Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 1 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 2 Collana diretta da Gianni Vattimo e Santiago Zabala Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 3 Prossime uscite Pierfrancesco Stagi Il Dio cristiano. Mondo del sé ed esperienza religiosa nel giovane Heidegger Antonella Sorrentino Nichilismo e cristianesimo. I sentieri di Heidegger Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 4 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 5 Alberto Martinengo Il pensiero incompiuto Ermeneutica, ragione, ricostruzione in Paul Ricoeur Aliberti editore Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 6 Tutti i diritti riservati © 2008 Aliberti editore Sede legale: Piazza del Popolo, 18 00187 Roma Tel. 06 36712863 Sede operativa: via Meuccio Ruini, 74 42100 Reggio Emilia Tel. 0522 272494 - Fax 0522 272250 - Ufficio Stampa 329 4293200 Aliberti sul web: www.alibertieditore.it www.alibertistudi.it www.myspace.com/editorealiberti www.myspace.com/alibertistudi www.blogaliberti.it [email protected] Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 7 Indice p. 13 INTRODUZIONE 19 AVVERTENZA 18 21 23 23 23 25 29 30 33 36 37 40 43 44 46 RINGRAZIAMENTI PARTE PRIMA La filosofia di Ricoeur come ermeneutica ricostruttiva CAPITOLO PRIMO La nozione di ricostruzione nell’ermeneutica di Ricoeur Dalla Philosophie de la volonté a La métaphore vive 1. Réflexion faite: le tre costanti del pensiero di Ricoeur 1.1 L’interpretazione antiidealistica del cogito e il passaggio agli oggetti intenzionali 1.2 Il senso come “ripercorrimento”: il tema della ricostruzione 2. Le volontaire et l’involontaire: l’azione come giudizio pratico 2.1 La fenomenologia come apparato descrittivo: la teoria della decisione 2.2 La teoria del giudizio come ricostruzione dell’azione 3. Finitude et culpabilité: interpretazione e significato 3.1 L’ermeneutica del fallibile come teoria del significato 3.2 Il passaggio all’ermeneutica: l’esistenza, in quanto finita, è produzione di significati 4. De l’interprétation e Le conflit des interprétations: l’interpretazione come movimento dialettico 4.1 Ermeneutica restauratrice ed ermeneutica riduttrice: il confronto con la psicoanalisi 4.2 L’ipotesi di una dialettizzazione del conflitto delle interpretazioni: la nozione di «ermeneutica concreta» e la conciliazione tra archeologia e teleologia Martinengo.qxp p. 12-11-2012 14:27 Pagina 8 50 51 54 5. La métaphore vive: il problema della referenza 5.1 La metafora come «errore categoriale calcolato» 5.2 Metafora e mondo: la nozione di «verità metaforica» 64 65 1. Le aporie del significato: il problema del tempo 1.1 L’interpretazione si dice in molti modi: semiotica, semantica ed ermeneutica 1.1.1 La «costituzione polare della referenza» 1.1.2 Il passaggio dalla metafora al racconto 1.2 L’aporia del tempo: modello fenomenologico e modello cosmologico 64 65 68 70 75 76 82 83 86 91 98 98 100 105 106 110 116 117 CAPITOLO SECONDO Tempo e costruzione del senso Il problema della referenza in Temps et récit 2. Tempo e linguaggio 2.1 Mimesis I-III: teoria della referenza 2.2 I limiti del narrativo e la non-totalizzabilità dell’esperienza temporale 2.2.1 Il racconto come mediazione imperfetta 2.2.2 I modi della mediazione: duplicazione e stratificazione 2.2.3 Il racconto come paradigma ricostruttivo: la nozione di biforcazione CAPITOLO TERZO Fenomenologia della memoria Identità e passato in Soi-même comme un autre e La mémoire, l’histoire, l’oubli 1. Identità e identità narrativa: il cogito «brisé» 1.1 L’azione come mediazione dell’esperienza temporale 1.2 Identità come medesimezza e identità come ipseità 1.2.1 Dalle filosofie del cogito al problema del sé: l’identità attraverso le sue obiettivazioni 1.2.2 Le due forme dell’identità riflessiva: la permanenza del carattere e il mantenimento della promessa 2. Memoria e oblio: la non-totalizzabilità dell’esperienza 2.1 Il problema del passato: fenomenologia, epistemologia, ermeneutica Martinengo.qxp 12-11-2012 p. 120 121 126 133 14:27 Pagina 9 2.2 Tempo, memoria, linguaggio: teoria della rappresentazione 2.2.1 La memoria si fonda sull’oblio. L’oblio come virtualizzazione dell’attuale 2.2.2 Perdita e conservazione del passato: teoria ermeneutica dell’iscrizione (I) PARTE SECONDA Tempo e rappresentazione: Ricoeur in dialogo 135 INTERMEZZO 137 1. La memoria «è del passato». Il problema della marca temporale 1.1 Platone e Aristotele: la temporalizzazione del ricordo 1.2 Ricordo puro e ricordo-immagine: il modello di Bergson 1.2.1. La polisemia del passato 1.2.2. La sopravvivenza del passato: rappresentazione e virtualizzazione 137 138 142 142 145 151 152 157 157 162 166 173 174 175 179 179 183 CAPITOLO QUARTO Ricoeur e Bergson Memoria e immagine, corpo e spazio 2. Memoria, corpo, situazione 1.2 Il corpo dimenticato 2.2 La memoria in situazione 2.2.1 Le memorie non rappresentative 2.2.2 La memoria come matrix of matrices 2.2.3 Il problema del supporto: teoria ermeneutica dell’iscrizione (II) CAPITOLO QUINTO Ricoeur e Heidegger Tempo e metafisica 1. Referenza e stratificazione dell’esperienza temporale 1.1 La referenza come principio di organizzazione del reale 1.2 Il tempo come «temporalizzazione»: il modello di Heidegger 1.2.1 La temporalità come struttura ontologica della Cura 1.2.2 Temporalità originaria e livellamento Martinengo.qxp p. 12-11-2012 189 190 194 194 198 204 205 207 207 210 214 219 220 14:27 Pagina 10 2. Temporalizzazione vs messa in intrigo 2.1 Il tempo del mondo come limite della temporalizzazione 2.2 L’irrappresentabilità del tempo 2.2.1 L’aporia è insolubile “in via di principio” 2.2.2 La parzializzazione dei contenuti come principio di funzionamento della messa in intrigo CAPITOLO SESTO Ricoeur e Derrida Linguaggio e mondo 1. Referenza, rifigurazione, realtà 1.1 La referenza come reiscrizione: racconto storico e racconto di finzione 1.1.1 Storia vs finzione: il tempo della storiografia e i tempi del racconto 1.1.2 La referenza come «rappresentanza»: storia e finzione sono complementari 1.2 Esperienza e totalizzazione: teoria della narrazione generalizzata 232 2. Tempo e scrittura della storia 2.1 La poetica ricoeuriana e la decostruzione derridiana come filosofie dell’inautentico 2.1.1 Il concetto «volgare» di tempo e la ricaduta heideggeriana nell’aporia filosofica 2.1.2 L’insuperabilità del contesto deiettivo: Derrida vs Ricoeur 2.2 Decostruzione, ricostruzione, pragmatica della storicità 249 BIBLIOGRAFIA 221 228 240 251 259 270 CONCLUSIONI Il tempo, la perdita e il lutto Intervista a Paul Ricœur 1. Testi di Paul Ricoeur 2. Testi su Paul Ricoeur 3. Testi di riferimento Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 11 Il pensiero incompiuto Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 12 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 13 Introduzione L’ermeneutica di Paul Ricoeur si è spesso connotata, almeno in modo implicito, come pensiero della mediazione: mediazione tra modelli metodici (la fenomenologia e l’analitica esistenziale, lo strutturalismo e la psicoanalisi, le diverse filosofie della volontà), tra poli tematici (la volontà e il peccato, la coscienza e l’inconscio, il simbolo e il linguaggio narrativo, la memoria e la storia) e più in generale tra stili di pensiero (lo stile della filosofia analitica e i modi della scuola ermeneutico-continentale). A questo dato iniziale si deve in larga misura la ricezione della sua opera, che proprio in virtù dell’ampiezza e dell’inclusività è diventata ben presto il terreno comune per l’incontro tra sensibilità e discussioni molto diverse tra loro. Ciò è tanto più vero per il dibattito filosofico italiano, nel quale il pensiero di Ricoeur si è trovato per così dire “di casa”, fin dai primi anni Sessanta. In Italia infatti, ancor prima che in Francia, Ricoeur ha incontrato quella particolare consonanza tematica con le ricerche che a tutt’oggi ne fanno un classico dell’ermeneutica novecentesca. Questo rapporto di familiarità è tuttavia duplice. Ciò che di Ricoeur è diventato più agevolmente un classico in Italia è quello che si definirebbe il tratto regionale del suo pensiero, ovvero la fase che è stata portatrice di istanze e sensibilità comuni rispetto a temi specifici, come il male e il simbolico. Proprio in virtù di questa ricezione preferenziale, per lungo tempo è invece rimasto sospeso il confronto sugli sviluppi successivi della sua ermeneutica. Ciò vale a maggior ragione per quella linea comune che va dalle Martinengo.qxp 14 12-11-2012 14:27 Pagina 14 IL PENSIERO INCOMPIUTO discussioni sull’innovazione linguistica (La métaphore vive, 1975), al problema della narrazione, dell’identità e della storia (Temps et récit, 1983-85; Soi-même comme un autre, 1990; La mémoire, l’histoire, l’oubli, 2000), ovvero a quella parte del pensiero di Ricoeur che dice qualcosa di significativamente nuovo, sia rispetto al problema del linguaggio, sia in generale sullo statuto teorico dell’ermeneutica. Le analisi che seguono si concentrano su questi passaggi, con un duplice scopo: da una parte ridefinire le coordinate degli ultimi trent’anni del suo lavoro filosofico; dall’altra ripensare, attraverso e oltre Ricoeur, alcune questioni centrali per l’ermeneutica contemporanea. L’ipotesi fondamentale è che in questa fase l’obiettivo di Ricoeur sia la formulazione di un principio di razionalità ermeneutica riconducibile, più o meno direttamente, alla nozione di ricostruzione: una sorta di “pragmatica dell’interpretazione” che garantisca un livello minimo di argomentazione. Il lavoro si divide in due parti. La prima ripercorre alcune tappe salienti del pensiero di Ricoeur, mostrando come al loro interno si sviluppi l’esigenza di dare una fondazione teorica dell’ermeneutica: l’obiettivo principale è chiarire in che misura tale esigenza si accompagni alla possibilità di argomentare la razionalità e la preferibilità dell’interpretazione, rispetto ad altri modelli filosofici. Il discorso si sofferma anzitutto sulla nascita dell’ermeneutica delle forme simboliche (Capitolo primo). In questo percorso, al quale la critica ha sempre dato ampio rilievo, l’elemento più delicato è senz’altro il confronto tra due diverse concezioni della filosofia dell’interpretazione: l’ermeneutica di stampo regionale che sta alla base dei lavori degli anni Sessanta, da Finitude et culpabilité (1960) a Le conflit des interprétations (1969), e una più vasta teoria dell’interpretazione di cui La métaphore vive traccia per la prima volta i contorni. Il percorso successivo di Ricoeur, da Temps et récit a La mémoire, l’histoire, l’oubli, è tutto inscritto all’interno di questo confronto (Capitolo secondo). Il luogo più interessante per analizzare tale evoluzione è senz’altro la teoria della mimesis sviluppata in Temps et récit. Qui il problema è classicamente quello posto dall’aporia del tempo: il linguaggio – e il linguaggio narrativo in particolare – è la trascrizione di un’esperienza del tempo che altrimenti, sotto il profilo puramente speculativo, resterebbe inintelligibile. Ma nel discorso di Ricoeur questa determinazione subisce quasi impercet- Martinengo.qxp 12-11-2012 INTRODUZIONE 14:27 Pagina 15 15 tibilmente uno slittamento, che rimette capo a una serie di problemi. In particolare ciò che resta irrisolto, almeno in questa fase, è la natura strutturalmente ambigua della referenza narrativa: un’ambiguità che non concerne soltanto i limiti formali del racconto (quella che Ricoeur chiama «mediazione imperfetta»: narrare significa sempre selezionare una parte dei contenuti potenzialmente raccontabili), ma anche la natura stessa dell’esperienza temporale, che fa riferimento a una sovradeterminazione (una «biforcazione», per usare la terminologia di Jean Greisch) più resistente di qualsiasi traduzione linguistica. La questione della mediazione imperfetta rimane centrale anche nelle fasi successive del discorso di Ricoeur, soprattutto nelle discussioni sull’identità, la memoria e la storicità (Capitolo terzo). A questo livello, in realtà, è il problema stesso della referenza linguistica a essere riformulato. Ed è una riformulazione che completa, sul versante dell’esperienza passata, ciò che nello schema di Temps et récit restava ancora implicito: l’idea è che il modello di gestione del passato che Ricoeur mette in gioco ne La mémoire, l’histoire, l’oubli non si applichi soltanto al problema fenomenologico della ritenzione, ma che possa essere considerato come la descrizione del modo in cui in generale si attesta qualcosa come un significato. Tuttavia, il problema più rilevante che si pone a questo livello è stabilire in che misura le cose stiano davvero così per ogni regione del mondo dei significati, se cioè il modello de La mémoire, l’histoire, l’oubli sia effettivamente estensibile, sotto i presupposti di Ricoeur, anche alla referenza in generale, o se invece la sua validità resti limitata all’esperienza passata. La seconda parte del lavoro muove da queste premesse, inserendole in un contesto più ampio che pone in discussione i nuclei fondamentali dell’ermeneutica ricoeuriana. Il discorso procede mettendo a confronto il modello di Ricoeur con alcuni momenti importanti del dibattito continentale contemporaneo, per chiarire ciò che la sua teoria del significato implica all’interno di una teoria generale dell’interpretazione. Il primo problema che resta aperto è senz’altro quello che attiene al ruolo della memoria, nel sottile confronto che Ricoeur conduce con Henri Bergson e con Maurice Merleau-Ponty (Capitolo quarto). Nella versione che ne dà La mémoire, l’histoire, l’oubli, la questione della ritenzione include infatti una serie di determina- Martinengo.qxp 16 12-11-2012 14:27 Pagina 16 IL PENSIERO INCOMPIUTO zioni, come quelle connesse all’indicizzazione temporale, che sono fondamentali per il funzionamento della memoria. Ma questi dispositivi fanno implicito riferimento a una soluzione – una sorta di teoria ermeneutica dell’iscrizione – su cui si gioca la sostenibilità teorica dell’intero modello: in altri termini, il discorso di Ricoeur sembra presupporre che dietro al funzionamento della memoria vi sia una sorta di “principio di garanzia”, che risulta di fatto analogo a quello su cui si fondano le pretese di verità dell’interpretazione. Questa sovrapposizione di problemi fenomenologici e soluzioni di stampo ermeneutico è una delle caratteristiche più interessanti del discorso di Ricoeur: e da qui derivano le conseguenze più importanti rispetto allo statuto della filosofia dell’interpretazione. Alla stessa sovrapposizione si lega anche il confronto con Martin Heidegger (Capitolo quinto). Di Heidegger, Ricoeur discute soprattutto l’interpretazione della temporalità che ricorre in Sein und Zeit, in particolare la distinzione tra temporalità originaria, storicità e tempo ordinario. Che si debba pensare il tempo come un fenomeno stratificato è per Ricoeur il punto forte, ma assieme il limite dell’analitica esistenziale: ed è un limite soprattutto nel senso di quella sottovalutazione dell’ordinario che, secondo Temps et récit, finisce per depotenziare la stessa nozione di storicità. L’idea di parlare del tempo in chiave di mediazione imperfetta prende le mosse proprio da qui, attraverso l’esplicitazione di un “teorema di impossibilità” fondamentale: la sostanziale insolubilità dell’aporia del tempo. Quest’impossibilità produce a sua volta una serie di conseguenze rilevanti sul piano dei significati. Se infatti il modello di Temps et récit funziona soltanto come una risposta parziale agli «enigmi del tempo», ciò accade perché il riferimento del linguaggio all’esperienza temporale risulta in qualche modo sospeso, per essere poi ristabilito in termini radicalmente diversi. Posto che le cose stiano così, si pone tuttavia un problema molto delicato, che riguarda la possibilità di salvaguardare i vincoli ontologici del linguaggio, al di là di ciò che un modello puramente “referenzialista” consentirebbe di fare (Capitolo sesto). Ed è un problema che Ricoeur risolve formulando una teoria della «rappresentanza», le cui conseguenze sono evidenti soprattutto sul versante del discorso storiografico, dove le pretese di verità del racconto si affacciano con più chiarezza. A Martinengo.qxp 12-11-2012 INTRODUZIONE 14:27 Pagina 17 17 questo livello, il modello di Ricoeur entra in dialogo (spesso implicitamente) con le soluzioni antireferenzialiste di Jacques Derrida. È un confronto che delinea significativamente due risposte antitetiche: non soltanto – come è ovvio – dal punto di vista teorico, ma anche sul versante della gestione pragmatica, politica e sociale dei significati. Proprio il diverso rilievo attribuito al contesto storico-concreto dei significati è ciò che ha marcato con più evidenza, anche nelle discussioni degli ultimi anni, la decostruzione derridiana e l’ermeneutica di Ricoeur. Ed è ciò che, nel comune rifiuto dell’analitica esistenziale heideggeriana, consente di connotarle come due differenti “filosofie dell’inautentico”. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 18 Ringraziamenti Questo lavoro è il risultato di una ricerca che non sarebbe stata possibile senza il generoso contributo delle persone con le quali l’autore si è confrontato. Il debito maggiore è senz’altro nei confronti di Paul Ricoeur, che attraverso brevi ma incisive occasioni di incontro ebbe modo di suscitare e incoraggiare la discussione. Oltre al suo apporto, è stato fondamentale il confronto con Gianni Vattimo e Marco Ravera, che hanno seguito tutte le fasi della ricerca e le hanno stimolate con i loro preziosi suggerimenti. Fin dall’inizio, il lavoro si è intrecciato in molti modi alle discussioni con Oreste Aime, Graziano Lingua e Santiago Zabala, che con la loro amicizia hanno fatto nascere e alimentato il senso di una ricerca davvero condivisa. L’uscita del testo si deve inoltre alla disponibilità di tutti coloro che hanno contribuito con le loro osservazioni e i loro incoraggiamenti: Giacomo Marramao, Francesca Brezzi, Domenico Jervolino, Ugo Ugazio, Gaetano Chiurazzi, Marco Vozza, Giovanni Maddalena, Sergio Carletto, Roberto Franzini, Gianfranco Pibia e Franca Di Tullio. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 19 Avvertenza I riferimenti bibliografici e le citazioni seguono il sistema autoredata, con adattamenti alle convenzioni vigenti nel caso degli autori classici. Per gli autori stranieri, l’indicazione della pagina si riferisce all’edizione originale e in parentesi alla traduzione italiana, ove disponibile. Per agevolare la lettura, i testi pubblicati in italiano sono citati sempre in traduzione: variazioni significative rispetto agli originali sono segnalate. Nel corso del testo e della bibliografia, il sistema autore-data è stato corretto, limitatamente a Ricoeur, con un’indicazione in numero romano (per es. RICOEUR I 1983, RICOEUR II 1982 o RICOEUR III 2004) per identificare rispettivamente: I) le monografie; II) le pubblicazioni in riviste o antologie; III) le raccolte di saggi edite in italiano. I dati bibliografici completi e le altre convenzioni adottate sono indicati nella Bibliografia. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 20 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 21 Parte prima La filosofia di Ricoeur come ermeneutica ricostruttiva Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 22 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 23 Capitolo primo La nozione di ricostruzione nell’ermeneutica di Ricoeur Dalla Philosophie de la volonté a La métaphore vive Si può dire di Paul Ricoeur ciò che si afferma a buon diritto di molti classici della filosofia: la storia del suo pensiero coincide in larga parte con i diversi tentativi di darne una lettura unitaria. Tanto per l’estensione temporale, quanto per la varietà dei temi trattati, la bibliografia ricoeuriana è stata infatti oggetto di ricognizioni e ricostruzioni le più diverse: è anzi Ricoeur stesso a manifestare a ogni nuova tappa la necessità di una lettura organica, una sorta di terreno comune a sviluppi nei quali altrimenti sarebbe più agevole leggere le rotture che le possibili continuità. La testimonianza più evidente di questa tendenza unificante è senz’altro l’autobiografia intellettuale contenuta in Réflexion faite. Da essa conviene partire per dare un senso alla lettura che seguirà. 1. Réflexion faite: le tre costanti del pensiero di Ricoeur 1.1 L’interpretazione antiidealistica del cogito e il passaggio agli oggetti intenzionali L’Autobiographie intellectuelle esce per la prima volta in apertura del volume su Paul Ricoeur pubblicato dalla Library of the Living Philosophers nel 1995, a cura di Lewis Edwin Hahn. E proprio di un’autobiografia, nel senso di un «essai d’autocompréhension» (RICOEUR I 1995b, 11 [21]), di un saggio-tentativo di autocomprensione, si tratta perché qui Ricoeur prova a “rileggersi” a partire da alcune cifre caratterizzanti, che se non identificano un senso univo- Martinengo.qxp 24 12-11-2012 14:27 Pagina 24 IL PENSIERO INCOMPIUTO co, quanto meno provano a evidenziarne le coordinate generali. La prima costante che emerge esplicitamente nel testo è quella che Ricoeur attribuisce agli inizi della sua formazione filosofica, tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta: la centralità del problema del cogito, declinato però in senso prettamente antiidealistico. Qui Ricoeur ricorda l’insegnamento di Roland Dalbiez al quale in seguito si sarebbe associata, più significativamente, l’influenza di Jean Nabert. In queste fasi, a essere centrale è senz’altro la tradizione della filosofia riflessiva francese, secondo la linea che va da René Descartes a Maine de Biran.1 Tuttavia si tratta di una centralità mediata e ibrida, che da una parte (in Dalbiez) deve più al realismo neotomista e al freudismo che a una semplice riscrittura di Descartes, e dall’altra (in Nabert) incontra soprattutto il tema della concretezza, quasi dell’opacità, del dato fenomenologico. Il primo risultato di questa declinazione delle tematiche riflessive è la tesi su Le problème de Dieu chez Lachelier e Lagneau (1933-34) che, almeno per inciso, esplicita un altro presupposto metodologico al quale raramente il pensiero di Ricoeur si sarebbe sottratto: la necessità di una rigorosa divisione di ruoli tra il filosofico, interpretato in senso francamente «militante» (cfr. RICOEUR I 1995b, 18 [28-29]), e il religioso, inteso come luogo di una esplicita professione di fede; una partizione che Ricoeur definisce opportunamente «concorrenza», ma che anche su temi trasversali come il peccato e il male non si sarebbe mai ridotta a traduzione reciproca.2 A questa centralità del problema del cogito, negli anni immediatamente successivi si associano l’incontro con Gabriel Marcel e gli studi di Edmund Husserl e Karl Jaspers. La filosofia riflessiva francese, l’esistenzialismo di Marcel e Jaspers e la fenomenologia husserliana costituiscono dunque il nucleo forte della sua formazione filosofica, tra gli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta. Non che questi contributi identifichino un campo già totalmente definito: anzi, spesso si tratta di apporti dissonanti, se non opposti; tuttavia alla loro sintesi Ricoeur assegna un ruolo produttivo rispetto agli sviluppi successivi del suo pensiero. Di Husserl, di cui Ricoeur sarà anche traduttore, nella riflessione ricoeuriana giovanile resta centrale soprattutto il tema dell’intenzionalità: più che i problemi cartesiani della fondazione e dell’evidenza di coscienza, è tutto l’apparato nozionale e metodologico della fenomenologia descrittiva a intersecare il tema del cogito, rio- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 25 25 rientandolo in senso nettamente antiidealistico e concreto. Non è un caso che proprio alla base di questa lettura, molto evidente ne Le volontaire et l’involontaire (1950), si possa riscontrare la seconda costante fondamentale del pensiero di Ricoeur: nella misura in cui sia intesa in termini concreti e mediati, la coscienza non si riconosce più in se stessa, ma a partire dai propri correlati oggettuali. Nella lettura di Ricoeur l’intenzionalità di coscienza, quell’apertura che potrà ancora più significativamente definirsi «véhémence ontologique» (cfr. per es. RICOEUR I 1975, 313 [327]), deve dunque essere pensata come una funzione di obiettivazione, come una posizione che si costruisce a partire dal polo oggettuale della correlazione. A una caratterizzazione dell’intenzionale così palesemente incentrata sul momento oggettuale del rapporto, corrispondono almeno due conseguenze, che non sono irrilevanti per il modello di fenomenologia in gioco. Ne deriva anzitutto una sorta di plurivocità dell’intenzionale: l’inevitabile frammentazione del momento oggettuale, che in sé è molteplice ed eterogeneo, trasferisce la medesima stratificazione anche sull’intenzionale, che viene a trovarsi per così dire “diviso” tra i suoi oggetti. In questo modo, la fenomenologia si estende a una molteplicità di oggetti e relazioni, che sovradeterminano la funzione rappresentativa tipica dell’io penso. Ma va da sé anche una seconda importante conseguenza, che è alla base del cambio di registro dalla fenomenologia all’ermeneutica su cui ci si soffermerà in dettaglio: proprio la sovradeterminazione dell’intenzionale da parte dei suoi oggetti impone di legare il recupero della coscienza al passaggio attraverso il correlato oggettuale, che in tal modo ne diventa la via d’accesso privilegiata. È quella che Ricoeur definirà come la «via lunga dell’interpretazione» e che sarà tematica da La symbolique du mal (1960) in poi: la coscienza non si riconosce se non attraverso i propri oggetti intenzionali; questi però a loro volta, se sono esistenzialmente rilevanti, sono anche costitutivamente opachi e si possono comprendere soltanto a partire da un approccio di tipo interpretativo. 1.2 Il senso come “ripercorrimento”: il tema della ricostruzione Per Ricoeur, l’intenzionalità lavora dunque come un fattore di equilibrio che se da una parte deobiettivizza e funzionalizza la coscienza, dall’altra ne impedisce la riduzione a coscienza di sé, rivolgen- Martinengo.qxp 26 12-11-2012 14:27 Pagina 26 IL PENSIERO INCOMPIUTO dola verso il mondo. A portare in primo piano il problema dell’obiettivazione contribuisce del resto il confronto con Marcel, con cui Ricoeur è in contatto durante il primo soggiorno a Parigi (193435). Tutta la tematica marceliana della riflessione seconda raccoglie infatti una serie di presupposti metodici non secondari per definire la relazione tra la filosofia riflessiva e la fenomenologia.3 Di Marcel, Ricoeur condivide soprattutto il presupposto per cui il concreto dell’esistenza è il luogo del senso per eccellenza: tanto per Ricoeur, quanto per il Marcel del “mistero ontologico”, l’esistenza stessa è il concrescere di figure in cui si manifesta un’esperienza viva e significativa, che il pensiero marceliano avrebbe inteso come radicamento nell’essere. A questa determinazione, ancorché così lata, corrisponde in Marcel la distinzione tra riflessione prima e riflessione seconda, che risulta a sua volta legata al recupero del senso nella sua dimensione più profonda: lo scarto tra i due livelli della riflessione presuppone infatti l’idea che il mondo dei significati si lasci in primo luogo ridurre e obiettivare, e in secondo luogo riprendere e “risignificare”. Il fatto che si diano due modi di comprensione, l’uno astratto e l’altro tipicamente concreto e non obiettivante, è tuttavia – almeno per il Ricoeur lettore di Marcel – più il titolo di un problema che la sua soluzione, perché questo ripercorrimento deve essere inteso contemporaneamente come “riflessione di riflessione”, ma anche come una forma di recupero del concreto. E al problema Ricoeur darà soluzioni diverse: inizialmente una risposta fenomenologica, proprio nel senso della fenomenologia della volontà contenuta ne Le volontaire et l’involontaire, e successivamente una versione ermeneutica che dovrà giudicare non incompatibile con la riflessione seconda di Marcel. Ciò non di meno, al di là del cambio di registro dall’eidetica all’ermeneutica, del modello marceliano Ricoeur conserverà soprattutto l’insistenza sul momento della “risignificazione”: ed è proprio questa la terza costante fondamentale che si può riconoscere nel pensiero ricoeuriano. È palese che il discorso di Ricoeur si regga sul presupposto forte di una significatività generale del mondo: tutto ciò che si dà, e a maggior ragione ciò che si produce a partire dall’esistenza, è orientato a essere un contenuto di senso; il che, soprattutto nel confronto con la lignée che Ricoeur avrebbe ricondotto all’“ermeneutica del sospetto”, non potrà essere un dato Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 27 27 del tutto ovvio. Di fatto, però, proprio in contrapposizione con la koinè del sospetto, Ricoeur terrà ferma l’idea che la filosofia sia un modello fondato sull’effettività dei significati: la volontà, la finitezza, la colpa e più in generale tutte le autorappresentazioni del soggetto sono forme pienamente significanti, concrezioni di senso la cui interpretazione non procede mai in perdita; la comprensione dei significati esistenzialmente rilevanti è insomma un processo di accumulo che si svolge sempre a somma positiva.4 Tuttavia al presupposto della generale significatività dell’esperienza corrisponde sempre più nettamente – ecco la terza costante del percorso di Ricoeur – l’idea che l’esibizione del senso faccia capo a una sorta di effetto di “ripresa”, a un processo ricostruttivo appunto. È questa l’idea che emerge, in modo più o meno palese, nel rapporto tra la fenomenologia e l’ermeneutica. Ciò che accomuna di fatto i due registri è la scelta per il senso. Tuttavia questo non significa soltanto l’affermazione (pur discriminante, rispetto ai filosofi del sospetto) di una generale dicibilità dell’esperienza: il vero salto è dato semmai da quell’epoché, che Ricoeur giustamente avvicina sotto quest’aspetto alla distanziazione ermeneutica, in virtù della quale il “problema dell’ente” diventa il “problema del suo senso”. La tesi è quella classica che sta alla base di una lettura non-idealistica della fenomenologia: il senso si produce nella sospensione e nel ripercorrimento dell’ovvio, nello scarto che separa il momento della semplice appartenenza contestuale, dal momento in cui i contesti si trasformano in insiemi di significati. Ciò che accomuna la fenomenologia e l’ermeneutica è proprio questo: il presupposto per il quale il significato esistenzialmente rilevante deriva da un’interruzione del vissuto, di cui ci si riappropria ma a distanza (cfr. RICOEUR I 1995b, 58 [72-73]). A questo passaggio dalla fenomenologia all’ermeneutica Ricoeur attribuisce, riprendendo Marcel, il termine di «réfection», «ricostruzione». Si tratta di un’attribuzione sporadica, che nei testi ricoeuriani non ricorre con particolare frequenza. Ciò non di meno, nella connotazione che riceve qui, questa ricorrenza sembra contenere molte più implicazioni di quanto una verifica testuale consentirebbe di valutare. I riferimenti alla nozione di ricostruzione si trovano infatti nella terza parte de Le volontaire et l’involontaire, nella quale è trattato il tema del consentimento, inteso come il sottile rapporto che si Martinengo.qxp 28 12-11-2012 14:27 Pagina 28 IL PENSIERO INCOMPIUTO instaura tra la volontà e le sfere della necessità, ricapitolate sotto i titoli del corpo, dell’inconscio e in generale della “vita”. Qui Ricoeur inizia a parlare dell’insufficienza della descrizione fenomenologica, individuando un ambito – quello marceliano della riflessione – che ha più a che fare «con la metafisica, con la sapienza e la poetica», anziché con la possibilità di un’eidetica: poiché è chiaro – scrive Ricoeur – che «l’unità dell’uomo con se stesso e con il suo mondo non può essere integralmente compresa nei limiti di una descrizione del cogito», ciò implica che la dimensione puramente descrittiva della fenomenologia debba essere trascesa, attraverso un «movimento di approfondimento in cui appare qualcosa di nuovo». Questo percorso di «approfondimento del Sé è proprio un aspetto di quella riflessione di secondo grado che, secondo Marcel, è più una ricostruzione [réfection] che una critica» (RICOEUR I 1950, 439-440 [462463]). In questo caso, il discorso di Ricoeur è ancora sovradeterminato dall’ipotesi di una filosofia della volontà che possa coincidere con la restituzione del cogito integrale, ossia di un io nel quale si giochi pienamente la dialettica tra attività e passività, tra la libertà del volontario e la necessità dell’involontario. Già a questo livello, però, ciò che è indicato con il termine «ricostruzione» ha a che fare con lo scarto tra una fenomenologia intesa ancora al modo di Husserl (con lo sfondo idealistico che le è connesso) e qualcosa di diverso: essa – scrive Ricoeur citando Marcel – è la stessa riflessione di secondo grado, nella misura in cui è in grado di approfondire il sé, al di là di ciò che è immediatamente disponibile alla descrizione. Che cosa sia esattamente l’“al di là” della descrizione fenomenologica resta ovviamente il nocciolo del problema. Nell’ambito del discorso sul volontario si tratta soprattutto del passaggio a metodi – quelli Ricoeur avrebbe connotato come “empirica” e “poetica” della volontà – che consentano di dire meno infedelmente tutto il perimetro dell’involontario, dal consentimento alla questione del corpo, al tema della speranza e della trascendenza. Tuttavia la réfection di cui, con un riferimento poco più che occasionale, Ricoeur parla qui è molto altro che non semplicemente un modo di nominare la riflessione seconda o la poetica della volontà: è lo scarto stesso che caratterizza quella specifica forma di «fenomenologia ermeneutica», che egli rivendicherà come propria linea di continuità (cfr. RICOEUR I 1995b, 57-58 [72]). Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 29 PARTE PRIMA 29 In che misura l’ermeneutica di Ricoeur si possa definire “ricostruttiva” e su quali piani tale definizione valga è precisamente il demostrandum di questo lavoro. Poste le prime due invarianti del suo pensiero (centralità del cogito e sbilanciamento oggettuale dell’intenzionalità), che di per sé sono le più facili da rilevare, ciò che si deve sottoporre a verifica è l’idea che questa terza costante in qualche modo raccolga le due precedenti e le caratterizzi in senso specifico. Se infatti, anche al di là dei riscontri testuali, è legittimo parlare del pensiero di Ricoeur come di un’“ermeneutica ricostruttiva”, ciò accade proprio perché tutto il suo percorso conserva una sorta di “livello di garanzia” del significato: al fondo di ogni decostruzione possibile, sussiste per Ricoeur un’argomentabilità minima, una nozione di senso (simbolico, metaforico, narrativo…) che può essere ricomposta interpretativamente. Ciò non significherà che su tali presupposti l’ermeneutica sia per Ricoeur semplicemente un “gioco di rimessa”, un’opzione di recupero rispetto ad altri linguaggi post-metafisici: al contrario, si tratterà di una connotazione che contiene in positivo la possibilità di argomentare la superiorità dell’ermeneutica, per esempio rispetto alla fenomenologia, alla metafisica o al neopositivismo. L’idea è dunque che l’ermeneutica di Ricoeur, così come si definirà nel confronto con la psicoanalisi, la linguistica e le scienze storiche, avanzi legittime pretese di razionalità, in virtù di una nozione di significato che non è tanto più ampia, quanto più resistente rispetto ad altre possibili: di contro ai puri effetti di deriva e disseminazione della decostruzione, Ricoeur terrà infatti ferma un’idea del senso come deposito significante che, seppur non univocamente, si accumula (si ricostruisce, appunto) attraverso l’atto ermeneutico.5 2. Le volontaire et l’involontaire: l’azione come giudizio pratico Il confronto con la fenomenologia è il presupposto sotto il quale si colloca Le volontaire et l’involontaire, la prima tra le opere ricoeuriane a potersi considerare uno sviluppo di pensiero autonomo. Le volontaire et l’involontaire è infatti la prima parte di quel progetto inconcluso di una Philosophie de la volonté, con cui Ricoeur intendeva estendere la fenomenologia husserliana. Come si è accennato, l’idea di un com- Martinengo.qxp 30 12-11-2012 14:27 Pagina 30 IL PENSIERO INCOMPIUTO pletamento della scienza rigorosa di Husserl deriva dal carattere plurivoco che Ricoeur attribuisce all’intenzionalità. Il dato incontrovertibile da cui Ricoeur parte è che l’apertura della coscienza all’oggetto non accade mai soltanto sul registro della percezione, dell’immaginazione e della rappresentazione: la forma della coscienza-di-qualcosa si realizza anche al livello dei contenuti volitivi, che possiedono la caratteristica di essere intenzionali, ma al tempo stesso non sono rappresentativi, almeno non nello stesso senso in cui lo è il cogito. E questa differenza risulta in qualche modo “indeducibile”: né la volizione può dedursi dalla fenomenologia del cogito, né questa può ridursi a quella. Da ciò discende la possibilità di una fenomenologia del volere che si articoli secondo i due momenti, soggettivo e oggettivo, della relazione intenzionale. Anzi, ne deriva un’analisi che Ricoeur vorrebbe articolare su tre livelli: un’eidetica della volontà, intesa come fenomenologia della decisione, della mozione volontaria e dell’involontario; un’empirica dell’atto volitivo, ovvero una descrizione della concretezza storica e fattuale della volontà, a partire dal paradigma della cattività del desiderio; e infine una poetica, costruita come analisi del rapporto coscienza-trascendenza, nella prospettiva di una liberazione del soggetto dai vincoli del peccato. Come è noto, il progetto della Philosophie de la volonté è realizzato soltanto in parte. Le volontaire et l’involontaire, pubblicato nel 1950, corrisponde in tutto all’eidetica della volontà, ma il testo trova solo parzialmente un seguito in Finitude et culpabilité, che uscirà dieci anni dopo. Ciò non toglie che Le volontaire et l’involontaire si possa leggere autonomamente, senza richiedere un completamento che in effetti non vi sarà. Saranno semmai i due volumi di Finitude e culpabilité a mantenere uno statuto intermedio, che in parte risponde alla seconda tappa del progetto iniziale (finendo però per sovrapporvi anche questioni attinenti alla terza) e in parte rappresenta già qualcosa di molto diverso. 2.1 La fenomenologia come apparato descrittivo: la teoria della decisione Oltre alla fenomenologia di Husserl, alla base del progetto di eidetica dell’atto volitivo si ritrova anche la Phénoménologie de la perception di Maurice Merleau-Ponty (1945); anzi, in qualche modo è proprio Merleau-Ponty a legittimare la lettura di Husserl da cui Ricoeur parte. In questo caso, il tema filosofico fondamentale è l’esatta Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 31 31 interpretazione del metodo della riduzione, ossia il valore da attribuire alla correlazione tra la coscienza e il mondo. La lettura di Ricoeur, che non a caso è già quasi interamente sviluppata a margine della traduzione di Ideen I, pubblicata nel 1950, rientra tra le interpretazioni husserliane di stampo eterodosso, ossia tra le letture che intendono la riduzione come un metodo per far «risaltare di fronte alla coscienza l’apparire in quanto tale di qualsiasi fenomeno» (RICOEUR I 1995b, 22 [33]). In questo quadro è esplicita l’idea, comune a Merleau-Ponty oltre che alla linea interpretativa che va da Max Scheler a Roman Ingarden, che l’apparato descrittivo della fenomenologia sia di per sé autonomo rispetto a qualsiasi presupposto di tipo idealistico. Al contrario, la versione idealistica della fenomenologia, come è tracciata da Eugen Fink e da Husserl stesso, si basa su una sovrapposizione tra il momento trascendentale e il momento eidetico della riduzione. Merleau-Ponty lo dice con chiarezza all’inizio della Phénoménologie de la perception: il problema fondamentale della fenomenologia è il senso da attribuire all’epoché. Se la sospensione del rapporto tra il mondo e l’io è intesa come fondazione del primo sul secondo, si sta supponendo che la riduzione alla coscienza e ai suoi contenuti eidetici sia un movimento assolutamente primo, dotato di un punto d’arrivo che fonda la relazione intenzionale. Al contrario, sostiene Merleau-Ponty, la dimensione dell’eidetico è sì il momento fondamentale del passaggio dal fatto all’essenza, dall’esistenza al significato; ma ciò avviene sempre sullo sfondo della relazione con il mondo. Per Merleau-Ponty, insomma, la riduzione eidetica è il momento di un processo di comprensione, che si volge a ciò che è già sempre attivo: la presa del mondo. Questa relazione al mondo non può essere tematizzata senza passare attraverso il momento dell’interruzione e del risalimento all’essenza; ma l’essenza non è lo scopo e l’oggetto del risalimento, perché sono gli oggetti, le sfere oggettuali, a costituire insieme il punto di partenza e di arrivo dell’epoché (cfr. per es. MERLEAU-PONTY 1945, IX [23-24]).6 Il rapporto intenzionale alla verità, nella sua dimensione puramente significante, resta l’obiettivo della fenomenologia, ma lo è anzitutto nel senso di quel primato del vero sull’intenzionale che è – per dirla con Heidegger – caratterizzante l’essere nel mondo. Da questa prevalenza della “situazione” sulla “fondazione” – e ancor più dall’idea che il nucleo della Martinengo.qxp 32 12-11-2012 14:27 Pagina 32 IL PENSIERO INCOMPIUTO riduzione stia nella sua non-conclusività, ossia nell’impossibilità di condurla a termine garantendole un cominciamento assoluto – discende la centralità del tema della percezione, che diventa la via d’accesso fondamentale alla verità. Alle stesse premesse rimanda anche Ricoeur, che inizia a immaginare la sua filosofia della volontà come una sorta di «contropartita pratica» del progetto di Merleau-Ponty (cfr. per es. RICOEUR I 1995b, 23 [33]): e proprio a questo livello sta la possibilità di intendere il progetto de Le volontaire et l’involontaire come una filosofia del significato di stampo ricostruttivo. Si tratta di capire come si possa arrivare a tale conclusione, almeno a livello interpretativo. In termini generali, l’eidetica della volontà adotta il paradigma tipico della fenomenologia descrittiva: rispetto alla coscienza vale il principio generale per cui «una qualsiasi funzione si comprende mediante la sua specie di obiettivo o, come dice Husserl, attraverso la sua intenzionalità. Altrimenti detto, una coscienza si comprende per il tipo di oggetto nel quale si supera» (RICOEUR I 1950, 10 [10]). Posta questa premessa, Ricoeur argomenta che l’oggettività attraverso la quale si definisce la coscienza volente è il progetto. Il progetto è infatti l’articolazione fondamentale che regge il rapporto tra la coscienza volente e il mondo: nel progetto è il pensiero stesso a farsi intenzionalità pratica, a rapportarsi agli oggetti nei termini del fare. Non si danno dunque due funzioni distinte, come il cogito e la volontà, bensì un’unica disposizione, quella della coscienza, e un’unica operazione, il giudizio, che di volta in volta si traducono in teoria o in prassi. È poi al livello del giudizio che si realizza una sorta di biforcazione, che parte da ciò che Ricoeur chiama l’infinito assoluto e produce le distinzioni da cui derivano i diversi tipi di giudizio. L’infinito assoluto è un pre-enunciato del tipo «io andare in viaggio», secondo l’esempio de Le volontaire et l’involontaire (cfr. RICOEUR I 1950, 43 [47]): e si tratta di un contenuto significante generico, che si dispone a essere modificato e declinato in una constatazione, in un desiderio, in un comando o, appunto, in un progetto. Ciò che distingue il progetto dagli altri tipi di intenzionalità pratica è il livello della decisione (cfr. RICOEUR I 1950, 41-47 [45-52]): la decisione è quella particolare forma di giudizio che afferma categoricamente un’azione come propria. Qui si gioca qualcosa di importante rispetto alla possibilità di una teoria fenomenologica del pro- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 33 33 getto. Di per sé, infatti, la definizione della decisione come affermazione categorica di un’azione non è sufficiente a distinguerla dall’ambito del comando, e precisamente dal comando inteso come imperium di sé. In realtà, tra decisione e comando sussiste un rapporto di analogia: se la decisione è il giudizio che «significa, cioè designa a vuoto [nel senso dell’infinito assoluto], un’azione futura che dipende da me, che è in mio potere» (RICOEUR I 1950, 42 [46]), la sua specificità deriva dalla differenza tra la dipendenza “da me”, che è il suo ambito tipico, e la dipendenza “da altri”, che è invece l’ambito specifico del comando. Al livello dell’affermazione di un’azione come propria, entra dunque in gioco il problema classico della distinzione tra ego e alter ego, più precisamente lo scarto tra il corpo proprio (Leib) e l’altrui persona. Tanto che Ricoeur scrive: «Il mio corpo non è un’altra persona. La dualità che nasce nella coscienza è una dualità all’interno della prima persona stessa. Perciò il soggetto dell’azione a cui mira il progetto è lo stesso soggetto che è implicito o esplicito nell’atto stesso di decidere o di intenzionare il progetto: l’io che decide è l’io che farà» (RICOEUR I 1950, 47 [51]). Non è insomma la stessa cosa comandare ad altri e “comandare” a sé: nella decisione è l’io stesso, come l’agente di sé e del proprio corpo, a essere progettato. 2.2 La teoria del giudizio come ricostruzione dell’azione A questa particolare dipendenza tra l’azione e l’agente corrisponde, sul versante del corpo proprio, l’approfondimento della relazione decidere-fare. Almeno in partenza, il discorso sul progetto è un tema interamente legato alla fenomenologia dell’intenzionale: il progetto è il momento soggettivo dell’obiettività rappresentata dal pragma, dall’azione scelta come obiettivo. Ma, al tempo stesso, esso intreccia l’analisi dei motivi e degli impulsi legati all’azione. È questo il punto d’attacco della vasta tematica dell’involontario, che diventa determinante per definire la specificità del giudizio di decisione. Il passaggio è costituito dalla nozione di potere (inteso come «sentimento di potere»), che si connette direttamente al discorso sul movimento e sul corpo.7 All’idea dell’io come soggetto incarnato e definitivamente distinto dall’altrui persona, Ricoeur connette un’idea di soggetto che è assieme padrone di sé e dipendente dalla necessità. A questa duplicità insita nel soggetto volente, che sarà al Martinengo.qxp 34 12-11-2012 14:27 Pagina 34 IL PENSIERO INCOMPIUTO centro dell’analisi di Finitude et culpabilité, corrispondono tutte le determinazioni che fanno capo al carattere, all’inconscio e alla “vita”. Il problema dell’involontario si traduce dunque nella possibilità che un’azione, in quanto mia, sia determinata «da tutto un ordine reale di eventi che le offrono un punto di applicazione, cioè da un insieme di interdizioni e di occasioni, di ostacoli e di vie praticabili» (RICOEUR I 1950, 52 [57]): quest’ordine reale, che è la presenza stessa dell’uomo nel mondo, implica che la volontà sia sempre connessa alla necessità, ossia a un processo di adeguamento continuo dei possibili progettati ai possibili previsti, adeguamento che equivale alla nozione di consentimento. Da questo nesso discende tutta la fenomenologia del corpo, che ha il suo discrimine nella nozione di motivazione: qui il problema sta principalmente nel radicamento dei motivi dell’agire all’interno della struttura corporea e conseguentemente nella necessità di ripensare la libertà a partire dall’appartenenza volontà-corpo. Proprio la decisione, che è il luogo nel quale i motivi prendono forma e significato, è per eccellenza il punto di inserzione attraverso cui il volere si produce in uno sforzo. La fenomenologia del corpo proprio sostanzia dunque la teoria della decisione, integrandola nella relazione con gli oggetti, ossia sul versante dell’azione nel mondo. Ciò implica alcune conseguenze importanti. Al livello del giudizio come affermazione di un’azione propria, il risultato più evidente è senz’altro l’istituzione di un registro (quasi un lessico) del volontario e dell’involontario: attraverso le nozioni di consentimento e di motivazione, tale registro esplicita l’impossibilità di ridurre la decisione all’ambito del causale naturalisticamente inteso. Tuttavia, l’aspetto più notevole di quest’analisi non riguarda tanto il vasto capitolo che oggi si direbbe del mind-body problem, e al quale tutto sommato Ricoeur dà una risposta in chiave esistenzialista; la vera evidenza dell’analisi è data appunto dalla scelta, per lo più implicita, di parlare del volontario e dell’involontario nei termini di un lessico (a partire da La symbolique du mal si potrà dire: nei termini di un «universo del discorso»). In questa graduale trasformazione del problema, evidente nei non infrequenti riferimenti alle metafore della volontà,8 inizia ad articolarsi una prima “semantizzazione del tema della coscienza”, secondo un processo che in Ricoeur si espliciterà soprattutto a partire dalla svolta ermeneutica. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 35 35 Proprio in queste premesse è contenuta per la prima volta la problematica del significato, e del significato come effetto di ricostruzione: in nuce, la lettura della volizione in termini di intenzionalità e la sua sovrapposizione alla teoria del giudizio contengono infatti tutti gli estremi della questione. Il che, almeno a livello interpretativo, si può argomentare su due livelli. In primo luogo, ricondurre il volere a una forma di intenzionalità implica già da sé il fatto che nella volizione sia inclusa l’istituzione di significati. A tratti, in Ricoeur l’idea è perfino più esplicita: l’allargamento dell’intenzionalità al volere rappresenta l’estensione della significatività a un ambito che, dal punto di vista del cogito in senso stretto, apparirebbe francamente opaco. A un livello molto generale, pensare la decisione come atto intenzionale è dunque un modo per riconoscervi un universo organizzato: ciò che di per sé apparirebbe come una successione eterogenea di stati o di legami tra ordini e conseguenze, tra ragioni e sforzi, tra consentimenti e movimenti, manifesta finalmente la possibilità di costituirsi come un tutto; e ciò accade proprio a partire dall’individuazione di legami fungenti tra azioni e agenti, tra un insieme di atti e una catena di determinazioni del volere. In secondo luogo, però, se il legame fungente è il modo diretto e “costitutivo” in cui l’agente produce un significato nell’azione, la teoria del giudizio di decisione, che è l’altro presupposto forte de Le volontaire et l’involontaire, può essere considerata a tutti gli effetti come una rilettura indiretta e “ricostruttiva” del problema del significato. La riconduzione del problema della decisione a una tipologia allargata del giudizio dipende infatti da aspetti dell’atto volitivo che non si lasciano ridurre alla descrizione eidetica: la decisione è un giudizio, ed è quel particolare tipo di giudizio, in quanto non è soltanto imperium di sé; e non è il giudizio inteso semplicemente come imperium, proprio perché in essa sono incluse determinazioni che a un livello esclusivamente fenomenologico non rileverebbero affatto. In altre parole, se il progetto fosse semplicemente un’autodeterminazione, se ne darebbe senz’altro una fenomenologia. Ma poiché in esso si dà qualcosa di più che una coscienza autodeterminata, ecco allora che la sua forma sarà quella tipica di un giudizio: in quanto è un giudizio che include aspetti legati più a una sorta di eterodirezione della coscienza che a una sua autocostituzione, la decisione non è mai il dire diretto e immediato di un soggetto che da sé solo produce azioni signifi- Martinengo.qxp 36 12-11-2012 14:27 Pagina 36 IL PENSIERO INCOMPIUTO cative, bensì è la capacità di tenere assieme termini e livelli diversi, nella cui eterogeneità soltanto si fa il significato dell’azione. E inoltre questo “tenere assieme” non è mai un atto fondativo, perché i dissimili che esso congiunge lo precedono: la decisione è sempre un effetto di mediazione ex post.9 Se queste premesse sono corrette, il significato dell’atto volitivo si produce inscindibilmente su due registri: da una parte nel riferimento diretto e intenzionale all’agente, dall’altra nella ricostruzione che a posteriori mi fa designare come l’io che ha deciso. Il livello della descrizione fenomenologica risulta dunque sovradeterminato da una teoria del giudizio che è necessariamente in ritardo su se stessa: là dove il riferimento intenzionale costituisce un momento tutto sommato escludente e riduttivo, per il quale la coscienza finisce per essere un’astrazione anche nella versione allargata dell’eidetica del volontario, al contrario il momento dell’autodesignazione (Ricoeur dice infatti: dell’«imputazione») è quello di un giudizio che soltanto après coup dice: «Sì, sono io che…» (cfr. RICOEUR I 1950, 54-63 [59-68]). A grandi linee, è questa la strada che attraverso il tema dell’io imputabile, dal livello del giudizio di riflessione, indietro fino all’imputazione pre-riflessiva e al poter-essere della coscienza, allarga l’orizzonte dell’io volente ai temi della motivazione, dell’abitudine e del consentimento. Ma ciò non può che accadere in una fase ricostruttiva del problema: o, in altri termini, a partire dall’idea che l’imputazione del “voglio” all’“io” sia sempre una questione di interpretazione. 3. Finitude et culpabilité: interpretazione e significato Il primo episodio della Philosophie de la volonté si sviluppa dunque attorno a un presupposto “pre-ermeneutico”, in virtù del quale il soggetto volente è rappresentato tout court come relazione con un mondo di significati che lo precede. Il nucleo di questa relazione sta in una sorta di ispessimento del dato fenomenologico, un’opacizzazione che è il cuore della sovrapposizione tra il significato che si costituisce nel processo eidetico-intenzionale e il significato che “si ricostruisce” al livello del giudizio di decisione. A questa sovrapposizione corrisponde senza grandi difficoltà il modello a tre costanti che si rilevava all’inizio, ossia l’idea che la filosofia della coscien- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 37 37 za, nella particolare versione sviluppata a partire dal cogito concreto (I costante) e dalla prevalenza del suo correlato oggettivo (II costante), risulti sovradeterminata da una particolare intonazione ermeneutico-ricostruttiva (III costante), che via via si dettaglierà nell’opera di Ricoeur. Il punto di inserzione dell’ermeneutica nel discorso fenomenologico è costituito non a caso dal tema della passività del soggetto, ossia dal problema che costituisce uno dei nodi mai definitivamente sciolti nella fenomenologia di Husserl: tutte le determinazioni a partire dalle quali l’analisi vira dal registro dell’eidetica pura alla semantizzazione tipica della teoria del giudizio fanno capo alla dualità originaria tra attività e passività che caratterizza l’esistenza. Proprio da questa dualità deriva infatti l’impossibilità di risolvere il problema della volontà nella sola descrizione fenomenologica e dunque la necessità di quel salto, che abbiamo connotato con il termine “ricostruzione” e che Ricoeur tematizza nelle ultime pagine de Le volontaire et l’involontaire.10 3.1 L’ermeneutica del fallibile come teoria del significato Finitude et culpabilité è dedicata espressamente al tema della passività e al passaggio che esso impone in direzione dell’ermeneutica. Il testo, pubblicato nel 1960, si inserisce nel progetto della Philosophie de la volonté, segnandone assieme il superamento. Il problema al quale Finitude et culpabilité risponde – Ricoeur ne parla nuovamente in Réflexion faite (cfr. in partic. RICOEUR I 1995b, 27-32 [38-43]) – è rappresentato dalla netta separazione, teorizzata da Le volontaire et l’involontaire, tra l’analisi eidetica dell’atto volitivo e il suo corrispettivo storico-esemplare: se il primo episodio della Philosophie de la volonté astraeva programmaticamente dal modo in cui la volontà si rapporta al soggetto finito, qui si tratta di togliere le parentesi in cui è stato messo il concreto, recuperandolo a partire dal problema del male, che diventa il paradigma della dimensione storica della volontà. Lo scopo de L’homme faillible, il primo volume di Finitude et culpabilité, è il rinvenimento di questo «“luogo” umano del male» (RICOEUR I 1960a, 11 [57]), il punto in cui esso entra concretamente nella realtà umana. In questo quadro, il problema del male rappresenta l’esempio critico del rapporto tra l’eidetica e l’empirica: il che è evidente in quanto del male e della colpa bisogna poter dimostrare a un Martinengo.qxp 38 12-11-2012 14:27 Pagina 38 IL PENSIERO INCOMPIUTO tempo la connessione con le strutture della volontà e la loro relativa contingenza. Per Ricoeur si tratta dunque di acquisire, in senso latamente kantiano, che il male dipende sì dalla dialettica di attività e passività in cui è implicata la coscienza, ma che questa dipendenza è soltanto una forma tipica della dialettica e non la sua determinazione necessaria. Ricoeur lo argomenta con un’intonazione dichiaratamente cartesiana, se non pascaliana: nella sproporzione ontologica, nella non-corrispondenza con se stesso che caratterizza l’umano, la finitezza non è tout court la radice della colpa; l’involontario assoluto, che è il dato ultimo della tensione tra attivo e passivo, tra finito e infinito, è semplicemente un principio di fragilità e non già il male in sé. Il problema del “luogo” umano del male corrisponde alla ricerca di una mediazione tra la finitude e la culpabilité, un livello intermedio tra il dato strutturale, ovvero la dialettica di volontario e involontario, e il divenire storico-concreto, ossia la colpa. E L’homme faillible individua questa mediazione alla base di un’antropologia filosofica, cioè al livello di un’evidenza strutturale che nell’uomo raccoglie lo scarto, sproporzionato e non commensurabile, tra il finito e l’infinito. Questo medium è ciò che si definisce fallibilità. La fallibilità è insomma una sorta di pre-esposizione al male, dalla quale discende la «debolezza costituzionale» (RICOEUR I 1960a, 11 [58]) che rende possibile il male; ma ciò appunto nel senso di un’esposizione e non di un’origine o di una caduta necessitante (cfr. anche RICOEUR I 1995b, 28 [39]). Che però ne L’homme faillible sia in gioco un problema di mediazione è rilevabile anche in un altro senso, che rappresenta il nucleo meno ovvio dell’analisi di Ricoeur: in un senso a prima vista disorientante, l’antropologia della sproporzione contiene al tempo stesso una teoria della conoscenza e del significato. Almeno nelle intenzioni di Ricoeur, la sproporzione pratica tra volontario e involontario e le diverse forme che essa assume corrispondono infatti alla sproporzione, che caratterizza l’ambito conoscitivo, tra il senso e la prospettiva: è come se vi fosse una sorta di «nucleo [cellule mélodique] di tutte le variazioni e di tutti gli sviluppi» (RICOEUR I 1960a, 81 [143]) che definiscono l’inadeguatezza dell’umano e questo nucleo fosse appunto la capacità di adeguare il mondo dei significati alle prospettive da cui si aprono. Che però questa funzione di mediazione e adeguazione sia qualcosa di più di una vaga Stimmung esistenziale, e anzi che essa Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 39 39 abbia espressamente a che fare con la capacità di produrre significati, è ciò che si deve ancora dimostrare. La medietà dell’umano non è assunta infatti in senso metafisico, come collocazione dell’esistenza all’interno di una scala ontologica determinata. Essa è semmai una funzione di sintesi tra diversi livelli del mondo. Ricoeur è molto esplicito in questo, quando scrive che «l’uomo è intermediario non perché sta tra l’angelo e la bestia, è intermediario perché è misto, ed è misto perché opera delle mediazioni»; perciò la sua «caratteristica ontologica di essere-intermediario consiste precisamente nel fatto che il suo atto di esistere è l’atto stesso di operare mediazioni tra tutte le modalità e tutti i livelli della realtà al di fuori di lui e in lui stesso» (RICOEUR I 1960a, 23 [71], corsivo mio; ma cfr. anche BREZZI 1969, 18 e più estesamente JERVOLINO 1984, 16-19). L’esistenza stessa si dà dunque come un’attività sintetica; e le sintesi sono ciò che organizza il mondo in «tutte le modalità e tutti i livelli» che lo caratterizzano. Prima che essere una sorta di determinazione creaturale, come accade per la fallibilità, la mediazione è la matrice delle strutture che costituiscono l’esistenza nel suo rapporto col mondo, ossia l’esistenza in quanto significato. Anche qui il tono della discussione è ampiamente kantiano. Tuttavia vi è in positivo una sorta di universalizzazione del fatto della mediazione, che non ne fa una funzione esistenziale tra le altre, ma la più fondamentale di tutte: il che – si può dire a riprova – rende il discorso sulla fallibilità meno un’interpretazione del male che una teoria del