MINIMA/VOLTI N. 31 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio Comitato scientifico Paolo Bellini (Università degli Studi “Insubria”), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria), Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean Moulin Lyon 3). OSCAR WILDE LA DECADENZA DEL MENTIRE A CURA DI MATTEO G. BREGA MINIMA/VOLTI © 2012 – M E (Milano – Udine) Isbn: 9788857512464 Collana: Minima/Volti n. 31 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 0224416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] INDICE L . di Matteo G. Brega p. 7 L p. 33 5 M G. B LA PROTESTA DELLA VITA CONTRO LA NATURA. WILDE E IL NATURALISMO Dei tre saggi di maggior spessore teorico pubblicati da Wilde, The Decay of Lying rappresenta forse il momento di maggior elaborazione, sia per la tematica affrontata, sia per il contributo di originalità apportato dall’autore alla questione. Mentre The Critic as Artist si rifà sostanzialmente al dibattito innescato da Walter Pater1 e Matthew Arnold sul ruolo della critica e sulla rivalutazione di una sorta di “soggettivismo oggettivo” raggiungibile, secondo Pater, dal critico che sappia cogliere il grado di oggettività delle proprie opinioni – una sorta di analisi approfondita delle impressioni soggettive, unici dati a disposizione della coscienza – il secondo saggio dei tre, The Soul of Man Under Socialism rappresentava il contributo di 1 Per ciò che concerne i debiti di Wilde nei confronti di Pater, e della sua teoria critica in particolare, si possono notarne vari echi nei saggi wildeiani e un esplicito riferimento in Pen, Pencil and Poison quando si afferma: «[…] certamente il primo passo nella critica estetica è costituito dal rendersi conto delle proprie impressioni», Oscar Wilde, Opere, Newton Compton, 1994, p. 965. Qui il riferimento agli Studi sul Rinascimento di Pater è esplicito così come l’allineamento ad una delle teorie centrali del saggio. 7 Wilde al dibattito sorto all’interno dell’Aesthetic Movement, in particolare per ciò che concerneva gli elementi più spiccatamente sociali e pedagogici. In un certo senso possiamo affermare che, per entrambi di questi saggi, il contributo di Wilde è stato più rivitalizzante che generativo, vista non soltanto la preesistenza dei temi con i quali l’irlandese si è confrontato, ma visto anche l’effettivo contributo teorico apportato agli stessi. Nel caso di The Critic as Artist l’originalità consiste nel prefigurare una sorta di figura terza, oltre l’artista ed oltre il critico, simbolizzata dall’artista-critico, emancipato dal lavoro come momento di confronto con il sostrato naturale e come tale lasciato all’artista, e superiore al critico – che, nell’ipotesi di Wilde, potrebbe essere identificato con una sorta di “pubblico informato” – in quanto non soltanto interprete ma creatore a sua volta. Una tesi provocatoria, dotata di accenti romantici, che anticipa molte delle tematiche tipiche del Novecento ma che, in pratica, non esce dall’orizzonte teorico dell’Aesthetic Movement. Sempre in The Critic as Artist sono presenti temi tipici, ripresi anche in The Decay of Lying, quali la legittimità, per lo storico, di ricorrere all’invenzione, l’intrinseca superiorità del falso sul vero, oltre che l’idea di preminenza dell’artificiale, in quanto livello di mediazione tra natura ed intelletto umano, sul naturale. D’altra parte non è possibile ignorare che motivo occasionale dell’uscita di The Critic as Artist, nel 1890, fu la disputa tra Wilde e il pittore e teorico James A. M. Whistler – disputa che echeggia anche in The Decay of Lying – la cui origine può essere fatta risalire ad una conferenza sull’arte, tenuta da Wilde nel 1883, in margine alla quale il pittore dichiarò pubblicamente di aver trovato, nelle parole di Wilde, molti dei concetti da lui stesso esposti 8 a più riprese in passato. La cosa sopravisse per qualche tempo sui giornali, sino a culminare nella lettera inviata da Whistler nel novembre 1888 a The World, nella quale si può leggere la famosa sentenza, citata poi da Wilde in The Decay of Lying, sul “Coraggio delle opinioni altrui”. Wilde si difese a sua volta, con una lettera pubblicata su Truth nel gennaio 1890, spiegando che egli non doveva nulla a Whistler in quanto le opinioni da se stesso espresse nel 1883 erano ben antecedenti anche a quelle dello stesso Whistler. In ciò Wilde ebbe senza dubbio ragione: si trattava infatti dei temi affrontati da Ruskin e da Pater in primis ma poi divenuti centrali nel dibattito del tempo. Non bisogna mai dimenticare che il genio e la notorietà di Wilde non erano disgiunti da un ruolo di divulgatore che si ritagliò egli stesso, soprattutto per quanto concerneva le posizioni teoriche, il più delle volte stimolate, nelle sedi accademiche, da coloro che furono i suoi insegnanti di un tempo. Del resto, l’educazione delle masse attraverso la bellezza era un elemento fondamentale per comprendere non solo i temi dell’Aesthetic Movement, per il quale la questione era di cruciale importanza, ma per collocare nella corretta luce tutto l’Estetismo europeo, meno socialmente impegnato, come ad esempio in Francia o in Italia, ma pur sempre attento a quelle tematiche. Sarà poi lo stesso Wilde a voler chiudere una volta per tutte la questione con Whistler con l’argomento secondo il quale, originali o meno, le sue idee erano conosciute da tutti per ciò che esprimevano, mentre quelle di Whistler, per essere notate, dovevano per forza passare per la pubblica denuncia di un presunto plagio. Per ciò che riguarda il saggio “politico” di Wilde, e cioè The Soul of Man Under Socialism, anche in questo caso occorre notare una sorta 9 di occasionalità implicita consistente nella necessità, per Wilde, di enunciare in maniera sistematica, nel 1891, le proprie posizioni politiche dopo quasi un