unità 7 La seconda guerra mondiale Riferimenti storiografici 1 Nel riquadro il bombardiere tedesco Junker Ju 87. Sommario 1 2 3 4 Hitler e i generali tedeschi alla vigilia dell’invasione della Polonia Governo sovietico e movimento comunista nel primo anno di guerra Roosevelt dall’isolazionismo all’intervento Guerra, morale e propaganda F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 5 6 7 La guerra a Oriente nella concezione di Hitler La strategia imperiale del governo giapponese Le violenze contro le donne tedesche nel 1945 1 Hitler e i generali tedeschi alla vigilia dell’invasione della Polonia UNITÀ 7 Il 22 agosto 1939 (quando tutto era ormai pronto per la guerra, in quanto Stalin aveva già annunciato il suo consenso al patto di non aggressione) una cinquantina di alti ufficiali tedeschi fu convocata al Berghof, il rifugio sulle Alpi Bavaresi in cui Hitler amava risiedere quando si allontanava da Berlino. In quell’occasione, il Führer spiegò le ragioni della guerra imminente. LA SECONDA GUERRA MONDIALE 2 I generali erano seduti su file di sedie. Hitler, appoggiato al pianoforte a coda, parlò dando rare occhiate al foglietto di appunti che teneva nella mano sinistra. Non fu redatto alcun verbale. All’uditorio fu detto esplicitamente di non prendere appunti dell’incontro. L’ordine fu ignorato da uno o due dei presenti, tra cui il capo della Abwehr [il servizio di spionaggio dell’esercito, n.d.r.], ammiraglio Canaris, che annotarono di nascosto i punti principali. Altri, come il capo di stato maggiore colonnello generale Halder e l’ammiraglio generale Boehm, giudicarono quanto udito di tale importanza che più tardi quello stesso giorno si affrettarono a stilarne un sunto. «Non avevo dubbi sul fatto che un conflitto con la Polonia dovesse arrivare, prima o poi» esordì il cancelliere. «Avevo già preso questa decisione in primavera, ma pensavo di volgermi prima contro l’Occidente, e affrontare l’Est in seguito». Le circostanze, disse, gli avevano fatto cambiare idea. In primo luogo egli ebbe a sottolineare l’importanza del proprio ruolo in quella situazione. «Sostanzialmente» dichiarò senza falsa modestia «tutto dipende da me, dalla mia esistenza, ed è frutto del mio talento politico. A ciò si aggiunga il fatto che forse mai nessun altro potrà vantare quella fiducia che l’intero popolo tedesco ripone in me. È probabile che in futuro non vi sia un altro uomo dotato di un’autorità superiore alla mia. La mia esistenza è pertanto un elemento di enorme valore. Ma in qualsiasi momento io posso scomparire per mano di un criminale o di un pazzo». Pose quindi in rilievo il ruolo personale giocato da Mussolini e da Franco, laddove Francia e Inghilterra mancavano di «personalità ragguardevoli». Alle difficoltà economiche della Germania accennò brevemente quale motivo in più per non rinviare l’azione. «Per noi sono decisioni facili da prendere. Non abbiamo nulla da perdere e tutto da guadagnare. A causa delle nostre restrizioni (Einschränkungen), la situazione economica è tale da non consentirci di resistere più di qualche anno. Göring può darne una conferma. Non abbiamo scelta. Dobbiamo agire». Passò in rassegna l’insieme delle forze internazionali, concludendo: «Tutte queste circostanze favorevoli saranno sparite fra due o tre anni. Nessuno può sapere quanto mi resta da vivere. Dunque, meglio una guerra adesso». Proseguiva col suo tipico argomentare. Era meglio testare subito gli armamenti tedeschi. Impossibile tollerare oltre la situazione polacca. Si rischiava un crollo di prestigio. Un intervento occidentale era altamente improbabile. Il rischio c’era, ma il compito dell’uomo politico come dell’uomo d’armi era affrontare il rischio con ferrea determinazione. Così aveva già fatto in passato, in particolare nel recupero della Renania nel 1936, dimostrando sempre di avere ragione. Bisognava correre il rischio. «Ci troviamo di fronte» affermò col suo consueto dualismo apocalittico «alla drastica alternativa tra l’attacco o, presto o tardi, un sicuro annientamento». Passò quindi a un confronto tra la forza bellica tedesca e quella delle potenze occidentali, per concludere che l’Inghilterra non era in condizione di aiutare la Polonia. Né essa poteva avere interesse alcuno in un conflitto prolungato. Le speranze dell’Occidente erano state riposte nell’inimicizia tra Russia e Germania. «Il nemico non ha fatto i conti con la mia grande forza di volontà» esclamò gloriosamente. «I nostri nemici sono vermiciattoli (oleine Würmchen). Li ho visti a Monaco». Il patto con la Russia sarebbe stato firmato di lì a due giorni. «Ora la Polonia è nella posizione in cui la volevo». Non v’erano da temere resistenze. […] L’intervento si chiudeva infine con una sintesi della sua filosofia: «Ai vincitori nessuno viene a chiedere se avevano detto la verità oppure no. Quando si intraprende una guerra non è la ragione che conta, ma la vittoria. Chiudete i vostri cuori alla pietà. Agite brutalmente. Ottanta milioni di persone devono ottenere ciò che loro spetta di diritto. La loro esistenza va tutelata e resa sicura. La ragione è del più forte. Dunque, massima severità». Le reazioni dell’uditorio furono contrastanti. A tre mesi circa dalla riunione, il generale Liebmann, che non poteva dirsi un ammiratore di Hitler, ricordava le proprie sensazioni. Se pure dal cancelliere gli era capitato di udire alcuni discorsi efficaci, scriveva, questo mancava completamente di lucidità e di senso critico. «Il suo tono tronfio e chiassoso era semplicemente ributtante. Sembravano le parole di un uomo privo di ogni senso di responsabilità, che non avesse più un’idea precisa di cosa significasse una guerra vittoriosa e deciso con arbitrarietà inaudita al salto nel buio». A giudicare dalle facce cupe e dai palesi malumori, molti dei presenti dovevano a suo avviso pensarla allo stesso modo. Può darsi che fosse così. Ma se i generali non fecero plauso alle parole di Hitler, è vero anche che non sollevarono alcuna obiezione. In linea di massima, lo stato d’animo era improntato a fatalismo e rassegnazione. I. KERSHAW, Hitler 1936-1945, Bompiani, Milano 2001, pp. 322-325, trad. it. A. CATANIA Per quali motivi, secondo Hitler, era «meglio una guerra adesso»? Che ruolo attribuisce Hitler alla sua persona, in qualità di leader del popolo tedesco? Come reagirono i generali alle parole di Hitler? