
proprie origini ‘istituzionali’ gran parte
del programma di questo concerto. La
scelta cade su due simboli della musica inglese di tutti i tempi, due autori tanto distanti cronologicamente, quanto vicini
nella sensibilità musicale e nella maestria
compositiva. Accomunati dalla passione
per il teatro, fonte di successo per entrambi, Henry Purcell e Benjamin Britten
(del quale ricorreva nel 2013 il centenario della nascita) più che due pietre miliari, rappresentano due parentesi che
chiudono un discorso lungo quattrocento
anni.
Composte nel 1680, le Fantasie per consort di viole di Purcell sono contempora-
Belcea Quartet
nee alle sue Sonate. Ma, mentre queste ultime ci mostrano un compositore al passo
con i tempi, attento alle evoluzioni del
mondo musicale, le Fantasie, genere già
ampiamente obsoleto all’epoca, volgono
lo sguardo verso il passato dell’Inghilterra
elisabettiana. Scritte in un arco di tempo
molto breve, e per un numero crescente
di parti, da 3 a 7 (le quattro scelte per
questo concerto sono tutte a 4 voci), è
probabile che fossero state concepite
come un’unica sequenza, rimasta incompleta. Nello stile contrappuntistico di
queste composizioni, dalla forma libera,
Purcell guarda a John Dowland, William
Byrd e Orlando Gibbons, più che ai suoi
contemporanei. In contrasto con la musica celebrativa che ha contraddistinto il
periodo della Restaurazione inglese, le
Fantasie conservano il carattere intimo
di una musica ‘privata’, domestica, che ri-
Considerato dalla critica come uno dei Quartetti più interessanti del momento, il Belcea Quartet si è formato al Royal College of Music nel 1994,
ricoprendo il ruolo di Quartetto Residente alla Wigmore Hall di Londra
dal 2001 al 2006 e divenendo nel 2010 Ensemble Residente presso la
Konzerthaus di Vienna. Si esibisce regolarmente nelle sale più prestigiose
del mondo, tra cui Laeiszhalle di Amburgo, Concertgebouw di Amsterdam, Palais des Beaux Arts di Bruxelles, Victoria Hall di Ginevra, Auditorium Gulbenkian di Lisbona, Konzerthuset di Stoccolma, Carnegie Hall
e Alice Tully Hall di New York, Sala Verdi di Milano e Théatre du Châtelet di Parigi. Il Quartetto partecipa ad importanti festival come la Schubertiade di Schwarzenberg e i Festival di Edimburgo, Cheltenham, Aldeburgh, Bath e Salisburgo, e collabora stabilmente con importanti artisti, quali Thomas Adès, Piotr Anderszewski, Thomas Quasthoff, Paul Lewis, Isabelle van Keulen, Menahem Pressler, Martin Fröst, Imogen Cooper, Ian Bostridge, Anne Sophie von Otter e Angelika Kirchschlager. Nella scorsa Stagione ha presentato l’integrale dei Quartetti di Beethoven
nelle sedi europee più significative ed ha debuttato al fianco di Valentin
Erben, del leggendario Alban Berg Quartet, ai BBC Proms di Londra.
44
MI
MUSICA INSIEME
corda altri tempi. La grandezza di Purcell
è quella di riuscire, pur restando saldamente legato alla tradizione dei polifonisti inglesi, a mescolare la severità del contrappunto alla passionalità delle sue arie,
le rigide strutture verticali dei suoni all’espressività delle linee melodiche.
L’influenza di Purcell sulla musica di Benjamin Britten è ben nota, e non solo per
la dedica esplicita nel Quartetto n. 2,
composto in occasione del 250° anniversario della sua morte, o per gli elogi che
il compositore del Peter Grimes non ha
mai risparmiato nei confronti della sua
fonte d’ispirazione. Lo stile di Britten,
nell’utilizzo di forme e generi del passato, nella ricerca di un nuovo tonalismo, in netta opposizione allo sperimentalismo radicale delle avanguardie
mitteleuropee, è proprio dalla musica di
Purcell, da quel particolare incontro tra
modernità, passionalità e stile severo, che
si nutre maggiormente. Concentrato nella
scrittura di opere per il teatro, sua maggiore fonte di fama e di guadagni, Britten
tralasciò le composizioni per il quartetto
d’archi per ben trent’anni. Tanto è il
tempo che trascorre tra il Secondo e il
Terzo, terminato nel 1975, un anno
prima della sua morte, avvenuta il 4 dicembre dell’anno successivo. Il compositore non riuscì, quindi, ad assistere alla
prima del suo ultimo Quartetto, eseguito
il 19 dicembre dall’Amadeus String Quartet, per il quale era stato composto. Alla
ricerca di un suono etereo, Britten scrive
pagine di estrema delicatezza, in cui la tonalità è sospesa ma non scompare mai, lasciando fluttuare le melodie senza stringerle nelle maglie di rigidi schemi.
L’esempio più chiaro di questa scrittura
sono il primo e l’ultimo movimento. In
LUNEDÌ 3 FEBBRAIO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
BELCEA QUARTET
CORINA BELCEA-FISHER violino
AXEL SCHACHER violino
KRZYSZTOF CHORZELSKI viola
ANTOINE LEDERLIN violoncello
Henry Purcell
Fantasia in fa maggiore n. 6 Z 737
Fantasia in re minore n. 8 Z 739
Fantasia in mi minore n. 10 Z 741
Fantasia in sol maggiore n. 11 Z 742
Benjamin Britten
Quartetto n. 3 in sol maggiore op. 94
Wolfgang Amadeus Mozart
Quartetto in re maggiore KV 499
Hoffmeister
Introduce Fulvia de Colle. Collabora da quindici
anni alla direzione artistica di Musica Insieme,
scrive di musica e traduce per Einaudi Editore
Duets, la più astratta delle cinque parti, il
compositore, come il titolo stesso suggerisce, gioca sulle possibilità dell’incontro
tra due strumenti, innescando veri e propri confronti tra le quattro voci. Il finale
è invece una Passacaglia (torna ancora
una volta il riferimento alle forme della
tradizione) che porta il sottotitolo “La
Serenissima”, in omaggio a Venezia, città
in cui è stato composto. Tra le chiare citazioni dalla sua ultima opera per il teatro,
Morte a Venezia, e l’alternarsi di atmosfere
rarefatte e improvvisi crescendo, l’effetto
è ipnotico, così come straniante è la conclusione, lasciata volutamente sospesa.