decennio di dibattiti pubblici sul ruolo dell’educazione, della bellezza, dell’arte nella vita dell’uomo, e dopo il tour americano che, partito come giro promozionale, si trasformò presto in enunciazione del verbo estetista. Particolare interessante, quello del viaggio del 1882: ideato dall’impresario della commedia Patience per accentuare gli aspetti ironici della piéce nella quale si ridicolizzava la figura del dandy, prevedeva la presenza in carne ed ossa del bersaglio delle ironie del testo in qualità di conferenziere a margine della commedia stessa. Wilde ne fece invece l’occasione per consacrarsi non soltanto come personaggio pubblico ma, ben consapevole dei meccanismo dei media, per sfruttare l’eco delle notizie giunte a Londra da oltreatlantico, al fine di costituirsi come vero e proprio teorico di un movimento che, al suo ritorno in patria, cambiò il proprio ruolo culturale da dottrina iniziatica per un’élite marginale a corrente di fondamentale importanza nel dibattito britannico, così come già in Francia stava accadendo per il Simbolismo. In un certo senso, per tutti i saggi di Wilde, possiamo vedere all’opera il critico-artista delineato in The Critic as Artist: un pensatore che mette ordine al dibattito per poi aggiungervi qualche elemento proprio, generato dal dibattito stesso e non da considerazioni basate sull’osservazione esterna. Per Wilde, ad esempio, “socialismo” significava essenzialmente “fare quello che si vuole” e, più in particolare, dedicare la propria vita al bello. Il fine della società doveva essere quello di mettere ogni uomo nelle condizioni di poter realizzare tale ideale, senza entrare in noiosi dettagli applicativi. Ciò dovette forse 10 apparire insufficiente al momento della pubblicazione, in quanto sia Pater che William Morris avevano proposto applicazioni di tipo sostanzialmente corporativistico, ma, sotto l’aspetto dello sviluppo storico, saranno i posteri ad apprezzare la superiorità della vaghezza wildeiana nei confronti di velletarie ipotesi applicative, quali appunto quelle di Ruskin o Morris, dimenticate solo pochi anni dopo la loro formulazione. Da notare, inoltre, una parte provocatoria del saggio dove si sostiene che la solidarietà per i poveri non può creare altro che ulteriore povertà e, soprattutto, dove si afferma l’assurdità della desiderio di lavoro e di autorità, entrambi all’uomo insopportabili per definizione. Queste ultime posizioni, più stirneriane che socialiste, si appoggiano al controcanto paradossale in base al quale la soluzione della povertà consisterebbe nella soppressione della proprietà privata e nella concessione dell’uso di ogni bene a chi lo desiderasse. Anche in questo caso la massima marxiana “A ciascuno secondo i propri bisogni” viene presumibilmente interpretata da Wilde come “bisogni estetici”. The Decay of Lying è scritto nel 1888 ed esce la prima volta nel 1889, per poi avere una seconda pubblicazione nella collettanea Intentions del 1891, ed è dunque il primo dei tre saggi “maggiori”. Contrariamente che per gli altri due sopra citati, qui la causa accidentale non sarebbe da ricercarsi in motivi contingenti – la chiusura della questione con Whistler o la necessità di esporre una posizione politica – bensì nel confronto teorico con le tesi del maestro di Wilde ai tempi di Oxford: Walter Pater. La questione centrale del dialogo è il Naturalismo, che Wilde preferisce chiamare Realismo, e, implicitamente, tutte le relative questioni connesse al rapporto tra arte e 11 natura e tra arte e vita. La teoria letteraria è solita considerare il termine “Naturalismo” come un sottoinsieme francese del più generale “Realismo” e non ci deve stupire la scelta anglofona di Wilde. I caratteri fondamentali del Realismo, soprattutto a partire da quello che potremmo chiamare il movimento di consapevolezza che questa impostazione ha attraversato nel corso dell’Ottocento, concernono essenzialmente un modo di narrare e di descrivere la realtà presupponendone una sperimentazione e limitando al massimo ogni “punto di vista”, ogni giudizio, ogni soggettivismo. Il Realismo, nelle dichiarazioni dei suoi teorici quali Emile Zola, si ascrive, abbastanza sorprendentemente, tutta la grande tradizione occidentale, ed arriva a ipotizzare un punto di arrivo ideale nella letteratura del Settecento di argomento sociale, in special modo in tutte quelle parti dove l’ascesa sociale della borghesia, in tutte le sue forme, assume il carattere centrale del racconto. Gli argomenti della letteratura passano così dal mondo mitico e l’aristocrazia, ai costumi del popolo e della borghesia emergente, in tutte le loro sfaccettature e le loro peculiari dinamiche. Il vertice di tale produzione viene riconosciuto a Defoe, Thackeray, Balzac, Stendhal e Dickens per poi passare, nel corso dell’Ottocento, ad un’ulteriore rigidità metodologica derivante dal confronto con le correnti filosofiche del Positivismo e con la generale impostazione sperimentalista. Da tale evoluzione si possono individuare le successive correnti del Naturalismo in Francia e del Verismo in Italia le quali, oltre ad incorporare le premesse metodologiche del Realismo, accettano definitivamente il ruolo sociale di emancipazione non più soltanto della borghesia ma dello stesso proletariato e, in generale, delle masse 12 industrializzate. Da qui in poi si può assistere ad un’aspirazione “scientifica” all’indagine sociale, finalizzata alla presa di coscienza politica ed all’acquisizione di conquiste sociali in linea con il socialismo. In senso più ampio, il Naturalismo ha espanso la propria influenza non soltanto in letteratura ma, sulla base del fondamentale rapporto tra arte e natura nei termini di una rigorosa e mimetica imitazione di quest’ultima, anche ad altri ambiti artistici. Tale impostazione rivendicava, da una parte, un