significato. Si tratta però di mostrare ancora come ciò accada in concreto. È centrale in questo senso la nozione di immaginazione trascendentale. A partire dall’accentuazione del tema della sproporzione, in Ricoeur la sintesi trascendentale dell’immaginazione diventa infatti la chiave dell’unità, non semplicemente del sapere, ma dell’esistenza stessa, nella misura in cui questa è al mondo sotto il doppio registro dell’attività e della ricettività. Da questo punto di vista, è come se la sensibilità e l’intelletto fossero la metafora della fallibilità stessa: o viceversa, è come se la fallibilità fosse una metafora della non-adeguazione di sensibilità e intelletto, in uno scambio tra originario e derivato che non è facile districare; né è interessante farlo, posto che l’obiettivo de L’homme faillible sia di raccogliere in modo indifferenziato tutto l’umano sotto la categoria della mediazione aperta all’errore.11 Martinengo.qxp 40 12-11-2012 14:27 Pagina 40 IL PENSIERO INCOMPIUTO 3.2 Il passaggio all’ermeneutica: l’esistenza, in quanto finita, è produzione di significati La discussione attorno alla nozione di sintesi trascendentale procede senza grandi difficoltà, muovendo dalla nozione di ricettività e associandovi i temi della corporeità e della prospettiva finita. A essere rilevante è semmai il fatto che la questione del significato, che qui emerge ancora in una teoria di stampo fenomenologico, risulti connessa in modo non secondario con il discorso sulla sproporzione, che invece è più esplicitamente ermeneutico. Tuttavia, che questa teoria del significato sia effettivamente il nucleo dell’analitica della finitezza, ovvero che l’ontologia del fallibile sia già da sé una teoria del significato, costituisce ancora un passaggio in più. Ed è il passaggio rappresentato da La symbolique du mal, il secondo volume di Finitude et culpabilité. Qui il problema è direttamente la colpa nella sua dimensione storico-concreta, ossia la realtà del male umano nella quale la fallibilità passa dalla potenza all’atto (cfr. per es. RICOEUR I 1960b, 11 [247]). Proprio quest’attualizzazione include a sua volta un presupposto fondamentale dell’analisi: la colpa non si dà mai direttamente, come una determinazione da descrivere, ma soltanto attraverso l’istituzione di un mondo di significati simbolici. È questo il senso alla base della «mitica concreta» di cui parla Ricoeur: al passaggio dall’innocenza alla colpa è connaturato il fatto di darsi unicamente attraverso un universo di significati, e significati di natura simbolica. In questo senso appare ancora più stringente la tesi espressa ne L’homme faillible: l’esistenza, proprio in quanto è determinata in senso paradigmatico dalla finitezza e dalla fallibilità, è aperta oltre che alla colpa, alla produzione di mediazioni e con ciò alla produzione di significati. Si può dire la stessa cosa in modo ancora più categorico: l’esistenza è matrice esplicita di simboli, nella misura in cui è produttrice di mediazioni. Non che questa tesi si debba intendere in modo esclusivo, come se soltanto la produzione di mediazioni fosse matrice di significati, perché già al livello puro e non-mediato dell’eidetica, la coscienza è esplicitamente un vettore di senso; tuttavia ciò che si deve registrare rispetto alla fallibilità è proprio questa dipendenza assoluta tra i significati esistenzialmente rilevanti e il Faktum della mediazione. Questo è il risultato più evidente del passaggio che Finitude et cul- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 41 41 pabilité compie dalla fenomenologia all’ermeneutica: l’ermeneutica subentra al metodo fenomenologico-descrittivo, in quanto tutta la dialettica del volontario e dell’involontario sfocia in un ambito totalmente determinato dal simbolo. A questo livello, l’ermeneutica è principalmente il metodo che consente di decifrare concrezioni di senso complesse, che non si risolvono al livello letterale perché in esse la lettera fa segno verso un altro livello, contribuendo a svelarlo. Almeno in questa fase insomma, l’ermeneutica è per Ricoeur un lavoro di decifrazione, che si collega alla mitica concreta con l’obiettivo di fornirne una versione iuxta propria principia. Al versante storico della teoria della fallibilità corrisponde infatti un particolare universo del discorso, che Ricoeur connota come «linguaggio della confessione»; ma comprendere quest’universo del discorso «significa affrontare un’esegesi del simbolo che esige talune regole di decodificazione, vale a dire un’ermeneutica» (RICOEUR I 1960a, 10 [57]).12 Sotto questi presupposti, prende le mosse quella che Ricoeur a più riprese definisce come la «via lunga dell’interpretazione», ossia un metodo che riconosce nei contenuti esistenzialmente significativi il punto d’arrivo di un percorso più articolato, che si origina nel mondo dei segni. Da qui deriva la vasta rassegna di simboli interpretati, che occupa gran parte del testo e che produce una sorta di “archeologia” dell’autocoscienza colpevole. Ma il punto critico dell’analisi non è tanto l’interpretazione delle figure che pertengono al tema dell’impuro (il simbolismo della macchia, la purificazione, l’oscillazione tra il fisico e l’etico…), al peccato (il Patto, il comandamento, la collera di Dio…), alla colpevolezza (colpa e colpevolezza, individuo e comunità, imputazione penale e giustificazione…) e alla caduta (nei miti cosmologici, orfici, tragici e adamitici). Il vero nucleo della questione sta semmai nel modo in cui quest’interpretazione simbolica entra in relazione con la filosofia.13 È evidente che a questo livello si ripete l’andamento metodico che abbiamo identificato come tipico di una filosofia del significato nei suoi due momenti della costituzione e della ricostruzione: L’homme faillible è a tutti gli effetti una teoria del significato, in particolare quando acquisisce al livello della fallibilità la funzione trascendentale dell’immaginazione; ma a questa acquisizione la mitica concreta de La symbolique du mal risponde spostando l’equilibrio in direzione della ricostruzione. Ciò che si dà direttamente, attraverso Martinengo.qxp 42 12-11-2012 14:27 Pagina 42 IL PENSIERO INCOMPIUTO una coscienza intenzionale che produce significati, richiede infatti di essere rideterminato e compreso a partire dalle sue concrezioni simboliche, dal riferimento a un mondo di oggetti che gli è inevitabilmente connesso. Del resto, questo spostamento dall’eidetico al mediato, o dal costitutivo al ricostruttivo, non è affatto una determinazione occasionale, legata alla specificità del tema del volontario: l’ermeneutica del simbolo è semmai la premessa per una ridefinizione totale del compito della filosofia. Ne La symbolique du mal c’è insomma la prima intenzione di ciò che, da La métaphore vive in poi, si potrà connotare come passaggio dal regionale all’ontologico: quel trasferimento di determinazioni da una disciplina specifica, in questo caso la filosofia del religioso, all’ambito generale concernente le condizioni di possibilità del filosofare. Al tempo stesso, al livello di Finitude et culpabilité si tratta ancora di una questione circoscritta, che si raccoglie bene sotto l’idea che il simbolo sia ciò che «dà a pensare» (RICOEUR I 1960b, 323-332 [623-634]). Il simbolo, infatti, non è soltanto l’ambito cui si applica una funzione interpretativa, ma diventa ciò a partire da cui si origina una possibilità di pensiero: il mito come punto di partenza inevitabile del filosofico. E si tratta di una possibilità che si dà in senso non-diretto e ricostruttivo, in quanto il mythos (e il simbolo che lo genera) è per eccellenza un discorso che si dispone a essere ripreso e ripetuto dal discorso filosofico.14 Per comprendere con esattezza che cosa l’interpretato (il simbolo) importi sull’interprete (la filosofia) è centrale ancora una volta la nozione di mediazione. Il simbolo è il trasferimento linguistico di un’esperienza, nella fattispecie l’esperienza capitale della colpevolezza: «Ciò che è vissuto come impurità, come peccato, come colpevolezza esige la mediazione di un linguaggio specifico: il linguaggio dei simboli. Senza l’ausilio di questo linguaggio l’esperienza rimarrebbe muta, oscura, chiusa sulle sue contraddizioni implicite» (RICOEUR I 1960b, 153 [419]). La confessione, nel senso dell’universo di discorso tipico della fallibilità, è parola ed è per eccellenza parola significante. Se dunque vi è qualcosa che il simbolo dà a pensare alla filosofia è questo: la funzione del significato intesa in se stessa come mediazione, come un venire al linguaggio che esorbita dal livello della descrizione (per esempio dal livello della descrizione fenomenologica di essenze) e che richiede dunque di essere ricostruito. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 43 43 4. De l’interprétation e Le conflit des interprétations: l’interpretazione come movimento dialettico Sotto questi presupposti iniziano a delinearsi i contorni della teoria dell’interpretazione di Paul Ricoeur. Almeno in una prima fase, Ricoeur stesso – con termini ampiamente sovradeterminati – insiste per attribuire a quest’ermeneutica la connotazione di interpretazione «restauratrice» o «creatrice di senso». Che cosa sia esattamente questa determinazione restauratrice si comprende bene a partire dall’idea di mediazione che Finitude et culpabilité porta in primo piano: non tanto il ritorno a un’ipotetica immediatezza dei significati, né la ricomposizione di una sorgente di senso originaria, a cui tornare come a uno stato di innocenza perduta, ma piuttosto un’“instaurazione” (una forma di produzione, appunto) che dispone un regime di significati non a partire dal nulla, bensì in risposta a una predatità.15 In questo senso, l’interpretazione rappresenta un’alternativa alla strutturale incompletezza del discorso fenomenologico-descrittivo, a cui oppone un processo basato sulla possibilità di ripercorrere i sensi già dati, disfandoli e ripetendoli. Ciò che sembra farsi strada ne La symbolique du mal è dunque un potenziamento della funzione referenziale, al di là della dimensione strettamente descrittiva. Tuttavia, questo non è vero soltanto in quanto il simbolo arricchisca le possibilità significanti del linguaggio, ma anche nel senso di trasformare la funzione stessa del significato in problema filosofico: le possibilità di pensiero aperte dalla nozione di simbolo non attengono unicamente all’estensione dei significati esistenzialmente rilevanti, ma riguardano più in generale i modi stessi in cui il linguaggio si dà una referenza. Si può dire insomma che Finitude et culpabilité proceda su un doppio registro, che da una parte privilegia quelle che Ricoeur definisce «esercitazioni ermeneutiche», ossia l’applicazione di criteri interpretativi prestabiliti alla materia bruta del mito, e dall’altra apre un metalivello che concerne lo statuto stesso dell’interpretazione. Quest’equilibrio si sposta decisamente verso il secondo versante a partire dai testi successivi, in particolare da De l’interprétation. Essai sur Freud e dai saggi contenuti ne Le conflit des interprétations. Martinengo.qxp 44 12-11-2012 14:27 Pagina 44 IL PENSIERO INCOMPIUTO 4.1 Ermeneutica restauratrice ed ermeneutica riduttrice: il confronto con la psicoanalisi L’Essai sur Freud e Le conflit escono rispettivamente nel 1965 e nel 1969 e raccolgono, non solo cronologicamente, le fila di una riflessione che si dipana in comune tra i due testi. Se con La symbolique Ricoeur raggiunge una relativa chiarezza attorno al metodo ermeneutico, questo metodo è ora sottoposto al confronto con due approcci che ne rappresentano l’alternativa: la psicoanalisi e lo strutturalismo. Il raffronto con altre discipline è per la teoria dell’interpretazione anzitutto una necessità storica, che si lega al dibattito francese degli anni Sessanta e Settanta, connotato tra gli altri dagli studi di Jacques Lacan e di Claude Lévi-Strauss. Ma questa determinazione storica non è affatto accidentale: essa esplicita una serie di questioni che riguardano molto da vicino il problema dell’interpretazione. Nel caso dello stutturalismo e della psicoanalisi, infatti, a venire in luce non è tanto una alternativa all’ermeneutica, ma – il che è evidente se si comprende il legame strategico che tiene assieme l’Essai sur Freud e Le conflit – la possibilità di un’altra ermeneutica, che può rovesciare molti dei presupposti enunciati da Ricoeur. La risposta all’ermeneutica de La symbolique appare evidente soprattutto rispetto alla prima delle due alternative. L’analisi di LéviStrauss (su cui cfr. ancora RICOEUR I 1995b, 32-33 [44]) propone una lettura delle concrezioni mitiche, indipendente da tutte le determinazioni che fanno capo al soggetto, come la fallibilità, la colpa e la caduta, sulle quali la simbolica del religioso ha basato il suo metodo. Tutto l’ambito che rimanda alla linguistica strutturale fornisce infatti un «modello a tutti quei tentativi miranti a disgiungere l’organizzazione sistematica degli insiemi verbali considerati e le intenzioni soggettive assegnate al soggetto parlante» (RICOEUR I 1995b, 33 [44]), finendo per mettere in forse la stessa centralità, attribuita da La symbolique du mal, al processo di costruzione dei significati. Tuttavia dopo Finitude et culpabilité il punto d’attacco da cui riparte la discussione è costituito inizialmente dall’altra alternativa, ossia dalla psicoanalisi. Ricoeur deve a Lacan, oltre che al primo maestro Dalbiez, l’interesse per Sigmund Freud e per le implicazioni filosofiche della psicoanalisi del soggetto. Ciò che di Lacan e Freud interessa all’ermeneutica ricoeuriana è la centralità del simbolico nella sua portata positiva per l’autocomprensione del sé. In questo qua- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 45 45 dro, però, la lettura di Ricoeur si caratterizza per il fatto di isolare un nucleo della psicoanalisi puramente ed esclusivamente metodologico: si tratta insomma – e sarà così a fortiori per lo strutturalismo – di mettere a tema il discorso freudiano in se stesso, intendendolo come una pura soluzione interpretativa che si applica al mondo dei significati in generale. In altri termini, il problema di Ricoeur non è la tenuta complessiva della psicoanalisi in quanto modello clinico e terapeutico di gestione dell’umano, come una euristica concreta del simbolo che produca un modello universale di spiegazione; ancora una volta, a essere centrale è semmai la psicoanalisi in quanto ermeneutica, ossia il modo in cui la costruzione dei significati è effettivamente all’opera in essa.16 Perciò nell’Essai sur Freud il dato di partenza è rappresentato dallo scarto netto che divide il modello ermeneutico freudiano dalla teoria dell’interpretazione messa in luce da La symbolique. Ricoeur è esplicito in questo senso: la Traumdeutung induce un’ermeneutica nettamente opposta a quella restauratrice e creatrice, tipica del religioso. Al di là delle sue implicazioni cliniche, infatti, la psicoanalisi opera come una filosofia della cultura che riduce le costruzioni simboliche all’ambito dei suoi moventi estrinseci (l’inconscio e le sue funzioni, la Kultur, le relazioni familiari…); al contrario l’ermeneutica ricoeuriana del religioso, in quanto è un’interpretazione amplificante e restauratrice, si propone di essere «attenta al sovrappiù di senso, incluso nel simbolo, che la riflessione aveva il compito di liberare nello stesso tempo in cui essa doveva arricchirsene» (RICOEUR I 1995b, 35 [47]). Qui naturalmente non sono in gioco le diverse possibilità di applicazione dei due lessici del simbolo: nel suo ambito regionale di problemi, la psicoanalisi continua a essere fondata, o quanto meno la sua fondazione non è oggetto di discussione. Per la prima volta, come chiarisce Domenico Jervolino (cfr. per es. JERVOLINO 2002, v), a emergere con chiarezza è una determinazione generale concernente i significati: ciò che risulta in modo esplicito, almeno al livello dei simboli religiosi, è che il cosiddetto «campo ermeneutico», cioè il mondo dei simboli, funziona come un terreno stratificato, percorso da “livelli” di interpretabilità diversi, ossia da stratificazioni e tensioni pre-significanti, che possono essere sciolte e interpretate in direzioni opposte, per esempio nei due modi opposti della riduzione e della restaurazione. Martinengo.qxp 46 12-11-2012 14:27 Pagina 46 IL PENSIERO INCOMPIUTO Nel quadro di questa tensione, l’obiettivo dell’interpretazione freudiana del simbolo è l’identificazione di uno strato posto al di sotto del processo di simbolizzazione: il simbolo è l’obiettivazione delle funzioni energetiche dell’io desiderante. Pur essendo alternativa al registro dell’energetica, la Deutung funziona insomma come un insieme di regole volte a trascrivere in altra forma le forze prodotte dal lavoro dell’inconscio. Con tutte le sovradeterminazioni del caso, il significato coincide con questa stessa trascrizione: una trascrizione attraverso la quale l’istinto si rende manifesto designando se stesso; un movimento che va dall’inconscio al conscio, ma che rappresenta al tempo stesso la condizione di possibilità per “soprascrivere” un supplemento ermeneutico al livello più originario dell’energetica.17 Perciò il fatto che il modello di interpretazione/spiegazione della Deutung sia anche una procedura di smascheramento, capace di decentrare i significati dal soggetto in direzione dell’educazione, della società e della storia, diventa quasi il corollario di un problema più specifico. Ciò non toglie che siano fondamentali gli sviluppi “sociali” che in Freud diventano evidenti da Das Unbehagen in der Kultur (1929) in poi; ma il dato importante resta quello che costituisce il motore dell’ermeneutica demistificatrice freudiana, ossia il risalimento da un “sostituente” fittizio (il simbolo) a un “sostituito” più vero (l’istinto) che in qualche modo, rappresentandone il significato, lo precede. 4.2 L’ipotesi di una dialettizzazione del conflitto delle interpretazioni: la nozione di «ermeneutica concreta» e la conciliazione tra archeologia e teleologia Proprio a questo livello, sul piano della psicoanalisi intesa come ermeneutica “archeologica”, si colloca per Ricoeur il «conflitto delle interpretazioni». Il processo di riarticolazione che fa del simbolo il risultato di una costruzione complessa, radicata nei moventi istintuali del soggetto, costituisce il punto d’attacco al quale, per opposizione, si può ricondurre un modello apparentemente lontano: quello della fenomenologia dello spirito hegeliana. Che la fenomenologia di Hegel sia un modello di comprensione assiato sulla dimensione teleologica è un’ovvietà su cui non è necessario soffermarsi. Ma per Ricoeur non si tratta tanto di marcare le differenze tra l’archeologia e la teleologia, o di contestare l’una a partire dall’altra. Il vero obiettivo è ripensare i presupposti di questo Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 47 47 conflitto per definirne la coappartenenza. È ciò che Ricoeur connota come passaggio dall’antitesi alla dialettica, ossia l’idea che l’ermeneutica possa avvalersi in una «indivisibile unità» (RICOEUR I 1965, 334 [381]) di un’interpretazione regressiva e di una progressiva, e che in questo l’interpretazione diventi ermeneutica “concreta”. Il problema è capire che cosa si debba intendere per concretezza dell’interpretazione. Il punto di partenza dell’Essai sur Freud è una dichiarazione di impossibilità: l’impossibilità di pensare «una grande filosofia del linguaggio che renda conto delle molteplici funzioni del significare umano e delle loro reciproche relazioni» (RICOEUR I 1965, 13 [15]), cioè una sorta di metalogica del simbolo, in grado di dare un senso unitario alle diverse forme che le discipline del linguaggio hanno assunto dal linguistic turn in poi. Stante questa inadeguatezza, l’obiettivo minore (minore per il linguistic turn, non per la filosofia) è secondo Ricoeur l’identificazione di un arbitrato tra i diversi livelli del linguaggio, nella meta-operazione del significare. L’ermeneutica concreta emerge da questa ricerca di un’interpretazione che sia arbitra, ossia da un dispositivo che stabilisca un rapporto tra i modi diversi del significare, mostrandone a un tempo l’unità. La mediazione tracciata da Ricoeur può essere riassunta in tre tappe. Si tratta di un processo che passa anzitutto attraverso un ripensamento delle determinazioni fondamentali che fanno capo al versante “operativo” dell’ermeneutica: le nozioni di simbolo, di immaginazione, di rappresentazione e di esegesi sono rilette nell’ottica di un’archeologia del soggetto. In secondo luogo, a questo ripensamento è soprascritto il tema della soggettività, che diventa la scena privilegiata del conflitto tra l’interpretazione archeologica e l’interpretazione teleologica. In terzo luogo, attraverso la focalizzazione sul tema dell’archeologia del soggetto, la lettura freudiana è posta in relazione con un modello che si rivelerà implicitamente teleologico. A questi tre livelli, i termini generali che definiscono l’ermeneutica concreta si limitano sostanzialmente a marcarne gli ambiti di applicazione regionale (di fatto soltanto l’interpretazione della soggettività). Tuttavia, proprio attraverso la preventiva limitazione al tema del soggetto, emerge il modello mediano che Ricoeur ha in mente. Parafrasando Le conflit des interprétations, si potrebbe dire che l’interpretazione si fa concreta se accetta il principio secon- Martinengo.qxp 48 12-11-2012 14:27 Pagina 48 IL PENSIERO INCOMPIUTO do cui “demistificare di più” significa anche “restaurare meglio”. La Deutung freudiana, e con essa qualsiasi ermeneutica della soggettività, sono sì la ridescrizione di un contesto di validità irriducibile al dato naturale (momento demistificante dell’inconscio), ma si tratta di ridescrizioni che presuppongono già il passaggio dal simbolo alla funzione (restaurazione del soggetto come insieme di significati): l’apparenza “naturale” del sintomo è demistificata per risalire alla sua validità strutturale; a sua volta, questo risalimento non è che il modo per riconoscervi e istituirvi una significatività più complessa. Ma ciò vuol dire che, per essere sciolta, la particolare sovradeterminazione che caratterizza il simbolo e il sintomo richiede già da sé un’interpretazione articolata su più piani, e precisamente una dialettica tra demistificazione e amplificazione, tra il momento in senso lato freudiano e quello in senso lato hegeliano.18 Ciò a cui mira l’Essai sur Freud è dunque quella che, in modo quasi contraddittorio rispetto alle premesse, può definirsi una sorta di ermeneutica generale. E se in molti sensi questa generalizzazione deve restare una proiezione asintotica, perché appunto non si dà la possibilità di una grande filosofia del linguaggio, tuttavia la sovrapposizione tra i due momenti della comprensione ne dà in qualche modo l’immagine. Che poi questa determinazione generale dell’ermeneutica abbia a che fare con un dato di natura ricostruttiva è appena il caso di rilevarlo, in quanto ogni comprensione che si articoli a partire da una precedente demistificazione è forse l’esempio più lampante di ciò che abbiamo definito “ricostruzione”. Semmai la cosa più impegnativa è mostrare che il medesimo modello dialettico si possa applicare, in un modo ancor più diretto, all’altro confronto a cui Ricoeur sottopone l’ermeneutica dopo La symbolique du mal: il conflitto con la linguistica strutturale.19 Se infatti la relazione tra il modello fenomenologico-ermeneutico e la psicoanalisi fa capo al classico tema dell’altro nel medesimo, ossia all’idea che in entrambi i casi il soggetto sia abitato da un livello di senso irriducibile a dizione diretta, Le conflit des interprétations conserva questa dualità includendo nella dialettica una più schietta considerazione del linguaggio. Non a caso, il confronto con la linguistica strutturale avviene all’insegna di quella dialettica tra spiegazione e comprensione che, almeno da Wilhelm Dilthey in poi, rappresenta uno dei possibili modelli fondazionali del dominio tipico Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 49 49 della filosofia. Per Dilthey, come è noto, se la spiegazione è il metodo proprio delle scienze naturali, che si fondano sull’osservazione di fatti e li riconducono a catene causali definite, al contrario la comprensione è fondata sull’attitudine a raccogliere segni e a leggerli come espressioni di un processo che tendenzialmente fa capo a un soggetto. Proprio questo riferimento alla soggettività è ciò che marca la differenza tra l’ermeneutica classica e la linguistica di scuola strutturalista. A questo livello, il problema è stabilire se si debba intendere il linguaggio anzitutto come l’atto di un soggetto (la cui funzione – come Ricoeur potrà ripetere sulle orme di Roman Jakobson – è di «dire qualcosa a qualcuno relativamente a qualcosa»), oppure se si tratti di un sistema chiuso, che si definisce in opposizione a due livelli che gli restano esterni: l’uso concretamente agito da parte di un soggetto (la parole di Ferdinand de Saussure) e il riferimento a un mondo preesistente. Per Ricoeur, la dialettizzazione del conflitto avviene a questo punto, attraverso l’identificazione di livelli “strategici” diversi per ciascuno dei due tipi di approccio (cfr. RICOEUR I 1969, 64 [77]): l’analisi strutturale del linguaggio, che è un modello scientificoobiettivante di gestione dei significati, non si oppone alla comprensione di una soggettività produttrice di senso, anzi vi si articola come suo momento preliminare. Di quale tipo di preliminarità si tratti, si può comprendere soltanto a partire dalla ricollocazione, che Ricoeur argomenta sulla scia di Émile Benveniste, del fulcro del significato dall’insieme dei segni linguistici alla frase. La frase, e non i singoli termini appartenenti al sistema della lingua, rappresenta il luogo in cui il discorso produce senso: se dunque la linguistica identifica il funzionamento del significato, è soltanto l’ermeneutica a coglierne la produzione in atto. Tuttavia l’atto linguistico non si riduce, come sarebbe in un’ermeneutica strettamente diltheyana (o schleiermacheriana), a significare il soggetto, la sua interiorità o la sua vita psichica; esso è anzitutto espressione di un mondo che si dispiega davanti al testo. Proprio da questa ridisposizione degli equilibri tra termine e frase deriva un’implicazione fondamentale per il rapporto spiegazionecomprensione. Se infatti i significati non dipendono da una funzione meramente psicologica, come è invece nell’ermeneutica “soggettivista” di Friedrich Schleiermacher o Wilhelm Dilthey, il discor- Martinengo.qxp 50 12-11-2012 14:27 Pagina 50 IL PENSIERO INCOMPIUTO so deve poter significare for its own sake, senza derivare la funzione referenziale da un soggetto che la intenziona. Ciò implica che sia il discorso stesso a intenzionare un mondo di significati. Proprio a questo livello, secondo Ricoeur, diventa possibile, e anzi necessario, articolare assieme comprensione e spiegazione: poiché il linguaggio “fa tutto da sé”, esso non si apre immediatamente a una comprensione, che altrimenti avrebbe ancora il senso di un processo psichico di immedesimazione, ma richiede una considerazione preliminare che consideri il mondo dei segni come un tutto autonomo. Il che è garantito soltanto da un metodo assieme esplicativo e comprensivo, o meglio da un metodo che sia preliminarmente esplicativo e, soltanto in seguito, anche comprensivo. La posizione di Ricoeur è dunque chiara: poiché il significato è una risorsa esclusivamente linguistica, non dovuta a un’operazione soggettiva di sintesi, allora la comprensione della referenza deve passare attraverso un momento iniziale che coincida con l’appropriazione delle strutture meramente sintattiche e semiologiche del detto. Alla luce di questa risoluzione dialettica, ne Le conflit des interprétations l’opposizione tra spiegare e comprendere costituisce in effetti – come è stato correttamente rilevato – un sorta di metalivello rispetto alla serie degli altri conflitti metodologici che ne derivano: anzitutto in rapporto alla dialettica tra archeologia e teleologia, che l’Essai sur Freud rilevava e che qui viene rimarcata; ma al tempo stesso rispetto al conflitto potenziale tra la filosofia del cogito e l’ermeneutica, nonché tra questa e la fede religiosa. Tutt’altro che secondari, questi livelli rimandano invece a una posizione fondamentale: l’idea che il linguaggio simbolico sia una funzione complessa e articolata su più piani, in cui la dimensione tipicamente intralinguistico-strutturale e l’apertura significante della referenza procedono in parallelo. 5. La métaphore vive: il problema della referenza Il conflitto spiegazione-comprensione si svolge dunque all’insegna del vasto tema della soggettività. Almeno nelle intenzioni di Ricoeur, a questo tema si dovrebbe ricondurre tutta la discussione metodologica che da Le volontaire et l’involontaire in poi mette capo al Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 51 51 ripensamento della filosofia del cogito. In realtà, questo ripensamento diventa sempre più l’implicazione di un discorso più generale: quello relativo allo statuto teorico dell’ermeneutica. Il tema del simbolo e ancor più il confronto con i maestri del sospetto non dicono soltanto la verità sul cogito o sul soggetto, ma anche la verità sull’interpretazione. A segnare questo sviluppo è anzitutto la nozione di mediazione, che si riflette dal livello del cogito mediato/simbolizzato al metalivello dell’ermeneutica, intesa come dialettizzazione di interpretazioni rivali: il passaggio si registra soprattutto a partire dalla focalizzazione sul tema della referenza, al quale il discorso sul simbolo restava poco più che tangenziale. La questione linguistica del riferimento ad altro da sé ha in Ricoeur sostanzialmente due punti d’accesso. Come si è visto, il primo è rappresentato dalla domanda strutturalista sul rapporto tra il dato linguistico e la soggettività: e a tale questione Ricoeur dà una risposta strategica, ma anche relativamente circoscritta, avvalendosi di Jakobson e Benveniste. Il secondo punto d’accesso afferisce invece a un ambito diverso, che si riconnette al discorso sul linguaggio simbolico, partendo da un livello più generale: si tratta del vasto tema della polisemia e dell’innovazione semantica, che Ricoeur inizia a raccogliere sotto la categoria della «metafora viva». 