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Nella fase iniziale della seconda guerra mondiale, tutte le categorie politiche e le alleanze sembravano capovolte. Francia e Inghilterra (neutrali durante la guerra di Spagna e rinunciatarie a Monaco) erano in guerra contro Hitler, mentre l’URSS accusava le democrazie occidentali di essere potenze imperialiste e aveva di fatto abbandonato i concetti di fascismo e di lotta antifascista. [Il 28 settembre 1939] l’alleanza tra le due potenze [Germania e URSS, n.d.r.] viene proclamata in una dichiarazione nella quale si sostiene che dopo il crollo della Polonia – Varsavia è caduta il giorno prima – «è nel vero interesse di tutti i popoli mettere fine allo stato di guerra che esiste fra la Germania da un lato e l’Inghilterra e la Francia dall’altro». «Se gli sforzi dei due governi – si aggiunge – dovessero rivelarsi infruttuosi, questo dimostrerà che la Francia e l’Inghilterra sono i veri responsabili della continuazione della guerra». Da questo momento la motivazione ufficiale della politica estera sovietica, almeno a stare ai discorsi di Molotov, batte insistentemente su questo tasto. Fino all’assurdo, quanto ad accorgimenti e a giustificazioni ideologico-politiche. Il 31 ottobre, parlando davanti al Soviet supremo, Molotov scende molto lungo tale china: «Certe vecchie formule – dice – si sono del tutto logorate. Nel corso degli ultimi anni i concetti di aggressore e aggressione hanno acquistato un nuovo contenuto concreto, un altro significato. Se si parla oggi di grandi potenze europee, la Germania si trova nella situazione di uno Stato che aspira a vedere la cessazione rapida della guerra e che desidera la pace, mentre Inghilterra e Francia, che ieri ancora si proclamavano contro l’aggressore, sono per la continuazione della guerra e contro la conclusione della pace. I ruoli, come vedete, cambiano». […] Molotov arriva a dire che «una Germania forte costituisce una condizione essenziale, anzi preliminare per una pace durevole in Europa», conduce una polemica contro il trattato di Versailles che, se pure non è nuova nella propaganda comunista, anzi, è vecchia, suona avallo [sostegno, accettazione, n.d.r.] a tutta l’impostazione revanchista [finalizzata alla rivincita, n.d.r.] tedesca. «I rapporti tra la Germania e gli altri Stati borghesi dell’Europa occidentale durante gli ultimi vent’anni sono stati determinati dal desiderio tedesco di rompere le catene del trattato di Versailles, i cui autori erano stati Francia e Gran Bretagna aiutati dagli Stati Uniti». L’appoggio alle posizioni hitleriane non si ferma qui. Molotov deride la validità di una guerra ideologica, nega l’attendibilità di una battaglia per la democrazia. Ecco il passo del suo discorso che tocca una dimensione filosofica, metodologica almeno. «In Inghilterra, come in Francia, i partigiani della guerra hanno dichiarato alla Germania una guerra ideologica che rammenta le vecchie lotte religiose. Le guerre di religione, come si sa, hanno portato con sé le più funeste conseguenze per le masse popolari, la rovina economica e il declino della cultura dei popoli. Una guerra di questo genere non si giustifiche- F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 rebbe oggi per nessun motivo. L’ideologia hitleriana, come ogni altra ideologia, può venire accettata o respinta: questo è un problema che riguarda le idee politiche personali. Ma ognuno può vedere che un’ideologia non può essere distrutta con la forza. Perciò non è solo insensato, ma addirittura criminale spacciare questa guerra come una lotta per la distruzione dell’hitlerismo, sotto la falsa bandiera di una battaglia per la democrazia». […] Nell’appello dell’Esecutivo del Komintern la bilancia pende ancora di più dalla parte della Germania; la denuncia delle potenze occidentali ne emerge accentuata. Si legge infatti in quest’ultimo documento che «i tre paesi più ricchi, Inghilterra, Francia e Stati Uniti d’America, esercitano il loro dominio sulle più grandi vie e i più grandi mercati del mondo, si sono impadroniti delle principali fonti di materie prime»; che essi «mantengono soggetta più di metà del genere umano», sotto la maschera della democrazia, per potere così più facilmente ingannare le masse. Contro questa egemonia mondiale si sono mossi «gli altri Stati capitalistici» (quelli che ora non vengono più indicati come fascisti né aggressori), entrati più tardi «sulla strada dell’espansione coloniale». […] Il colmo è certo raggiunto da qualche dirigente comunista tedesco che si trova a Mosca, un Ulbricht ad esempio, le cui affermazioni appaiono ancora più strabilianti: «Gli operai rivoluzionari e le forze progressiste della Germania non hanno nessuna intenzione