ritorno ai temi di reale interesse contro la fatuità dell’arte “di corte” o “di circostanza”, e si rifaceva a modelli esemplari ipostatizzati, da Boccaccio a Cervantes, in nome di una superiorità del fatto concreto sulla fantasia e di un maggior interesse del dato storico sulla mitizzazione soggettiva. In questo senso si può leggere il Naturalismo in chiave antiromantica, in particolare per ciò che concerne il tentativo romantico di riappropriazione delle facoltà immaginifiche in opposizione ai limiti oggettivi del dato naturale. Quasi contemporaneamente al grande successo di pubblico riportato da Emile Zola, il Naturalismo conobbe una forte messa in discussione teorica da parte sia del nascente Simbolismo che dell’Estetismo. Ciò che si metteva in discussione non erano tanto i presupposti teorici, difficilmente contestabili perché a priori, quanto gli esiti e l’inevitabilità di determinate criticità: si metteva in dubbio, come ad esempio fece lo scrittore e critico Henry James, la possibilità di un punto di vista effettivamente oggettivo, e si contestava, da parte di tutto il mondo simbolista ed estetista, l’interesse artistico intrinseco per un elemento meramente naturale. Fu il Naturalismo stesso a causare, in seguito, la propria marginalizzazione subordinandosi, in un primo momento, alle 13 sole istanze politiche, per poi essere sostituito, nello stesso compito, dalle Avanguardie. Parallelamente si sviluppò, in Europa, un’estetica basata su presupposti totalmente alternativi e tesa alla trasformazione della natura, e della vita, ad opera del soggetto artista. L’Estetismo rappresentò il momento di punta di tale impostazione prendendo nettamente posizione per il superamento della centralità dell’elemento naturale, degli elementi sociali “di denuncia” e dei contenuti artistici ispirati alla quotidianità. Il semplice “progetto politico” era chiaramente esposto da Wilde in The Decay of Life e in The Soul of Man Under Socialism: è l’arte ad indicare alla vita come deve essere, quindi è necessario che tutti si trovino nelle condizioni di accostarsi all’arte per ottenere una vita realizzata, cioè felice. In realtà un tale progetto fu peculiare principalmente di Wilde e, come si è già visto, si limitava ad indicare una via senza pretendersi applicativo. Ben più lucide ed efficaci sono, invece, le critiche che The Decay of Life riserva a Zola in quanto teorico del Roman expérimental: partendo da una posizione analoga a quella di Wilhelm Worringer2, Wilde afferma la superiorità dell’approccio astratto nei confronti di quello realista e schematizza in tre momenti il rapporto tra arte e vita. Nel primo stadio l’arte si muove in maniera indipendente dalla vita e crea lo stile astratto – stile che, in un passo successivo, verrà identificato con l’“orientalismo” – nel secondo stadio è la vita ad accostarsi all’arte perché attratta dalla bellezza. Potremmo leggere in ciò una sorta di riconoscimento e di apprezzamento che l’uomo opera 2 Si veda in particolare Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, Einaudi, 2008, pp. 29-50 14 dello stile, ed una successiva tendenza a subordinare ogni aspetto del reale e della natura a tale stilizzazione. Nel terzo stadio, però, la vita prende il sopravvento e scaccia l’arte, ottenendo così il Realismo. In questo caso possiamo individuare, oltre che l’ascendenza worringeriana, un’eco dell’impostazione di Heinrich Wölfflin3 e, soprattutto, di Winckelmann nella visione ciclica delle forme e nell’inesorabile esaurimento che l’arte deve subire al fine di rigenerarsi: essa non potendo più avanzare non può che retrocedere4. In questo terzo e ultimo stadio Wilde colloca il Realismo – che viene infatti definito come “la vera decadenza” – quando cioè lo stile viene estenuato dall’ingresso troppo accentuato di elementi realistici all’interno dell’opera d’arte. Propugnare lo sperimentalismo, dunque, si configura come l’atteggiamento antiartistico per eccellenza e, senza dubbio, costituisce il momento di ingresso nella sfera estetica non soltanto di elementi allogeni, ma di finalità eterogenee quali appunto quelle sociali, politiche o etiche, sancendo così la subordinazione dell’arte alla natura. È da notare come, in tale contesto, la rivendicazione dell’arte per l’arte non assuma tanto i toni dell’Estetismo cosiddetto decadente, quanto quelli del tentativo di difesa dello specifico artistico nei confronti di tutto ciò che all’arte è essenzialmente estraneo. Contro il sentimentalismo, anch’esso assimilato ad un’ingerenza della natura nell’ambito estetico, la componente razionale assume il decisivo ruo3 4 Si veda Heinrich Wölfflin, Rinascimento e barocco, Abscondita, 2010, pp. 91-126 Si veda Johann Joachim Winckelmann, Storia dell’arte nell’antichità, Abscondita, 2000, pp. 244 e segg. 15 lo di strumento principale per la resa dell’artificiale, cioè per l’intervento dell’uomo sulla natura in chiave di trasfigurazione della stessa e, in seconda battuta, della vita. La componente energetica, esplicitamente citata in The Decay of Lying, rappresenta la parte essenziale della vita in tutte le sue forme, ma soggiace all’esigenza di espressione; l’arte esiste per assolvere a questa esigenza. Si possono qui individuare echi schopenhaueriani, sebbene immersi in una visione estetizzante che non considera negativa in sé la presenza della volontà, ma ne fa un dato del reale e come tale lo riconduce all’interno dell’ambito di intervento dell’arte. La non utilità dell’arte, come enunciata da Wilde, non può incontrare alcun limite di relazione con qualsivoglia sostrato materiale, deve quindi essere totalmente indipendente, sia per quanto riguarda gli elementi materiali, sia per ciò che attiene le forme che assumerà. Ecco dunque acquistare importanza fondamentale – ancora in linea con Schopenhauer – il decisivo