Un punto di domanda, un’altra “question”, dopo quella di Charles Ives, cui
l’autore non ha dato risposta. Dei cinque
movimenti di cui si costituisce il Quartetto, il secondo e il quarto hanno un carattere molto diverso dagli altri. Il ritmo
MI
MUSICA INSIEME
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Lunedì 3 febbraio 2014
DA ASCOLTARE
I due membri fondatori, la violinista Corina Belcea e il violista Krzysztof Chorzelski, provengono rispettivamente dalla Romania e dalla Polonia; il secondo
violino e il violoncello sono francesi, e il Quartetto si è formato alla Royal Academy di Londra, per prendere poi definitivamente la ‘cittadinanza’ britannica.
Non stupisce quindi che in ormai quasi vent’anni di vita more uxorio, il Belcea
abbia saputo unire le quattro spiccate individualità (e radici) dei suoi componenti in una personalità unica e potente, esplorando ovviamente i quattro cantoni del quartettismo europeo. Ecco quindi la Gran Bretagna di Benjamin Britten, del quale il Belcea ha registrato l’integrale per EMI Classics già nel 2005;
ma la lunga collaborazione con la storica major ha dato molti altri frutti, tra
cui ancora un’integrale, quella di Bartók, e i Quartetti Dissonanzen e Hoffmeister
di Mozart, quest’ultimo in programma anche per Musica Insieme. La più recente fatica discografica il Belcea l’ha dedicata alle origini del genere, con l’integrale dei Quartetti di Beethoven in due volumi, pubblicata nel 2012/13 con
la nuova etichetta del gruppo, dal nome eloquente di ZigZag Territoires, e subito premiata con riconoscimenti come l’ECHO Klassik Award.
incalzante, le stridenti melodie e la relativa
brevità ne fanno quasi degli intermezzi,
che racchiudono il movimento centrale
(Very calm), il cuore pulsante di tutta la
composizione, l’unico a prevedere una
parte solista ben marcata, accompagnata
da uno strumento alla volta.
Apparentemente, in un omaggio all’Inghilterra, Mozart sembrerebbe quasi un
pesce fuor d’acqua, eppure, il Quartetto
n. 20 in re maggiore KV 499 un legame
(mancato) con l’isola britannica ce l’ha. Il
1786 è un anno cruciale per il compositore di Salisburgo. I rapporti con il padre,
malgrado l’affetto di fondo non sia mai
venuto a mancare, cominciano seriamente a logorarsi. Leopold, titubante per
gli esiti della carriera viennese del figlio, è
sempre più preoccupato per le sue sorti.
E non ha tutti i torti. I problemi economici, nonostante la fama indiscutibile e i
buoni guadagni conquistati nella capitale austriaca, si fanno sempre più incalzanti. A partire dalla stagione quaresimale del 1876, la serie trionfale di
concerti pubblici va esaurendosi, così
come l’interesse per le sue opere comincia
a scemare in un pubblico abituato ad appassionarsi alle novità. In questa situazione, Mozart, compositore ormai esperto
e navigato, spazia tra i più svariati generi,
spesso su commissione. E medita di lasciare Vienna. È proprio in questo pe-
riodo di forte incertezza, ma anche di
grande creatività (è l’anno delle Nozze di
Figaro) che Wolfgang pensa all’Inghilterra e alla possibilità di costruirsi un futuro oltremanica. Ma l’idea naufraga o,
meglio, l’attenzione del compositore si
sposta più ad Est, verso quella Praga che
accoglierà entusiasticamente il Don Giovanni, aprendo alla musica di Mozart
nuovi confini. È in questo clima che nasce il Quartetto n. 20, anche conosciuto
come Hoffmeister dal nome dell’amico
editore (e creditore) per il quale fu scritto.
Definito da Massimo Mila “una strana
composizione”, il Quartetto Hoffmeister è
il prodotto di una grande maestria nella
costruzione, ma è caratterizzato da
un’espressività timida, a tratti arida, difficilmente paragonabile ai colpi di genio
mostrati in altri generi. Secondo Mila sarebbe proprio questo Quartetto l’esempio
più chiaro dell’«arte mozartiana del luogo
comune, quella sua provocatoria attitudine a cavare un discorso significante dalla
combinazione di elementi convenzionali». Elegante, ma evasiva, la partitura si
apre con un Allegretto che ne rappresenta
perfettamente il carattere ambiguo, già
dall’esposizione. La forza e la chiarezza del
primo tema, invece di lasciare il posto al
secondo, lo sovrastano, tanto da cancellarne i contorni. Alcuni elementi della
prima idea tematica ritornano durante
tutto il tempo dell’esposizione, come in
una sorta di incontro tra la forma-sonata
e il rondò. Il risultato è quello di donare
una forte unità alla composizione, creando le condizioni per il germogliare di
nuove idee, sul principio della variazione
continua. E qui, il Mozart del “luogo comune”, lascia il posto al Mozart precursore di tecniche compositive che caratterizzeranno, solo molto più tardi, la musica
romantica, da Beethoven a Brahms. Il
materiale del primo tema prevale anche
nello sviluppo, dove le sue parti principali
si intersecano e dialogano tra loro, sfociando nella ripresa, in cui non si ravvedono cambiamenti di grande rilievo fino
a quando la chiusa non diventa il pretesto per una poetica e intensa coda. Convenzione, eleganza e contegno sono i caratteri che meglio descrivono il Minuetto
successivo, anch’esso un Allegretto, nella
stessa tonalità del primo movimento. Anche qui, le voci sono spesso elaborate in
stile imitativo, in particolare nella parte
precedente il Trio, che con le sue terzine
e i caratteristici trilli è stato definito da
Einstein “un pezzo di vera stregoneria
musicale”. Pacato, serenamente malinconico, simmetrico è l’Adagio. Anche qui la
forma-sonata non esprime il suo tipico
dualismo, in favore di un’omogeneità
espressiva che permette a Mozart di elaborare entrambi i temi sino a fonderli insieme, senza che ciò renda incongruente
o meno fluido il discorso musicale. In
contrasto con l’andamento sognante dell’Adagio, l’Allegro finale irrompe con la sua
vivacità e irrequietezza. La struttura, ancora una volta a metà tra la forma-sonata
e il rondò, ricorda quella dell’Allegretto
iniziale, con la differenza che qui si riconoscono almeno tre temi, la cui elaborazione comincia già nell’esposizione. La
complessità delle trame di questo finale
non è solo la conferma dell’attenzione
che Mozart dedicava ai movimenti conclusivi (valga per tutti il Finale dell’ultima
Sinfonia in do maggiore), ma la degna
sintesi di un quartetto che vede proprio
nell’arte dell’elaborazione la sua caratteristica principale.