5.1 La metafora come «errore categoriale calcolato» Al tema del linguaggio come processo di creazione di significati nuovi, Ricoeur aveva posto mano già ne Le conflit des interprétations, dove la questione dell’innovazione costituiva semplicemente una rilettura del modello classico langue-parole: di fatto si individuavano due livelli di approccio linguistico, l’uno analitico-strutturale e l’altro sintetico-semantico, per mostrarne non tanto l’alternativa, quanto la conciliabilità. Ciò avveniva soprattutto a partire dai due strati in cui si ripensava il linguaggio, strati che per eccellenza dovevano risultare funzionali alla mediazione: lo stadio della lingua, che è il livello inventariabile e tassonomico, e quello della frase, in cui invece la tassonomia si trova flessa verso i significati. Di questo processo di flessione e adattamento della lingua naturale, la metafora costituisce quasi un paradigma. Già la retorica classica sostiene il valore strategico e dinamizzante dell’operazione metaforica: così accade per esempio nella Poetica e nella Retorica di Martinengo.qxp 52 12-11-2012 14:27 Pagina 52 IL PENSIERO INCOMPIUTO Aristotele, dove la portata innovatrice che è all’opera nei processi di spostamento del significato è identificata come una delle matrici di ciò che nel linguaggio si può connotare come insolito. Tuttavia rispetto al modello classico (di fatto ancora presente in Jakobson), che considera la metafora come trasferimento di un senso usuale da una cosa abitualmente denominata a un’altra non denominata, Ricoeur opta per una rideterminazione applicata al livello della frase. È questo il primo snodo fondamentale degli studi ricoeuriani pubblicati nel 1975, sotto il titolo de La métaphore vive. La tesi centrale è che la metafora non sia semplicemente un affare di nomi, come se si trattasse di istituire una denominazione impropria, che si limita a uno scambio di vocaboli (“leone” al posto di “uomo coraggioso”). A essere metaforica è la predicazione stessa, lo spostamento di senso che coinvolge l’unità sintetica di un soggetto con un predicato. Fare buone metafore – questo il punto di partenza de La métaphore vive – non significa soltanto saper vedere «il simile col simile» (cfr. Poetica, 1459 a 4-8), attivando una funzione di ornamento linguistico o di pura illustrazione: ciò che si realizza nel metapherein è la sovrapposizione di un’iniziale «impertinenza semantica», di un accostamento improprio tra soggetto e predicato, che al tempo stesso riesce a farsi produttore di un significato nuovo. La ridefinizione della metafora nei termini di una sintesi significante tra soggetto e predicato passa attraverso la nozione di category mistake, che Ricoeur mutua da Gilbert Ryle (cfr. RICOEUR I 1975, 288-301 [301-315]). L’«errore categoriale calcolato» è una funzione a più livelli, che parte da un significato iniziale, eventualmente presupposto come proprio, e riflette su diverse predicazioni possibili un’attribuzione altrimenti nota: un certo tipo di predicazione, afferente a un ambito semantico specifico, è fatto slittare verso possibilità di sintesi con soggetti che di per sé le sarebbero estranei. In questo senso, la definizione di Ryle consente di pensare lo slittamento generato dalla metafora come una soluzione mediana, che intercorre tra la funzione positiva della polisemia e la pura e semplice equivocità: è metaforico lo spazio di innovazione linguistica che da una parte abbandona il significato abituale, in cui la predicazione corretta è data una volta per tutte, ma dall’altra si tiene al di qua dei confini dell’equivoco, oltre i quali le diverse combinazioni soggetto-predicato risulterebbero sovrapposte. Nella metafora Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 53 53 “buona”, a essere in questione è dunque l’avvicinamento calcolato a una soglia di mantenimento della predicazione, a un punto-limite oltre il quale lo slittamento comporta la perdita del significato. La metaforizzazione, che Ricoeur chiamerà infatti «creazione regolata», è un processo di spostamento della pertinenza che ha successo nella misura in cui istituisce sì una «torsione» (RICOEUR I 1975, 302 [289]) della predicazione ordinaria, ma una torsione che pur innovando resta ancora accettabile ai fini della comprensione. Se la definizione basata sulla predicazione è preferita a quella puramente denominativa, ciò accade perché la semplice sostituzione di un termine all’altro non potrebbe in alcun modo farsi carico di quell’effetto di forzatura dell’ovvio che invece è naturalmente connesso alla metafora. Del resto, che l’essenziale del processo di metaforizzazione avvenga sul piano della comprensione deve intendersi in senso molto radicale. Sotto i presupposti di Ricoeur, infatti, lo slittamento della pertinenza che determina la metafora è meno la causa del processo di predicazione impertinente che il suo effetto: se la predicazione contiene un conflitto in termini (“quell’uomo è un leone”), l’attivazione della metafora non si ha quando il conflitto è istituito, bensì a partire dall’effetto di comprensione che esso provoca, quando cioè la tensione lessicale è pilotata verso la risoluzione. In altri termini, il metapherein consiste nella “risposta significante” che si attiva di fronte a un’incongruenza altrimenti incomprensibile: anziché restare insensato, l’accostamento di un predicato atipico a un soggetto dato è trasformato in una nuova pertinenza, che si definirà figurata. Se le cose stanno così, è palese che il processo attivato dalla metaforizzazione sia una pura questione di comprensione e interpretazione, e non già una convenzione presupposta all’uso: una questione di parole e non di langue, per usare i termini di De Saussure. Sebbene Ricoeur non lo espliciti con questa chiarezza, qui avviene qualcosa di simile a ciò che per la psicologia della Gestalt accade nella visione delle figure ambigue: una certa tensione insita nella composizione (nel caso della metafora: una tensione nella composizione di soggetto e predicato) è sciolta attraverso l’apertura di una “valvola di sfogo” che rende nuovamente possibile un riconoscimento, una configurazione razionale; ciò che nel processo metaforico è l’istituzione di una pertinenza linguistica insolita corrisponde in larga misura ai diversi effetti di riar- Martinengo.qxp 54 12-11-2012 14:27 Pagina 54 IL PENSIERO INCOMPIUTO rangiamento del dato visivo che intervengono di fronte a contenuti percettivi altrimenti dissonanti, primo tra tutti – per mantenere l’analogia con l’idea della tensione – il riarrangiamento che introduce l’effetto della terza dimensione.20 5.2 Metafora e mondo: la nozione di «verità metaforica» In effetti, che nella metafora sia coinvolto un processo di riorganizzazione, non solo delle pertinenze linguistiche, ma anche della “visione” delle cose, è tutt’altro che singolare. Anzi, l’obiettivo di Ricoeur è proprio ridefinire la relazione che lega metafora e mondo, sebbene a partire da un contesto più generale. Se La métaphore vive muove dall’idea che il proprium del metaforico debba essere ampliato dalla parola all’enunciato, in realtà il suo obiettivo più generale è spingere quest’allargamento fino al discorso inteso nella sua forma integrale. Ma a quale integralità formale e semantica possa riferirsi il discorso metaforico si comprende a partire da una relazione che filosoficamente è tutt’altro che scontata, almeno per le conseguenze che vuole trarne Ricoeur. Si tratta infatti di scegliere come risolvere il rapporto tra i significati propri e i significati derivati, portandolo a un livello “ontologico”, ossia di configurazione del mondo. Per Ricoeur resta insomma da chiarire il problema della referenza, ovvero il tipo di relazione all’oggetto che il metaforico può ancora garantire. Da una parte è infatti evidente che lo spostamento dei significati dalla parola a unità semantiche maggiori tende a mimare, se non soluzioni francamente contestualiste, quanto meno una prospettiva più vicina a quella di Quine che ai referenzialisti rigidi.21 Dall’altra è altrettanto ovvio che se la metafora vive di una torsione della predicazione abituale, resta da decidere quanto questa tensione dica ancora del mondo, o meglio dello stesso mondo di cui dice il non metaforico. La teoria del significato che Ricoeur sottoscrive ne La métaphore vive è nuovamente di derivazione simbolica. Ciò che del simbolo è rilevante rispetto agli altri usi del linguaggio è il surplus di senso che lo caratterizza, ovvero l’idea – ovvia sotto ogni rispetto – che sia simbolico ciò che contiene sé e altro, un significato primario e un significato supplementare. Tuttavia nel simbolo questo supplemento non è solo un dato formale, che al limite potrebbe sommare una referenza secondaria alla referenza diretta. A cambiare è il modo Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 55 55 stesso in cui il linguaggio si dà il riferimento: è simbolo ciò che significa a partire dalla propria stessa sovradeterminazione, ossia qualcosa che, proprio in quanto raccoglie in sé più sensi, li proietta fuori di sé e li riflette sul mondo. Di contro alla nozione classicamente referenzialista di corrispondenza (che secondo Ricoeur, almeno entro certi limiti, continua a valere per la referenza diretta), al vasto perimetro del simbolico è connaturata una funzione di apertura verso il mondo, che mantiene la capacità referenziale, ma la attiva a partire dal supplemento tipico dell’allegorein. Questa funzione, che è contemporaneamente di identificazione e di sovradeterminazione, definisce anche la metafora. Perciò Ricoeur parla di una sorta di véhémence ontologique del linguaggio metaforico: sotto il profilo della sua portata ontologica, la metafora si definisce come quel particolare uso linguistico che è strutturalmente in grado di tenere assieme da una parte l’autocentratura del linguaggio su se stesso e dall’altra il suo persistente rinvio al mondo (cfr. RICOEUR I 1975, 310-321 [324-336], ma anche PIERROT 1988, 282-283). Da questo punto di vista, la véhémence ontologique è il modo stesso in cui una metafora si dà la referenza, passando attraverso il lavoro prettamente intralinguistico di sovrapposizione tra la predicazione abituale e la predicazione insolita. In modo analogo a quanto avviene nel simbolo, la metafora si caratterizza per il fatto che il rinvio al mondo non è assente, ma è mediato dall’attivazione di un canale di predicazione che sposta l’attribuzione dal consueto al nuovo. Come i due aspetti, intralinguistico e semantico, stiano assieme nella metafora è il problema fondamentale dell’analisi di Ricoeur. Ed è quanto ne La métaphore vive passa sotto la nozione di «verità metaforica». È palese – scrive Ricoeur – che «la possibilità che il discorso metaforico dica qualcosa sulla realtà, si scontra con la costituzione apparente del discorso poetico, che sembra essenzialmente non referenziale e centrata su se stessa»; ma a quest’illusione antireferenziale La métaphore vive oppone «l’idea che la sospensione della referenza letterale sia la condizione perché venga liberata una capacità referenziale di secondo grado, cioè la referenza poetica». Da questo punto di vista, la metafora non mette in gioco semplicemente un «doppio senso», ma una vera e propria «referenza sdoppiata» (RICOEUR I 1975, 11 [5]). E l’aspetto-chiave di questo sdoppiamen- Martinengo.qxp 56 12-11-2012 14:27 Pagina 56 IL PENSIERO INCOMPIUTO to sta nel fatto che, attraverso l’accostamento tra i due livelli della referenza, la sospensione dell’uno rappresenta la condizione di possibilità dell’altro: la metafora dice qualche cosa del mondo, proprio nella misura in cui non lo dice in modo diretto e descrittivo. Anche sotto questi presupposti, il processo di metaforizzazione resta tuttavia qualcosa di più complesso che non la semplice negazione del letterale. Si parlava poco sopra di una “soprascrizione” del non-metaforico: in effetti il dato più caratteristico del metapherein sta nel fatto che la sospensione del rapporto letterale con il reale è la premessa per il recupero di questo rapporto a un livello più profondo. In altri termini, se immaginiamo il senso e la referenza come due grandezze variabili, nella metafora intesa come predicazione insolita accade che l’accrescimento della variabile “senso” (il linguaggio poetico for its own sake) non sia contrario al mantenimento della variabile “significato”; anzi l’uno si rapporta all’altro secondo un legame di proporzionalità diretta. L’autocentratura del linguaggio corrisponde dunque allo scarto che il figurato impone sospendendo il descrittivo, ma tale scarto rappresenta l’inizio di un’altra forma di rinvio al mondo: la metafora come “ridescrizione del reale”. Che si tratti di una ridescrizione è vero anzitutto nel senso che il linguaggio metaforico, persa in prima battuta la presa sul mondo, finisce per riacquisirla potenziata: proprio l’interruzione della referenza e la chiusura del senso diventano il presupposto per l’identificazione di aspetti del reale altrimenti impermeabili alla parola. Più netta è la rottura col descrittivo, maggiori sono le risorse che si rendono disponibili per la ridescrizione. Naturalmente, una volta che si sia consumata la rottura con la referenza diretta, il problema epistemologicamente più spinoso è capire in che modo la metafora disponga ancora di risorse (ri)descrittive. Ma è una questione che trova soluzione nella misura in cui il legame metafora-mondo sia ricondotto a un altro tipo di relazione: per esempio alla relazione tra i fenomeni e i relativi modelli esplicativi, che vige all’interno delle teorie scientifiche. Ed è quanto La métaphore vive propone di fare sulla scia delle analisi di Max Black e Mary Hesse.22 In questo quadro, la nozione di modello esplicativo appartiene primariamente all’ambito della logica della scoperta, ossia a quel processo che, diverso e distinto dalla logica della prova, ha a che fare con la produzione di costrutti logici (i modelli, appunto), in grado di trasferi- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 57 57 re “su altra scala” le caratteristiche strutturali di un certo dominio. Dal punto di vista epistemologico, nel processo di modellizzazione è rilevante soprattutto l’idea che la logica della scoperta si muova come un metodo di “costruzione”, che consente di tradurre in dati interpretabili connessioni e significati altrimenti inattivi. L’analogia tra la metafora e la logica della scoperta funziona proprio sotto questa premessa: tanto nel metapherein, quanto nel processo di modellizzazione scientifica, si ha a che fare con un insieme di regole in grado di istituire un particolare ordinamento del reale. Per Ricoeur, la metafora opera dunque come un principio di ordinamento del reale. Ciò tuttavia non fa che spostare indietro di un passo l’onere della prova, perché resta ancora da capire in che modo tale funzione possa davvero essere messa in carico al linguaggio. La métaphore vive parla in questi termini di una «teoria della denotazione generalizzata», ossia di una lettura che recupera alla referenza il lavoro linguistico della metafora, portando al centro della denotazione la funzione che il metapherein e la modellizzazione mostrano in atto. È del tutto evidente quanto ciò abbia a che fare, da una parte con la filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer, e dall’altra con il pragmatismo di Charles S. Peirce. Ma ciò che conta qui – almeno in base a quello che si può inferire da Ricoeur – è la scelta teorica di porre a tale livello lo specifico della metafora: il processo metaforico coincide con un vero e proprio effetto di “finzione”, intendendo in senso lato per finzione (fictio) qualsiasi dispositivo di costruzione dei significati. Parafrasando le estetiche ermeneutiche, si potrebbe dire che per Ricoeur la metafora è a tutti gli effetti una finzione vera (una finzione che dice il vero), anzitutto in quanto è una vera finzione, ossia è davvero quel fingĕre, quel mythos che Aristotele intendeva come la composizione di casi diversi (cfr. Poetica 1450 a 5-1450 a 15). Lo spostamento della comprensione dal letterale al figurato è un’operazione linguistica e – fuor di paradosso – un’operazione referenziale, nella misura in cui opera una sintesi possibile dell’esperienza, una sintesi attraverso la quale è l’esperienza stessa a ottenere una configurazione intelligibile. Se le cose stanno in questi termini – ed è l’ultimo passo che si può ancora fare seguendo Ricoeur – si rovescia completamente l’assioma che intende la metafora-finzione come una chiusura del linguaggio su di sé e l’apertura di una prospettiva fantastica, del Martinengo.qxp 58 12-11-2012 14:27 Pagina 58 IL PENSIERO INCOMPIUTO tutto eterogenea al reale. Non solo il metapherein non è un uso linguistico che sospende le regole della referenza, ma anzi è ciò che mette al lavoro queste regole, semplicemente arricchendole con un principio di polisemia. La posta in gioco della metafora è la disposizione naturalmente compositiva che caratterizza il linguaggio e che viene in luce attraverso il meccanismo del “dirsi in molti modi”. Parlare in metafore, per Ricoeur, significa anzitutto dire qualcosa. E parlare fingendo metafore equivale alla produzione di modelli: ci si muove verso il reale, scegliendo un modo per metterlo in ordine. Da questo punto di vista, la metafora induce una sorta di isomorfismo del reale, che anziché ribadire il topos del linguaggiorispecchiamento, esalta le sue variazioni immaginative. Ma l’esaltazione del linguaggio for its own sake è al tempo stesso un’ampliamento delle risorse del dicibile: per mezzo della metafora si attiva un vero e proprio incremento di dicibilità, un aumento delle possibilità referenziali che si ripercuote sul reale movimentandolo. Di fatto, La métaphore vive finisce per dire questo: le cose sono tanto stratificate quanto il linguaggio metaforico dà a vedere; e di questa stratificazione la metafora funziona come un indice catalogativo. In che modo questa particolare (e irriducibile) plurivocità del linguaggio non comporti la cancellazione della sua significatività, ma ne amplifichi la portata, resta ancora tutto da decidere. A tale problema, più che ad altri, risponderà dopo La métaphore vive la teoria ricoeuriana del racconto. Note 1 Quando in Ricoeur si parla della centralità della filosofia riflessiva si deve avere presente l’idea, comune a Nabert, della riflessione pensata come «un processo di mediazione, dove però la mediazione non è intesa come dimostrazione, ma come duplicazione dell’immediato, cioè come riappropriazione dell’immediato attraverso un ritorno su di esso, cioè attraverso una ri-flessione» (TUROLDO 2000, 114). È questo il livello al quale la filosofia riflessiva si riconnette alla fenomenologia. 2 Sul rapporto tra il “filosofico” e il “religioso” è paradigmatico quanto Ricoeur dirà ne La symbolique du mal: «Il problema è difficile, perché si tratta di procedere fra due scogli: da un lato non è possibile limitarsi a giustapporre la riflessione e la confessione; non è possibile infatti interrompere il discorso filosofico, alla maniera di Platone, con racconti fantastici e dire: qui finisce il discorso, là comincia il mito. […] Ma non è neppure possibile raggiungere una trascrizione filosofica Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 59 59 diretta del simbolismo religioso del male, a costo di ricadere in un’interpretazione allegorizzante dei simboli e dei miti» (RICOEUR I 1960b, 323-324 [623-624]). Tra questi due estremi il medio è dato, almeno negli anni Sessanta, da ciò che Ricoeur chiamerà “interpretazione creatrice di senso”, ossia un metodo che al tempo stesso è critico nei confronti dell’assunzione letterale del simbolo, ma amplificatore di una verità d’altro genere concernente l’umano. 3 Sul rapporto tra la filosofia riflessiva e la fenomenologia è ora fondamentale l’analisi di Oreste Aime contenuta in Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur (2007), di cui questo lavoro è debitore. Aime traccia, seppur sinteticamente, un bilancio del rapporto tra Ricoeur e Marcel: cfr. in partic. AIME 2007, 37-46, oltre che RICOEUR I 1995b, 16 [26]. 4 Si può leggere Réflexion faite come il luogo in cui questo presupposto viene in chiaro, anche a scapito della lettura più classica che solitamente si dà di Ricoeur, come filosofo della soggettività. Non si può dire che nel pensiero ricoeuriano il problema del cogito e dell’esistenza non sia un filo conduttore primario, una costante appunto; ma sempre più il soggetto fa problema in quanto è portatore di un senso, di una possibilità di trasmissione dei contenuti. In Réflexion faite Ricoeur scrive: «La sola posta della mia polemica con lo strutturalismo, dunque, non era soltanto il destino del soggetto. La dimensione intersoggettiva dell’interlocuzione e l’ambizione referenziale del linguaggio non meritavano una minore attenzione» (RICOEUR I 1995b, 41 [54]). Da questo punto di vista, il ricorso alla fenomenologia prima e all’ermeneutica poi è meno l’applicazione regionale di metodologie generali, già integralmente sviluppate, che non la revisione di queste stesse metodologie. 5 Il ricorso alla nozione di “ricostruzione” per indicare uno degli esiti possibili dell’ermeneutica contemporanea va nella stessa direzione indicata da Gianni Vattimo (cfr. in partic. Ricostruzione della razionalità, 1991), il cui contributo è fondamentale in queste pagine. Per la delineazione di una sorta di koinè ricostruttiva all’interno dell’ermeneutica contemporanea, sono decisivi anche i contributi recenti di Jean-Marc Ferry (cfr. per es. Les puissances de l’expérience, 1991 e L’éthique reconstructive, 1996). 6 Sul rapporto tra Ricoeur e la lignée che va da Husserl a Merleau-Ponty, cfr. l’analisi contenuta in AIME 2007, 46-57. Sulla rilettura ricoeuriana dell’eidetica di Husserl, cfr. invece in partic. TUROLDO 2000, 83-87. 7 Il discorso sul movimento e sul corpo, in connessione con la nozione di sentimento di potere, rappresenta al tempo stesso una risposta e una differenza rispetto alle analisi di Merleau-Ponty. L’ipotesi di Ricoeur è che la Phénoménologie de la perception si sia limitata agli atti rappresentativi tralasciando gli atti volitivi, in cui il ruolo dell’immaginazione non è essenziale: una limitazione sulla quale lo stesso Merleau-Ponty sarebbe tornato. Sul ruolo dell’immaginazione e del desiderio nell’atto volitivo, cfr. in gen. RICOEUR I 1950, 89-100 [95-106]. 8 Tutto il capitolo sulla Descrizione pura del «decidere» è portato avanti lungo il filo conduttore della metaforica della volontà (cfr. per es. RICOEUR I 1950, 78 [83]), ma lo stesso registro vale a maggior ragione per il discorso sull’involontario (cfr. RICOEUR I 1950, 388 ss. [407 ss]). Per una considerazione generale sul rapporto tra volontà, decisione e corporeità, è bene richiamare le riflessioni condotte da Aime Martinengo.qxp 60 12-11-2012 14:27 Pagina 60 IL PENSIERO INCOMPIUTO nel quadro della fenomenologia ricoeuriana dell’azione (cfr. in partic. AIME 2007, 149-169) e nel quadro dell’antropologia filosofica (cfr. AIME 2007, 493-516). 9 Ciò che qui chiamiamo mediazione “ricostruttiva” è quanto Ricoeur intende come superamento dell’astrazione (cfr. RICOEUR I 1950, 37 [42]). La presenza del corpo è il primo elemento di questo superamento: il corpo, assieme a tutti gli elementi dell’involontario che gli sono connessi, è il dato di ovvietà che in prima istanza è sospeso, per essere poi riacquistato tramite un processo di ricostruzione. 10 Il cambio di registro dalla fenomenologia all’ermeneutica, che qui intendiamo soprattutto come “passaggio alla ricostruzione”, è una delle questioni più frequentate dalla critica ricoeuriana. Non è possibile ripercorrere in poche righe tutti i riferimenti interessanti: ne richiamiamo tre su tutti. Un’analisi concisa ma tematica della questione si trova per esempio in un saggio recente di Oreste Aime (L’opera filosofica di Paul Ricoeur. Un profilo bibliografico, 2003), nel quale la questione è affrontata sotto il titolo di «filosofia riflessiva di stile fenomenologico-ermeneutico». La compresenza dei due “stili” si rileva in particolare nella coesistenza di due istanze teoriche: da una parte la conservazione della relazione intenzionale e dall’altra la presa d’atto della sua opacità, in rapporto al materiale simbolico. Aime scrive che «lo stile ermeneutico integra e corregge parzialmente quello fenomenologico. Se si tratta di simboli, tra noesi e noema la correlazione è sì diretta ma non immediatamente trasparente. La struttura del noema in questo caso non solo è complessa e aggrovigliata, ma fondamentalmente opaca e si presta a letture diverse e conflittuali sia sul versante noematico che noetico». Al contrario, «l’ermeneutica significa la consapevolezza della perdita dell’immediatezza, la rinuncia ad una soluzione dialettica di tipo hegeliano, la scommessa per un ritorno ad un’immediatezza o seconda ingenuità attraverso il faticoso processo di decifrazione e nel superamento di ogni lettura riduttrice» (AIME 2003, 54). Sulle stesse questioni, cfr. ora più diffusamente AIME 2007, 57-81, dove l’analisi si sofferma in dettaglio sulle relazioni tra l’ermeneutica e le altre “filosofie del senso”. Una lettura analoga si trova, di passaggio, in un saggio di Fabrizio Turoldo (Libertà, giustizia e bene nel pensiero di Paul Ricoeur, 2003), che assieme alla sua monografia (Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, 2000) costituisce un altro risultato significativo della letteratura ricoeuriana recente, almeno in Italia. Turoldo legge il progetto generale della Philosophie de la volonté a partire dalla distinzione tra il livello trascendentale e il livello storico del problema. In questo quadro, il momento centrale è rappresentato, come si vedrà tra poco, dal tema del male: «Tra la possibilità della colpa ed il verificarsi storico della stessa esiste, secondo Ricoeur, un salto. È infatti possibile spiegare a priori, attraverso il metodo eidetico husserliano, la condizione di possibilità della colpa, ma non è possibile rendere ragione del concreto accadere storico del male. Che il male accada è un fatto e un tale fatto può essere solo interpretato di volta in volta, nel suo singolare accadere» (TUROLDO 2003, 461). Proprio la coerenza tra questi due livelli costituisce un problema non secondario, nel quale ne va della possibilità di una lettura unitaria del pensiero di Ricoeur. In questo senso è convincente la lettura proposta da Domenico Jervolino, che definisce l’analisi fenomenologica della volontà come una fase «pre-ermeneutica»: in essa, l’azione viene implicitamente riconosciuta come tema d’interpretazione, almeno nella misura in cui l’approccio analitico «parte comunque da enunciati che dicono l’azione, con Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 61 61 un’esplicita attenzione ai modi verbali di questo dire» (JERVOLINO 1994, xv; ma cfr. più in gen. JERVOLINO 1984, 19-24). La messa in chiaro del rapporto tra la fenomenologia e l’ermeneutica si registra soltanto a partire da Du texte à l’action (1986), dove l’ambito di realizzazione della volontà è tematizzato come una struttura essenzialmente testuale. 11 Che i due livelli del significato e della fallibilità siano palesemente lo stesso livello, in relazione al problema della mediazione, è evidente non appena Ricoeur proceda al di là dell’analitica esistenziale de L’homme faillible. Il punto di connessione tra i due piani (che corrispondono rispettivamente alla sintesi trascendentale e alla sintesi pratica) è rappresentato dalla nozione di “poter fallire”, che per Ricoeur «consiste nella fragilità della mediazione che l’uomo opera nell’oggetto, nella sua idea dell’umanità e nel suo proprio cuore» (RICOEUR I 1960a, 157 [237]). 12 Le regole di decifrazione esplicitate da Ricoeur rimandano in generale al metodo della demitologizzazione, che com’è noto Ricoeur definisce per differenza a partire dalla demitizzazione. La demitologizzazione è una forma di sospensione ermeneutica della letteralità, a vantaggio di un’amplificazione dei contenuti escatologici: ciò che della parola vale e resta non è né il qui-e-ora letterale (l’idolo manifesto), né la ricostruzione eziologica (la mitologia delle origini), ma l’appartenenza a un altro ordine, che pone appunto il dato kerigmatico in posizione ermeneutica, ossia nella posizione di essere l’interpretante di un “di là da venire”. Sulla distinzione tra i due livelli, cfr. RICOEUR 1960b, 156-162 [422-430] e più oltre RICOEUR I 1965, 326-328 [626-629]. 13 Una discussione dettagliata delle «cifre della colpa» che compongono la sistematica ricoeuriana si può trovare in BREZZI 2006, 37-51. 14 Sul rapporto tra simbolo e filosofia e sull’idea di una «“ripetizione” filosofica della confessione», cfr. RICOEUR I 1960b, 25-26 [264-265] e soprattutto la conclusione de La symbolique du mal, RICOEUR I 1960b, 323-332 [623-634]. 15 Sulla nozione di «herméneutique restauratrice» e sulle sue possibili interpretazioni, cfr. in partic. RICOEUR 1960b, 325-326 [626-627], che chiariscono sufficientemente l’equivoco. Rispetto alla filosofia dell’interpretazione ricoeuriana intesa come ermeneutica “restauratrice”, resta fondamentale l’analisi di Francesca Brezzi, contenuta in Filosofia e interpretazione. Saggio sull’ermeneutica restauratrice di Paul Ricoeur (1969). 16 Sul rapporto tra la psicoanalisi e l’ermeneutica, nei testi ricoeuriani degli anni Sessanta, cfr. la sintesi che ne dà JERVOLINO 1984, 24-30. 17 Sul tema della trascrizione e sulla definitiva non-adeguatezza delle metafore della traduzione, cfr. per es. RICOEUR I 1965, 137-153 [152-165]. Il rapporto tra energetica ed ermeneutica è uno dei punti fondamentali della lettura ricoeuriana di Freud. Lo scopo dell’Analitica ricoeuriana del freudismo (la sezione successiva dell’Essai – la Dialettica – sarà dedicata al confronto Hegel-Freud) è proprio «raggiungere il punto in cui si comprende che l’energetica passa attraverso una ermeneutica, e l’ermeneutica scopre una energetica. Questo punto è quello in cui la posizione del desiderio si annuncia entro e mediante un processo di simbolizzazione» (RICOEUR I 1965, 75 [85]; ma cfr. anche BREZZI 1969, 155-180). 18 L’ermeneutica riduttrice e l’ermeneutica amplificante sono la matrice di quel- Martinengo.qxp 62 12-11-2012 14:27 Pagina 62 IL PENSIERO INCOMPIUTO l’abbandono-e-ritorno alla soggettività che, almeno in questa fase, è l’obiettivo dichiarato di Ricoeur. In prima istanza, questa sistemazione corrisponde alla sovrapposizione tra ermeneutica ed energetica. Ma alle spalle della dialettica tra le due ermeneutiche vi è un altro tema, al quale si è già fatto cenno e che dovrà diventare primario in Ricoeur: l’insuperabilità del sistema simbolico. In quanto è concrezione di significati concernenti il dato del male, il simbolo non può mai ridursi totalmente a dizione diretta o a comprensione totale. 