passaggio riguardante l’esplicitazione dell’autonomia espressiva dell’arte e della superiorità della musica in quanto «tipo perfetto di tutte le arti». Il passo acquista ulteriore valore se si considera l’inciso che sancisce il distacco di Wilde da Pater su di una questione di centrale importanza: per Pater il rapporto tra forma e sostanza costituiva l’entelechia originaria dell’opera d’arte, in virtù della quale si poteva rendere possibile non soltanto la realizzazione dell’opera, ma anche la sua corretta fruizione. In pratica, l’opera d’arte è il rapporto che si esprime tra forma e sostanza. Wilde supera questo assunto di Pater, non negandolo ma affermando che ciò non costituisce l’ubi consistam dell’opera d’arte, in particolare per ciò che attiene i suoi rapporti con la vita e con la natura. Per 16 Wilde l’opera d’arte è tale indipendentemente dalla sostanza, cioè a prescindere da ogni suo oggetto; possiamo dire che se l’arte «non esprime altro che se stessa», allora non le rimarrà che la pura forma per esprimersi in maniera compiuta, ed ogni sostrato materiale diverrà così accidentale, un semplice pretesto per far emergere la pura forma. In una tale visione appare quanto mai plausibile la centralità della musica la quale, sebbene in realtà non prescinda totalmente dal sostrato materiale (le onde sonore sono pur sempre natura), rappresenta il tipo perfetto della superiorità della forma nei confronti di una sostanza invisibile e quasi inindividuabile. E per ciò che riguarda la possibilità di “comprendere un’epoca , sarà necessario ancora una volta rivolgersi all’arte, e più precisamente all’architettura, e non, viceversa, ritenere che sia la storia a fornire all’arte le motivazioni affinché un determinato stile si sviluppi. Qui si scontrano due diverse visioni, difficilmente riconducibili l’una all’altra, per le quali possono essere addotti esempi sia a sostegno dell’una, sia a sostegno dell’altra. Senza dubbio l’affermazione di Wilde doveva parere molto provocatoria all’interno di un contesto culturale che, da Taine in poi, era convinto nello spiegare gli epifenomeni estetici come ricadute della storia, sebbene, al nascere del nuovo secolo, sarebbe sorta, anche grazie a Wilde, una corrente interpretativa di tutt’altro indirizzo. È grazie all’Estetismo, infatti, che si impone la visione dell’arte come di avanguardia simbolica della storia: nell’arte vengono elaborati i simboli e gli stilemi che l’epoca utilizzerà come potrà. Non solo, molti degli aspetti della storia e della natura saranno reali soltanto grazie all’arte ed alla sua capacità di renderli visibili sotto una forma comprensibile e, po17 tremmo dire, fruibile. Le nebbie londinesi, probabilmente esistite da sempre, saranno oggetto di osservazione soltanto dopo che gli Impressionisti ne avranno fatto un soggetto artistico, conferendo così all’uomo la possibilità di vedere una cosa che, in caso contrario, sarebbe rimasta guardata ma non vista. È l’arte che conferisce significato al reale, cioè è l’intervento artificiale della ragione formalizzante, che presuppone il fine della fruizione. Tutto ciò che nel suo rimanere brutalmente naturale ed esterno non è altro che fenomeno fisico, risulta all’uomo indifferente se non ostile. In questo caso possiamo notare un’affinità con il Nietzsche della Nascita della tragedia, specialmente nella visione dell’arte come di necessaria trasfigurazione della realtà finalizzata alla sua accettazione. Naturalmente tale tipo di approccio si prestava all’attacco, nato nel clima della cultura vittoriana ma proseguito sottoforma di ingerenza dell’etica sull’estetica o della politica sull’arte, contro gli aspetti “non edificanti” dell’arte, l’ambiguità dei suoi messaggi, l’indipendenza dei propri contenuti. E se, da una parte, per Walt Whitman e William B. Yeats tale indipendenza accettava consapevolmente di poter degenerare nell’influsso negativo sulla società, per Wilde – in maniera paradossale, conoscendo la vicenda umana dello scrittore – l’artista, come fa notare Richard Ellmann5, andava semplicemente considerato come un “isolato”, al di sopra finanche delle proprie influenze, unicamente interessato alla perfezione della forma da esso stesso elaborata, mai pensata per ottenere una precisa finalità imitativa. Con ciò Wilde connota in maniera ancora più netta l’originalità della 5 Richard Ellmann, Oscar Wilde, Mondadori, 2000, p. 355 18 propria posizione in seno all’Aesthetic Movement, allontanandosi progressivamente dalle idee di Arnold, Morris e Ruskin, tese ad una riforma della società per il tramite della funzione educativa dell’arte, accentuando in maniera chiara il proprio edonismo teorico: l’arte ha la funzione di piacere e non quella di edificare o di convincere. Wilde, per ciò che riguarda la sua produzione, oscillò costantemente tra due intenzioni: la prima, rappresentata dalle conferenze di Oxford, dal viaggio negli Stati Uniti, e dallo stesso Ritratto di Dorian Gray, dove l’intenzione “educativa” ed edificante era esplicita, anche se non sempre ritenuta sincera; la seconda, rappresentata soprattutto dai saggi e dalle ultime opere teatrali, dove l’intenzione di rivolgersi al pubblico in veste di educatore si andava sempre più perdendo a favore dell’effetto. Non bisogna dimenticare che il giovane Wilde, allievo di Ruskin e Pater, aveva aderito ad un’esperienza culturale spiccatamente pedagogica dalla quale non si distanziò mai esplicitamente, un’esperienza che affondava le proprie radici nelle rivendicazioni propugnate da Lord Byron per poi raccogliersi, sotto la guida di William Morris e John Ruskin, nel movimento dell’Arts and Crafts. Un vero e proprio movimento politico, da alcuni designato come “Socialismo utopistico inglese”6, che intendeva educare le nuove generazioni attraverso l’esemplarità del bello in contrapposizione