di barattare il regime attuale con una oppressione nazionale e sociale imposta dall’imperialismo inglese e dagli ambienti filobritannici del grande capitale tedesco. Perché Hitler si è riavvicinato all’URSS? Perché un eventuale appoggio al piano inglese di guerra contro l’URSS ne avrebbe fatto un satellite dell’imperialismo britannico e perché la forza dell’Armata rossa e le simpatie delle masse lavoratrici tedesche verso l’URSS condannavano in anticipo al fallimento qualsiasi avventura antisovietica…». Di conseguenza Ulbricht invita gli operai, i contadini, gli intellettuali della Germania, dell’Austria, della Cecoslovacchia e della Polonia a divenire i «garanti più risoluti del patto russo-tedesco, baluardo della lotta contro il piano di guerra britannico». Le aberrazioni verbali di Ulbricht sono poca cosa, è vero, rispetto a un episodio reale di una gravità inaudita. Esattamente nello stesso mese in cui Ulbricht scrive quell’articolo, nel febbraio del 1940, circa cinquecento tedeschi che son prigionieri in URSS in seguito alle repressioni staliniane – sono quasi tutti comunisti – vengono trasferiti dalla Siberia e consegnati a Brest-Litovsk, sulla linea di demarcazione tra i territori delle due potenze amiche, ai nazisti. La loro nuova destinazione sono i campi di concentramento tedeschi. P. SPRIANO, I comunisti europei e Stalin, Einaudi, Torino 1983, pp. 109-116 Perché agli occhi di Molotov quella per la democrazia è una battaglia falsa, priva di valore? Perché l’autore definisce aberrazioni verbali le espressioni usate dal dirigente comunista tedesco W. Ulbricht? UNITÀ 7 Governo sovietico e movimento comunista nel primo anno di guerra 3 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 2 3 Roosevelt dall’isolazionismo all’intervento UNITÀ 7 Le iniziali vittorie tedesche in URSS (dopo i trionfi nazisti in Polonia e in Francia) provocarono molta paura negli Stati Uniti, che vedevano profilarsi il rischio dell’egemonia, in Europa, di una grande potenza che avrebbe potuto costruire una vasta area economica autosufficiente, impermeabile alle merci americane. Un pericolo simile si stava già delineando in Estremo Oriente, dove i giapponesi erano intenzionati a conquistare la Cina. La costruzione di un legame sempre più solido con la Gran Bretagna divenne una necessità evidente anche per i più convinti isolazionisti. LA SECONDA GUERRA MONDIALE 4 In un famoso discorso alla fine del 1940, Roosevelt sostenne che gli Stati Uniti dovevano trasformarsi nel grande arsenale della democrazia. Non era più possibile «fuggire al pericolo o temerlo scappando a letto e nascondendosi sotto le coperte», affermò il presidente. Il giorno seguente, Roosevelt presentò al Congresso la Legge affitti-prestiti (Lend-Lease Act). Approvata nel marzo del 1941, essa autorizzava il presidente a «vendere, trasferire, scambiare, prestare… qualsiasi materiale di difesa (defense article) a quei governi la cui difesa» era ritenuta «vitale per la difesa degli Stati Uniti». Non erano fissati limiti alla quantità di aiuti che sarebbe stato possibile concedere e si prevedeva che i porti statunitensi fossero accessibili alle navi dei paesi beneficiari. Il primo tra questi fu ovviamente la Gran Bretagna. Si trattava di azioni che legavano gli Stati Uniti alle sorti della Gran Bretagna, avvicinandoli alla guerra; ma si trattava altresì dell’ultimo, disperato tentativo di aiutare la Gran Bretagna a reggere il più a lungo possibile il conflitto da sola, permettendo a Roosevelt di guadagnare tempo e proseguire la sua campagna pedagogica sul piano interno. Un momento di svolta si ebbe con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica, nel giugno 1941. La prospettiva di un completo dominio nazista su tutta l’Europa e sulle sue immense risorse apparve allora quanto mai plausibile. Sembrava realizzarsi quello che era il peggior incubo geopolitico per gli Stati Uniti: il dominio di tutta la massa eurasiatica da parte di una potenza ostile. Dopo qualche titubanza, Roosevelt decise di seguire Churchill e di fornire sostegno all’URSS, impegnata in una difesa che a molti parve disperata. Gli aiuti previsti dalla Legge affitti-prestiti furono così estesi anche al regime sovietico. Inizialmente limitati dalle immense difficoltà logistiche nell’organizzazione del loro trasporto – solo 750 aerei e 500 carri armati furono inviati in Unione Sovietica prima della fine del 1941 –, questi aiuti avrebbero svolto un ruolo cruciale nel facilitare la difesa e la successiva controffensiva sovietica. Il crescente sostegno a Gran Bretagna e Unione Sovietica fu affiancato dal rilancio di un discorso internazionalista che riprendeva, modificava e in taluni casi amplificava topoi [temi centrali e ricorrenti, n.d.r.] e categorie che già erano state di Wilson. Un mondo giusto e sicuro, affermò Roosevelt nel gennaio Che cosa prevedeva la «Legge affitti-prestiti»? Qual era il peggior incubo geopolitico per gli Stati Uniti? Quali sono le «quattro libertà» roosveltiane? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 del 1941, doveva essere fondato «ovunque… su quattro libertà umane fondamentali»: la «libertà di parola e di espressione»; la libertà religiosa; la «libertà dal bisogno»; e, soprattutto, la «libertà dalla paura», attraverso una nuova «riduzione degli armamenti su scala mondiale», grazie alla quale giungere a una situazione in cui «nessuna nazione» si fosse più trovata «nelle condizioni di poter compiere un atto di aggressione fisica contro un suo vicino». Le quattro libertà rooseveltiane sarebbero state costantemente evocate nei successivi anni di guerra, ispirando una famosa serie di quadri di Norman Rockwell [noto disegnatore statunitense, 1894-1978, n.d.r. ]. Così come aveva fatto Wilson, Roosevelt parlava (e si appellava) sia all’opinione pubblica statunitense sia a quella mondiale. Le sue parole, affermò il giorno successivo il New York Times, erano destinate a «risuonare nel mondo». Ciò fu ancora più evidente in una seconda grande iniziativa pubblica: una dichiarazione congiunta di Roosevelt e Churchill nell’agosto del 1941 al termine di un vertice tenutosi al largo delle coste di Terranova. La dichiarazione – divenuta nota come Carta atlantica – riecheggiava forme e categorie dei Quattordici punti di Wilson. Anch’essa era articolata in una serie di punti (otto), che definivano le condizioni su cui avrebbe dovuto poggiare una pace giusta: l’autodeterminazione, la rinuncia a conquiste territoriali, l’apertura economica e commerciale, la libera navigazione sui mari, il disarmo e la sicurezza collettiva. A questi si aggiungeva, come già nelle quattro libertà, un riferimento alle tematiche sociali («promuovere la piena collaborazione tra le nazioni in campo economico, con l’obiettivo di assicurare a tutti migliori condizioni lavorative, progresso economico e sicurezza sociale»), che estendeva anche all’ambito internazionale le parole d’ordine del riformismo newdealista. Attraverso le quattro libertà e la Carta atlantica, Roosevelt articolava e offriva al pubblico un nuovo, robusto messaggio internazionalista. Rilanciava con forza l’idea di una libertà universale la cui difesa e promozione era indispensabile alla salvaguardia della stessa libertà americana. Tornava a investire gli Stati Uniti di una missione speciale, la cui realizzazione era resa ancor più urgente e inderogabile da una minaccia, quella portata dai fascismi, che sembrava concretizzare le peggiori paure degli USA: la caduta di tutta l’Europa in mani ostili; la chiusura del mondo in imperi regionali impermeabili e altamente militarizzati; la possibilità di un attacco allo stesso territorio statunitense. Mai il dato più elementare della sicurezza del paese, l’invulnerabilità delle sue frontiere, era stato messo così in discussione. […] Mai come nell’estate del 1941 sembrò necessario rilanciare la missione per difenderne gli interessi e preservarne l’identità. M. DEL PERO, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo. 1776-2006, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 256-258 Il primo conflitto mondiale aveva dimostrato quanto fosse importante la tenuta del fronte interno, cioè la determinazione della popolazione a sostenere a tempo indeterminato una guerra di logoramento. Facendo tesoro degli insegnamenti della Grande Guerra, durante gli anni 1939-1945 le varie potenze svilupparono un raffinato sistema di propaganda e cercarono di spiegare alla popolazione perché si doveva continuare a combattere fino alla vittoria finale. Per Inghilterra e Stati Uniti la morte rappresentò l’eccezione più che la regola. La popolazione civile americana non subì attacchi in casa propria, mentre le perdite tra i civili britannici arrivarono a 60 000, una piccola frazione rispetto altri paesi belligeranti. Nell’uno e nell’altro paese il contenimento al minimo delle perdite fu un impegno prioritario: a perdere la vita, tra quanti erano stati chiamati a combattere, fu circa il 3 per cento. La censura americana, nei primi due anni del conflitto, minimizzò deliberatamente la tematica della morte. La rivista “Life” non fece vedere un americano morto in guerra fino al settembre del 1943. Il manuale di istruzioni prodotto per Hollywood dal nuovo ministero per l’Informazione bellica indicava ai registi come limitare le scene con morti e feriti: «Si mostri senza esibizionismo qualche ferito in mezzo a una moltitudine». Tra il maggio e il novembre del 1942 solo cinque film su sessantuno esibivano la morte in combattimento, perché le autorità continuavano a temere che la realtà della guerra potesse fiaccare il morale. […] La battaglia d’Inghilterra e gli attacchi aerei tedeschi sulle città inglesi fecero recuperare il morale alla Gran Bretagna fiaccato dalla batosta subita in Francia, e alimentarono i miti essenziali dell’invincibilità e della fermezza per il resto della guerra. Il periodo dei bombardamenti vide un impegno bellico più unitario di quanto non fosse dato vedere nei primi mesi del conflitto. Negli Stati Uniti l’attacco a Pearl Harbor ebbe un effetto galvanizzante sull’opinione pubblica interna. L’odio contro i giapponesi, riconducibile a decenni di razzismo contro gli asiatici, scattò immediatamente e in maniera generalizzata: i giapponesi furono visti come esseri subumani, etnicamente e fisicamente inferiori, fanatici e selvaggi. La pubblica ripugnanza verso il Giappone fu indubbiamente più forte del sentimento antitedesco, fino alla rivelazione degli orrori dei campi nel 1945, dopo la resa dei tedeschi. Persino il prudente generale Marshall parlò ufficialmente di perfidi barbari orientali, e non mostrò alcuno scrupolo sull’argomento dei bombardamenti contro i centri urbani giapponesi. Nei sondaggi d’opinione durante il conflitto un decimo o più degli intervistati erano favorevoli allo sterminio fisico della razza giapponese: ciò che è sorprendente non è tanto la brutalità delle risposte quanto il fatto che la questione venisse posta. Un sondaggio analogo sul nemico tedesco escludeva l’opzione dello sterminio. Nonostante la priorità assegnata