19 Ciò che qui – con termine consapevolmente sovradeterminato (e nonostante le riserve espresse dell’Essai sur Freud) – proponiamo di chiamare “ermeneutica generale” è qualcosa di simile a quello che Fabrizio Turoldo connota come metalivello “arbitrale” dell’ermeneutica. Turoldo mostra che la filosofia dell’interpretazione di Ricoeur non può collocarsi metodologicamente allo stesso livello delle ermeneutiche in opposizione, pena una sorta di regressio ad infinitum del conflitto (cfr. TUROLDO 2000, 99-102). In molti sensi è vero che la soluzione dialettica di Ricoeur è una specie di meta-ermeneutica, un’ermeneutica-arbitro o meglio un’interpretazione di interpretazioni in conflitto. Tuttavia lo stesso dato di fatto può essere colto, in modo ancora più diretto, attraverso il termine “ricostruzione”, che ha almeno il vantaggio di essere applicabile a un campo più vasto, rispetto a quello identificato da Le conflit des interprétations. Sul rapporto tra le ermeneutiche regionali e l’ermeneutica generale, l’altro riferimento importante resta tuttora l’analisi di Domenico Jervolino (cfr. in partic. JERVOLINO 1984, 78 e ss.). 20 Probabilmente è questo il senso di ciò che Ricoeur argomenta confutando la teoria classica della metafora come sostituzione. Del resto, alla riorganizzazione semantica prodotta dalla metafora si attribuisce, per esempio in autori come Max Black (su cui cfr. RICOEUR I 1975, 109-116 [113-120]), la stessa nozione di insight che sta alla base della Gestalttheorie. È vero che l’accostamento alle teorie della Gestalt deve essere inteso come puramente analogico, perché per Ricoeur resta fondamentale distinguere metafora e immagine. Tuttavia è un fatto che il momento iconico della metafora resti uno dei riscontri possibili al problema dell’innovazione semantica: perciò l’analogia visiva non è del tutto inadeguata a rendere la portata istitutiva del linguaggio metaforico. Su quest’aspetto, cfr. anche ciò che La métaphore vive dirà più oltre su Paul Henle: RICOEUR I 1975, 242 [251-252]. 21 Almeno a questo livello, la prospettiva ontologica di Ricoeur non è lontana dal contestualismo moderato di Ivor Armstrong Richards, di cui infatti La métaphore vive discute la posizione (cfr. in partic. RICOEUR I 1975, 100-109 [103-113]). Di Richards è condivisibile l’idea che la parola funzioni come «rappresentante» di una combinazione di «aspetti», i quali a loro volta rimandano a contesti più ampi. Da questo punto di vista, la metafora si distingue dal linguaggio diretto semplicemente perché tiene insieme non uno, ma due «aspetti» eterogenei, ossia i rimandi a due diversi contesti di mondo. Proprio qui, la metafora smette di funzionare semplicemente come trasferimento di parole e diventa una relazione reciproca tra i due contesti che lo slittamento del significato ha attivato. Ciò che a Ricoeur interessa di questo teorema del “senso contestuale” è soprattutto la possibilità di parlare di una «presa metaforica» della realtà stessa, che in Richards deriva dalla distinzione funzionale di due livelli: il «tenore», o «idea soggiacente», e il «veicolo», ovve- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 63 63 ro l’idea sotto il cui segno è appreso il tenore. Dalla lettura del significato in termini di tenore e veicolo deriva una lateralizzazione della nozione di significato proprio, tanto che Ricoeur può scrivere: la stessa «distinzione letterale-metaforico non è irricuperabile, ma non dipende più da una caratteristica propria delle parole; dipende piuttosto dalla maniera in cui funziona l’interazione, sulla base del teorema del senso contestuale» (RICOEUR I 1975, 107 [110]). La presa linguistica del reale non si risolve dunque nel risalimento a un residuo reale, posto al di là delle parole. L’ancoraggio al reale è di altra natura: in un processo che per certi versi è simile a quello delle variazioni fenomenologiche, la “realtà” detta nel linguaggio deriva da una serie di soprascrizioni via via diverse dell’equilibrio tra tenore e veicolo, dove però, secondo Ricoeur, il grado zero della metafora – ossia quello in cui questi due elementi risulterebbero provvisoriamente indistinguibili – è poco più che un presupposto e non un fatto del linguaggio. 22 I riferimenti sono rispettivamente a Models and Metaphors di Black (1962) e a Models and Analogies in Science di Hesse (1953). Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 64 Capitolo secondo Tempo e costruzione del senso Il problema della referenza in Temps et récit Il graduale passaggio, in testi come Le conflit des interprétations e La métaphore vive, a tematiche di natura linguistica ed epistemologica segna un momento di revisione importante all’interno del pensiero di Ricoeur. Il confronto con le discipline del linguaggio, se da una parte lateralizza i problemi connessi con i temi del cogito e della soggettività, dall’altra trova nelle discussioni attorno all’innovazione semantica un nuovo e fondamentale centro di gravità. Il catalizzatore teorico di questo processo di ripensamento è senz’altro l’idea che l’ermeneutica, oltre che rappresentare un metodo conseguente ma alternativo alla fenomenologia, possa avanzare la pretesa di costituirsi come teoria filosofica generale. Della legittimità di tale pretesa si può iniziare a discutere a partire dalla forma che, dopo La métaphore vive, prende il tema della referenza. 1. Le aporie del significato: il problema del tempo Come si è visto, la centralità della nozione di “ridescrizione” nel processo di costruzione della metafora corrisponde anzitutto a un decentramento del problema linguistico, che si sposta dal livello tradizionale della parola a quello della frase. Questa dislocazione non è però soltanto una scelta teorica, contro le interpretazioni tradizionali del dispositivo metaforico e a favore di una sua lettura organica e predicazionale: più in generale, è in gioco un’opzione riguardante il linguaggio e il modo in cui esso significa. Il confron- Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 65 to con la metafora rappresenta insomma la messa in discussione dei diversi livelli ai quali il linguaggio (metaforico o no) produce effetti di senso. Proprio da questa differenziazione di livelli, Ricoeur farà discendere la chiarificazione dei termini nei quali è ancora pertinente parlare di referenza, al di là del perimetro della descrizione. 1.1 L’interpretazione si dice in molti modi: semiotica, semantica ed ermeneutica 1.1.1 La «costituzione polare della referenza» Nell’ambito di questa revisione, La métaphore vive lavora parallelamente su tre aspetti del problema: il livello semiotico, quello semantico e quello ermeneutico. L’assunto fondamentale di Ricoeur è infatti che il rapporto tra il linguaggio e il mondo dei significati si ponga in modo sensibilmente diverso in funzione dello stadio al quale si decide di situare l’unità fondamentale del discorso. Da tale assunzione, di natura puramente strutturale, deriva il relativo primato di cui la predicazione gode rispetto alle altre unità linguistiche: è connesso alla forma stessa della sintesi predicativa il fatto di non significare soltanto identità e differenze immanenti al sistema linguistico, ma di aprire un dominio extralinguistico, un mondo. Tra il livello della predicazione e il mondo delle cose vige insomma una sorta di relazione biunivoca: da una parte, la sintesi di soggetto e predicato si qualifica in quanto è aperta a un terzo, che non è incluso nei due elementi singolarmente presi; dall’altra, questo riferimento del linguaggio a una realtà extralinguistica si può pensare soltanto a partire dalle unità semantiche superiori alla pura denominazione. In realtà, per Ricoeur la scelta di diversificare la questione del significato in base all’unità linguistica di partenza implica che si opti per una filosofia del linguaggio basata sulla distinzione fondamentale tra semiotica e semantica. Proprio a partire da quest’opposizione, sulla scorta di Benveniste e in contrappunto alle logiche di orientamento fregeano, La métaphore vive rilegge il rapporto tra il senso e la referenza: l’ipotesi di Ricoeur è che lo scarto tra ciò che una proposizione dice e ciò di cui è detto valga «in linea di principio per qualsiasi discorso» (RICOEUR I 1975, 274 [286]); questa distinzione non è però un dato assoluto, preposto all’uso, bensì va pensata in relazione al contesto “enunciativo” nel quale si sviluppa. La coppia fregeana Sinn-Bedeutung contiene sì i due poli all’interno dei quali si gioca il problema del significato; ma è una polarità che Martinengo.qxp 66 12-11-2012 14:27 Pagina 66 IL PENSIERO INCOMPIUTO si mette in moto in base al particolare uso al quale le parole sono sottoposte nell’ambito delle diverse prestazioni semantiche. Non si può dire che tra questi due tipi di prestazione (denominativa ed enunciativa) viga un’alternativa assoluta: tra essi si instaura piuttosto un regime di scambio, che è all’origine della stessa capacità denotativa del linguaggio. Ma naturalmente ciò accade in due modi diversi, a seconda del punto di partenza (semiotico o semantico) dal quale si considera il problema. Qui si chiarisce l’insufficienza del modello di Frege e l’apertura alla prospettiva avanzata da Benveniste, secondo una scelta che Ricoeur argomenta in questi termini: «Per Frege, la denotazione si comunica dal nome proprio alla proposizione che diventa, quanto alla denotazione, il nome proprio di uno stato di cose. Per Benveniste, la denotazione si comunica dall’intera frase alla parola, mediante ripartizione all’interno del sintagma. La parola, attraverso il suo uso, riveste un valore semantico, che è il suo senso particolare in questo uso» (RICOEUR I 1975, 275 [287-288]). In questo spostamento del punto focale, per Benveniste come per Ricoeur, il significato è apertura al mondo. Sulla base di ciò, con una soluzione che finisce per riecheggiare anche Ludwig Wittgenstein, Ricoeur parla di una «costituzione polare della referenza stessa» (RICOEUR I 1975, 276 [288]). Proprio al modello della referenza polarizzata, ossia all’idea che il rapporto linguaggio-mondo si distribuisca contemporaneamente su più livelli, fa riferimento un elemento strutturale assolutamente significativo nel pensiero ricoeuriano: tra i dispositivi del linguaggio (il nome, il predicato, la frase…) vige una relazione di inclusione, che tiene insieme dall’alto verso il basso tutti i livelli ai quali si riferisce l’analisi linguistica. In altri termini, i diversi strati in cui si produce il significato sono ricompresi ciascuno nel successivo, in un processo di allargamento che procede dall’unità minima della denominazione alle forme di discorso maggiori, e che Ricoeur stesso ripercorre, almeno da La symbolique du mal in poi. Quest’inclusione vale anzitutto per il rapporto tra la semiotica e la semantica. Il significato, inteso come gioco di differenze interne a un codice, è un’astrazione rispetto al modo più organico – quello semantico – in cui il linguaggio si dà una referenza: la pertinenza semiotica tra termini e codice (sia esso fonologico o lessicale) resta valida, ma soltanto come un aspetto subordinato all’operazione sin- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 67 67 tetica della predicazione. Lo stesso tipo di rapporto vige in modo analogo anche altrove. È ancora una relazione di inclusione quella che tiene insieme la teoria del simbolo formalizzata in Finitude et culpabilité e il discorso successivo sulla metafora: alla luce de La métaphore vive, il simbolo diventa infatti un caso particolare dello slittamento di significati che si realizza ogni qualvolta si dia una predicazione insolita. È simbolico quel trasferimento dal proprio all’allegorico che, per così dire, “non invecchia” ossia non subisce il processo di usura ed esaurimento che limita la durata della metafora viva: mentre il naturale processo di stabilizzazione che coinvolge la predicazione insolita implica il venir meno della sua portata innovatrice, producendo una metafora “morta”, il simbolo rappresenta invece un caso, più culturale che linguistico, in cui una pertinenza istituita non si opacizza e anzi si consolida in un più vasto reticolo di significati. Il processo di costruzione del significato trova insomma nella metafora, e in generale nella predicazione, un livello adeguato a rappresentarne l’unità di base. Soltanto dal livello dell’enunciato in poi ha senso porre il problema della referenza, anche nella forma particolare rappresentata dal riferimento simbolico. È tuttavia chiaro che la costituzione polare della referenza e la stratificazione a essa legata non si arrestano al livello della frase. Lo stesso postulato della referenza, scrive infatti Ricoeur, «esige una elaborazione distinta quando riguarda le entità particolari di discorso che chiamiamo “testi”, quindi delle composizioni di maggior estensione rispetto alla frase». Ed è questo il punto nel quale «il problema tocca l’ermeneutica più che la semantica, per la quale la frase è, ad un tempo, la prima e l’ultima entità» (RICOEUR I 1975, 276 [289]). La tesi di Ricoeur è molto netta: al livello della frase si può registrare già tutto ciò che è strutturalmente rilevante rispetto al tema della referenza; tuttavia il riferimento linguaggio-mondo si pone in modi molto più complessi, anche se non differenti dal punto di vista formale, nell’ambito delle unità di discorso superiori. Il che accade in via preliminare per almeno due motivi. In primo luogo, perché esiste una categoria di testi che al postulato della referenza sembra fare eccezione: si tratta dei testi cosiddetti “letterari”, per i quali la categoria del riferimento al mondo sembra prima facie impertinente. In secondo luogo, perché la referenza metaforica nasce come correlato dell’unità elementare della frase e dunque Martinengo.qxp 68 12-11-2012 14:27 Pagina 68 IL PENSIERO INCOMPIUTO non può riflettersi immediatamente su entità che non si riducono alla somma di enunciati nucleari. Dopo La métaphore vive, l’esigenza di passare dalla semantica all’ermeneutica si pone proprio a partire da questi due temi: quello della referenza letteraria e quello concernente le forme discorsive superiori alla frase. 1.1.2 Il passaggio dalla metafora al racconto Il risultato più importante che La métaphore vive guadagna alla causa del significato è senz’altro la possibilità di operare quest’estensione. Il caso della metafora diventa infatti la fattispecie a partire dalla quale la stessa teoria classica della referenza può essere ripensata, per ricomprendervi effetti di senso non strettamente riconducibili al dato descrittivo: da questo punto di vista, la nozione di ridescrizione e l’analogia con il metodo della modellizzazione scientifica formalizzano una soluzione che è molto interessante dal punto di vista epistemologico, perché ha l’innegabile vantaggio di riflettersi ex post sulla stessa forma “normale” della referenza, quella scientificodescrittiva. Ricoeur spiega infatti che l’obiettivo del discorso sulla metafora è «togliere questa limitazione della denotazione agli enunciati scientifici. Ecco perché comporta una discussione distinta e particolare per l’opera letteraria, e una seconda formulazione del postulato della referenza, più complessa della prima [quella descrittiva, Nota mia], la quale si limitava a ripetere il postulato generale secondo il quale ogni senso richiede una referenza o denotazione» (RICOEUR I 1975, 278 [291]). Ciò che attraverso quest’estensione viene in chiaro è un dato di assoluta rilevanza per qualsiasi teoria generale del linguaggio: la metafora mette in movimento il principio stesso attraverso il quale il linguaggio funziona, qualcosa che – per anticipare ciò che sarà evidente molto presto – coincide con la sua natura processuale e mediata. Il modello dell’innovazione semantica mostra insomma ciò che concerne in generale ciascuna traduzione linguistica del mondo, ossia il fatto che ogni riferimento a stati di cose è sempre il risultato di una mediazione tra la descrizione e la costruzione. Questo modo particolare di ripensare la referenza è l’effetto più significativo della “gemellarità” che Ricoeur attribuisce ai tre volumi di Temps et récit (1983-85) nei confronti de La métaphore vive. Temps et récit estende infatti al tema della narrazione tutto l’insieme di que- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 69 69 stioni che si era posto rispetto alla metafora, proprio a partire dal problema della referenza. Per il discorso narrativo vale dunque un’ampia serie di analogie nei confronti del metaforico, analogie che possono essere raccolte sotto la categoria della “portata veritativa” del linguaggio. Per dirla con una formula non ricoeuriana, ma sufficientemente significativa, ciò che sulla scorta de La métaphore vive viene in chiaro rispetto al racconto e alle unità di discorso maggiori è il tema delle loro “prestazioni ontologiche”. Il quadro complessivo in cui si inserisce la riflessione sul racconto è questo. Al tempo stesso, è bene evitare di assolutizzare il rapporto tra i due livelli, come se si trattasse semplicemente di trasferire sulla scala della funzione narrativa i dispositivi tipici del linguaggio metaforico. Per quanto ciò sia stato raramente sottolineato, l’innesto del tema del racconto su quello della metafora implica anche qualcos’altro: e il supplemento che è in gioco pertiene alla messa in discussione del luogo, teorico ed epistemologico, in cui si colloca l’ermeneutica. In forma schematica, il problema può essere riassunto in questi termini: prima di Temps et récit, l’ermeneutica di Ricoeur raggiunge una chiarezza “metodologica” definitiva, ossia una delimitazione univoca dei suoi strumenti di lavoro, ma manca ancora di una definizione del proprio ambito “oggettuale”, dei campi ai quali si può legittimamente applicare. Da una parte, infatti, il movimento di deregionalizzazione dell’interpretazione, che si è visto all’opera dall’Essai sur Freud in poi, ha coinciso con un processo di graduale definizione della filosofia in quanto ermeneutica anziché, per esempio, in quanto fenomenologia o in quanto analisi strutturale. Dall’altra, però, al termine di questo percorso ciò che viene in chiaro è soltanto l’idea che l’ermeneutica sia una prassi dell’interpretazione tra le altre, al pari della psicoanalisi, della linguistica o della stessa fenomenologia, dalle quali si distingue soltanto per una maggiore generalità. La stessa categoria di ermeneutica ricostruttiva, che abbiamo scelto per mettere in luce questo movimento di deregionalizzazione, ha buon gioco a lasciare indeterminata la natura dell’oggetto al quale l’interpretazione si applica: dopo Le conflit des interprétations e La métaphore vive, l’ermeneutica di Ricoeur è soltanto una filosofia del senso “veicolato” dall’universo dei segni; l’opzione teorica, che pure ha individuato il vettore della referenza in un certo modo di Martinengo.qxp 70 12-11-2012 14:27 Pagina 70 IL PENSIERO INCOMPIUTO “usare” il linguaggio, rimane una posizione di principio che tende a disperdersi in una molteplicità di ambiti, apparentemente eterogenei (dal volontario all’involontario, dalla coscienza al cogito, dal peccato al simbolico…). Temps et récit può essere letto come un momento di revisione fondamentale, proprio rispetto a questa relativa indeterminazione: il passaggio dalla metafora al racconto consente al problema ermeneutico di raggiungere una parziale ma importante unificazione, che va al di là dell’unità puramente metodologica raggiunta da Le conflit des interprétations. Di fronte al dato di fatto secondo cui “l’interpretazione può dirsi in molti modi”, ora Ricoeur prova a determinarne l’unità concettuale.1 1.2 L’aporia del tempo: modello fenomenologico e modello cosmologico Il passo decisivo in quest’importante evoluzione è compiuto fin dalle premesse teoriche di Temps et récit. In questo caso, la tesi forte di Ricoeur è quella che fa del tempo la referenza fondamentale dei linguaggi narrativi: il tempo è la “verità” del racconto; ciò che si dà come contenuto di verità della narrazione è il dispositivo temporale della vicenda raccontata. Quanto da questa tesi derivi dal punto di vista generale si vedrà gradualmente. Ma naturalmente l’aspetto saliente concerne proprio il tema del significato: nel discorso narrativo, la produzione dei significati è soprattutto un affare di “testi” e di “tempi”, di strutture testuali che significano contenuti connotati temporalmente. E proprio all’interno di questo quadro si inserirà un possibile terreno comune per le diverse forme di interpretazione. La centralità del tema del significato e il riposizionamento teorico dell’ermeneutica, da pratica interpretativa regionale a teoria generale dei significati, sono dunque i due elementi portanti che il modello ricoeuriano inizia a chiarire a partire da Temps et récit. In realtà, il punto di attacco di Ricoeur si trova molto più a monte, rispetto a ciò che era rimasto in sospeso ne La métaphore vive. Il rapporto tra tempo e dispositivi linguistici parte infatti da una considerazione più complessiva sul modo in cui la filosofia parla abitualmente del tempo. Il discorso filosofico sul tempo è determinato, sia strutturalmente che storicamente, da un’ovvia circolarità, ossia dalla circostanza per cui esso tende a esprimersi anzitutto nella forma tipica dell’aporia: il punto di partenza e di arrivo di tutte le filosofie della temporalità è l’impossibilità di uscire da questa strutturale irrappresentabilità. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 71 71 In tale direzione, la parola più significativa è senza dubbio quella delle Confessiones di Agostino, che provano ad affrontare direttamente la circolarità dell’aporia. Il problema di Agostino è infatti la questione dell’essere del tempo: il sapere-e-non-sapere che Agostino dichiara rispetto alla temporalità («Cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so» Confessiones XI, XIV 17) è il risultato della concreta impossibilità di dire che il tempo sia qualche cosa. Ma, come è noto, la discussione non si limita a considerazioni di natura ontologica. Il corollario di quest’indecidibilità coincide con l’espressione più evidente dell’aporia, ossia con il paradosso della sua misurabilità: da un lato, è infatti la debole struttura ontologica del tempo («Cos’è dunque il tempo?») a determinare il problema della sua misurazione, perché si può misurare solo ciò che è (cfr. RICOEUR I 1983, 22 [22]); ma dall’altro, soltanto tenendo assieme i due paradossi, ontologico ed epistemologico, si può iniziare a individuare una via di uscita. La nozione di “triplice presente” entra in gioco esattamente qui, come una sorta di “terzo polo” dell’aporia. Il senso della risposta contenuta in Confessiones XI è infatti questo: il tempo non è (o non è soltanto) nell’attimo presente dell’attenzione, ma è anche nel passato della memoria e nel futuro dell’attesa; e proprio in quanto si prolunga nella memoria e nell’attesa, il fenomeno diventa misurabile. In questi termini, la risposta di Agostino mette in luce il versante «fenomenologico» dell’aporia: decentrando il tempo dalla coincidenza assoluta con l’attuale, Confessiones XI costruisce senza particolari problemi una soluzione fondata sul riferimento essenziale all’anima. Come ciò avvenga è noto: il tempo e gli intervalli che si vogliono misurare richiedono termini fissi di comparazione; la tesi di Agostino è che solo l’anima sia in grado di garantire tale stabilità. Così facendo, la nozione di triplice presente mette in carico all’anima una porzione significativa del problema, attribuendole di fatto una prelazione sugli altri indicatori di tempo, per esempio sugli orologi “fisici”: il passato e il futuro sono (e sono conteggiabili), nella misura in cui vi sia un operatore privilegiato che li assume attraverso la memoria e l’attesa. Il fatto che, dal punto di vista argomentativo, il passaggio dal mondo all’anima avvenga quasi “a costo zero” (perché va da sé che il tempo sia anzitutto memoria e attesa) non significa tuttavia una Martinengo.qxp 72 12-11-2012 14:27 Pagina 72 IL PENSIERO INCOMPIUTO dissoluzione dell’aporia. L’intera questione si sposta infatti sulla capacità, da parte di questo nuovo indicatore, di prolungarsi attraverso le sue rappresentazioni, ossia di dare luogo alla distentio animi propriamente detta: il tempo nasce qui, o meglio nasce da quella particolare relazione che si stabilisce tra la distentio e il livello, analogo e opposto, dell’intentio. Il modello che consente ad Agostino di rispondere all’aporia non si basa infatti sul tempo inteso esclusivamente come passaggio (distensivo) dal passato al futuro; l’idea è piuttosto che si debba pensare il fenomeno come una rappresentazione, assieme intesa e distesa, che l’anima trattiene e disloca sui tre livelli della memoria, dell’attesa e dell’attenzione (cfr. RICOEUR I 1983, 27-28 [28] e 40-41 [42]). Sono dunque coessenziali all’idea agostiniana di distentio animi tanto la passività dello spirito che riceve traccia delle cose nel tempo, quanto il suo attivo tendere verso il mondo, ossia la connessione con l’intentio; e la soluzione di Confessiones XI è data proprio dalla paradossale composizione tra le due disposizioni dell’anima, che soltanto in questa unità costruiscono il flusso temporale. Ma per Ricoeur, se le cose stanno in questi termini, la (proto)fenomenologia di Agostino nasce al tempo stesso come una soluzione e come la posizione di un nuovo problema. L’elemento più impegnativo dell’aporia, cioè la sua indecidibilità, finisce infatti per riprodursi interamente al livello dell’anima: se l’anima è l’operatore privilegiato nella costituzione del tempo, ciò avviene al costo di spostare gran parte della posta in gioco iniziale verso una seconda aporia, che concerne l’oscillazione tra intentio e distentio; e in fin dei conti tale aporia è un altro modo per dire il più generale dei paradossi riguardanti la soggettività, quello dell’autoaffezione (RICOEUR I 1983, 36-41 [37-42]). La domanda insolubile sull’essere del tempo diventa così la domanda sull’essere e sulla struttura dell’anima: il che risolve l’iniziale sapere-e-non-sapere del tempo soltanto al costo di trasferirlo altrove. Secondo Ricoeur, il modello di Agostino è in grado di spingersi fino a questo punto. Ma la scelta di collocare nell’anima il miglior strumento di misura del flusso temporale è a sua volta il risultato di una sola delle opzioni riguardanti il tempo. Ve ne è almeno un’altra, altrettanto praticabile: quella che sposta l’unità di misura dall’anima al mondo. È il modello «cosmologico» che fa capo alla Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 73 73 Physica di Aristotele e che si fonda sul presupposto secondo cui il tempo sia prima di tutto «qualcosa del movimento». In questa prospettiva, più che una determinazione dovuta ai modi in cui l’anima si volge al mondo, la temporalità è un fatto legato al divenire stesso del mondo, quale si manifesta nel moto degli astri o nel divenire delle cose. La soluzione aristotelica è dunque l’opposto simmetrico di quello che sarà il modello agostiniano, in quanto il tempo del mondo e il tempo dell’anima sono due “grandezze” fenomeniche diverse, dotate ciascuna di una unità di misura specifica. L’opposizione tra i “due tempi” non si esaurisce però in una pura alternativa: il vero problema per Ricoeur è mostrare che tra le due soluzioni vige un rapporto di presupposizione reciproca, che impedisce di leggere un termine prescindendo completamente dall’altro. Come ciò sia possibile, è riassumibile in modo piuttosto agevole: da una parte, è improprio parlare del tempo come «numero del movimento», senza presupporre una funzione numeratrice simile a quella dell’anima; dall’altra, è altrettanto difficile riferire il tempo esclusivamente al soggetto, senza tenere conto che i fenomeni attraverso cui la soggettività si costruisce dipendono dall’intenzionalità verso il mondo. Tra la cosmologia e la fenomenologia è di fatto impossibile scegliere, e lo è non in quanto tali modelli siano entrambi falsi o entrambi veri, ma perché l’implicazione che li lega e li oppone è difficilmente controllabile sotto il profilo speculativo.2 Da questo punto di vista, la soluzione di Agostino (ma lo stesso potrebbe dirsi mutatis mutandis per Aristotele) non tende tanto all’esclusione del riferimento al mondo, in virtù di una sorta di “fenomenologia integrale”, dove per integralità si dovrebbe intendere il “solipsismo” dell’anima su se stessa. Emerge piuttosto il fatto che ciascuna delle due risposte è costruita a contrappunto dell’altra, in un modo che le rende sostanzialmente indiscernibili. È quanto Ricoeur chiarisce fin dall’inizio di Temps et récit: «La “soluzione psicologica” attribuita ad Agostino con tutta probabilità non è né una “psicologia” che si possa isolare dalla retorica dell’argomento, né una “soluzione” che si possa sottrarre al regime aporetico» (RICOEUR I 1983, 21 [21]). Nel caso di Agostino, insomma, l’argomentazione a favore della fenomenologia è costruita secondo una logica che impedisce di sciogliere il rapporto sussistente tra Martinengo.qxp 74 12-11-2012 14:27 Pagina 74 IL PENSIERO INCOMPIUTO l’aporia e l’apparato retorico che pretende di superarla. Si tratta di un apparato sostanzialmente bipartito, sospeso tra retorica della domanda («Che cos’è dunque il tempo?») e retorica dell’invocazione («Vedo dunque che il tempo è una sorta di estensione. Ma lo vedo davvero? O mi sembra di vedere? Tu me lo mostrerai, luce, verità», Confessiones XI, XXII 31). E proprio quest’articolazione è ciò che caratterizza meglio la soluzione agostiniana, secondo un crescendo che perviene a una sorta di reductio ad absurdum: senza l’implicito ricorso ad altro – al cosmologico, naturalmente – la fenomenologia non sarebbe affatto una teoria sul tempo. Il che non rappresenta tanto una debolezza interna dell’argomento di Agostino, quanto il riflesso di un problema più generale, riguardante il fenomeno stesso della temporalità. Del resto, il medesimo problema ritorna a più riprese nella storia delle “filosofie moderne della temporalità”, che Temps et récit ripercorre nelle sue tappe essenziali: Kant e Husserl. Come in Aristotele e Agostino, anche in questo caso il dato comune resta l’impossibilità di sostenere una definizione integrale del tempo, se non attraverso un apparato argomentativo che complica ulteriormente l’aporetica. Rispetto a Husserl, Ricoeur pensa in particolare al delicato equilibrio tra immanenza e trascendenza, che è insito nella costituzione fenomenologica e che a un tempo esclude e implica il riferimento al tempo obiettivo. Per Ricoeur, è infatti chiaro che «la costituzione effettiva del tempo fenomenologico non può prodursi che al livello di una iletica della coscienza»; ma è altrettanto palese che «un discorso sull’iletica può essere tenuto solo grazie ai prestiti dell’iletica rispetto alle determinazioni del tempo costituito». E questo «trasferimento di senso dal costituente al costituito» è l’unico modo in cui la fenomenologia husserliana riesce a «ricavare da un tempo fenomenologico, che non può essere se non quello di una coscienza individuale, il tempo obiettivo che, per ipotesi, è quello della realtà tutt’intera» (RICOEUR I 1985, 353 [373]). Se dunque il tempo è sempre costituito dal soggetto, nella fenomenologia l’autocostituzione temporale della coscienza è più il titolo di un problema (e di un problema che si regge sul riferimento al mondo), che la sua soluzione effettiva. Seppur in termini rovesciati, la stessa cosa vale anche per Kant, dove il ricorso al tempo come condizione trascendentale degli oggetti sposta il Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 PARTE PRIMA Pagina 75 75 dominio dall’ambito dell’apparire come tale, ma mette in carico alla rappresentazione del tempo (per esempio, nella sua forma lineare) un’ambiguità irriducibile. In Kant, scrive Ricoeur, «non si vede in che senso [il tempo] può essere detto “risiedere” nel Gemüt, dal momento che non si può articolare alcuna fenomenologia di questo Gemüt, salvo ridar vita alla psicologia razionale che i suoi paralogismi hanno condannato senza appello» (RICOEUR I 1985, 353 [373]). Resta insomma irrisolto il rapporto fondamentale tra l’attività e la passività del soggetto, che in parte la Confutazione dell’idealismo prova a chiarire, ma che resta infine legato al dualismo strutturale che caratterizza il criticismo: quello tra il livello della realtà empirica e l’idealità trascendentale. Se le cose stanno così, il dato fondamentale che anche Kant e Husserl mettono in luce è un vero e proprio «occultamento reciproco» tra l’approccio fenomenologico e il modello cosmologico. Un occultamento che va molto al di là di Aristotele e Agostino, perché riguarda l’insufficienza delle due prospettive e il loro continuo riferimento a presupposti estrinseci: lo scambio tra l’interno e l’esterno in Kant, la sovrapposizione tra l’orizzonte autocostituentesi del soggetto e il dato fenomenico costituito in Husserl. 