allo scadimento delle condizioni di vita tipiche dell’industrializzazione di inizio Ottocento, ed in contrasto con le intransigenti norme di ordine pubblico 6 Si veda George M. Trevelyan, Storia della società inglese, Einaudi, 1966, pp. 348-375 19 promulgate in seguito allo scoppio del Luddismo. Tale movimento politico, animato per lo più da aristocratici, voleva rappresentare una sorta di compensazione alla durezza delle condizioni sociali del proletariato dell’Inghilterra vittoriana e, seppur mantenendo le proprie finalità all’interno di visioni programmatiche universalistiche, egualitariste e utopistiche, l’influenza di tale “impegno” condizionò alcune delle posizioni del primo Estetismo, in particolare per ciò che riguarda l’idea di potenza rigeneratrice del bello, non soltanto sulla vita dell’uomo quanto su tutti gli aspetti della società. In questo senso The Soul of Man Under Socialism va inquadrato come il contributo di Wilde, da leggere nel suo utopismo spinto, di ribadire il proprio ruolo di scrittore “impegnato”, che aveva ormai accettato in maniera definitiva l’assunto decadentista della scissione tra arte e vita, ma che non si liberò mai dell’ambivalenza delle due pulsioni contrapposte, celate nella propria personalità e nel proprio senso della “missione”: quella “revanscista-impegnata” dell’irlandese giunto a Londra per consacrare la propria ascesa di status e di condizione, e quella “isolata” di artista concentrato sulla propria creazione. Tale ambivalenza si rifletté nella produzione di Wilde, dove la parte pubblicistica era ampia e dove ogni scritto era pensato in funzione dell’effetto sul pubblico, e dove la parte poetica delineava esplicitamente un netto elitarismo sia negli intenti che negli esiti. Innanzitutto l’elitarismo tipico di chi rinuncia a “fare” – fosse anche fare arte – per esistere, come teorizzato nel Dorian Gray e più volte ribadito da Wilde; quindi l’elitarismo dei pochi che possono apprezzare la pura forma al di là del contenuto o del messaggio: un auspicio propugnato nel The Critic ad Artist. Un elitarismo che prevede la divisio20 ne della società in “artisti” e “filistei”, i primi in grado di fruire e comprendere ogni cosa, i secondi che si fermano al mero “messaggio” e che sono sprovvisti degli strumenti per leggere la reale e in sé perfetta superficie formale dell’opera (e della vita in quanto opera). Un elitarismo, infine, di chi distingue gli artisti in “popolari” e “impopolari”, dove i primi sono coloro che creano e costringono il pubblico a uniformarsi, mentre i secondi sono quelli che, volgarmente, non sanno attendere il successo e danno al pubblico ciò che il pubblico si aspetta da loro, divenendo così degli artigiani più simili all’ideale di William Morris che a quello dell’artista in senso eterno. Ancora una volta assistiamo al ruolo peculiare che Wilde assunse all’interno dell’Aesthetic Movement, ruolo che non cessò mai di rappresentarne una coscienza critica oltre che un costante richiamo per le contraddizioni alle quali le intenzioni di Ruskin, Morris e Pater andavano incontro, sostenendo allo stesso tempo la volgarizzazione dell’arte7 e la sua sacralizzazione, oltre che l’ipotesi di un egualitarismo che si autocontraddiceva all’interno di una dicotomia del mondo basata su arte e vita. Come alcuni notarono – Wilde in primis ma anche lo stesso Pater ne era consapevole – la bellezza era frutto di un mondo di ineguali, per sorte e talenti, mentre l’omologazione pedagogica avrebbe portato ad un mondo di uguali nella propria mediocrità, e cioè nell’esatto opposto del mondo dominato dall’arte vagheggiato dall’Estetismo. I gradi di consapevolezza di una tale utopia erano, in ogni caso, diversi e, da Schiller a Wilde, l’idea della comunità estetica basata sulle facoltà innate 7 Si veda Paolo D’Angelo, Estetismo, Il Mulino, 2003, p. 152 21 dell’uomo ha attraversato la modernità sotto varie forme e con diverse intensità. Per ciò che riguarda gli aspetti legati all’indipendenza dell’estetica dall’etica – elementi, che avrebbero poi costituito la base per il futuro processo a Wilde, presenti sullo sfondo in The Decay of Lying e resi espliciti nel Ritratto di Dorian Gray – sarà opportuno sottolineare brevemente due elementi di fondamentale importanza: la premessa formalista e il contesto culturale britannico. Wilde avanzava con la forza dei paradossi l’istanza d’indipendenza dell’art pour l’art non certo, come banalmente qualcuno ha pensato, per sancire l’irrilevanza dell’etica dalla vita delle persone e delle comunità. In un certo senso – nella misura in cui possiamo pensare a Sade come alla più alta figura morale della modernità in quanto esempio dell’imprescindibilità della prospettiva etica della vita – possiamo vedere in Wilde il moralista che intende porre all’attenzione della società alcuni aspetti degradati della stessa. È un argomento classico dell’Estetismo e, del resto, l’intento riflessivo è evidente quando non addirittura portato alla condanna, si pensi al D’Annunzio de L’innocente o de Il piacere o a Huysmans. La rivendicazione della totale autonomia dell’estetica deriva rigorosamente dalle premesse formaliste, sancite dalla Critica del giudizio, che la concezione estetista prevede per l’opera d’arte. Il senso stesso dell’arte non può essere giustificato da altro se non dal realizzarsi dell’impulso creativo, secondo le regole della forma; anteporre a ciò qualsiasi tipo di finalità significa inficiare il processo creativo in sé e quindi vanificare il senso stesso dell’azione creativa. Significa, allo stesso tempo, impedire all’artista di realizzare la propria idea, ed al fruitore di trarre piacere dall’opera. Ciò porta al peggio22 re dei crimini e cioè alla realizzazione di qualcosa di brutto, superfluo e incoerente, in altri termini porta a replicare la vita. In