al teatro europeo, la vendetta contro i giapponesi restò un elemento centrale nell’atteggiamento popolare verso la guerra, alimentato dalla somministrazione di una serie di storie atroci che contribuivano a smussare la resistenza verso la distruzione indiscriminata delle città giapponesi e l’uso finale della bomba atomica. […] Poiché per gran parte della guerra il nemico era stato presentato come un abominio, non c’erano margini per negoziati o compromessi. La richiesta di resa incondizionata, formulata alla conferenza di Casablanca e annunciata pubblicamente da Roosevelt al termine dei lavori, fu il logico risultato dell’immagine che gli Alleati avevano del nemico. L’abisso morale che si era scavato tra gli uni e gli altri era troppo ampio per poter essere colmato. La propaganda inglese e americana, rivolta principalmente a rafforzare l’atteggiamento morale positivo da cui si riteneva sarebbe scaturita la vittoria, si serviva della retorica tradizionale della libertà opposta alla tirannia, della barbarie schiacciata dalla civiltà: «Volevamo assicurare al mondo la democrazia, e proteggere le Quattro Libertà [proclamate da Roosevelt nel gennaio del 1941: libertà di parola e di espressione; libertà religiosa; libertà dal bisogno; libertà dalla paura, n.d.r.]», scrisse il generale americano Wedemeyer dopo la guerra. Quando il regista Frank Capra fu incaricato dal generale Marshall di produrre una serie di documentari sul tema Perché combattiamo?, per contribuire all’educazione dell’opinione pubblica americana, scelse come tematica la malvagità della causa del nemico e la giustezza della nostra: la guerra occidentale fu presentata come una guerra onesta, come la guerra giusta, un compito facilitato dalle atrocità giapponesi e tedesche, nonché dai regimi corrotti e illiberali che governavano l’impegno bellico dell’Asse. Fu più difficile invece spiegare questioni moralmente complesse come la politica occidentale di bombardare i civili nemici, o il fatto che l’occidente stesse combattendo per la democrazia e la libertà al fianco dell’Unione Sovietica. […] Pochi inglesi o americani, per quanto di modesta cultura, potevano non essere al corrente della situazione politica dell’alleato sovietico, pur essendo effettivamente difficile avere notizie del paese dell’est. Nel periodo in cui Hitler e Stalin strinsero un’alleanza temporanea i sistemi sovietico e nazista vennero considerati da buona parte dell’opinione pubblica occidentale come varianti di un unico perverso totalitarismo. Quando l’aggressione nazista spinse l’Unione Sovietica nel campo antinazista fu impossibile sostenere l’immagine di una guerra giusta al fianco di un regime dittatoriale di una sola persona, di un solo partito, nel quale esistevano campi di concentramento e polizie segrete. La coalizione morale funzionò solo nella misura in cui l’occidente riuscì a cancellare, o per lo meno a ridimensionare, l’immagine fosca dell’alleato. R. OVERY, La strada della vittoria. Perché gli Alleati hanno vinto la seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna 2002, pp. 427-432, trad. it. N. RAINO Per quale motivo i film di produzione americana cercavano di aggirare il tema della morte in guerra? Quale atteggiamento assunse la propaganda anglo-americana nei confronti dell’URSS? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 7 Guerra, morale e propaganda 5 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 4 5 La guerra a Oriente nella concezione di Hitler UNITÀ 7 Secondo Hitler, l’obiettivo ultimo della guerra sul fronte orientale doveva essere la conquista dello spazio vitale, cioè la trasformazione degli immensi territori sovietici in un vasto impero coloniale tedesco. LA SECONDA GUERRA MONDIALE 6 Quattro erano gli obiettivi che si intrecciavano l’un l’altro nella concezione di Hitler della guerra ad oriente. 1. Lo sterminio della classe dirigente «giudaico-bolscevica» dell’Unione Sovietica, inclusa la sua presunta radice biologica costituita dai milioni di ebrei dell’Europa centro-orientale. 2. La conquista di uno spazio coloniale per insediamenti tedeschi nelle zone della Russia ritenute più fertili. 3. La decimazione delle popolazioni slave e la loro sottomissione al dominio tedesco nei quattro «Commissariati del Reich» di Ostland (Russia Bianca, Lituania, Lettonia, Estonia), Ucraina, Moscovia, Caucasia, retti da «viceré» tedeschi, secondo l’espressione che Hitler coniò guardando al suo «ideale» di dominio coloniale, ossia al ruolo della Gran Bretagna in India. I compiti principali affidati a questi «Commissariati del Reich» (di cui per altro furono istituiti solo i primi due a causa degli sviluppi della guerra nel 1941, del tutto opposti al «programma») consistevano nell’estirpare dalle masse slave qualsiasi ricordo del grande Stato russo e di ridurre queste stesse masse in una condizione di ottusa e cieca obbedienza nei confronti dei nuovi «padroni». 