2. Tempo e linguaggio La mossa teorica fondamentale di Ricoeur entra in gioco a questo livello: se ammettiamo che in ogni discorso sul tempo l’apparato argomentativo e quello retorico siano letteralmente inseparabili (cfr. RICOEUR I 1983, 30-34 [30-35]), allora è imprescindibile partire da una considerazione delle forme linguistiche in cui tale discorso si produce. Che l’aporia della temporalità sia in qualche modo “sensibile” rispetto alle determinazioni linguistiche è vero già a un livello molto generale in Agostino: lo stadio riguardante l’essere e il non essere del tempo. È infatti in primis il linguaggio a dire che la tesi scettica dell’insussistenza del tempo è impropria. Temps et récit argomenta: «Noi parliamo del tempo come appartenente all’essere: diciamo che le cose da venire saranno, che le cose passate sono state e che le cose presenti passano. E passare non è nulla». Perciò si deve rilevare il fatto che «proprio il linguaggio esprime la resi- Martinengo.qxp 76 12-11-2012 14:27 Pagina 76 IL PENSIERO INCOMPIUTO stenza nei confronti della tesi del non essere. Parliamo del tempo e ne parliamo in un modo sensato, cosa questa che sottintende una qualche asserzione circa l’essere del tempo» (RICOEUR I 1983, 22 [22]). Ma se le cose stanno così, si chiede Ricoeur, «in nome di che cosa riconoscere il buon diritto del passato e del futuro a essere in qualche modo? Ancora una volta, in nome di ciò che diciamo e facciamo in rapporto a passato e futuro. E che cosa diciamo e facciamo? Raccontiamo delle cose che riteniamo vere e prediciamo degli eventi che accadono poi proprio come li abbiamo anticipati». Il che si può esprimere anche in modo più tassativo, fuori dai termini espliciti che usa Ricoeur: la connessione tempo-anima appare determinata imprescindibilmente dalla ricerca, da parte del primo termine, di un supporto linguistico, di una mediazione che non è né temporale, né strettamente spirituale, ma che in ogni caso è l’unica a poterle dare forma. Per essere (misurato), il tempo richiede insomma una funzione linguistica, capace di trattenere il passato e prefigurare il futuro: soltanto nel raccontare e nel predire, soltanto nelle diverse forme del riempimento linguistico, si costruiscono l’essere e la misura del tempo. 2.1 Mimesis I-III: teoria della referenza Al riconoscimento del linguaggio come elemento fondamentale del problema del tempo, Ricoeur arriva attraverso un iter teorico complesso, che supera l’alternativa secca anima-mondo spostando definitivamente altrove il centro dell’aporia. E lo spostamento che è in gioco qui è una questione tutta “logica”, in cui le determinazioni di natura metafisica diventano secondarie. Il vero problema dell’aporia non è più la risposta da dare all’alternativa fenomenologiacosmologia, scegliendo il “luogo” del tempo più confacente: se così fosse, una delle due soluzioni classiche dovrebbe necessariamente funzionare. Al contrario, il nucleo della discussione sta tout court nei modi linguistici in cui i due capi del dilemma pensano il tempo. Gran parte della posta in gioco di Temps et récit si sintetizza così, ossia nell’ipotesi di affrontare l’aporia intervenendo sulla sua “forma” linguistica o logico-argomentativa. Per articolare la propria soluzione, Temps et récit prende le mosse dallo studio di una particolare morfologia del tempo, quella tipizzata dalla “forma” narrativa. È quanto Ricoeur fa attraverso un per- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 77 77 corso che parte dalla Poetica di Aristotele e arriva agli esiti dell’“antiromanzo” contemporaneo. Il dato centrale alla base di questa ricostruzione è l’idea che le diverse espressioni del narrativo siano accomunate da una sorta di «identità transtorica» (cfr. RICOEUR I 1984, 35 [39]), che Ricoeur identifica in termini aristotelici con la categoria di mythos. Prima di qualsiasi altra distinzione, infatti, l’operazione linguistica che il racconto pone in atto funziona come un dispositivo di “costruzione dell’intrigo”, come la mise en intrigue di un insieme disparato di fatti: l’atto narrativo rappresenta il principio d’ordine che raccoglie e organizza un dato settore dell’esperienza, trasponendolo nel linguaggio. A questo modello di costruzione è sottoposta l’altra funzione compositiva importante che definisce l’identità transtorica del racconto, ovvero la mimesis, l’imitazione/rappresentazione di un’azione: il mythos è l’unità logica che imita un mondo, ricorrendo alla produzione di modelli linguistici adeguati.3 Attraverso la mise en intrigue si attiva insomma un dispositivo complesso, che funziona al tempo stesso come l’organizzazione di un mondo e come la sua effettiva ritrascrizione. La relazione tra il racconto e il tempo si gioca interamente qui. L’apertura della referenza al mondo implica infatti, prima di qualsiasi altra cosa, il riferimento a un’azione caratterizzata temporalmente: in quanto viene “imitata” linguisticamente, l’azione si sottopone a un ordine altrimenti impensabile; ma ciò accade soltanto a partire da quella sorta di sottofondo, inattivo eppur costante, che è rappresentato dai suoi nessi temporali. Perciò attraverso il racconto, è il tempo stesso dell’azione a essere messo in intrigo, riportandosi a una forma in larga parte stabile e intelligibile.4 La risposta narrativa all’aporia speculativa è tutta racchiusa in queste tesi, ossia nell’idea che il modello del racconto sia in grado di attivare una funzione dirimente, che interviene componendo temporalmente la discordanza dell’esperienza prenarrativa. A questo livello la funzione aristotelica del mythos è caricata di un ruolo assolutamente centrale rispetto al problema della referenza, che è bene mettere in luce fin dall’inizio. Anzitutto emerge l’idea che il mythos operi nei confronti dell’esperienza assumendola come una realtà che in qualche modo “richiede” di essere raccontata, ossia come una struttura dotata di dispositivi che già di per sé attendono di essere dipanati attraverso il linguaggio: esiste una sorta di sche- Martinengo.qxp 78 12-11-2012 14:27 Pagina 78 IL PENSIERO INCOMPIUTO matismo temporale dell’azione, che è ciò che consente di passare dall’esperienza bruta alla sua narrazione. A quest’implicazione se ne aggiunge una seconda, che spiega in che senso la referenza si costruisca, attraverso il racconto, come un dispositivo processuale. Il racconto rappresenta il mondo ma, nella misura in cui l’imitazione va di pari passo con un processo di strutturazione, si serve di un’operazione complessa e distribuita su piani differenti: un’operazione che non ha più nulla a che fare con un’applicazione puramente “copiativa”, che si limita a travasare senza mediazione il reale nell’immaginario. Sulla base di questi presupposti, la teoria ricoeuriana della referenza si sviluppa secondo un modello strutturato per fasi, e in particolare secondo quella tipica tripartizione che passa sotto il nome di teoria della mimesis. Il riferimento del racconto al mondo – a un mondo che, secondo la prospettiva di Temps et récit, indiscutibilmente lo precede – è il primo stadio di questo rapporto mimetico (mimesis I). A questo livello, secondo Ricoeur, il reale prenarrativo si dà al linguaggio anzitutto attraverso i propri dispositivi temporali: l’esperienza immediata possiede infatti, già da sé, una particolare riconoscibilità rispetto ai suoi nodi strutturali (causa/effetto, agente/vittima…); e questi nessi organici, in quanto sono portatori tanto di significati simbolici quanto di valori temporali, si dispongono primariamente a essere detti o raccontati. Qui è in gioco ciò che Ricoeur definirà come «precomprensione dell’azione attraverso il tempo», ossia quella particolare disposizione a leggere l’ambito della praxis partendo dalla sua struttura formale e considerandola come un induttore narrativo elementare. Il racconto costituisce infatti la possibilità di decodificare un insieme di significati che resta latente al livello dell’esperienza immediata: in questo senso, trasformare un’azione in linguaggio è sempre una competenza “più che linguistica”, quasi una primitiva ermeneutica del mondo, che si rende capace di «identificare l’azione in generale attraverso i suoi aspetti strutturali», riconoscendovi appunto «le mediazioni simboliche dell’azione». Si tratta di una vera e propria “comprensione pratica”, che dà corso al carattere di cui si è detto: la capacità e – con le parole suggestive che usa Ricoeur – il «bisogno» da parte dell’azione di «essere raccontata» (RICOEUR I 1983, 87-88 [94]). È su questo «elementare induttore narrativo» (RICOEUR I 1983, 96 [103]) che si potrà snoda- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 79 79 re la comprensione narrativa propriamente detta, ossia la trasformazione che passa dal “paradigma” dell’azione, già preordinato temporalmente, al “sintagma” della narrazione. Alla base di mimesis I vi è insomma la capacità, da parte del mondo, di presentarsi già sempre come una sorta di riserva temporale “virtuale”: il racconto opera su questo deposito, semplicemente facendolo lavorare e attualizzandolo. Il che equivale ad affermare l’opposto di quanto ci si potrebbe aspettare a una prima considerazione delle prestazioni narrative: il passaggio dal prenarrativo al narrativo funziona come l’attualizzazione di un insieme di significati potenziali, di cui sempre – dal punto di vista temporale – è depositario il reale. E ciò dipende dal fatto che la vera apertura possibilizzante non sta nell’istituzione di un racconto che trasfigura e deattualizza il reale; al contrario, il racconto è ciò che risponde al possibile prenarrativo chiudendolo, cioè fornendogli una e una sola declinazione tra quelle virtualmente disponibili. È un passaggio all’attualità che implica al tempo stesso una capacità di “integrazione” della vicenda: «termini che avevano solo un significato virtuale nell’ordine paradigmatico, cioè una pura e semplice capacità di utilizzo, ricevono un significato effettivo grazie alla connessione sequenziale che l’intrigo conferisce agli agenti, al loro agire e al loro patire», in una connessione attraverso la quale «termini così eterogenei come quelli di agenti, motivi, circostanze, vengono resi compatibili e funzionano congiuntamente entro totalità temporali effettive» (RICOEUR I 1983, 90-91 [97]). Il passaggio dal virtuale all’attuale è ciò che Temps et récit definisce come mimesis II, lo stadio compositivo che ha primariamente in carico la mediazione dell’esperienza temporale. A questo livello, Ricoeur chiarisce in dettaglio che cosa significhi tradurre in linguaggio l’esperienza del tempo. L’operazione della messa in intrigo agisce sul prenarrativo assumendolo come un insieme “pre-testuale”, che il racconto si incarica di rendere leggibile come un insieme di dati singolari:5 il «dinamismo integratore» del mythos assume una funzione di «sintesi dell’eterogeneo», ossia un dispositivo che istituisce una continuità possibile tra fattori altrimenti disparati. Ciò non implica tuttavia che a questo livello sia in gioco soltanto la costruzione di un “prima” e un “poi” tra loro coerenti, in una connessione adeguata tra passato, presente e futuro. La sintesi narrati- Martinengo.qxp 80 12-11-2012 14:27 Pagina 80 IL PENSIERO INCOMPIUTO va è semmai, prima di ogni altra cosa, l’articolazione e la messa in relazione di una temporalità stratificata. Il racconto è infatti in grado di mettere in moto l’oscillazione tra due opposte determinazioni temporali: da una parte la varietà delle azioni singolarmente prese, ossia l’insieme dei singoli eventi, indipendenti e tendenzialmente discontinui tra loro, e dall’altra la storia intesa come un tutto, come un principio di continuità e connessione che integra le rotture. Entrano così in relazione quelli che possono essere definiti come due diversi livelli di temporalizzazione, due “densità” del tempo: il racconto riconduce a figura organica il doppio codice su cui si produce il tempo, l’intreccio agostiniano di intentio e distentio. In questo, il mythos fornisce già una risposta possibile all’aporia: il risultato è l’istituzione di una pluralità di connessioni possibili che, opportunamente stratificate, si raccolgono attorno al racconto come al proprio principio di unificazione. Che nella prospettiva della messa in intrigo il problema del tempo stia soprattutto in una particolare relazione tra la continuità passatopresente-futuro e l’evenemenzialità dipende dal fatto che la sintesi data dalla storia non implica la semplice «enumerazione» dei fatti narrati. Questo semmai accade molto più tardi nel processo di costruzione narrativa. L’essenziale del racconto è invece la commisurazione tra gli “stili temporali” delle azioni incluse nella vicenda: soltanto dal confronto e dall’interazione reciproca tra questi stili (e dunque tra collocazioni, orientamenti e densità differenti), si fa quella che Ricoeur definisce come una «totalità intelligibile»: l’intrigo ricava infatti «una storia sensata da-una diversità di eventi o di accadimenti (le pragmata di Aristotele)» e li trasforma «in-una storia». Pertanto «le due relazioni reciproche espresse mediante il da e l’in caratterizzano l’intrigo come mediazione tra eventi e storia raccontata. Per conseguenza, un evento deve essere più che un accadimento singolare. Riceve la sua definizione dal contributo che fornisce allo sviluppo dell’intrigo» (RICOEUR I 1983, 102 [109-110]). L’apporto positivo dato dal mythos risiede allora nella capacità da parte della storia di “farsi seguire”, anche (e soprattutto) attraverso i salti di registro e le rotture che caratterizzano l’insieme delle azioni. La funzione istitutiva del racconto rispetto al tempo non è tuttavia limitata al cosiddetto mondo del testo. Lo stadio finale della messa in intrigo (mimesis III) è la proiezione di quest’ordine forma- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 81 81 le al di fuori del codice narrativo: è ciò che Temps et récit definisce come «rifigurazione» dell’esperienza a partire dal principio connettivo del racconto. Qui è in gioco il momento che l’ermeneutica gadameriana farebbe coincidere con l’applicatio e che in termini generali concerne l’ambito degli “effetti” del testo, ossia di ciò che sta “a valle” del racconto (cfr. RICOEUR I 1983, 109 [117], ma anche SOETJE 1993, 94): l’idea è che la stratificazione della referenza non riguardi soltanto la fase della messa in intrigo della vicenda, o meglio che la riguardi in quanto questa a sua volta si compie non nel testo ma nel lettore/ascoltatore. È quanto Ricoeur mette in luce, tra l’altro, in Réflexion faite, quando rileva l’“ispessimento” della referenza che si registra in Temps et récit, rispetto alle premesse de La métaphore vive: ciò che segna la differenza tra l’ipotesi della metafora come predicazione impropria, che pure è a sua volta referenziale, e una teoria della referenza propriamente detta è il fatto che quest’ultima include nella costruzione del significato anche la destinazione del testo, in particolare gli effetti di senso che la testualità implica nella sua esecuzione (cfr. RICOEUR I 1995b, 35-36 [47-48]). Detto in altri termini, non ricoeuriani ma sufficientemente adeguati, l’idea è che una teoria del riferimento possa dirsi “completa” solo quando include anche il livello post-linguistico della fruizione, nel quale effettivamente il testo incontra il mondo: al di là dell’aspetto trascrittivo, per il quale l’esperienza si iscrive dentro l’orbita del linguaggio, la referenza richiede necessariamente un ulteriore soddisfacimento, un riempimento che si ha soltanto se la messa in linguaggio torna finalmente sul mondo. A questo livello, la rifigurazione è l’intersezione tra due mondi: il mondo configurato nel testo si sovrappone a quello dell’esperienza, il quale ne ricava così un incremento di leggibilità, un’intensificazione delle strutture significanti. Proprio in quest’aumento di senso risiede il valore aggiunto del racconto: ciò che a un livello bruto e immediato è assolutamente non significante (per esempio perché dal punto di vista temporale è incongruo), nella proiezione di questo “mondo del testo” assume un significato che altrimenti resterebbe del tutto inattuale. La capacità di una storia a farsi seguire è l’attualizzazione non solo di un senso, ma di un’organizzazione efficace e funzionale del tempo del mondo. E in questo gioco di rimandi reciproci tra il primo e il terzo livello della mimesis, il significato della Martinengo.qxp 82 12-11-2012 14:27 Pagina 82 IL PENSIERO INCOMPIUTO messa in intrigo è quello di un principio d’ordine che costituisce sì la referenza, ma attraverso un principio di strutturazione più complesso, la cui posta in gioco è resa effettiva proprio dalla lettura. 2.2 I limiti del narrativo e la non-totalizzabilità dell’esperienza temporale Nel gioco di passaggi e di proiezioni alla base di mimesis I-III, che cosa resti effettivamente dell’esperienza prenarrativa del tempo e che cosa invece si porti sullo sfondo o vada perso è non a caso un problema di efficacia della referenza. A ciò probabilmente si riferisce Ricoeur quando, nonostante le apparenze, riconduce il racconto a un modello sostanzialmente antihegeliano, cioè a una forma di traduzione linguistica che è sì necessaria, ma sempre imperfetta; e proprio a partire da questo problema – il più rilevante tra quelli che si pongono a margine di Temps et récit – si possono iniziare a valutare le conseguenze che tale modello ha sull’ermeneutica ricoeuriana. Qui il discorso di Ricoeur procede sostanzialmente in due tempi, da una parte incontrando il tema fondamentale della mediazione e dall’altra riducendo la portata che la competenza linguistica del narrativo può sviluppare. Il racconto mostra infatti che la temporalità, non essendo un fenomeno automanifestativo, non può essere detta in modo diretto, indipendentemente da qualsiasi sistema di mediazione: è connaturato al modo stesso in cui il tempo si dà, il fatto che la gran parte delle determinazioni che lo riguardano sia il risultato della continua negoziazione di uno spazio interno di dicibilità. Ma se, in prima istanza, questa caratteristica strutturale è chiara nel passaggio al narrativo, la cui preferibilità rispetto allo speculativo consiste in una migliore capacità di traduzione del tempo, lo stesso problema si ripresenta in seconda battuta proprio al livello del racconto: il paradigma narrativo, in particolare quello della messa in intrigo, fornisce effettivamente una prestazione sostitutiva rispetto allo speculativo, mediando linguisticamente un fenomeno che per i modelli classici della speculazione (fenomenologia e cosmologia) resta inintelligibile; ma – e ciò è fondamentale, sebbene emerga molto tardi nell’argomento di Temps et récit – si tratta di una sostituzione a sua volta parziale e incompleta. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 83 83 2.2.1 Il racconto come mediazione imperfetta In Temps et récit, in particolare in alcuni passaggi importanti del terzo volume, si assiste insomma a un relativo slittamento delle condizioni alle quali il racconto può funzionare come risposta allo speculativo.6 Ciò avviene, non a caso, nel contesto di una teoria forte della referenza come quella messa a punto con mimesis I-III, che nelle pagine conclusive di Temps et récit è però gradualmente circoscritta e in qualche modo ripensata. Tuttavia, prima di arrivare a ciò che questo slittamento implica in concreto, si tratta ancora di capire in quali termini il narrativo corregga la prestazione mediatrice che è resa disponibile dallo speculativo. In questo quadro, con un’oscillazione che nel pensiero di Ricoeur è estremamente significativa, il racconto svolge sostanzialmente un doppio ruolo: da una parte risponde all’aporia, producendo quella che a buon diritto può dirsi una buona mediazione della temporalità; ma dall’altra la sua mediazione funziona solo in quanto mantiene componenti di strutturale fragilità. Come si è anticipato, ciò che Ricoeur sostiene è questo: il racconto è “racconto del tempo” nella misura in cui genera un’oscillazione mai completamente decisa tra il linguaggio e l’esperienza della temporalità, tra la messa in intrigo e ciò che sta prima e dopo di essa; proprio quest’indecisione strutturale consente di tradurre in linguaggio ciò che altrimenti, da un punto di vista strettamente formale, gli resterebbe necessariamente eterogeneo. Al di sotto dei tre livelli della mimesis c’è questo: il riferimento del racconto al mondo si genera attraverso un complesso processo di prefigurazione, configurazione e rifigurazione perché vi è qualcosa nel tempo che può attestarsi soltanto in quest’intreccio tra il mythos e l’esperienza; se così non fosse – cosa che per Ricoeur dimostrano la fenomenologia e la cosmologia – il tempo tout court non si produrrebbe o, meglio, non si produrrebbe in quella stratificazione di densità diverse, che è la sua forma più caratteristica. La vera particolarità della teoria ricoeuriana della mimesis non sta dunque nell’attribuzione al racconto di un ruolo dirimente rispetto all’esperienza del tempo. Ciò che fa davvero la differenza è semmai l’impossibilità di determinare una direzione prioritaria della relazione linguaggio-tempo: i tre livelli del rapporto tra il mythos e l’esperienza temporale lasciano fondamentalmente indeciso se sia l’organizzazione del mondo a essere una conseguenza della messa in Martinengo.qxp 84 12-11-2012 14:27 Pagina 84 IL PENSIERO INCOMPIUTO intrigo o se viceversa sia il significato linguistico a dipendere da un mondo temporale già preorganizzato. Quando si dice che la referenza si produce in tale intreccio, si intende esattamente questo: non vi è un’esperienza temporale semplicemente e puramente fluente, che si dispone a riempire un linguaggio altrimenti insignificante; né vi è, all’opposto, un linguaggio già ricco di strutture significanti formali, che si appresta a porre ordine, e dunque a significare, un reale prelinguistico del tutto opaco. Naturalmente l’indecisione strutturale della mimesis, il suo non essere mai definita una volta per tutte in modo unidirezionale, non è senza conseguenze rispetto al processo di costruzione dei significati. È l’insieme di questioni che si trovano discusse a margine di Temps et récit III, sotto la nozione di “totalizzazione” del tempo: discussione che però, come è ovvio, parte più da lontano, e precisamente da Hegel. I due modelli che si confrontano rispetto alla referenza temporale sono infatti da una parte quello hegeliano della storia come effettuazione dello spirito e dall’altra un possibile modello alternativo che recuperi (da un punto di vista assieme ermeneutico ed epistemologico) una lettura differente della storicità. La questione attiene in modo privilegiato allo spazio di legittimità del racconto: la principale obiezione al modello di mimesis I-III sta infatti nell’ipotesi che la temporalità non si attesti in tracce (passate, presenti, future) da riconnettere attraverso una messa in intrigo, ma al contrario che si dia tutta in uno, in una coscienza unitaria che risolve il passato e il futuro nella presenza a sé del presente. Per Ricoeur, insomma, «il problema che si pone al momento è quello di sapere se, dall’incrocio delle prospettive referenziali del racconto storico e del racconto di finzione, deriva una coscienza storica unitaria, in grado di assumere questa postulazione dell’unicità del tempo e di farne fruttificare le aporie»; se infatti «il relativo scacco di ogni pensiero del passato in quanto tale proviene dall’astrazione del passato, dalla rottura dei suoi legami con il presente e il futuro, la vera replica alle aporie del tempo non va forse cercata in un modo di pensiero capace di abbracciare il passato, il presente e l’avvenire come un tutto?» (RICOEUR I 1985, 280 [297-298]). In senso lato, nel contesto di Temps et récit, questo sarebbe il modello delle Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte di Hegel (182223), un modello che se da una parte «sembra consacrare il caratte- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 85 85 re irriducibilmente temporale della Ragione stessa, nella misura in cui la Ragione si identifica con le sue opere» (RICOEUR I 1985, 289 [306]), dall’altra esaurisce questa temporalizzazione in ciò che ne rappresenta il vertice, ossia nell’effettività della presenza a sé. In questo caso, molto si gioca nella tensione effettivamente registrabile tra le istanze di temporalizzazione (Stufengang, Entwicklung, lavoro del negativo…) e il tipico processo di assorbimento dello storico nell’eterno (l’identificazione tra l’esplicitazione e il ritorno in se stesso: cfr. RICOEUR I 1985, 291 [308]), che a quelle è opposto. Tale equazione tra l’effettività e la presenza «segna la scomparsa della narratività nella considerazione pensante della storia» e dunque rappresenta l’equivalente negativo del modello di Temps et récit (RICOEUR I 1985, 289 [306-307]). L’acquisizione del presente sotto la nozione di effettività rende infatti pleonastico ogni ricorso ad altro genere di connettivi (linguistici, narrativi…) nella tematizzazione del tempo: se non francamente errato, questo ricorso diventa quanto meno inutile, destituendo così di significato registri discorsivi alternativi al logico. In Hegel c’è insomma un’importante attestazione del problema di Temps et récit; ma si tratta di un’attestazione basata su una sorta di «delogicizzazione del racconto», ossia sulla riduzione del narrativo a semplice diversivo prelogico. A questo livello, entra in gioco la nozione epistemologicamente rilevante di retrodizione. In riferimento al modello hegeliano, Ricoeur scrive infatti: «Se la nostra preoccupazione di storici ci porta verso un passato compiuto e un presente transitorio, la nostra preoccupazione di filosofi ci volge verso ciò che non è né passato né futuro, verso ciò che è, verso ciò che ha una esistenza eterna». Da questo punto di vista, prosegue Ricoeur, è vero che in Hegel «la realizzazione della libertà per se stessa, esigendo uno “sviluppo”, non può ignorare l’era e l’è dello storico», ma ciò avviene soltanto per ritrovarvi i segni dell’“è” di cui parla la filosofia: «è in questa misura e tenendo conto di questa riserva, che la storia filosofica riveste i tratti di una retrodizione» (RICOEUR I 1985, 291-292 [309]). Nei termini della fenomenologia dello spirito, il racconto non sarebbe niente più che la scrittura a posteriori di una temporalizzazione sempre già compiuta nella presenza a sé e dunque esaurita in essa. E se ciò non implica ancora una completa destituzione di valore, perché la retrodizione resta Martinengo.qxp 86 12-11-2012 14:27 Pagina 86 IL PENSIERO INCOMPIUTO una determinazione importante del processo attraverso cui la coscienza ritorna a sé, tuttavia in tal modo al racconto si può avanzare l’obiezione di non generare alcun vero aumento di senso, di non apportare (semmai di limitarsi a esprimere) quel nuovo che invece si vorrebbe attribuirgli. Ciò che per Ricoeur resta la «scommessa di Hegel» è dunque una vera e propria destituzione “epistemologica” del tema del passato: non significando se non nel momento autodescrittivo dell’eterno presente, il passato sposta da sé il centro del problema; la verità del tempo si produce altrove, non nella riconnessione delle tracce del passato, ma nel loro esaurimento all’interno dell’eterno presente, in quell’autodescrizione che sola dice “il nuovo”.7 Del resto, la posta in gioco di mimesis I-III è soprattutto questa: individuare che cosa sia “il nuovo” che il racconto è in grado di apportare; e lo è soprattutto nel senso di quella competenza – la “comprensione storica” – nella quale si concentrano i maggiori problemi derivanti dai presupposti di Hegel. Esattamente a questo livello fa riscontro ciò che, per analogia, potremmo chiamare la scommessa dell’ermeneutica ricoeuriana: sotto i presupposti di Temps et récit, il passo che dopo Hegel appare radicalmente insostenibile è proprio l’identificazione immediata tra il «presente eterno» e il «presente attuale», ovvero quella forma del tempo che è in grado di ritenere il passato e anticipare il futuro (cfr. RICOEUR I 1985, 297-298 [313]). A fronte di questo, se l’assorbimento della storia nell’eterno è impossibile, non sarà perciò impossibile qualsiasi altra forma di comprensione: dev’esservi un’altra strada praticabile, che escluda una posta in gioco così alta, ossia che eviti assieme sia l’idea dell’autotrasparenza (un presente che conosce il passato in quanto conosce se stesso), sia di rincalzo la prospettiva opposta e simmetrica dell’autoreferenza (un presente che perde il passato in quanto non conosce che se stesso). È qui che per Ricoeur la “storia degli effetti” dell’hegelismo coincide con i diversi modi che la filosofia dopo Hegel ha immaginato per uscirne. 