Lo sapevate che...
Nel 2011 il Quartetto ha creato il “Belcea Trust”, per sostenere i giovani artisti
attraverso intense masterclass e commissionare nuovi lavori ai principali compositori
46
MI
MUSICA INSIEME
Un violino
gitano
“Classico” e “popolare”, jazz
e folklore si intrecciano nel
progetto di Viktoria Mullova
e Matthew Barley, che supera
i confini tra i generi nel nome
della buona musica
di Fabrizio Festa
N
ell’affrontare il tema del crossover, contesto nel quale palesemente s’inserisce il programma
presentato da Viktoria Mullova e da
Matthew Barley, dovremmo sgombrare il
campo da un convincimento comune, ma
sostanzialmente errato. Si è soliti pensare, infatti, che il mescolare le carte, comunque lo si chiami (da fusion a crossover, appunto), sia una novità, o almeno sia
un fenomeno artistico relativamente recente, da situare nella seconda metà del
secolo scorso, ad esempio. Le cose non
stanno così. La storia delle diverse arti c’insegna, al contrario, che mescolare le carte è di per sé l’attività dell’artista. Stranamente la purezza è sterile; ovvero, tanto più ci si allontani dalla mischia, si cerchi di provare a costruire strutture concettuali e formali totalmente autonome,
ci si avvii su una strada che ideologicamente ha tutte le caratteristiche dell’integralismo, ebbene quello è il momento
in cui la nostra arte comincia a morire. Ba-
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MI
MUSICA INSIEME
sterebbe pensare a che ne è stato della breve stagione della “musica pura”. Qualche
pezzo da camera (magari anche un capolavoro), un paio di sinfonie, ma alla fine
ha prevalso la vita. Ha prevalso cioè la necessità dell’artista di essere nel e col suo
tempo, magari anche rinunciando a certe esigenze o pretese, ma al tempo stesso
trovando una dialettica con la storia e col
quotidiano, elemento indispensabile al crescere dell’arte medesima.
Del resto, la distanza tra “popolare” e “colto” è solo una distanza ideologica. È “popolare” l’ottavatore che improvvisa i suoi
versi, formalmente impeccabili e magari
anche esteticamente di pregio, ed al tempo stesso recita a memoria i grandi poemi, come la Commedia dantesca o l’Orlando dell’Ariosto? Oppure è “colto”, anche se numerosi erano i casi di poeti improvvisatori del tutto analfabeti? Fa la differenza l’aver appreso la propria arte sui
libri, seguendo un corso accademico,
oppure l’aver imparato semplicemente
ascoltando il poeta o il musicista più anziano, secondo l’efficacissimo metodo
della trasmissione orale del sapere? Due
modalità queste che, ad esempio, nell’apprendimento della tecnica di uno
strumento musicale si mescolano, in un
sovrapporsi di scienza ed esperienza.
Dunque, dove sta il confine? Nel cercarlo si giunge ad una semplice conclusione:
tale confine non esiste. Il più ardito polifonista rinascimentale non disdegnava
d’usare melodie tipicamente popolari.
Viceversa, nella musica popolare troviamo molto spesso soluzioni complesse, intricate strutture, che nulla hanno da invidiare alla musica colta. In realtà, quel
convincimento nasce come costola di un
ragionare romantico intorno alla musica.
In quell’ambito l’aggettivo “puro” suonava
affascinante, salvo poi tutti i romantici dedicarsi con sollecito impegno alla musica applicata, specie se questa garantiva successo e denaro. L’opera lirica ne è l’esempio preclaro. Persino Wagner ha dovuto
Lunedì 10 febbraio 2014
fare i conti col pubblico. E quando questo non è stato (si pensi alla stagione delle avanguardie), se ne è poi pagato lo scotto. L’arte esiste solo nella relazione con chi
ne fruisce, altrimenti diviene uno sterile
esercizio di stile. Certo, si può scegliere
cosa mettere sul piatto della bilancia. Ma
nel caso della musica l’interesse reale, pratico, concreto del compositore è la dif-
fusione e quindi il successo dell’opera sua.
Il che taglia i corni del dilemma, mettendo
peraltro l’interprete nella fortunata condizione di non dover essere lui a scegliere, almeno in prima battuta.
E l’interprete attuale ha un altro grande
vantaggio: può scegliere in un repertorio
sterminato. Così capita magari che si accostino Bartók e Zawinul (il leggendario
compositore, pianista e tastierista, fondatore dei Weather Report insieme all’altrettanto leggendario sassofonista e
compositore Wayne Shorter), peraltro entrambi formatisi nel milieu post-asburgico. Zawinul, val la pena rammentarlo perché il suo è un esempio di crossover genetico/culturale, nacque a Vienna nel
1932, città dove si è spento nel 2007. La
sua era una famiglia di origine ungherese, con ramificazioni che si perdevano persino nel mondo Rom. Formatosi musicalmente nella città natale, solo nel ’59 Zawinul si trasferisce negli States. Pur divenendo uno dei protagonisti della scena
jazz americana (basterebbe ricordarlo qui
coi Jazz Messengers di Art Blakey o con
il quintetto capitanato dai fratelli Adderley), non perde il suo sentire originario, che riemergerà in tutta la sua potenza allorquando incontrerà Miles Davis nel
1968, per poi trovare definitiva concretizzazione appunto nella fortunata vicenda
artistica dei Weather Report. Una band,
si badi bene, in cui l’elemento improvvisativo era strategicamente incorniciato nel
contesto di composizioni complesse, articolate e di pregevolissima fattura. Questo spiega perché li si possa eseguire con
grande facilità in un concerto cameristi-
LUNEDÌ 10 FEBBRAIO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
THE MATTHEW BARLEY ENSEMBLE
The Peasant Girl
MATTHEW BARLEY violoncello
JULIAN JOSEPH pianoforte
SAM WALTON percussioni
PAUL CLARVIS percussioni
VIKTORIA MULLOVA
violino
Bratsch
Bi Lovengo
John Lewis / Bratsch
Django
Béla Bartók
Sette Duetti
(trascrizione per violino e violoncello)
Zoltán Kodály
Duo per violino e violoncello op. 7
Weather Report
Pursuit of the Woman with
the Feathered Hat
Matthew Barley / tradizionale
Yura
Weather Report
The Peasant
DuOud
Per Nadia
Introduce Viktoria Mullova
co. Per dirla in breve: è tutto scritto (o quasi). Affatto simile la vicenda di John Lewis e del Modern Jazz Quartet, sebbene
il profilo stilistico sia di tutt’altra natura.