questo senso, come del resto esplicitato nelle lettere indirizzate ai giornali per difendere il Ritratto dalle critiche di immoralità, Wilde concepiva la superiorità dell’artista nei confronti della morale in quanto l’arte è da considerarsi contrapposta alla vita e da essa indipendente, mentre la morale inerisce alla vita per necessità. Esistono poi motivazioni di tipo culturale e “politico” che indussero Wilde a sostenere con forza, e fino al sacrificio di sé, l’indipendenza dell’artista dalla morale. La tradizione liberale britannica non poteva accettare l’intervento dello Stato all’interno di una sfera intima quale la fantasia dell’individuo. Tale ingerenza risultava, in tale ambiente culturale, assolutamente inaccettabile e la grande questione vittoriana – che, nelle intenzioni di Wilde, doveva essere smascherata durante il suo processo per indegnità morale – dell’ambivalenza tra morale privata ed etica pubblica, soggiaceva alle contraddizioni inerenti l’inviolabilità individuale sancita dall’Habeas Corpus. Wilde non rinunciò mai all’idea dell’irlandese che ricordava agli inglesi i loro stessi principi, e in tale rivendicazione possiamo collocare l’insistenza con la quale egli ribadiva l’inaccettabilità di interferire nel processo di creazione fantastica proprio dell’artista, quasi considerandolo un porto franco legalmente riconosciuto. Ma se la spinta alla salvaguardia delle libertà personali costituisce parte essenziale della cultura anglosassone, l’impostazione culturale empirista ne rappresenta il controcanto per il quale si giustifica la diffidenza nei confronti dell’intangibilità di un non verificabile “procedimento fantastico”. Wilde si venne a trovare, e The Decay of Lying ne è forse il più chia23 ro esempio, nel mezzo del conflitto tra queste due impostazioni culturali: la salvaguardia dell’individuo e la diffidenza nei confronti dell’effimero. L’insensatezza delle critiche che venivano mosse allo scrittore era ancor maggiore se pensiamo alla natura dell’assunto teorico wildeiano in base al quale ogni contenuto di un’opera deve necessariamente essere inventato per essere adeguato – la “menzogna primigenia” è infatti quella di Erodoto – e come tale non può parlare di cose reali ma soltanto verosimili. Balzac – si legge in The Decay of Lying – è un grande artista perché, ispirandosi liberamente ad alcuni tratti naturali, ne trasfigura totalmente i contorni, fino a creare un mondo parallelo al reale che al reale conferisce senso. La presunta verosimiglianza della Comédie humaine è solo un pretesto ingegnoso per avvincere il fruitore e per trascinarlo in un altro mondo, diverso dal quotidiano, che con questo ha alcune somiglianze ma dove vigono le leggi dell’arte. Da qui il paradosso secondo il quale se ciò che conferisce senso è ciò che precede, allora la vita imiterà l’arte in quanto da essa trae un senso che, guardandosi ad uno specchio non deformante, non troverebbe mai. È quest’ultimo uno degli argomenti più efficaci di The Decay of Lying sebbene, messo alla prova dell’arte figurativa, mostri un momento di non completa chiarezza quando, all’obiezione di Cyril circa il valore artistico intrinseco della somiglianza nei ritratti, Vyvyan, riutilizzando il convincente argomento inerente la letteratura di Thackeray e Balzac, sostiene a proposito di Holbein: «I disegni di uomini e donne del suo tempo ci impressionano per l’assoluto realismo. Ma questo accade perché Holbein costrinse la Vita ad accettare le sue condizioni, a rientrare dentro le sue regole, a riprodurre il tipo che aveva in men24 te, e a sembrare come voleva lui. È lo stile che ci fa credere nelle cose, nient’altro che lo stile». In questo caso l’affermazione finale dell’efficacia dello stile nei confronti del conferimento di senso non pare supportata in maniera così convincente come nel caso della letteratura. Ci è difficile, infatti, pensare ad una realtà che si adegua allo stile contemporaneamente alla sua comparsa ed, inoltre, tale argomento appare in contrasto non soltanto con l̓argomento secondo il quale «La Natura va sempre più lenta del tempo», ma anche con quello, ben più suggestivo, dell’amica di cui parla Vyvyan, la quale condusse la propria vita non potendo fare a meno di adeguarla alle cadenzate vicende di un romanzo a puntate del quale la donna attendeva la pubblicazione della puntata finale con terrore, sapendo di non poter sfuggire allo stesso destino della protagonista. Il problema del rispecchiamento fra arte e natura rimane uno dei più affascinanti nella misura in cui tale imitazione intenda risultare mimetica. Questione che ha interessato l’estetica per tutto il Novecento e che già venne posta ai tempi del presunto Naturalismo di Wagner. Forse, in questo frangente, Wilde ha ceduto alla provocazione, all’effetto per l’effetto, ed ha preferito sostenere l’argomento più difficile – l’ineludibilità, l’automaticità e l’immediatezza del principio di adeguamento della natura all’arte – piuttosto che estendere, anche alle arti figurative con intento mimetico, l’argomento meno netto ma più convincente, e cioè che anche la mimesi più realistica rappresenti pur sempre un trionfo della forma, e che proprio quando si rinneghi tale potenza non si ottiene nient’altro che realismo, che, insomma, l’arte precede la vita e varia liberamente mentre la vita non può far altro che adeguarsi assomigliandole. La vera 25 dialettica è tra vita e arte, mentre la natura rimane il sostrato grezzo, inestetico per definizione, dal quale semplicemente attingere. È quindi insensato, oltre che fallimentare, costringere l’arte al Document humaine, alla semplice riproduzione del reale, giacché ad un’operazione così sterile occorrerà, per ottenere il programmato risultato di intervenire sulla società, sovrapporre alla creazione artistica una prospettiva al