2.2.2 I modi della mediazione: duplicazione e stratificazione L’ermeneutica del racconto si presenta come il tentativo più radicale in questo senso, producendo una via d’uscita che non muta semplicemente il punto di arrivo della totalizzazione (come è – secondo la lettura un po’ sommaria che ne dà Ricoeur – nelle altre usci- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 87 87 te possibili, da Kierkegaard a Feuerbach e Nietzsche: cfr. RICOEUR 1985, 295 [312]), ma interviene sui modi stessi della comprensione, rivedendo sistematicamente le condizioni del significato. Il racconto è insomma l’alternativa alla “decomposizione” che la comprensione della temporalità subirebbe, se non si desse altro che il tutto-o-niente della totalizzazione (cfr. RICOEUR I 1985, 296 [314]): alla totalizzazione e all’aporia che ne deriva, il dispositivo narrativo oppone ciò che Temps et récit definisce come «la rinuncia a decifrare l’intrigo supremo» della storia (RICOEUR I 1985, 298 [315]), ossia la scelta di non integrare la continuità temporale sotto un’unica direzione di sviluppo e una sola prospettiva di senso. Attraverso il racconto, questo passo indietro coincide con la ricerca di una razionalità alternativa, di una logica che – a considerarne anche solo superficialmente le caratteristiche strutturali – è facilmente accostabile a quello che abbiamo definito come “paradigma ricostruttivo”. È a questo livello che Ricoeur acquisisce l’ermeneutica della coscienza storica di Gadamer: l’idea che si dia qualcosa come una «coscienza d’essere esposti agli effetti della storia» – l’espressione con cui Ricoeur sceglie di tradurre il wirkungsgeschichtliches Bewusstsein gadameriano – è fondamentale per ogni discorso ermeneutico sulla storia, e lo è soprattutto nel senso di legare inscindibilmente la comprensione storica a una continuità temporale da cui, non potendosene separare, deve necessariamente ripartire. Fin qui dunque il modo in cui il narrativo risponde in positivo al passo indietro della speculazione: la costruzione dell’intrigo funziona come una mediazione della temporalità concretamente vissuta che, dismettendo l’idea della trasparenza assoluta, riconduce a intelligibilità una continuità di senso altrimenti indecifrata. Ma in Ricoeur, oltre a questa revisione (tutto sommato classica) della comprensione, la nozione di coscienza storica ha una seconda importante implicazione. Da una parte infatti, il discorso sulla totalizzazione incontra il tema del «fare storia», cioè la questione ermeneutica del passato: questione che deriva da questo legame la propria forma caratteristica, ovvero il fatto di essere la composizione di tracce che restituiscono il passato soltanto in forma di frammenti. Dall’altra però – e qui si precisa il versante negativo della mediazione imperfetta – i suoi effetti sono legati a un livello diverso del problema: l’idea che il passato sia portatore di una serie di presupposti I Martinengo.qxp 88 12-11-2012 14:27 Pagina 88 IL PENSIERO INCOMPIUTO mai completamente dominabili non è che l’altra faccia del problema fenomenologico del tempo; il fatto, interamente ermeneutico, che né alla speculazione né al racconto si dia la possibilità di costruire un «intrigo di tutti gli intrighi», una comprensione storica totale, apre un’epistemologia che ripercorre tutto ciò resta sospeso alla démarche classica dell’aporetica. In questo quadro, il problema attiene all’effettiva possibilità di produrre una rappresentazione completa del tempo. Per la sua stessa struttura – lo dice bene tutta la tradizione filosofica e, da ultima, la stessa fenomenologia di Husserl – il tempo è una determinazione “di sfondo”, ossia una funzione che a ogni successiva tematizzazione va “in perdita” come tale. È la questione che Ricoeur traduce in una definizione che mescola lessico fenomenologico e implicazioni ermeneutiche, dicendo che la temporalità appartiene «ad un ordine del costituente sempre già presupposto dal lavoro di costituzione» (RICOEUR I 1985, 375 [396]): di fronte all’evidenza per cui essa è ciò in cui tutto si svolge e quindi ciò che possiede una precedenza assoluta rispetto a qualsiasi operazione di costituzione, come può ricavarsene una mediazione formale che contemporaneamente giochi (o abbia sempre già giocato) anche il ruolo di principio configurante? A questo livello, la questione non verte soltanto sulla possibilità di pensare e dire un fenomeno che precede il pensiero o il linguaggio: ciò andrebbe da sé sotto qualsiasi presupposto anche solo debolmente realista. Il vero problema si pone in quanto si presume che ciò che è assolutamente anteriore (il costituente che per eccellenza è sempre già presupposto dal lavoro di costituzione) possa ricevere ex post la sua stessa costituzione, attraverso un atto che produce il tempo e assieme ne è prodotto. L’aporia risulta insomma interna alla stessa questione della mediazione, ossia a quell’atto puramente formale (la figurazione), che interviene per così dire après coup dando figura a ciò che invece, proprio dal punto di vista formale, gli sarebbe anteriore. È a questo particolare aspetto del problema che Ricoeur fa riferimento quando ricapitola i modi in cui la storia del pensiero ha affrontato l’aporetica (cfr. RICOEUR I 1985, 351-352 [371-372]). Al di là dei singoli episodi nei quali la questione del tempo è incorsa, le determinazioni strutturali alle quali è possibile ricondurre il problema sono in generale tre. La prima e più evidente è naturalmen- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 89 89 te l’opposizione tra la fenomenologia e la cosmologia, così come deriva dalla lettura incrociata di Physica IV e Confessiones XI: il pensiero del tempo è determinato in generale dalla scelta di massimizzare in chiave ontologica l’una o l’altra delle due possibili unità di misura che lo quantificano. Questa prima opposizione non esaurisce i diversi livelli ai quali si può parlare di un’aporia della temporalità. Al dilemma anima-mondo si aggiunge infatti, in modo trasversale, una particolare dialettica che rende ulteriormente molteplice il discorso sul tempo: è la dialettica tra le tre estasi del tempo, già evidente nella logica agostiniana dell’intentio e della distentio, per la quale del tempo si parla altrettanto legittimamente al singolare (la continuità dei fenomeni in generale) e al plurale (passato, presente e futuro); sempre di nuovo, se si avanza l’ipotesi di pensare la temporalità come un tutto, ciò fa riferimento alla possibilità di raccogliere i tempi diversi sotto un’unica continuità di fenomeni, assegnando un senso univoco ai diversi sensi della parola “tempo”. Ma al tempo stesso l’aporia della «duplice prospettiva» e il problema del «singolare collettivo», pur nella loro autonomia, sono subordinate a un terzo problema che le contiene. È a questo livello che entra in gioco l’aporia della rappresentazione, con tutte le implicazioni che esso ha sulla teoria della mimesis; ed è qui che emerge in modo chiaro in che senso il racconto storico e il racconto di finzione risolvano e assieme ripetano l’impasse tipica dello speculativo. Per quanto Ricoeur non ne tragga tutte le dovute conseguenze, il problema della rappresentabilità del tempo non si comprende dunque completamente se non lo si mette in relazione con ciò che viene prima, ovvero con il dato comune all’aporetica in generale: soltanto a partire da quest’approssimazione le implicazioni contenute nel discorso sulla costituzione del tempo diventano più chiare. Da questo punto di vista, ciò che contraddistingue le diverse uscite dell’aporetica è il fatto che, a qualsiasi livello si consideri il tempo, esso appare connesso a un movimento, chiarissimo ma non facile da circoscrivere, che in prima battuta definiremmo di “duplicazione”, o più genericamente di “stratificazione”. Volendo portare alle estreme conseguenze quanto dice Ricoeur, anche al di là dei suoi termini espliciti, ciò che l’aporetica significa è molto semplicemente che non vi è un tempo soltanto, una sorta di costante della connessione tra gli eventi: il tempo non è se non una somma di tem- Martinengo.qxp 90 12-11-2012 14:27 Pagina 90 IL PENSIERO INCOMPIUTO poralità differenti, che sovradetermina la pura continuità dei fenomeni. È quanto si deduce già rispetto all’«occultamento reciproco» tra la fenomenologia e la cosmologia. La rottura tra le opposte prospettive è infatti il risultato di uno «sdoppiamento» del tema che, in virtù di un diverso punto di partenza (il divenire si dà anzitutto attraverso l’anima, oppure al contrario attraverso il mondo), spezza il tempo distribuendolo su due metriche reciprocamente incompatibili. In questo caso, l’idea di misurare il tempo funziona come un reagente teorico, che scinde il tema in due componenti diverse e autonome, attraverso le quali il dato generico della successione risulta raddoppiato. Una forma di duplicazione analoga è quella che sta alla base del problema del singolare collettivo. L’atteggiamento naturale, infatti, fa riferimento a quella tipica «unità raccolta del tempo» (cfr. RICOEUR I 1985, 360 [381]) di cui la distentio agostiniana è forse l’immagine migliore; ma di fronte al tentativo di tematizzarla, quest’immagine si trova immediatamente duplicata nella lettura opposta, quella estatica, che dissocia la totalità delle connessioni frammentandole volta a volta in passato, presente e futuro. Il presupposto dell’unicità resta l’assunto forte di qualsiasi modo di pensare il tempo; ma tale assunto entra in rapporto con un principio di rottura che raddoppia il puro fenomeno della continuità, declinandolo in una temporalità punteggiata e discontinua. Di fronte a questo raddoppiamento, che muta l’unità immediata del tempo in un processo di “moltiplicazione” a catena, la prestazione particolare che è attivata dal narrativo è quella di una risoluzione per via di mediazione. Ecco quella che in Temps et récit può considerarsi l’espressione meno equivoca della logica ricostruttiva: la temporalità generata attraverso la narrazione rappresenta una sorta di «terzo tempo [tiers-temps] costruito sulla stessa linea di frattura di cui l’aporetica ha rinvenuto il tracciato» (RICOEUR I 1985, 354 [374]), ossia costituisce una progressione fenomenica che, pur non essendo già inclusa nel prenarrativo, in qualche modo ne tiene assieme i livelli. È quanto mostra con chiarezza la teoria della mimesis, là dove insiste su una lettura “processuale/produttiva” della messa in intrigo, cioè sul fatto che la referenza non si attiva in modo istantaneo, ma è il risultato di una progressione che è assieme un processo di ritrascrizione. La mediazione approntata dal racconto produce un Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 91 91 altro tempo, sul quale vengono reiscritte le temporalità diverse ed eterogenee che costituiscono il prenarrativo. Che questa reiscrizione sia a sua volta un effetto di raddoppiamento è appena il caso di rilevarlo: il narrativo è a tutti gli effetti l’imitazione del prenarrativo, in una forma particolare (la messa in intrigo) che è in grado di significarla; ciò che sta “a monte del testo” viene assunto e riprodotto in forma diversa nel narrativo, che ne rappresenta l’immagine significante. Che cosa però, in questo raddoppiamento del prenarrativo, sia realmente risolutivo rispetto al problema risulta esplicito soltanto a partire da un aspetto specifico della nozione di «terzo tempo», in particolare attraverso la sua capacità di essere il sostituto intelligibile di una frattura. In questo senso si può dire che la duplicazione prodotta da mimesis I-III è qualitativamente diversa da quelle che caratterizzano l’aporia speculativa. Il tempo del racconto è sì la ripetizione del tempo esperito; tuttavia la sua riproduzione non assume semplicemente il prenarrativo, nel senso di trascriverlo o spezzarlo nelle relative componenti, come accade invece nelle altre forme di duplicazione. Ciò che qualifica davvero la costruzione del racconto è semmai un’altra cosa: è l’idea che attraverso la messa in intrigo il racconto attribuisca al tempo una configurazione possibile, ricavandone una forma razionale. È questa la particolare prestazione che rendiamo attraverso la nozione di “stratificazione”: ciò che mimesis I-III consente di fare è ordinare i differenti stili temporali del prenarrativo, mettendoli in relazione con una temporalità altra (la temporalità costruita, tipica di mimesis II), che li rende reciprocamente commensurabili; l’imitazione narrativa è la ripetizione di un reale dato all’esperienza, ma è anche il suo principio di razionalizzazione.8 2.2.3 Il racconto come paradigma ricostruttivo: la nozione di biforcazione La stratificazione costituisce dunque la risposta che, attraverso la duplicazione, mimesis I-III dà all’aporia speculativa del tempo. Tuttavia, il fatto che questo sia il modo migliore in cui il tempo si attesta nel linguaggio non implica ancora che la referenza garantita dalla messa in intrigo, in particolare da mimesis II e III, sia una referenza “piena”. In che misura, infatti, il riferimento del racconto al tempo può dirsi completo? È questo il problema che sta alla base della terza aporia, quella della rappresentazione: nonostante sia Martinengo.qxp 92 12-11-2012 14:27 Pagina 92 IL PENSIERO INCOMPIUTO dotata di opportuni dispositivi di recupero del non-dialettizzabile (tipicamente è ciò che fanno i dispositivi del raddoppiamento e del terzo tempo), anche la messa in intrigo non può considerarsi come una figurazione “completa” del tempo. Il problema ricoeuriano del «costituente sempre già presupposto al lavoro di costituzione» è racchiuso tutto a questo livello. La stratificazione del tempo interviene effettivamente a porre ordine nel processo della duplicazione; ma questo processo, in quanto è potenzialmente illimitato, ricostituisce a ogni livello le condizioni per la propria ripetizione, in una sorta di regressus ad infinitum delle temporalizzazioni. La messa a tema di una particolare forma di temporalizzazione è sì la scrittura narrativamente adeguata di una successione altrimenti indecifrabile, ma si basa necessariamente sulla decisione (epistemologicamente impegnativa) di astrarre uno specifico modo temporale all’interno di un più vasto dispositivo di moltiplicazione. Qui a essere in gioco non è soltanto il classico tema dell’incircoscrittibile, ossia l’idea secondo cui il tempo, quanto a estensione, include effettivamente tutte le rappresentazioni che se ne vorrebbero dare. Almeno in filigrana vi è una più vasta ermeneutica della rappresentazione, di cui Temps et récit inizia finalmente a dare conto; e proprio a questo livello si deve cercare una risposta in certa misura stabile al problema della costituzione. Ricoeur non lo dice in questi termini, ma l’inferenza non appare del tutto impropria: l’idea fondamentale è che il processo di duplicazione e stratificazione, attraverso cui i diversi livelli temporali della vicenda diventano logicamente controllabili, includa assieme un ulteriore aspetto, che risulta però molto meno maneggiabile sotto il profilo logico. E sembra trattarsi di un dispositivo in grado di attribuire a ciascuno dei livelli temporali del prenarrativo una diversa “priorità referenziale”, uno specifico “fattore di conversione linguistica”. L’ipotesi è tutta da argomentare, ma sulla base dei dettagli che è lecito attribuire al Ricoeur della teoria del racconto si può dire almeno una cosa: ciò che i tre livelli dell’aporetica mostrano, oltre ai fenomeni della duplicazione e della stratificazione, è il fatto che il racconto funziona soltanto se concentra le risorse della mediazione su alcuni aspetti particolari della temporalità prenarrativa, di fatto tralasciandone altri. In altri termini, la messa in intrigo è sì la scelta di costruire il «terzo tempo» del racconto, la tempora- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 93 93 lità che è raccontabile per eccellenza; ma, così facendo, la narrazione lascia cadere altri livelli possibili di temporalizzazione, ai quali evidentemente la stratificazione deve aver attribuito un fattore di raccontabilità minore. Del resto, è palese che mimesis I-III possa funzionare solo in quanto selezioni uno “stile dominante” della storia, subordinandovi tutti i codici che invece, restando allo stadio del prenarrativo, rimarrebbero compossibili: la temporalità tipica del narrativo si produce nella messa in intrigo, se e solo se gli altri tempi della vicenda sono dislocati altrove, sullo sfondo della vicenda narrata. Il che accade per un motivo che è del tutto ovvio, per quanto da esso dipendano conseguenze importanti: se infatti, come mostra Temps et récit, vi è una gestione stratificata della temporalità, se anzi la stratificazione è proprio ciò che consente di uscire dai problemi dell’aporia speculativa e se infine questa gestione deve incorrere a sua volta, quanto ai propri effetti di senso, in un’ulteriore forma di aporia, seppur meno grossolana, ciò implica che accada per il tempo quanto avviene in ogni altra forma di rappresentazione, ossia che il tema rappresentato sia figurato a partire da alcune sue determinazioni, scelte come significanti, e “a spese” di altre. Ma se le cose stanno così – il che non sembra improbabile, per quanto Ricoeur non ci arrivi esplicitamente – allora che vi sia una temporalità formalmente disposta a essere raccontata non soltanto non implica, ma anzi esclude che tale temporalità esaurisca tutte le determinazioni incluse nel prenarrativo. In altri termini, ciò che mimesis I-III sembra mettere in evidenza è il fatto che il passaggio del tempo nel linguaggio avvenga inevitabilmente a danno di una parte del tema che, per una questione di priorità diversamente stabilite, finisce per non entrare nell’intrigo. È una situazione che, richiamando l’interessante lettura proposta da Jean Greisch, possiamo descrivere come «biforcazione» del tempo: una sorta di struttura “critica” di tutti i fenomeni temporali, che ne determina ogni volta l’indecidibilità.9 Per Ricoeur, il fondamento ermeneutico del narrativo è proprio questo: in quanto sta in mezzo a una «linea di frattura» (RICOEUR I 1985, 354 [374]), il presente è il tempo dell’interpretazione mediatrice; e di questa mediazione si fa carico direttamente il dispositivo della messa in intrigo (mimesis I-III). Ma se le cose stanno così, si può Martinengo.qxp 94 12-11-2012 14:27 Pagina 94 IL PENSIERO INCOMPIUTO spingere ancora oltre il discorso, per sostenere che la stratificazione di cui parla Temps et récit non è soltanto la creazione di una gerarchia tra tempi diversi, che sono sottoposti a un principio d’ordine linguistico: essa è anche, o anzitutto, la “divisione in due” del tempo, la separazione tra la temporalità positivamente tradotta nel linguaggio e un secondo insieme di determinazioni temporali che invece – in base a implicazioni non ancora precisate – resistono al passaggio linguistico, restando in tal modo non significanti. Posto che la rappresentazione del tempo funzioni in questi termini, secondo una biforcazione che separa la temporalità posta in primo piano da un altro dominio temporale che è relegato sullo sfondo, l’acquisizione del racconto come dispositivo logico avviene a patto che si assuma come determinazione fondamentale del significato una relativa irriducibilità del tempo al linguaggio. Da un punto di vista più generale, il problema del tempo chiarisce in questo modo il maggiore dei presupposti che una teoria ermeneutica della rappresentazione produce: la costitutiva parzialità del significato. Nella misura in cui abbia a che fare con una referenza temporale, il significato è un processo di tematizzazione che è strutturalmente codeterminato dal fatto di generare (o di dover generare, come apparirà chiaro nel prossimo capitolo) il proprio sfondo atematico. Ecco allora il senso più pregnante per il quale mimesis I-III è riconducibile al paradigma di una logica ricostruttiva. Al pari degli altri dispositivi di esibizione del senso (almeno di quelli di cui Ricoeur parla: la volontà impedita de Le volontaire et l’involontaire; la fallibilità di Finitude et culpabilité; l’archeologia e la teleologia dell’Essai sur Freud e de Le conflit des interprétations; il category mistake de La métaphore vive), il racconto funziona come una sorta di “dizione obliqua”, che raggiunge il soddisfacimento referenziale attraverso la preventiva proiezione di uno sfondo a partire dal quale si fa significativa: il significato ricostruito si produce in questa “interruzione”, che sospende l’idealità del senso per reintenzionarla a un altro livello. Ma di questo processo generale, mimesis I-III coglie in particolare un aspetto, che era già in filigrana nel discorso sulla metafora e che a maggior ragione verrà in chiaro dopo Temps et récit: in quanto ha sempre a che fare con una plurivocità, la referenza è una forma di selezione, un discrimine tra ciò che si sceglie di rendere significante e ciò che si spende in altro, in qualcosa che non è Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 95 95 direttamente un significato. Al livello del linguaggio metaforico, questa distinzione tra piani referenziali differenti è vera nel senso della strutturale differenza tra la metafora viva e l’insieme indistinto di quelle momentaneamente non più attive. Tuttavia, essa vale a maggior ragione per il racconto, nella misura in cui l’intrigo funziona a spese di una stratificazione, la quale però è la differenziazione tra potenziali di significato diversi: il racconto è il medium che tiene assieme ciò che sta a monte e ciò che sta a valle del linguaggio, ma al tempo stesso è anche – problema tutt’altro che ovvio per l’ermeneutica di Ricoeur – il selettore che discrimina tra ciò che nel prenarrativo è configurabile e ciò che invece esorbita dalla «potenza del dire» attuata dalla messa in intrigo. Note Il rapporto tra conflitto e conciliazione è senz’altro centrale nell’ermeneutica di Ricoeur. Da questo punto di vista, Le conflit e Temps et récit rappresentano due momenti di uno stesso percorso: la formalizzazione di una teoria generale dell’interpretazione. Sulle diverse tappe di questa ricerca, prima e dopo Temps et récit, cfr. per es. AIME 2007, 122-147. È però utile rimandare anche ad alcuni passaggi dell’analisi di Jervolino (Introduzione a Ricoeur, 2003), che mettendo al centro la nozione di «mediazione» sottolineano la portata unitaria del percorso che va da Le conflit a Temps et récit: cfr. JERVOLINO 2003, 49-57. 2 In Temps et récit III, Ricoeur riassume così: «Agostino non ha altra possibilità se non quella di opporre alle dottrine cosmologiche il tempo di uno spirito che si distende; questo spirito non potrebbe essere che un’anima individuale, ma in nessun caso un’anima del mondo». Al tempo stesso, però, «la meditazione sull’inizio della Creazione conduce Agostino a confessare che il tempo stesso è cominciato con le cose create; ora tale tempo non può essere che quello di tutte le creature, dunque, in un senso che non può essere esplicitato nel contesto della dottrina del libro XI delle Confessioni, un tempo cosmologico». Sul versante opposto, «Aristotele sa bene che il tempo non è il movimento e richiede un’anima per distinguere gli istanti e contare gli intervalli»; ma questo coinvolgimento dell’anima «non potrebbe figurare nella pura definizione del tempo come “numero del movimento secondo l’anteriore e il posteriore”, per timore che il tempo venga elevato al rango dei principi ultimi della Fisica» (RICOEUR I 1985, 352-353 [373]). 3 In questa lettura di tipo strutturale, Temps et récit compie una palese sovrapposizione di ruoli tra il racconto (la «diegetica» di Aristotele), la storia e il dramma, ruoli che nella Poetica non solo sono distinti, ma anzi costituiscono l’uno il «contro-esempio» dell’altro: è legittimo – si chiede infatti Ricoeur – «elevare l’attività narrativa a categoria inglobante» di strutture linguistiche così diverse da risultare semmai con1 Martinengo.qxp 96 12-11-2012 14:27 Pagina 96 IL PENSIERO INCOMPIUTO trapposte? (cfr. RICOEUR I 1983, 56 [58], ma anche RICOEUR I 1995b, 48-49 [62]). In realtà lo slittamento è autorizzato nella misura in cui si generalizzi al racconto il dato compositivo-processuale, tipico della “poesia tragica” di Aristotele. Su questa base, Ricoeur utilizza la nozione di racconto per indicare il nucleo generatore di tutti gli intrecci di finzione (e la cosa si complicherà notevolmente, quando si tratterà di includervi anche il discorso storico). È chiaro che la questione non è soltanto nominale. Se la categoria di racconto può inglobare tutte le altre, in Ricoeur ciò sembra dovuto proprio alla sovrapposizione completa tra il momento della mimesis e quello del mythos. L’imitazione/rappresentazione di un’azione attraverso il ricorso al metro poetico è infatti ciò che identifica per essenza la tragedia (cfr. RICOEUR I 1983, 58 [60]); da questo punto di vista, la nozione di mythos può essere estesa a qualsiasi forma di mimesi dell’azione purché – restrizione che Ricoeur dà completamente per scontata – si tratti di un ordine mimetico mediato dal ricorso a una struttura linguistica. Alla base dell’imitazione/rappresentazione vi è insomma l’idea che atti, dati ed eventi non passino semplicemente dall’originale alla copia, ma che nel passaggio essi ricavino un ordine “altro”, che non possedevano da sé e che, per inciso, corrisponderebbe proprio al valore aggiunto dell’arte sull’imitazione (cfr. RICOEUR I 1983, 59 [62]). Sull’accentuazione del valore “compositivo” del mythos e della mimesis, cfr. in gen. RICOEUR I 1983, 57-65 [59-68]. 4 Nell’analisi di Temps et récit, lo stesso modello “aristotelico” può continuare a valere per il romanzo contemporaneo, nonostante in questo caso le rotture prevalgano sulle continuità. Proprio in virtù della sua natura «proteiforme», il romanzo smentisce i modelli che via via si sedimentano, ma al tempo stesso li conferma, seppur indirettamente, riempiendoli di altri significati. È il caso, per esempio, del ruolo del protagonista, che lentamente scalza il privilegio d’ordine attribuito all’intrigo, non facendo altro che tradurre la sua stessa esigenza di organizzazione. Ma è ancor più il caso dei cosiddetti «paradigmi della chiusura», di cui Ricoeur ricostruisce l’evoluzione sulla scia di Frank Kermode, rilevando sì la graduale prevalenza del modello della «crisi» su quello del «compimento» (il passaggio dalla fine «imminente» alla fine «immanente»), ma riconducendo questo passaggio a una sorta di «deformazione controllata», che si limita a spostare dall’autore al lettore il ruolo dell’ordinatore. 5 L’idea che l’insieme degli accadimenti “da narrare” richieda di essere “deciso” da parte di una storia (nel senso di avere nella rappresentazione linguistica la sua attualizzazione necessaria) non è affatto un rovesciamento casuale. A ben vedere, si tratta del medesimo presupposto che sta alla base delle metodiche tipiche della psicoanalisi. E Ricoeur lo ha ben presente: il Durcharbeiten psicoanalitico non è altro che “la vita messa in racconto”; è l’operazione per la quale il passato è letto come un quasi-testo, i cui elementi sono disposti secondo collocazioni (processo di temporalizzazione) e rapporti di interazione (la semantica ricoeuriana dell’azione), che l’analisi si incarica di rendere intelligibili. 6 Che vi sia davvero uno scivolamento della nozione di racconto, da soluzione a mera riproposizione del problema speculativo, lo si deve naturalmente argomentare. Ma già una lettura cursoria di Temps et récit mostra che la nozione di racconto subisce gradualmente una serie di ridefinizioni e restrizioni. Questo slittamento Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 97 97 vale in generale per tutto il terzo volume, che riepiloga e al tempo stesso complica l’equilibrio tra la narrazione e l’aporia; ma vale a maggior ragione per l’ultima sezione, le Conclusioni (cfr. RICOEUR I 1985, 347-392 [369-413]), che funzionano quasi come una retractatio, rispetto a quanto acquisito nelle sezioni precedenti. Sulle relazioni interne tra i tre volumi di Temps et récit, cfr. per es. RICOEUR I 1995b, 75 [90], che contiene qualche indizio significativo in questo senso. 7 In questo caso, secondo Ricoeur, il fatto che si dia una sorta di «proiezione temporale» dell’eterno sarebbe già un relativo incremento di senso (RICOEUR I 1985, 293 [310]). Tuttavia si tratterebbe soltanto di una flessione (o di un’alterazione), che è già completamente inclusa nel momento del compimento. 8 Il fatto che Temps et récit si muova completamente all’interno di una logica dell’aporia è quanto mai significativo dal punto di vista ermeneutico. Ed è altrettanto significativo – sia detto per inciso – che l’unica via d’uscita da quest’“aporeticità diffusa” stia nella considerazione del tempo a partire dalla sua rappresentazione (linguistica, logica, artistica…). In questo caso, Ricoeur condivide una sorta di Stimmung “ermeneutica” che è comune a molti autori, anche distanti dalla filosofia dell’interpretazione classicamente intesa. Tra le analisi recenti, almeno in Italia, una delle più interessanti è senz’altro quella proposta da Giacomo Marramao (Minima temporalia, 1990; Kairós, 1992). Il discorso di Marramao esplicita molto chiaramente in che cosa consista la centralità del tempo per la filosofia: in tutte le sue declinazioni possibili, il problema filosofico della temporalità non è altro che la frattura, all’interno dell’esperienza, tra due piani complementari, quello della rappresentazione del tempo e quello del sentimento del tempo (cfr. per es. MARRAMAO 1990, 13-19). Da questo “dilemma” tra tempo dell’anima e tempo del mondo non si esce perché, come nota Marramao, «la caratteristica delle formule classiche non è […] data ancora da una dissociazione tra “interno” ed “esterno”, ma da un’articolazione e compresenza di due dimensioni della temporalità insieme “soggettive” e “oggettive”, psichiche e cosmologiche» (MARRAMAO 1990, 17). Seppure in termini molto diversi, questa inscindibilità strutturale – che Marramao riporterà alla compresenza, all’interno del fenomeno “tempo”, delle due componenti del tempo-successione (chronos) e del tempo-durata (aion) – è ciò che anche Ricoeur considera come radice del problema. Sulla questione posta da Marramao e sui punti fermi della lettura ricoeuriana, mi permetto di rinviare al colloquio contenuto in Figure del conflitto (cfr. MARTINENGO 2006, 215-230). 