Anche in questo caso John Lewis, coadiuvato compositivamente dal talento
del vibrafonista Milt Jackson, costruisce
un’esperienza musicale in cui l’elemento
accademico (evidente il riferimento a
I protagonisti
Dopo la vittoria della Medaglia d’oro al Concorso “Čajkovskij” di Mosca, nel 1982, Viktoria Mullova ha dato inizio ad
una folgorante carriera, che l’ha vista calcare i palcoscenici più prestigiosi del mondo, al fianco di direttori ed orchestre di
primo piano. Grazie alla sua versatilità, collabora con ensemble specializzati nei più diversi generi musicali e il suo spiccato interesse per la prassi esecutiva su strumenti originali l’ha portata ad esibirsi con Ottavio Dantone e Accademia Bizantina, Orchestra of the Age of Enlightenment, Giardino Armonico, Venice Baroque e Orchestre Revolutionnaire et Romantique. Al suo fianco, in The Peasant Girl, sarà Matthew Barley, violoncellista attivo con importanti orchestre ed apprezzato arrangiatore, nonché ideatore di progetti ‘trasversali’, fra cui Through the Looking Glass, che Musica Insieme già ospitò
con successo nel 2000. Il suo Matthew Barley Ensemble affianca a violino e violoncello un duo di percussioni, affidate
a Sam Walton e Paul Clarvis, e il pianoforte di Julian Joseph, compositore, divulgatore di successo (sua è la trasmissione Jazz Legends per BBC Radio) e fondatore nel 2013 di una propria Jazz Academy a Londra.
MI
MUSICA INSIEME
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Lunedì 10 febbraio 2014
Bach) si fonde con quello jazzistico. Il risultato non è, come si potrebbe pensare,
una sorta di ibrido. Al contrario, come
sempre quando c’è mestiere e c’è talento,
nasce qualcosa di nuovo, le cui diverse radici sono utilissime nell’alimentare proprio
la novità di quell’esperienza. Django così
ha una straordinaria melodia, che si sviluppa lungo una classicissima progressione,
dal sapore bachiano, pur mantenendo un
colore blues. O meglio, dovremmo dire
“manouche”, visto che il brano, come esplicita il titolo, è dedicato al chitarrista belga, ma di etnia sinti, Django Reinhardt.
Il che in qualche modo ci riporta a Bartók e Kodály, ovvero a quel mondo mitteleuropeo, in cui culture diverse erano appunto le radici di un unico albero sempreverde e ricco di ramificazioni. Dei due
compositori vengono proposte pagine in
un certo senso gemelle, nate per il duo di
violini, o di violino e violoncello. Un duo
quest’ultimo che non può contare su una
vastissima letteratura, ma per il quale
sono state scritte opere significative, come
ad esempio la Sonata in do maggiore di Ravel, la Sonatina VI di Honegger o il Duo
︒ . Tra queste sta anche il Duo
di Martinu
op. 7 di Kodály (1882-1967), composto
nel 1914, e da allora accolto sempre con
grande successo dal pubblico, tanto da entrare stabilmente nel repertorio dei più
grandi interpreti, come d’altronde dimostrano le numerose incisioni discografiche.
La prima esecuzione averrà solo dieci
anni dopo, nel 1924 a Salisburgo nell’ambito del Festival organizzato dalla
Società Internazionale di Musica Contemporanea. Organizzato in tre movimenti
secondo il canonico avvicendarsi di tempi veloci (il primo e l’ultimo) con l’adagio
nel mezzo, nel primo di questi proprio la
componente folklorica emerge con chiarezza. Meno evidente nel prosieguo della
partitura, eccola riapparire nel Presto finale,
brillantissima pagina che chiude in maniera
travolgente questa pietra miliare della
letteratura cameristica per soli archi. I 44
Duetti di Bartók (1881-1945), qui presentati in una selezione di sette nella tra-
DA ASCOLTARE
Oltre al recentissimo cd con i Concerti di Bach per Onyx Classical insieme
alla Bizantina di Ottavio Dantone (che recensiamo più avanti in questo numero di MI), Viktoria Mullova e i ‘suoi’ hanno pubblicato nel 2011 un doppio cd (sempre Onyx) con l’intero progetto The Peasant Girl, che riuniva sotto la parola d’ordine “Music is Music” un microcosmo di note del ventesimo
secolo, accomunate dal fatto di essere particolarmente care ai loro interpreti,
ma soprattutto dalle loro evidenti influenze gypsy, ossia gitane e popolari.
Come popolari sono le origini della strepitosa violinista, che vi sfodera con
il suo Stradivari evoluzioni tecnico-zigane impeccabili, lasciandosi talora andare pure a qualche libertà improvvisativa (anche nei Duetti di Bartók per
due violini, che Barley ha trascritto all’uopo per violino e violoncello). Una
passione cui manca forse soltanto di ‘sporcarsi’ un po’ di più con quell’imperfezione estemporanea tipica della musica popolare. Tanto più ammirevole,
anche per questo, è la curiosità dell’artista russa, che da sempre ‘osa’ sconfinare dal regno della classica, di cui è indiscussa sovrana, per esplorare le
proprie origini (e ne dà conto anche con ricchi materiali e interviste il dvd
Onyx The Making of The Peasant Girl) o inseguire le proprie passioni (con
un cd in uscita, registrato a Rio e dedicato all’adorata musica brasiliana).
scrizione per violino e violoncello di Matthew Barley, vengono composti nel 1931
per due violini allo scopo di fornire, analogamente a quanto realizzato con gli album pianistici raccolti nei diversi volumi
del Mikrokosmos, brani per lo studio dello strumento già intenzionalmente orientati verso un’estetica moderna. Dunque
non si tratta di pagine concertistiche, seb-
bene da tempo ormai i Duetti siano stati invece inseriti nei programmi da concerto e nelle più diverse trascrizioni. Che
l’interprete sia invogliato a presentarli in
pubblico, e magari a farlo con un organico per esempio costituito da violino e fisarmonica, lo si comprende immediatamente scorrendo la lista dei titoli, prima
ancora che ascoltando i singoli numeri. Si
tratta nella maggior parte dei casi, infatti, di brevi e piacevoli pagine d’ispirazione popolare, nello stile del Danze Rumene e delle Danze Ungheresi, altre pagine notissime del compositore magiaro. Dunque,
ancora una vicinanza al mondo gitano, e
naturalmente a quel mondo popolare
evocato nel titolo che Viktoria Mullova e
Matthew Barley hanno inteso dare a questo loro concerto, e il cui significato crediamo a questo punto appaia chiaro al lettore: The Peasant Girl. Mondo al quale appartengono sia la musica dei Bratsch, una
gipsy band francese, sia quella dello
DuOud, duo costituito da due virtuosi
nordafricani di oud, i fratelli Smadj e Medhi Haddab, in realtà formatisi nella Parigi degli anni ’90 e la cui musica fa largo uso dell’elettronica, molto amato com’è noto il mix elettro/folk anche negli ambienti della musica da intrattenimento.