4. La realizzazione dell’autarchia in una «grande area» dell’Europa continentale sottoposta al dominio tedesco e a prova di blocco, rispetto alla quale i territori conquistati all’est avrebbero dovuto rappresentare il serbatoio presumibilmente inesauribile di materie prime e di derrate alimentari. Sembrava questo il presupposto indispensabile affinché il Reich hitleriano potesse sostenere una guerra contro le potenze marittime angloamericane ed essere in grado nel futuro di affrontare qualsiasi eventuale nuova «guerra mondiale». Nelle linee direttive destinate allo «Stato maggiore per l’economia nei territori orientali», fissate il 2 maggio 1941, era già previsto che la sola intenzione di rifornire le forze armate tedesche sfruttando esclusivamente la Russia avrebbe compor-tato la «morte per fame di parecchi milioni di persone». Mentre nella fase precedente l’attacco all’Unione Sovietica, e anche in Polonia nel 1939, i compiti dell’esercito e delle SS erano stati tutto sommato ancora relativamente separati in modo molto netto, e quindi l’esercito aveva sempre condotto la guerra contro i suoi avversari, soprattutto contro le potenze occidentali, rispettando le regole della Convenzione dell’Aia in materia di guerra terrestre, nella guerra contro l’Unione Sovietica Hitler invalidò a suo completo arbitrio questi ed altri principi del diritto internazionale già prima di dare inizio all’attacco. La sua perseveranza nel cancellare la linea divisoria, fino a quel momento rispettata, tra SS ed esercito, e nel trasformare quest’ultimo in uno strumento diretto della sua guerra ideologico-razziale ad oriente, derivava dalle parole chiare ed inequivocabili che egli aveva pronunciato il 30 marzo 1941 dinanzi a 200250 comandanti generali e ufficiali superiori, i quali le avevano accolte in parte positivamente in parte con riserva: «Lotta tra due opposte concezioni del mondo. Giudizio distruttivo sul bolscevismo. Equiparato a criminalità sociale. Comunismo, pericolo enorme per il futuro. Si tratta di una lotta di annientamento. Se non la concepiamo così, colpiremo magari il nemico, ma entro trent’anni ci ritroveremo di fronte un nemico comunista. Commissari e adepti della GPU [= la polizia segreta sovietica – n.d.r.] sono criminali e così vanno trattati. La lotta sarà assai diversa da quella ad occidente. Ad oriente bisogna essere spietati oggi per poter essere indulgenti nel futuro». A. HILLGRUBER, Storia della seconda guerra mondiale. Obiettivi di guerra e strategia delle grandi potenze, trad. di E. GRILLO, Laterza, Bari 1987, pp. 78-80. La citazione tra virgolette è tratta dagli appunti del generale Halder Quale impero venne assunto come modello da Hitler, ai fini dell’organizzazione del dominio coloniale tedesco in Unione Sovietica? Quale elemento razziale avrebbe dovuto scomparire completamente dall’Est europeo? Quali obiettivi economici pensava di raggiungere Hitler dalla conquista dell’Unione Sovietica? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Impegnato fin dal 1937 in una durissima e spietata guerra contro la Cina, il governo giapponese dovette prendere una serie di difficili decisioni strategiche. Le opzioni che potevano essere accolte o respinte erano molteplici: completare la conquista della Cina, attaccare l’urss in Siberia, lottare contro l’egemonia americana nel Pacifico. Il principale problema derivava dal fatto che, per chiudere la guerra in Cina, il Giappone aveva bisogno di risorse, che avrebbe dovuto togliere alle potenze occidentali, entrando in conflitto con loro. A partire dalla fine del 1941, il risultato fu un quadro strategico difficilissimo da gestire, perché caratterizzato dalla simultanea lotta contro la Cina e contro gli Stati Uniti. Il 7 luglio 1937, lo scontro sul ponte Marco Polo, presso Pechino, tra le forze giapponesi e quelle cinesi permise ai falchi [= i sostenitori di una politica militarista, di espansione e conquista, n.d.r.] di verificare se il governo nazionalista di Chiang Kai-shek [= leader politico cinese dal 1925, n.d.r.] avrebbe acconsentito all’imponente progetto giapponese di farlo diventare un regime fantoccio; e fu proprio la resistenza di Chiang a far sì che, nel mese seguente, l’invasione si estendesse a Shanghai e poi alle città costiere, impegnando Tokyo nel primo grande passo verso la creazione del blocco dell’Asia orientale. Il Giappone era dunque in guerra con la Cina nazionalista, ma si aspettava che quei soldati che considerava inferiori sul piano razziale capitolassero o fossero sconfitti con facilità. L’esercito fornì pertanto alle proprie truppe d’invasione munizioni insufficienti e trattò l’intero Incidente cinese come un’impresa di poco conto, da sistemare rapidamente e a buon mercato in pochi mesi, prevedendo che agli ordini del Giappone avrebbe governato un regime satellite. Poiché i cinesi rifiutarono di arrendersi, i giapponesi furono colti del tutto di sorpresa dall’effettiva sequenza degli eventi; e il Giappone, piuttosto che modificare i propri obiettivi, li ampliò, credendo che anch’essi fossero facilmente raggiungibili. Nel maggio seguente, i leader giapponesi si resero conto che la guerra in Cina sarebbe durata più a lungo e costata molto più di quanto programmato. Presero quindi le misure militari che ritenevano necessarie per concluderla, ma Chiang abbandonò la regione costiera e si spostò nell’entroterra, nella speranza di consolidare il proprio potere nelle vaste regioni occidentali. Il conflitto giungeva così a una situazione di stallo, mentre il Giappone aveva un milione di uomini bloccati in una guerra senza speranza, che in un primo momento aveva supposto, come aveva predetto il ministro della Guerra nel luglio del 1937, «si potesse concludere entro un mese». Nella sostanza, il dilemma giapponese era rappresentato dal fatto che il profondo consenso imperialista che univa i suoi governanti li rendeva, al pari di Hitler, propensi ad ampliare, quando sembrasse opportuno, i propri obiettivi, benché in realtà anch’essi avessero mezzi insufficienti a conseguirli. […] Le mire politiche e militari, incredibilmente ambiziose, e le inebrianti ossessioni scioviniste [= nazionaliste, fino