contempo pedagogica e “d’impegno civile”, giungendo così al deludente esito di mancare l’opera d’arte e di fallire l’intento civile. Una lezione che il Novecento si dimenticherà. Sullo sfondo rimane pur sempre la grande questione del rapporto tra uomo e natura, quest’ultima intesa come fenomenologia dell’infinito, e dell’irrappresentabilità di ciò che è essenzialmente altro da sé, non tanto rispetto all’umano corporeo – giacché anche il corpo dell’uomo fa penosamente parte della natura – quanto in rapporto all’intelletto ed alla funzione giudicante, irriducibile alla natura in quanto funzione essenzialmente ordinatrice. In questo senso – ipotesi considerata plausibile anche dallo stesso Simmel8 – è l’Estetismo il vero continuatore della tradizione kantiana, mentre il problema romantico della giustificazione metafisica dell’arte può rappresentare una fonte di fraintendimento, se anche lo stesso Wilde afferma in The Decay of Life: « La vita scorre più veloce del realismo, ma il romantico si affaccia sempre sulla vita». Seppur solo accennata, la questione sembrerebbe rifarsi ad una visione del “romantico” come di impulso vitale – non sappiamo se di natura metafisica – che porta la vita a superare se stessa nelle forme 8 Cfr. Georg Simmel, L’art pour l’art in G. Simmel (a cura di M. Cacciari), Scritti di estetica, Liviana, 1970, pp. 77-83 26 della trasfigurazione fantastica tipica dell’arte, giacché la vita non desidera altro che esprimersi: «[…] la finalità intima della Vita consiste nell’esprimersi, e l’Arte le offre delle forme belle attraverso le quali dissipare quell’energia». La dissipazione energetica, sulla quale concordano anche il Nietzsche della Nascita della tragedia e il Simmel del Conflitto della cultura moderna, è l’orizzonte di senso nel quale si muove l’uomo in generale, e il fruitore in particolare, misurandosi continuamente con la propria realizzazione estroversa, consentita dagli oggetti, i quali vengono così a costituire le componenti fondative della vita stessa. Tra il ruolo attivo e creatore dell’artista e quello passivo e sterile del fruitore, l’Estetismo privilegia il secondo in quanto il “fare” in genere è del filisteo, inoltre, in ossequio alla visione di Pater della vita come susseguirsi di emozioni, per gli estetisti soltanto la facoltà critica pura può giungere a comprendere appieno l’opera d’arte ed a goderne sino in fondo. L’uomo giunge al massimo della realizzazione in quanto “colui che sa distinguere” – in quanto “critico”, appunto – esercitando e raffinando la propria facoltà di giudizio incessantemente, senza cadere né nel deliquio decadentista né nella perdita di consapevolezza, come invece nella visione romantica dell’“artista ispirato”. L’opera d’arte in sé, così come la menzogna in generale, ha bisogno di essere creata per esistere, ma non di meno di essere fruita; un’opera incompresa non esiste in quanto opera, così come una menzogna non compresa non è in sé una menzogna. L’azione dell’arte consiste sempre in quella modificazione della natura che conferisce senso alla vita nella misura della sua fruizione estetica, e che arriva, così, a giustificare la vita stessa in quanto fenomeno estetico. In tale dinamica il rifiuto del mimeti27 smo è talmente netto che, se in The Critic as Artist si afferma che la critica è superiore all’arte e da essa totalmente autonoma, il mentire in The Decay of Lying assurge ad atto artistico in sé, in quanto regolato da leggi formali interne che nulla hanno a che vedere con l’elemento naturale dal quale partono. Se l’effetto finale sarà soddisfacente, verosimile, allora l’azione formale sarà stata condotta in maniera adeguata e premiata così dalla bellezza. Siamo di fronte ad un’estensione del paradigma retorico ad ogni forma d’arte, in linea sia con la visione antica – pensiamo alla Retorica di Aristotele spesso citata ad esempio dagli estetisti – sia con la concezione protoromantica della preminenza della poesia. Infine pare interessante soffermarsi brevemente sulla questione, già evidenziata con precisione da Paolo D’Angelo9, circa la derivazione dell’Estetismo dalla tradizione kantiana piuttosto che da quella romantica e segnatamente schellingiana. Gli elementi a favore della prima tesi appaiono convincenti, in particolare se si intende la questione del formalismo come decisiva per tutta la concezione estetistica. In primo luogo sarà utile ricordare come soltanto l’oggettività, in quanto caratteristica essenziale della forma, consenta al soggettivismo critico ipotizzato da Pater un punto d’appoggio esterno di efficacia decisiva per l’intero sistema. Soltanto una forma intesa in senso kantiano consente, infatti, l’operazione di autocomprensione critica delle impressioni finalizzata all’approdo oggettivo. Inoltre la forma, considerata come riferimento esterno alla vita ed alla natura, mette a disposizione del soggetto una strumento di misurazione al contempo 9 Si veda Paolo D’Angelo, Op. cit., pp. 39-63 28 utile e fonte di piacere. È la comprensione dell’adeguatezza formale di un oggetto (opera) l’azione che consente al soggetto di elevarsi al di sopra del flusso caotico della vita in virtù del proprio intelletto, e non invece tramite una forza trascendente, come in alcune evoluzioni novecentesche del formalismo effettivamente influenzate dalla tradizione romantica10. Il problema romantico della “forma che trascende la forma” non si pone nell’Estetismo perché, in definitiva, esso è pur sempre un edonismo, e situa nella fruizione piacevole il proprio τέλος. Certamente la questione del sublime non trova lo stesso spazio teoretico riservatole da Kant e, a tale proposito, possiamo ipotizzare o una sottovalutazione del problema o, più probabilmente, una concezione “subordinata” del sublime in quanto caso particolare di ciò che Wilde in The Decay of Lying