Lo sapevate che...
Nella sua avventurosa fuga dall’URSS, nel 1983, Viktoria Mullova lasciò l’inestimabile
Stradivari di proprietà dello Stato in una camera d’albergo di Kuusamo, in Finlandia
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MI
MUSICA INSIEME
Foto Sarah Ferrara
Tre sonate
nel tempo
Vincitore nel 2012 del Leeds
International Piano Competition,
il talento di Colli affronta la forma
pianistica per eccellenza
di Maria Chiara Mazzi
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MI
MUSICA INSIEME
“S
onata” è una parola straordinaria, dentro la quale stanno
tre secoli di storia, stanno
mondi incredibili e quasi inconciliabili,
stanno intere civiltà musicali, stanno più
o meno tutti gli autori, grandi e piccoli,
che rappresentano la galassia della ‘classica’.
Eppure è la parola più semplice del mondo, perché all’inizio questa parola vuole,
semplicemente, dirci che il brano va
“suonato” (e non cantato…), senza nessun’altra implicazione formale, contenutistica o estetica: e le sue radici affondano nell’origine stessa della musica strumentale d’arte, nel Rinascimento, quando non c’era stato il tempo di inventare
generi e forme nuove e si decise di partire dalla musica vocale, da una canzone,
semplicemente decidendo di suonarla
anziché di cantarla. La canzone “da sonar”
è un brano solo, fatto però di tanti pezzetti che si susseguono senza soluzione di
continuità, ma diversi e contrastanti tra
di loro per carattere, scrittura e velocità.
È insomma una sorta di pangea musicale le cui ‘zolle’ (per proseguire con la metafora geologica) già nel corso del Seicento
cominciano a separarsi: le varie sezioni si
staccano, si allungano nella durata, cominciano ad assumere una identità se non
ancora formale almeno funzionale, mantenendo forse una memoria ancestrale di
quella unità primigenia. E inizia così, a fine
Seicento, la storia meravigliosa che conosciamo, scritta dapprima da gruppi piccoli e grandi di strumenti e poi, dall’inizio del secolo successivo fino ad oggi, anche dalla tastiera (prima dal clavicembalo e poi dal pianoforte). Ma la storia non
finisce qui, anzi, forse qui ricomincia: se
all’inizio i vari ‘tempi’ (perché questo sono
diventate nel frattempo, a tutti gli effetti, le ‘zolle’ musicali originarie di questa
strana tettonica inventata da noi) cercano di differenziarsi nel modo più radicale possibile, piano piano nel corso dell’evoluzione della forma della sonata, da
Beethoven in poi, sembra riemergere
un’antica memoria, sembra che quella unità iniziale cerchi a poco a poco di ricostituirsi malgrado i compositori, nonostante la storia e le necessità espressive ed
estetiche. Tale è questa spinta che gli ultimi approdi, i più originali in questo senso (pensiamo, fra tutti, alla Sonata di Liszt)
Lunedì 24 febbraio 2014
riusciranno con straordinaria efficacia a ‘ricostruire’ quell’unione tra le parti, a far sì
che i ‘tanti’ tornino ad essere ‘uno’, dopo
avere compiuto un viaggio tra i più straordinari che si possano mai descrivere nella storia della musica.
I brani affiancati nel programma di questo concerto ci raccontano la prima e la
seconda parte della storia: da Mozart, nelle cui sonate i vari tempi hanno una fisionomia caratteristica, attraverso Beethoven e Schumann, con brani nei quali la forma ciclica cerca di recuperare l’unità nella differenza. Sulla scia del primo
gruppo di sonate di Haydn, sotto l’influsso
prima dello stile ‘galante’ e poi di quello
‘sensibile’ (di Johann Christian Bach), nascono le prime sonate per pianoforte, composte da Mozart nel 1774 a Salisburgo prima della sua partenza per Monaco, che risentono degli influssi musicali centroeuropei e italiani. Non solo, la Sonata KV
283, come le altre di quegli anni, rispecchia oltre alle esigenze retoriche della struttura narrativa, il gusto dei ‘consumatori’,
ancora prevalentemente dilettanti, che a
quel tipo di repertorio si avvicinavano e
al quale esso era destinato. È pieno di galanterie e riverenze infatti il tema principale del primo tempo; un piccolo inciso
elegante che si ritrova, associato ad una
buona quota di calma malinconia, anche
nel movimento centrale e si fa sentire persino nella rapidissima sezione conclusiva
della sonata. Certo, non possiamo ancora parlare di “sonata ciclica”, ma un filo
sottile che lega i tre tempi prova a farsi strada, appena appena, tra le meraviglie della fantasia mozartiana che straborda anche in questa se pur piccola pagina.
Non scrive più per i dilettanti, e quasi
nemmeno per gli esecutori ‘di media
forza’ il Beethoven delle sonate di mezzo,
quello che produce, all’inizio del nuovo
secolo XIX, monumentali capolavori.