all’estremo, n.d.r.] F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 esposero il Giappone a un forte avventurismo, al punto che l’impasse cinese non fece che rinvigorire l’argomentazione militarista, del tutto irrazionale, secondo la quale il miglior modo per superare gli ostacoli fosse una ulteriore espansione. Il vero punto di svolta nella politica del Giappone arrivò nel maggio del 1940, allorché i tedeschi invasero Francia e Olanda, le quali lasciarono così senza difese il sistema coloniale del Sudest asiatico. Il 27 settembre 1940 il Giappone firmò il patto Tripartito con Germania e Italia, che eliminava gli ostacoli alla conquista giapponese di tutto il Sudest asiatico. Le sue principali fazioni militari iniziarono subito discutere su dove colpire prima, architettando una giustificazione per l’invasione della parte meridionale dell’Indocina francese. Uno dei motivi era che le basi poste in quell’area avrebbero consentito di proseguire più efficacemente la guerra contro la Cina; un altro che l’Indocina avrebbe dato al Giappone un punto di partenza per conquistare la Malesia e, soprattutto, le Indie Orientali olandesi. L’impero nipponico avrebbe potuto quindi integrare l’ampio potenziale di materie della regione per uscire più forte nella lotta futura contro la Cina e, soprattutto, contro gli Stati Uniti. Ma quando i nazisti attaccarono l’Unione Sovietica, altri incitarono ad annettere per prima la Siberia. Tutti, comunque, concordavano sul fatto che gli imperativi della situazione giapponese esigessero una escalation, in apparenza per riscattare i propri problemi in Cina, compensare la propria grave carenza di materie prime e soddisfare al contempo l’ambizione di avere tutta l’Asia. Quella che era incominciata come un’espansione locale e di breve durata si era ormai trasformata nell’immenso teatro bellico asiatico della seconda guerra mondiale, guerra disperata più di qualsiasi altra Hitler avesse mai intrapreso, e logica conseguenza di un sogno di egemonia nazionalista e imperialista che mescolava il disprezzo per gli altri popoli con una fatale ignoranza del nuovo carattere della guerra moderna. L’essersi avviate in una direzione che avrebbe sicuramente causato una guerra con l’America, prima che il Giappone raggiungesse i propri traguardi in Cina, dà la misura dell’irrazionalità delle autorità giapponesi. […] La guerra con l’America doveva essere prima di tutto responsabilità della marina, e benché quest’ultima contrastasse chi perorava per prima la guerra all’URSS, non riuscì a persuadere il governo a vincere la guerra in Cina prima di intraprendere un rischio ancora maggiore; così, nel settembre 1940 la marina acconsentì malvolentieri ad appoggiare l’espansione verso il Sudest asiatico – correndo il rischio di uno scontro con gli Stati Uniti –, del tutto consapevole che il Giappone non avrebbe potuto sconfiggere il proprio nemico in uno scontro prolungato. A quest’epoca, le autorità nipponiche possedevano notizie accurate sulle insufficienze della produzione industriale del paese in una prospettiva di lunga durata e sulla scarsa disponibilità di petrolio, qualora la guerra si fosse protratta per UNITÀ 7 La strategia imperiale del governo giapponese 7 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 6 più di un anno. Nell’estate del 1940, la marina stimava di poter combattere efficacemente con le proprie riserve di petrolio per circa un anno e la sua condizione sarebbe rapidamente peggiorata nell’ipotesi che gli Stati Uniti avessero optato per una guerra lunga, come sembrava molto verosimile. Il Giappone iniziò la guerra con l’America con una scorta di minerale di ferro di soli quattro mesi e una di bauxite per nove mesi. […] La vittoria in senso stretto dipendeva fortemente non solo dal fatto che i giapponesi infliggessero danni pesanti agli Stati Uniti all’inizio del conflitto e occupassero posizioni strategiche – cose che fecero –, bensì anche dalla cortese decisione, da parte degli americani di arrivare a un rapido confronto militare, nel momento in cui il Giappone era più forte del proprio nemico e prima che gli USA – con un’economia dieci volte superiore a quella nipponica – potessero riarmarsi su grande scala. Pochi ritenevano probabile tutto ciò. Nel corso delle settimane che precedettero l’attacco a Pearl Harbor, pessimismo e fatalismo profondi pervasero le valutazioni delle autorità nipponiche: così, quella mescolanza di avventurismo, fatalismo mistico e romantico e ambizione imperialistica assoluta che le distingueva ebbe la meglio sulla loro lucida lettura della realtà, sorprendentemente accurata, spingendole ulteriormente nella sinistra direzione intrapresa con il tentativo di conquistare la Cina. In un secolo di grande irrazionalità, che ha provocato così tante sofferenze umane, questa miscela fu senza dubbio uno dei casi più singolari di follia. G. KOLKO, Il libro nero della guerra. Politica, conflitti e società dal 1914 al nuovo millennio, Fazi, Roma 2005, pp. 45-48, trad. it. M. MANGANELLI UNITÀ 7 Si può parlare di un razzismo giapponese, nei confronti delle altre popolazioni asiatiche? Quali somiglianze puoi istituire tra l’attacco giapponese a Pearl Harbor e laguerra lampo tedesca? LA SECONDA GUERRA MONDIALE 8 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 L’occupazione russa di Berlino fu accompagnata da un numero elevatissimo di stupri. È possibile che almeno 100000 donne berlinesi siano state violentate dai soldati russi nella primavera del 1945. A Berlino, dopo la fine della guerra