intende con la formula “natura specchio dell’arte”. L’identificazione tra vitalismo e Romanticismo, e la sua estensione ai presupposti dell’Estetismo, è una delle cause che hanno portato molti ad accostare Estetismo a Romanticismo, sebbene ciò derivi da una lettura dell’Estetismo come momento “disimpegnato e decadente” del Romanticismo che è già squalificante a priori e che risente delle successive Avanguardie, in particolare della tendenza sociologica, politica e moralistica di considerare una corrente di pensiero per i frutti sociali che porta e per come essa influisca sugli individui. In realtà, ad una siffatta lettura, basata sul fenomeno culturale estetistico e non sui suoi elementi teorici, sarà sempre possibile contrapporne una uguale e contraria, in grado di individuare 10 Si veda Mario Perniola, L’estetica del Novecento, Il Mulino, 1997, pp. 47-49 e segg. 29 nei due fenomeni, estetistico e romantico, diversità ancor più nette che le supposte analogie derivate da una lettura interessata. In sostanza, considerare l’Estetismo come momento di decadenza tout-court significa aver già presupposto una superiorità del Romanticismo, una visione dell’Estetismo come di un suo momento terminale, ed un successivo superamento di entrambi i momenti attraverso la sintesi operata dalle Avanguardie novecentesche. Ma oltre a ciò esistono problemi teorici di reale importanza che consistono, in breve, nel concetto di centralità della forma in ogni idea di arte. Per tale questione, al contrario, il riferimento al Primo romanticismo, a Schelling o a Friedrich Schlegel, non appare così fuori luogo. La concezione dell’arte come di luogo eletto per giungere alla verità accosta senza dubbio Romanticismo ed Estetismo, così come l’idea di “comunità estetica” schilleriana sta alla base di molte posizioni sia estetistiche che romantiche. Lo stesso si può dire per il valore esemplare della poesia e per la presa di posizione a favore degli aspetti fruitivi, cioè estetici, dell’individuo. A costo di farli apparire come semplicistici nei confronti dei romantici, possiamo considerare gli estetisti come coloro che hanno sostenuto la superiorità della Critica del giudizio sulle altre due – superiorità nient’affatto condivisa dal Romanticismo maturo – e individuare in tale comune impostazione l’origine delle analogie tra Primo romanticismo ed Estetismo. Impostazione iniziale che, in un secondo momento, sarà superata dai romantici i quali, al contrario, riterranno centrale la questione inerente la giustificazione del giudizio estetico. Essi, partendo dalle aporie aperte da Kant, erano alla ricerca di una teoria unificante della vita, mentre gli estetisti limitavano la propria ricerca ad un nucleo problema30 tico estetico sulla base del quale ogni altro aspetto poteva essere giustificato, datasi la premessa nietzscheana di vita in quanto fenomeno estetico. In questo senso, per quel che riguarda l’Estetismo, potremo individuare un’impostazione contraddistinta da un grado di “purezza” maggiore per ciò che attiene il concetto di ricerca della verità attraverso l’arte. Se, infatti, per i romantici la conquista della verità è il fine ultimo al quale anche l’arte presta la propria opera, per l’Estetismo il raggiungimento consapevole e pieno della bellezza rappresenta il punto definitivo della ricerca e non necessita di ulteriori approfondimenti. La vita si risolve nella fruizione della forma d’arte, perfetta in quanto non naturale, dotata di senso in sé ed in grado, indirettamente, di conferire significato alla vita stessa, in quanto raggiungibile attraverso il giudizio. In questi termini pare plausibile inquadrare l’Estetismo come una forma di razionalismo, in ciò individuando un’ulteriore punto di diversità nei confronti dell’impostazione romantica. Gli estetisti prevedono, infatti, una centralizzazione della facoltà razionale giudicante, intesa in quanto costitutivo essenziale dell’umano, che agisce secondo leggi proprie, uniche e superiori, e che, attraverso il piacere, fornisce al soggetto l’idea chiara e distinta della propria esistenza. Una dichiarazione di superficialità, per alcuni, che sbarra la strada alla ricerca trascendente romantica e si accontenta di brillare nell’autonomia della luce della bellezza. 31 MINIMA/VOLTI 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 Jean Baudrillard, CyberÞ losoÞ a Michel Foucault, Eterotopia Gilles Deleuze, Immanenza Lou Andreas-Salomé, Anal und Sexual Nicola Da Cusa, Il Dio nascosto, a cura di Luciano Parinetto Mario Perniola, Più che sacro più che profano Slavoij Žižek, The matrix Gilles Deleuze, Cinema Antonio Caronia, Virtuale Giovanni Calvino, Trattato sulle reliquie Agostino Gemelli, Contro padre Pio Slavoij Žižek, Il segreto sessuale della Chiesa Giuseppe Mazzini, Repubblica Carlo Cattaneo, Federalismo Carlo Pisacane, Eguaglianza Mauro Carbone, Amore e musica. Tema e variazioni Georg Simmel, Frammento postumo sull’amore María Zambrano, Frammenti sull’amore Slavoij Žižek, Lynch. Il ridicolo sublime, a cura di Damiano Cantone Slavoij Žižek, Tarkovskij. La cosa dallo spazio profondo, a cura di Damiano Cantone Slavoij Žižek, Hitchcock. È possibile girare il remake di un film?, a cura di Damiano Cantone Jacques Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, a cura di Samantha Maruzzella, Federico Viri M. De Montaigne, Dei cannibali. Alle origini del relativismo moderno, a cura di Sergio Benvenuto Emanuele Severino, Del Bello Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato Sergio Benvenuto, Lo jettatore. Capriccio Þ losoÞ co Herbert Marcuse, Critica della tolleranza Immanuel Kant, Michel Foucault, Che cos’è l’illuminismo? Virginia Woolf, Sul Cinema, a cura di Sara Matetich Walter Benjamin, Tesi di Þ losoÞ a della storia Finito di stampare nel mese di marzo 2012 da Digital Team, Fano (PU)