Complice un nuovo e più potente pianoforte, egli non accetta più passivamente la forma della sonata come dato acquisito nel quale collocare idee musicali
logicamente ordinate, ma un mezzo per
esprimere una personalissima visione del
mondo, nel quale visualizzare conflitti, opposizioni e risoluzioni di essi, caricata dal
di dentro di contenuti e motivazioni che
per i compositori precedenti e coevi non
LUNEDÌ 24 FEBBRAIO 2014
AUDITORIUM MANZONI ORE 20.30
FEDERICO COLLI
pianoforte
Wolfgang Amadeus Mozart
Sonata in sol maggiore KV 283
Ludwig van Beethoven
Sonata in fa minore op. 57
Appassionata
Robert Schumann
Sonata in fa diesis minore op. 11
Introduce Maria Chiara Mazzi, docente
al Conservatorio di Pesaro e autrice
di libri di educazione e storia musicale
Federico Colli
Perfezionatosi presso l’Accademia Internazionale di Imola e
il Mozarteum di Salisburgo, Federico Colli ha ricevuto il Primo
Premio al Concorso Internazionale “Mozart” di Salisburgo nel
2011 e il Primo Premio con Medaglia d’oro al prestigioso Concorso pianistico di Leeds nel
2012, suonando il Quinto Concerto di Beethoven con la Hallé
Manchester Symphony Orchestra diretta da Sir Mark Elder. Si
è esibito assieme a compagini di
primo piano, quali l’Orchestra
Sinfonica di Roma e l’Orchestra
dell’Arena di Verona, sotto la direzione di LucBaghdassarian,Nicola Paszkovski, Pier Carlo Orizio e Francesco Lanzillotta. Ha
calcato importanti palcoscenici
internazionali, come la Musashino Cultural Hall di Tokyo, la
Sala del Musikverein di Vienna,
la Sala Verdi di Milano, la Kursaal Arena di Berna, la Konserthuset di Stoccolma, la Salle Cortot di Parigi. Nel 2011 è stato impegnato in un tour di concerti in
Germania con la Klassische Philharmonie Bonn, diretta da Heribert Beissel. È stato premiato
come “Musicista dell’anno”
2011, per aver dato prestigio internazionale alla città di Brescia.
MI
MUSICA INSIEME
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Lunedì 24 febbraio 2014
erano nemmeno immaginabili. In questo
senso egli opera da subito alcuni mutamenti formali radicali: il progressivo dilatarsi delle proporzioni si associa infatti
ad una quasi fisiologica riduzione della lunghezza e del numero dei temi, spesso solo
semplici scansioni ritmiche o elementari
espressioni armoniche, che però si ripropongono opportunamente trasformati
nei diversi movimenti, nella ricerca di una
nuovissima (o antica?) unità. Questo accade nella Sonata op. 57 – Appassionata
(il sottotitolo apparve nell’edizione di
Cranz del 1838), composta nel 1803, opera monumentale costruita su un numero
limitatissimo di elementi sintattici e musicali, al punto da poter essere definita ‘ciclica’, cioè basata su un unico tema che ritorna in ogni movimento, il cui aspetto è
sempre differente perché soggetto a mutazioni continue. Il tema iniziale, quello
che tornerà anche alla fine della sonata, altro non è infatti che la successione delle
note dell’accordo di fa minore (la tonalità della sonata), esposte prima in senso discendente poi ascendente, ma così caratterizzate espressivamente e timbricamente da determinare il clima emotivo dell’intera composizione. E persino il bitematismo, struttura portante della filosofia compositiva beethoveniana, diventa secondario rispetto ad una ricerca di unità
che ricava il secondo tema del primo movimento direttamente dal primo, rovesciato
e trasportato in tonalità maggiore. Al posto del tradizionale Adagio, la sonata propone una serie di variazioni il cui tema, privo di qualsiasi lusinga melodica, è in realtà una pura astrazione armonica. «Non
so se nella musica vi sia un’altra creazione della stessa monumentale semplicità –
scrive Riezler – costruita sui soli elementi fondamentali dell’armonia, in cui qua
e là affiorano brevi figurazioni melodiche.
Una creazione che, nonostante la sua efficacia spirituale, sgorga incomparabilmente ed è giustamente considerata una
delle grandi conquiste della musica di ogni
tempo». Dalla conclusiva riproposta del
tema iniziale si diparte poi un brevissimo
interludio che collega direttamente que-
DA ASCOLTARE
La discografia di Federico Colli si arricchisce di anno in anno di nuovi interessanti tasselli. Nel 2009, in duo con il violoncellista Alberto Casadei, con
il quale si è aggiudicato il primo premio al Concorso Internazionale di Musica da Camera “Gaetano Zinetti” di Verona, ha inciso un disco con musiche di Beethoven, Brahms e Debussy. Prodotto dal Concorso, con il patrocinio della Fondazione “Antonio Salieri”, ed edito da Azzurra Music ed Edizioni Michelangeli, il cd è stato distribuito in allegato alla rivista Suonare News,
riscuotendo grandi consensi da parte della critica e del pubblico. Dopo l’incisione di un cd solistico con musiche di Mozart, Beethoven e Ravel (Tonstudio
Universität Mozarteum, 2010), insieme alla Klassische Philharmonie Bonn diretta da Heribert Beissel, Colli ha registrato dal vivo il Quinto Concerto op.
73 per pianoforte e orchestra di Beethoven, alla Beethovenhalle di Bonn
(2011). Per l’etichetta inglese Champs Hill Records, dopo la sua vittoria al
“Leeds”, è iniziata infine la preparazione di un cd che verrà lanciato nella
primavera del 2014, in occasione del suo debutto alla Queen Elizabeth Hall
di Londra. Conterrà la Sonata n. 10 op. 70 di Skrjabin, Quadri di un’esposizione di Musorgskij e l’Appassionata di Beethoven, che ascolteremo anche
nel suo concerto per Musica Insieme.
sta sezione alla tremenda inesorabilità
del Finale. E di nuovo l’inciso costruito sulle note dell’accordo di tonica che aveva caratterizzato l’inizio della sonata torna
protagonista, trasformato in un angosciante ‘moto perpetuo’ senza contrasti tematici (fatti salvi alcuni blocchi accordali) fino alla scarica di terribile tensione del
Presto conclusivo.
Attraverso la forma ciclica, splendidamente
e originalmente intrecciata con un andamento rapsodico che gli consente di uscire dalla ‘collezione di piccoli pezzi’ che aveva caratterizzato il suo catalogo fino a quel
momento, Schumann approda alla grande forma e lascia il suo segno nel percorso della sonata alla ricerca della sua unità
originaria. La Sonata op. 11, la prima e forse la più significativa delle tre per la qualità della scrittura e la quantità di sentimenti
e di atteggiamenti che vi sono espressi, è
da questo punto di vista esemplificativa.