le donne impararono presto a sparire, di sera, durante «le ore di caccia». Le figlie giovani furono tenute nascoste nelle soffitte per giorni e giorni. Le madri uscivano per strada a prendere acqua soltanto nelle prime ore del mattino, quando i soldati smaltivano la sbornia della notte. Qualche volta il pericolo maggiore veniva da qualche madre che indicava il nascondiglio di altre ragazze nel disperato tentativo di salvare le proprie figlie. I berlinesi ricordano che siccome tutte le finestre erano state distrutte dagli spostamenti d’aria delle esplosioni, ogni notte si potevano sentire le urla delle vittime. Valutazioni fatte dai due principali ospedali della capitale parlano di un numero di stupri che varia fra le 95000 e le 130000 vittime. Un medico calcolò che su circa 100000 donne violentate a Berlino, almeno 10000 siano morte, quasi tutte suicide. Si ritiene che la percentuale delle morti sia stata molto superiore fra il 1400000 donne violentate in Prussia Orientale, Pomerania e Slesia. Si ritiene che nel complesso almeno 2000000 di donne tedesche siano state violentate e che una notevole minoranza, se non addirittura la maggioranza, siano state stuprate in gruppo. Un’amica di Ursula von Kardorff, la spia sovietica Schulze-Boysen, venne violentata da «23 soldati uno dopo l’altro» e all’ospedale dovettero in seguito metterle dei punti di sutura. La reazione delle donne tedesche all’esperienza dello stupro fu diversificata. Per molte vittime, soprattutto le giovani di buona famiglia che non si rendevano conto di quello che stavano subendo, l’effetto psicologico fu devastante. I rapporti con gli uomini diventarono quanto mai difficili, spesso per il resto della loro vita. Le madri si preoccupavano molto di più per le loro figlie e questo le aiutò a superare ciò che dovettero subire a loro volta. Altre donne, giovani e adulte, tentarono semplicemente di rimuovere quella loro esperienza. «In un certo senso, per continuare a vivere, devo cancellare un sacco di cose», ammise una donna, rifiutandosi di parlare dell’argomento. Quelle che non opposero resistenza e che riuscirono a restare distaccate da quello che stava loro accadendo sembra abbiano sofferto molto meno. Alcune ne hanno parlato come di esperienze «extracorporee». «Quella sensazione», ha scritto una di esse, «ha impedito a quell’esperienza di dominare il resto della mia vita» [...] La violenza carnale era diventata – rileva la donna del diario – un’esperienza collettiva e di conseguenza avrebbe dovuto essere superata parlandone fra donne. Tuttavia gli uomini, al loro ritorno, tentarono di vietare qualsiasi accenno all’argomento, anche quando non erano presenti. Le donne scoprirono che mentre dovevano accettare quanto era loro accaduto, i loro uomini rendevano spesso molto peggiore la situazione. Quelli che erano stati presenti, in quelle circostanze, si vergognavano di non essere stati in grado di impedirlo. Hanna Gerlitz cedette a due ufficiali sovietici ubriachi allo scopo di salvare sia lei sia suo marito. «In seguito», scrisse, «ho dovuto consolare mio marito e aiutarlo a riprendere coraggio: piangeva come un bambino.» Gli uomini che tornarono a casa evitando di farsi catturare oppure perché erano stati rilasciati in anticipo dai campi di prigionia, sembra siano rimasti bloccati dal lato emotivo nell’apprendere che le mogli o le fidanzate erano state violentate durante la loro assenza. [...] E trovarono molto duro da accettare il fatto che le loro donne fossero state violentate. Ursula von Kardoff apprese che un giovane aristocratico aveva rotto subito il fidanzamento non appena seppe che la sua fidanzata era stata violentata da cinque soldati russi. La diarista anonima raccontò al suo ex innamorato, che era tornato prima del previsto, le esperienze subite dagli abitanti del casamento. «Siete diventate tutte cagne svergognate», reagì lui. «Non posso sopportare che raccontiate queste storie. Avete perso tutte i vostri principi morali, tutte quante!» Lei gli diede allora da leggere il suo diario e quando scoprì che aveva scritto di essere stata violentata, la fissò come se fosse impazzita. Se ne andò un paio di giorni dopo, dicendo che usciva a cercare qualcosa da mangiare. E non lo rivide più. [...] Numerose donne scoprirono presto che dovevano fare la coda anche ai dispensari medici. Scoprire che erano in tante nelle stesse condizioni era poco consolante. Una dottoressa istituì una clinica per malattie veneree in un rifugio antiaereo, con il cartello «tifoide» in caratteri cirillici per tenere lontani i soldati russi. Come raccontato nel film Il terzo uomo, la penicillina divenne ben presto l’articolo più richiesto sul mercato nero. Aumentò anche il numero degli aborti. È stato calcolato che il 90 per cento delle vittime rimaste incinte ottenne di poter abortire, anche se questo dato sembra molto elevato. Molte partorienti abbandonarono il neonato in ospedale, di solito perché sapevano che il marito o il fidanzato non ne avrebbero mai accettato la presenza in casa. A. BEEVOR, Berlino 1945, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 436-439. Traduzione di E. Peru Quante furono le donne tedesche violentate dai soldati russi, nelle diverse regioni della Germania orientale? Quali strategie di difesa attivarono le donne tedesche, per rendere meno dolorosa la terribile esperienza subita? Come reagì la maggior parte dei maschi tedeschi? F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 7 Le violenze contro le donne tedesche nel 1945 9 RIFERIMENTI STORIOGRAFICI 7