Costruita per aggregazione in momenti diversi e addirittura da brani diversi, essa recupera unità e saldezza dall’assunto filosofico dal quale nasce (“dedicata a Clara da
Florestano ed Eusebio”) nel 1834. La forma della sonata, infatti, col suo passato di
‘grande pezzo’ consentiva a Schumann di
rendere unitaria la frammentarietà, di
collegare gli opposti, di costruire in gran-
de partendo da piccoli elementi, di unificare stati d’animo divergenti e momenti
psicologici e musicali apparentemente
contraddittori. Recuperare quella forma,
quindi, per Schumann non significa adagiarsi su modelli abituali per il pubblico e
la società dell’epoca, ma tornare indietro
fino alla concezione unitaria beethoveniana
e, attraverso quella, tendere ancora una volta a quella unità originaria della quale stiamo parlando dall’inizio di questo percorso. Un discorso estetico che si svolge qui
su due piani apparentemente distinti che
si ricongiungono nella sfera elevatissima
dell’arte pura: da un lato c’è la straordinaria
conoscenza virtuosistica dello strumento,
del quale il musicista sfrutta tutte le possibilità tecniche, dall’altra troviamo la
poeticità delle idee tematiche e l’irruenza
della passione, che mostrano come Schumann incarni in modo davvero incomparabile tutte le idee e le contraddizioni, gli
aneliti e le angosce del romanticismo. Non
a caso uno dei più grandi ammiratori di
questa pagina (proposta per la prima volta in concerto da Clara nel 1837) sarà proprio quel Liszt cui si dovrà il completamento del viaggio, la ricomposizione
(quasi in un ‘big bang’ al contrario) di tutte le parti dell’universo-sonata in una
sola grande struttura unitaria.
Lo sapevate che...
Nel 2010, insieme al violoncellista Casadei, Colli si è qualificato finalista al popolare
programma “Italia’s got Talent”, offrendo al pubblico una rilettura del Volo del calabrone
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MI
MUSICA INSIEME
PER LEGGERE
Antonio Bonacchi
Che lavoro fai? Il violinista.
Sì, ma di lavoro….?
(Curci, 2012)
Con un titolo irriverente, e
con l’illuminante sottotitolo
“Arte, mestiere, misteri del
suonare il violino”, è uscito per
i tipi dell’editore Curci il volume di Antonio Bonacchi, con la prefazione di Marco Fornaciari. È
una bella pubblicazione, ricca di notizie, di curiosità e corredata da numerose foto a colori. L’autore, personaggio eclettico e con interessi multiformi (nel libro si presenta in questo modo: «sono
babbo a giorni alterni, scrittore della domenica,
violinista per passione, liutaio e archettaio per diletto, tornitore autodidatta, informatico per necessità, imprenditore per divertimento, inventore per passatempo, cuoco per amicizia») ha raccolto una miniera d’informazioni. Alla fine il profano uscirà arricchito dalla lettura di un “dietro
le quinte” dello strumento di solito non facilmente
reperibile, mentre il musicista, soprattutto quello alle prime armi, troverà tante notizie utili. Dando per scontato che dello strumento sappia tutto (tecnica, costruzione e manutenzione), leggerà come scrivere un curriculum, come vestirsi per
un concerto e altro ancora. Simpaticissimi anche
i ricordi dell’apprendistato violinistico dell’autore.
Franz Werfel
Verdi. Romanzo dell’opera
(Corbaccio, 2013)
Werfel riuscì a mettere la
parola fine su Verdi. Romanzo dell’opera nell’estate 1923.
Il romanzo, il primo dello
scrittore e poeta austriaco
naturalizzato statunitense, è un’opera dalla
scrittura elegante e un documento di notevole
interesse in quanto, con sensibilità mitteleuropea, buona cultura musicale, notevole capacità di mescolare verità storica e finzione, Werfel
consegna al lettore un indimenticabile quadro,
ambientato nell’inverno 1882-83, quando Giuseppe Verdi si trova a Venezia. Ufficialmente ha
lasciato l’affetto della sua seconda moglie, il soprano Giuseppina Strepponi, per dare l’ultimo
saluto all’amico Vigna, ormai moribondo.
Questo, però, è solo un alibi. In realtà, il Maestro, ormai settantenne, ha compiuto il lungo
viaggio perché sa che lì troverà Richard Wagner,
con cui ‘compete’ a distanza da una ventina d’anni, colui al quale la sua musica è sempre contrapposta, una sorta di ‘ossessione’. Werfel dipinge un compositore forte e un po’ scontroso.
Il suo è un Verdi eroico, forte, risoluto e, nello stesso tempo, incerto sul proprio futuro. Un
romanzo d’atmosfere, d’inquietudini e di confronti sul terreno della musica, perfetto per concludere l’anno verdiano.
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MI
MUSICA INSIEME
di Chiara Sirk
PAGINE
MULTICOLORI
Una raccolta di recensioni,
critiche, riflessioni che
percorre trasversalmente
il mondo della classica, un
dietro le quinte con il violino
protagonista, e un ritratto
d’autore di Giuseppe
Verdi, ripubblicato per
il duecentesimo dalla
nascita del compositore
Interessante è sfogliare il più recente volume di Mario Bortolotto, Fogli multicolori (Adelphi, 2013), immergersi nella bella prosa, nella ricchezza di considerazioni, nella dovizia di citazioni colte che l’autore diffonde generosamente,
esserne travolti, perfino. Onore all’autore, ma, ugualmente, diamo merito ad
un quotidiano nazionale per aver lasciato
ampio spazio (come ormai raramente accade) alle lunghe, talvolta lunghissime
– giornalisticamente parlando – riflessioni di Bortolotto. Perché di questo si
tratta: il volume raccoglie una scelta di
articoli usciti nel corso degli ultimi
anni. Critica musicale, dunque, di altissima qualità, che segue strade sue, a
volte prevedibili (un’esecuzione), a volte inaspettate (un ricordo). Il libro è dedicato ad Anna Ottani Cavina, storica
dell’arte bolognese, direttrice della Fondazione Federico Zeri, quasi a sottolineare la capacità dell’autore di percorrere in modo trasversale se non tutti, certamente molti sentieri dello scibile. Da
Händel ad Ives, da Monteverdi a Debussy, fino ad arrivare al Novecento avanzato, con Ligeti e Stockhausen, l’autore, come il viandante schubertiano,
esplora la musica con acribia, piacevolmente in controtendenza con le frettolose cronache di tanti. In queste pagine
non c’è mai spazio per l’ovvio, scordiamoci la banalità del già noto e sentito;
qui troveremo considerazioni nuove, cri-
tiche, provocatorie, a volte. «Nuovo invito all’attraversamento della musica per
aspera ad astra», proclama l’editore nel
risvolto di copertina, ed in effetti, per
quanto detto in modo un po’ altisonante,
accade proprio così. Leggere Bortolotto è un bell’esercizio, fa bene alla mente, suscita irritazione, anche, non lascia
mai indifferenti. Se a questo aggiungiamo la pluralità degli autori e delle epoche trattate, tale da accontentare il
pubblico più vasto, l’interesse del volume balza subito agli occhi. Spicca l’altezza delle pagine legate al pianoforte attraverso gli esponenti massimi della
sua storia (si pensi alle analisi dedicate
a Prokof ’ev o Schumann). Da segnalare, per capacità d’invenzione, i titoli apposti alle critiche del volume: “Idillio polacco” (Szymanowski), “Lo zoo di Praga” (Janáček), “Malleabilità del genio”
(Ravel). Uno studio particolare è dedicato a Charles Ives (“Sinfonie per il nuovo mondo”), compositore cui Bortolotto
ha sempre rivolto un’attenzione privilegiata. Così, volteggiando fra i ritratti
di Händel (gigante di “stile e noia”), di
de Falla (“musicista... per grazia celeste”),
di Henze (“samurai borghese”) ci si accorge quale esercizio intellettuale, più che
sentimentale, sia necessario per la comprensione del mondo della musica.
Mario Bortolotto
Fogli multicolori
(Adelphi, 2013)
DA ASCOLTARE
di Lucio Mazzi
INCONTRI SONORI
Due grandi incontri: quello fra Viktoria Mullova
e l’Accademia Bizantina, e quello fra Maria João
Pires e Antonio Meneses. Conclude la trilogia
il nuovo cd chopiniano di Rafał Blechacz
Antonio Meneses, Maria João Pires
The Wigmore Hall Recital
(Deutsche Grammophon, 2014)
Quasi due anni ci hanno fatto attendere questo cd! L’album documenta infatti un concerto tenuto a Londra nel gennaio del
2012 dal grande violoncellista brasiliano Antonio Meneses sul palco con l’eccellente pianista portoghese Maria João Pires: primo momento del sodalizio tra i due, coronatosi lo scorso novembre anche sul palco dei Concerti di Musica
Insieme. Il programma, oltre a brani di Brahms, Mendelssohn e Bach,
presenta (come a Bologna) il celebre Arpeggione di Schubert in un’esecuzione da annali. Quello che colpisce in queste esecuzioni è che,
come troppo raramente capita, si ha fin da subito l’impressione di
trovarsi di fronte a due splendidi solisti in grado di compenetrare
a vicenda la propria tecnica e la propria sensibilità, e non a un solista e al suo pur validissimo ‘accompagnatore’. Cosa in cui, forse,
l’esperienza di Meneses nel Beaux Arts Trio deve aver giocato un ruolo determinante. Del resto, se la carriera dei due musicisti ci racconta
come siamo davanti a due dei maggiori solisti di questo tempo, d’altra parte non è scontato che dall’incontro di due grandi esecutori
scaturiscano grandi momenti. In questo cd, semplicemente, succede.
Rafał Blechacz
Chopin Polonaises
(Deutsche Grammophon, 2013)
Affrontando un repertorio di questo tipo
(straconosciuto, straamato, straeseguito), un
musicista deve avere in testa l’idea di creare qualcosa che rappresenti un nuovo paradigma, un nuovo punto di riferimento. Il problema è che, inseguendo quella chimera,
a volte si rischia di perdere il senso e lo spirito originario della pagina eseguita. Ad esempio, nel caso di Blechacz alle prese con sette Polacche, una delle quali è la Polonaise-Fantaisie, alcune scelte
(l’uso forse eccessivo del pedale, soluzioni ritmiche azzardate, un’irruenza cui a volte sarebbe preferibile una maggiore dinamica) non
convincono appieno: frutto di istinto o di precisa volontà? Non è
dato saperlo: poco importa. La tecnica è sempre cristallina, non è
certo questo il punto. Il punto attiene al gusto personale: se di questi brani apprezzate esecuzioni più misurate (Pollini, Rubinstein),
semplicemente è facile che amerete meno i momenti in cui Blechacz,
qui, tende a fare ‘la voce grossa’.
Sarà lecito, per una volta, parlando di un album, partire… dalla copertina? In certi ambiti musicali la copertina era fondamentale, faceva parte del ‘progetto’,
nella musica classica molto meno, ma questo bellissimo ritratto di Viktoria Mullova… parla. E dice tantissimo. Dice che la musica non è solo passione e istinto, ma anche rovello, ripensamento, dubbio, studio.
Lo sappiamo, forse, ma è giusto ricordarlo, anche perché non si raggiunge il risultato di cui possiamo godere in questi solchi senza tutto ciò. Tanto più se, come
in questo caso, ci si confronta con un repertorio eseguito e inciso centinaia e centinaia di volte, un repertorio affrontando il quale ogni musicista probabilmente pensa che occorrerà pur inventarsi qualcosa di nuovo... Dunque qui abbiamo i Concerti bachiani
BWV 1041 e 1042 per violino, che la violinista russa riprende con uno strumento barocco (e corde di budello) a una decina d’anni dall’incisione (con strumenti
moderni) per la Philips. Cambia il suono: certamente più morbido, si sposa perfettamente con la ‘voce’ dell’Accademia Bizantina, senza prevaricare: abbiamo un
solista poco egocentrico, quindi: primus inter pares, si
direbbe. Ai due concerti, Mullova e Dantone, brillantissimo sia al clavicembalo che sul podio del suo mirabile ensemble, hanno abbinato due trascrizioni per
violino in qualche modo inaspettate (certo non irriverenti, del resto era lo stesso Bach a rimaneggiare sovente il proprio materiale per altre composizioni): quella del Concerto per clavicembalo BWV 1053 in mi
maggiore (che poi la violinista ha trasposto in re maggiore) e quella del Concerto BWV 1060 in do minore per due clavicembali (ma originariamente per violino e oboe), divenuta per clavicembalo e violino. Nello splendore generale segnaleremo l’eloquenza delle frasi musicali nel Siciliano del primo, e l’Adagio del secondo
nel quale, addirittura, la versione violino-clavicembalo appare più brillante di quella per due cembali. L'ultima annotazione è una domanda: perché in un disco
inciso anche da prestigiosi musicisti italiani, le note di
copertina scritte da un italiano (Dantone) sono in inglese, tedesco e francese, ma non in italiano?
Viktoria Mullova, Ottavio Dantone,
Accademia Bizantina
Bach Concertos
(Onyx, 2013)
58
MI
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