9 Il riferimento è al saggio «Temps bifurqué» et temps de crise, pubblicato nel numero monografico di «Esprit» (1988, 140-141) curato da Olivier Mongin e Joël Roman: cfr. MONGIN-ROMAN 1988, 88-96. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 98 Capitolo terzo Fenomenologia della memoria Identità e passato in Soi-même comme un autre e La mémoire, l’histoire, l’oubli L’ermeneutica di Temps et récit trova nella nozione di mediazione imperfetta una sua prima e importante unificazione: l’idea che il linguaggio (in particolare nella forma di linguaggio narrativo) rappresenti la trascrizione di un’esperienza temporale altrimenti inintelligibile costituisce una significativa attestazione della teoria ricoeuriana dell’interpretazione. A questa prima sistemazione contribuisce in particolare la nozione di messa in intrigo, che tuttavia se da una parte fornisce una prestazione risolutiva rispetto a quanto richiesto dalla teoria della referenza narrativa, dall’altra resta indicativa – sotto la nozione di non-totalizzabilità – di una serie di implicazioni ermeneutiche e fenomenologiche rilevanti. Sotto la logica del racconto, l’ermeneutica di Ricoeur raccoglie insomma un’esigenza teorica più generale. Ma quest’esigenza fa a sua volta riferimento ad alcune questioni non facilmente riducibili. Almeno sommariamente, tali questioni possono essere raccolte sotto due titoli: il tema filosofico dell’identità e il problema, assieme epistemologico, ermeneutico e morale, concernente la costruzione del passato. 1. Identità e identità narrativa: il cogito «brisé» Da un punto di vista generale, il demostrandum principale di Temps et récit consiste nell’identificazione della forma testuale come dispositivo fondamentale del cosiddetto “mondo dei significati”. Il passag- Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 99 gio dal discorso sul simbolo e sulla metafora al problema generale del racconto sta tutto nella scelta di stabilire al livello del testo un’unità di significato non completamente riducibile alla somma delle sue parti: il mondo è l’insieme dei significati esistenzialmente rilevanti; ma tali significati sono strutturalmente definiti dal tipo di organizzazione testuale a cui sono sottoposti. In altri termini, il problema di Ricoeur è individuare nel testo narrativo (che in Temps et récit funziona come la fattispecie privilegiata della testualità) il luogo appropriato per porre una serie di questioni che la precedente applicazione “regionale” della teoria dell’interpretazione lasciava scoperte: il racconto consente sì di completare la logica del simbolo e della metafora, definendola a livelli del discorso ai quali non sarebbe direttamente applicabile; tuttavia quest’ampliamento è assieme la definizione di una teoria dell’interpretazione qualitativamente diversa da quella che è presupposta nel caso dei significati simbolici o della predicazione metaforica. Da questo punto di vista, ciò che il testo aggiunge alla logica generale dell’interpretazione è soprattutto una necessità di natura metodologica. La tesi forte di Temps et récit è che a partire dal testo il problema del significato debba essere posto includendovi da due assunti tra loro complementari: la riduzione del linguaggio ai dispositivi della mediazione e l’ampliamento della nozione di referenza al di là dell’ambito della pura descrizione. L’uno e l’altro presupposto sono raccolti nella nozione di mimesis, che se da una parte contiene l’idea che il significato non si produce in un’intenzionalità diretta linguaggio-significato, dall’altra ne deriva il fatto che, soltanto attraverso questa mediazione, si dà qualcosa come una referenza. A sua volta, però, la teoria della mimesis è la premessa per un discorso ben più complesso dal punto di vista epistemologico, una complessità che solo dopo Temps et récit inizia a venire in chiaro. La centralità della nozione di mimesis pone in particolare una questione di sovrapposizione (cfr. per es. RICOEUR I 1995b, 48-63 [62-78]): in che modo il discorso sulla testualità può conciliarsi, in un senso logicamente accettabile, con la dialettica tra spiegazione e comprensione che era centrale nelle riflessioni ricoeuriane degli anni Sessanta, ma che dopo il passaggio dal simbolo alla metafora è rimasta sostanzialmente in sospeso? Martinengo.qxp 100 12-11-2012 14:27 Pagina 100 IL PENSIERO INCOMPIUTO 1.1 L’azione come mediazione dell’esperienza temporale A partire da Temps et récit, la priorità teorica di Ricoeur diventa insomma riconnettere i fili della vasta riflessione sul tema del significato, che altrimenti tenderebbe a perdere qualsiasi tipo di unità. Come è stato spesso rimarcato, soprattutto dalla letteratura italiana su Ricoeur (cfr. per es. JERVOLINO 1984, 57-58), questa funzione di ricapitolazione è attribuita proprio al testo e ai diversi processi di testualizzazione: la forma “testo” diventa la fattispecie più tipica in cui mettere alla prova l’ipotesi (risalente agli anni dell’Essai sur Freud e Le conflit des interprétations) di una dialettica viva tra i due modi dell’interpretazione, tra il metodo “obiettivante” della spiegazione e l’approccio ermeneutico della comprensione. Come spiega Réflexion faite, nelle riflessioni che sarebbero culminate in Temps et récit «la novità stava nel fatto che si teneva conto delle regole di composizione proprie del testo; in altri termini, la testura [texture] stessa dei testi autorizzava, e persino imponeva, questa deviazione attraverso procedure derivanti dall’analisi oggettiva e dalla spiegazione»; nella teoria del racconto ciò dipende sostanzialmente dal fatto che «la fissazione ad opera della scrittura, aggiungendosi alla testura dell’opera, assicurava alle procedure oggettivanti l’appoggio di marche esterne, vale a dire ciò stesso che Platone aveva un tempo deplorato nel famoso passaggio del Fedro». Perciò, conclude Ricoeur, «non mi sembrava più possibile, nell’età della semiotica testuale, ritenere l’approccio oggettivo come una trasposizione abusiva delle procedure delle scienze naturali nell’ambito dello spirito» (RICOEUR I 1995b, 50-51 [64-65]). In altri termini, è connesso all’idea stessa della testualità il fatto che essa funzioni, più e meglio del simbolo, come dispositivo di obiettivazione del senso e conseguentemente come scioglimento di ogni compromesso psicologistico dell’ermeneutica: l’interpretazione è altra cosa dal processo di immedesimazione intrapsichico; e ciò è dovuto al fatto che si dà “trasmissione” del senso soltanto attraverso un metodo che sia al tempo stesso esplicativo e comprensivo, come mostra l’effettività del racconto. Ma il problema non sta tutto qui. La ripresa della dialettica spiegazione-comprensione attraverso il racconto rappresenta il punto di congiunzione tra il discorso sulla testualizzazione e un tema sostanzialmente nuovo, almeno rispetto a Temps et récit: a partire da quest’esigenza di sintesi, la nozione generale di testo Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 101 101 entra infatti in relazione con il vasto insieme di questioni che si raccolgono sotto la categoria di «io agente». Per comprendere tutti i termini della questione bisogna però fare un passo indietro. Ricoeur era infatti arrivato a riconoscere la rilevanza epistemologica della testualità già molto prima di Temps et récit, in particolare in alcuni saggi degli anni Settanta (Qu’est-ce qu’un texte? Expliquer et comprendre, 1970; The Model of Text. Meaningful Action Considered as a Text, 1971; Expliquer et comprendre. Sur quelques connexions remarquables entre la théorie du texte, la théorie de l’action et la théorie de l’histoire, 1977; «La raison pratique», 1979), che non a caso costituiscono un interessante tournat per il pensiero ricoeuriano. Tuttavia questi testi, più e meglio di quanto potrà fare Temps et récit, affrontano il problema del racconto sotto un particolare punto di vista, che altrove tenderà invece a passare in secondo piano. Se infatti nell’opera maggiore il discorso sarà portato avanti prioritariamente a partire dalla questione del tempo (e quindi a partire dai dispositivi con i quali il linguaggio si fa portatore di significati temporali), qui la nozione di testo è considerata anzitutto nella sua relazione con ciò che costituisce il vettore dell’esperienza temporale, ossia con quel tipo di relazione al mondo che, almeno provvisoriamente, possiamo definire “esperienza della praxis”. Detto in altri termini, il rapporto tra il mythos e il mondo concretamente vissuto è certamente il presupposto di Temps et récit. Ma in Temps et récit il problema concerne soprattutto la possibilità di dare al racconto la sua fondazione epistemologica: il racconto dice qualcosa del mondo, in quanto vi reperisce una serie di dispositivi prenarrativi che richiamano la possibilità di una traduzione linguistica. Resta quasi in secondo piano l’altro aspetto fondamentale della referenza narrativa: la traduzione del mondo nel linguaggio avviene infatti a partire da una funzione referenziale, quella che Aristotele chiamava mimesis praxeos, che è sì imitazione, ma imitazione rispetto a una particolare regione dell’esperienza, ossia l’esperienza dell’agire. Il passaggio che Temps et récit tende a sottovalutare è proprio questo: se il riferimento al mondo è la trascrizione di un’esperienza temporale in sé aporetica, quest’esperienza non può non fare capo a un soggetto, a un’esistenza che è temporale in quanto produce e subisce il mondo. La risposta a questo secondo aspetto della véhémence ontologique ha però un’incidenza soltanto relativa, almeno fino Martinengo.qxp 102 12-11-2012 14:27 Pagina 102 IL PENSIERO INCOMPIUTO a quando Ricoeur si limita a circoscrivere la praxis sotto le nozioni di «spazio d’esperienza» e «orizzonte d’attesa», mutuate da Reinhart Koselleck.1 In questo caso, l’analisi ricoeuriana fa semplicemente della storia il tempo dell’azione, con tutte le implicazioni che ciò ha rispetto alle teorie della causalità e della motivazione. Ma l’innesto del problema sulla nozione di testo ha ben altra portata, almeno nella misura in cui al mondo dell’azione si applichi in modo esplicito quello stesso sistema di relazioni che altrove va sotto il nome di mimesis I-III. Letto sotto questa prospettiva, il riferimento al campo pratico, anziché essere soltanto un ampliamento di ciò che Temps et récit dice a livello formale, diventa lo snodo epistemologico fondamentale della “teoria della referenza narrativa” che si può mettere in conto a Ricoeur. È il tema-chiave di Du texte à l’action (1986), che raccoglie alcuni dei saggi più significativi in questo senso: posto che il racconto, l’esperienza temporale e l’esperienza della praxis siano legati tra loro in una coimplicazione reciproca (il racconto è imitazione dell’azione; l’azione è temporale; il tempo si dà nel linguaggio narrativo), l’elemento fondamentale di questa relazione non è tanto mimesis I-III (cioè il racconto), quanto proprio la praxis. Se la semantica del testo possiede una capacità figurativa nei confronti della temporalità, questa prestazione mitico-mimetica non soltanto non è indipendente dal particolare ambito di effettuazione al quale si applica, bensì deriva il principio di funzionamento proprio da quest’ambito. In altri termini, il fatto che il racconto sia in grado di rendere intelligibili i paradossi della temporalità dipende certamente dalla capacità, tipica della messa in intrigo, di delineare un paradigma possibile per le forze agenti sul campo; ma questa traduzione funziona a condizione che sia l’azione stessa, o meglio quel vasto sistema di intenzionalità fungenti che si raccoglie sotto la nozione di io agente, a fornirne una prima e provvisoria mediazione. Come ciò avvenga, ovvero come sia possibile che la praxis, da semplice determinazione alla quale si applica la messa in intrigo, ne diventi il motore, è quanto Temps et récit affrontava già sotto il titolo di mimesis I, ma con uno squilibrio funzionale sul versante del linguaggio, che trascurava la dimensione concretamente agita dell’esperienza. Posto dunque che la messa in intrigo funzioni come una teoria della referenza (e ciò dimostrano, secondo Ricoeur, la Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 103 103 teoria e la prassi letteraria), resta ancora da capire perché sia proprio l’azione a possedere una priorità sugli altri dispositivi del significare, e soltanto a partire da questo chiarimento si può garantire in ultima istanza la portata ontologica del narrativo. In qualche misura, il problema è quello di una deduzione trascendentale: se mimesis I-III, a qualsiasi livello la si voglia considerare (dispositivo miticomimetico, costruzione di una storia sensata, processo di testualizzazione dell’esperienza…), dice qualcosa sui modi in cui il tempo passa nel linguaggio, qual è il ruolo che in essa gioca il riferimento all’azione? E si può dire che la risposta di Du texte à l’action corrisponda – in termini non ricoeuriani, ma sufficientemente chiari – a una sorta di “schematismo del campo pratico”: l’agire riempie di contenuti la nozione narratologica di terzo tempo, perché la temporalità raccontata non è semplicemente il risultato della dialettica tra tempo fenomenologico e tempo cosmologico, bensì è il tempo di una vicenda agita e subita dai soggetti che vi sono coinvolti; ma ciò accade perché è lo stesso campo pratico, in alcune sue determinazioni fondamentali, a possedere una forma ibrida, una struttura di transizione, uno schema appunto. Prima ancora di essere assunta come referenza linguistica, l’azione esibisce già di per sé un’articolazione non dissimile da quella che caratterizza la forma testuale; indipendentemente dal suo essere o meno inclusa in un dispositivo narrativo, essa funziona come un «quasi-testo» che si dota spontaneamente di molti dispositivi che dovrebbero essere appannaggio di strutture linguistiche organizzate. Per chiarire questo passaggio, Ricoeur affronta un problema apparentemente secondario, che però finisce per assumere un ruolo fondamentale. In termini generali, infatti, la sovrapposizione tra semantica del testo e semantica dell’azione fa gioco sulla nozione lato sensu ermeneutica di “autonomizzazione”: tanto l’azione, quanto il testo producono significati nella misura in cui interrompano la dipendenza che li lega al soggetto al quale si riferiscono. Il che, almeno per il testo, è un argomento classico dell’ermeneutica contemporanea. Ma la tesi forte di Ricoeur – in dialogo da una parte con la vasta problematica di John Austin e John Searle, e dall’altra con i teorici dell’azione come Elizabeth Anscombe e Anthony Kenny – sta appunto nell’idea che lo stesso modello possa applicarsi alla relazione intercorrente tra l’azione e il suo Martinengo.qxp 104 12-11-2012 14:27 Pagina 104 IL PENSIERO INCOMPIUTO agente: proprio in analogia con il modello del testo, l’azione possiede una configurazione significante che rende il “fare” quasi una variante del “dire”. Ricoeur è molto esplicito in questo senso: «Nello stesso modo in cui la fissazione con la scrittura è resa possibile da una dialettica di esteriorizzazione intenzionale, immanente all’atto di discorso stesso, una dialettica simile entro il processo di transazione permette che il significato dell’azione si stacchi dall’avvenimento dell’azione» (RICOEUR I 1986a, 191 [184]). Ciò vale tipicamente per il livello “strutturale” dell’atto pratico: al pari dell’atto di locuzione, l’azione possiede un vero e proprio contenuto proposizionale, ossia un dato che può essere identificato come “lo stesso”, all’interno di un insieme definito di variazioni. L’azione possiede dunque in sé una struttura che ripete la forma predicativa delle frasi d’azione, trasferendo al livello del campo pratico la stessa indipendenza tra l’evento del dire e il significato detto, che in qualche modo costituisce il presupposto dell’interpretazione. Tra l’«evento d’azione» nel suo statuto temporale (RICOEUR I 1986a, 193 [186]) e il suo corrispettivo logico vige dunque la relazione tipica di ogni costrutto intenzionale: il che è tanto più vero nel caso delle “azioni complesse”, in cui «certi segmenti sono così lontani dai segmenti semplici iniziali, di cui si può dire che essi esprimano l’intenzione dell’agente, che l’attribuzione di queste azioni o di questi segmenti di azione costituisce un problema tanto difficile da risolvere quanto l’assegnazione di un autore in certi casi di critica letteraria» (RICOEUR I 1986a, 194 [187]). Per questo motivo, l’azione pone una questione che è assieme di ascrizione e di iscrizione: se infatti l’attribuzione di responsabilità (l’ascrizione) è un problema filosofico specifico, ciò dipende dal fatto che un’azione si distanzia dal suo autore a misura della propria complessità; e questa difficoltà è al tempo stesso il principio della possibilità di vedere iscritti i risultati dell’azione sul mondo, in forme crescenti di oggettivazione. Al di là dei dettagli di questo processo di autonomizzazione, è tuttavia palese in che senso la trasversalità tipica del campo pratico finisca per essere il principio di validità di mimesis I-III: nell’azione si trovano a convivere due diversi modi di organizzazione dell’esperienza, una testualità in potenza e una temporalità in atto; ma questi due livelli dell’esperienza, che di per sé apparterrebbero ad ambiti semantici eterogenei, proprio in quanto coesistono all’inter- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 105 105 no del medesimo campo pratico, lo assumono come dispositivo di mediazione, diventando reciprocamente compatibili. Il fatto che l’io agente si muova già sempre nell’ambito di relazioni in senso lato testuali non significa altro che questo: all’interno del campo pratico esiste una sovradeterminazione strutturale che traduce in forme prelinguistiche un’esperienza del tempo altrimenti inarticolata; e tale determinazione è quella tipica di un soggetto che è assieme espressione di una continuità temporale e di un’intenzionalità pratica. Se così non fosse, se dunque l’azione non esibisse questa particolare indecisione tra il temporale e il (pre)linguistico, non vi sarebbe nulla in grado di reggere la continuità di mimesis I-III. Si può essere ancora più espliciti in tal senso: la messa in intrigo funziona perché l’azione è già da sé un processo di mediazione dei significati, al pari del linguaggio narrativo. E la sua forma “quasi-testuale” è espressione del fatto che, in analogia e prima di ogni successiva mimesis, essa è già l’obiettivazione di un senso (cfr. per es. JERVOLINO 1984, 112): proprio in quanto il campo pratico mostra la capacità di rendersi autonomo dai soggetti agenti, allora il cosiddetto “mondo dell’azione” può rinviare a una testualità effettiva, che lo assume come propria referenza.2 1.2 Identità come medesimezza e identità come ipseità L’idea che l’azione sia portatrice di un insieme di significati, attraverso la messa in intrigo e al pari di essa, è centrale dal punto di vista ermeneutico: proprio a questo livello, entra infatti in gioco la nozione di «identità narrativa». Ed è dall’opposizione tra l’identità intesa in modo sostanziale e la sua variante “discorsivo-testuale” che prende forma l’ultima fase del pensiero di Ricoeur. In realtà, il fatto che il legame tra narrazione, azione e soggettività sia fondamentale per una teoria filosofica del racconto rappresenta poco più che un’ovvietà, almeno dal punto di vista ermeneutico. Tuttavia, in Ricoeur questa relazione implica molto di più che una specifica lettura del narrativo, come sarebbe se ci si fermasse a mimesis I-III e al tema dell’io agente: a essere in gioco non è soltanto la ripetizione, al livello del testo, del dualismo diltheyano spiegazionecomprensione, con tutte le conseguenze che ciò ha rispetto al tema della praxis; c’è soprattutto qualcosa d’altro, che attiene proprio al modo in cui si sceglie di intendere l’identità. A partire dal discorso Martinengo.qxp 106 12-11-2012 14:27 Pagina 106 IL PENSIERO INCOMPIUTO sul campo pratico e sui rapporti testo-azione, la nozione stessa di soggetto finisce per subire uno slittamento: una trasformazione che si muove in direzione significativa, tanto sotto il profilo narratologico, quanto dal punto di vista filosofico. 1.2.1 Dalle filosofie del cogito al problema del sé: l’identità attraverso le sue obiettivazioni Il problema dell’identità narrativa emerge espressamente nel quadro della teoria del racconto: almeno in prima istanza, si tratta di un discorso che trova spazio già nella sezione conclusiva di Temps et récit III, dove a essere messo in questione è anzitutto il modo in cui, nel quadro generale dell’aporetica, la fenomenologia e la cosmologia possono essere messe in relazione. Come si è visto, l’idea di partenza è che la mediazione operata dalla messa in intrigo rappresenti la costruzione di una forma specifica di temporalità, che tiene assieme la temporalità vissuta e il tempo del mondo; ma oltre a ciò vi è la constatazione che al «terzo tempo» narrativo si associa una specifica classe di determinazioni identitarie, che della vicenda narrata costituisce il correlato. In altri termini, la messa in intrigo determina una significativa revisione del modo in cui la nozione di soggetto “si scrive”. Ricoeur è molto netto nella sua tesi: «“Identità” è qui presa nel senso di una categoria della pratica. Dire l’identità di un individuo o di una comunità, vuol dire rispondere alla domanda: chi ha fatto questa azione? chi ne è l’agente, l’autore […]?» (RICOEUR I 1985, 355 [375]). Attraverso il medium dell’azione, al racconto è insomma assegnata una procedura di definizione dell’identità che, in quanto ha nel campo pratico il suo dominio, deriva totalmente da questo la propria consistenza. Del resto, che le cose possano stare in questi termini, ossia che il racconto possa definire l’identità “pratica” dei soggetti agenti generando contemporaneamente una specifica idea della temporalità e del campo della praxis, è chiaro già a un livello intuitivo del problema. In effetti, Ricoeur ne deriva una conseguenza molto interessante per il suo modello: la non-accidentalità del paradigma narrativo rispetto al mondo dell’esperienza, ossia l’idea che il prenarrativo di mimesis I abbia il suo compimento più proprio nella “rappresentazione” linguistica. L’idea che non ci sia esperienza senza narrazione impone infatti Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 107 107 di assumere che le soggettività che compongono il racconto non siano un dato preposto alla costruzione dell’intreccio, ma si producano totalmente in esso. Il che per Ricoeur equivale a dire che «il carattere evasivo della vita reale è, precisamente, la ragione per cui noi abbiamo bisogno del soccorso della finzione per organizzare quest’ultima retrospettivamente nell’ambito delle cose fatte [dans l’après coup]» (RICOEUR I 1990a, 191-192 [255-256]). Questo bisogno «ci rammenta che il racconto fa parte della vita prima di esiliarsene nella scrittura; esso fa ritorno alla vita secondo le molteplici vie dell’appropriazione e al prezzo delle tensioni inespugnabili, che abbiamo appena detto» (RICOEUR I 1990a, 193 [257]). È quanto si richiamava in precedenza, rispetto al rapporto che intercorre tra la messa in intrigo e la Durcharbeitung psicoanalitica: per la psicoanalisi, il passato rappresenta un insieme di accadimenti che può diventare significante soltanto a partire da una mediazione après coup. E tale mediazione riguarda anzitutto le identità dei soggetti che sono coinvolti in quel frammento specifico di passato, identità che diventano intelligibili soltanto a partire da una serie di “ricostruzioni” narrative successive. Ecco il motivo per il quale si può parlare di un ruolo “esemplare” della psicoanalisi nello studio del racconto: un ruolo che Ricoeur non connota esattamente in questi termini, ma che si può assumere come implicito. Se infatti è chiaro che la Durcharbeitung psicoanalitica «mette in rilievo il ruolo della componente narrativa in quello che si è convenuto di chiamare “storie di casi”», è altrettanto evidente che l’esperienza psicoanalitica funziona allo stesso modo di ogni esperienza narrativa: il racconto è a tutti gli effetti la costruzione di un intrigo, perché il suo scopo «è quello di sostituire a dei brandelli di storie insieme inintelligibili e insopportabili, una storia coerente e accettabile, nella quale chi fa l’analisi possa riconoscere la propria ipseità» (RICOEUR I 1985, 356 [376]). Questa traduzione, indispensabile per poter parlare ancora di una soggettività, è al tempo stesso “richiesta necessariamente” dalla forma frammentaria dell’esperienza. L’insistenza sul rapporto di necessità che lega la narrazione e l’identità genera però una serie di difficoltà notevoli sotto il profilo filosofico. È questo il punto d’attacco di Soi-même comme un autre (1990): l’ascrizione al racconto della domanda circa le soggettività Martinengo.qxp 108 12-11-2012 14:27 Pagina 108 IL PENSIERO INCOMPIUTO incluse nella vicenda produce a cascata l’apertura di un insieme più vasto di questioni, che concerne lo status ontologico del soggetto agente. Si tratta di una serie di domande che Temps et récit sintetizzava nella questione più generale: “Chi è il soggetto agente?”. Naturalmente si può dire che la risposta a tale domanda si ottenga «nominando qualcuno, designandolo con un nome proprio. Ma quale è il supporto della permanenza del nome proprio? Che cosa giustifica che si tenga il soggetto della azione, così designato attraverso il suo nome, come il medesimo lungo il corso di una vita che si distende dalla nascita alla morte?» (RICOEUR I 1985, 355 [375]). Il problema – per limitarsi a due titoli molto generali – era quello tipicamente humeano e nietzscheano, concernente l’esistenza di un corrispettivo reale alla nozione di soggetto. È infatti evidente che «senza il soccorso della narrazione», il problema dell’identità personale rimane interamente esposto alle obiezioni dello scetticismo: «O si pone un soggetto identico a se stesso nella diversità dei suoi stati, oppure si ritiene, seguendo Hume e Nietzsche, che questo soggetto identico non è altro che una illusione sostanzialista, la cui eliminazione lascia apparire solo un puro diverso di cognizioni, di emozioni, di volizioni» (RICOEUR I 1985, 355 [375]). A quest’insieme di questioni, prima tra tutte la permanenza nel tempo di un soggetto stabile e “identificabile”, Ricoeur risponde nei dieci studi raccolti nel volume del 1990. Il tema comune è ora la possibilità di pensare la soggettività, a partire dalla forma cartesiana del cogito, in un modo che mantenga la sensatezza della domanda, ma che risolva l’ambiguità strutturale che il racconto mette in luce a livello ontologico. Soi-même comme un autre è insomma una vasta riflessione attorno al tema dell’identità, a partire dal presupposto che se dell’io si può parlare in chiave ermeneutica (nel senso di quella vasta ermeneutica che Ricoeur ha in mente e che va – per citare i due estremi – dalle scuole del sospetto alle filosofie del linguaggio novecentesche), ciò è possibile attraverso un generale superamento degli assunti che le filosofie del cogito danno per acquisiti. I punti di riferimento di questa ridiscussione sono sostanzialmente tre: il primato della «mediazione riflessiva» rispetto alla posizione immediata e irriflessa della soggettività; la distinzione tra due prestazioni fondamentali dell’identità “soggettiva”, ossia l’identico inteso come idem e l’identico inteso come ipse; la dialetti- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 109 109 ca tra l’identità intesa in questo secondo senso e l’alterità (cfr. RICOEUR I 1990a, 11-15 [75-79]). Delle tre questioni, quella che risulta più rilevante sotto il profilo ontologico, almeno nell’accezione ricoeuriana di ontologia, è naturalmente la seconda. Posto infatti che dal punto di vista linguistico si dia la possibilità di nominare qualcosa come un «sé», posto cioè che sia possibile un movimento di autodesignazione diverso dalla designazione diretta (io, tu, egli…), il vero problema è capire che cosa questa nominazione implichi sotto il profilo sostanziale: in altri termini, si tratta di stabilire se ai dispositivi della riflessione corrisponda una forma di identità intesa necessariamente nel senso della permanenza del tempo, o se al contrario questa forma non sia che una tra altre legittimamente possibili. Da qui Ricoeur muove per chiarire in che misura il rimando al testo e al mondo dell’azione consenta di ripensare la nozione di identità, in un processo di ridefinizione che non presupponga necessariamente l’esistenza di un «nucleo immutabile della personalità» (RICOEUR I 1990a, 13 [77]) e che assuma come punto di riferimento il testo come strumento di obiettivazione del senso. La tesi di Soi-même comme un autre è insomma che il discorso sul soggetto possa preservare effettivamente la distinzione tra l’«io immediato» e il «sé riflesso», soltanto a patto di passare attraverso dispositivi diversi da quelli tipici dell’ego cogito: con tutta la sovradeterminazione che ciò implica, l’ermeneutica della soggettività funziona come metodo “riflessivo”, solo nella misura in cui sia in grado di identificare il soggetto non nel dato immediato e autoriferito di un io che si osserva, come è (secondo Ricoeur) per tutta la tradizione cartesiana, ma in un dispositivo che si produce a partire dalle proprie obiettivazioni. Tale spostamento coincide con lo scarto stesso che separa la fenomenologia dall’ermeneutica e che prende come «pietra angolare» la teoria del testo, non più risalendo dal testo alla possibilità di identificare la soggettività nascosta dell’autore, ma includendovi le soggettività che si muovono nel mondo “aperto dal racconto” (cfr. RICOEUR I 1995b, 56-57 [70-71]). Come si vede, si tratta di una tesi che è al tempo stesso storicofilosofica ed epistemologica. Da questo punto di vista, la prima acquisizione importante di Soi-même comme un autre è data dal confronto tra la discussione classica sul cogito e l’insieme delle procedu- Martinengo.qxp 110 12-11-2012 14:27 Pagina 110 IL PENSIERO INCOMPIUTO re all’opera nei processi di testualizzazione dell’esperienza: la posizione di Ricoeur è sostanzialmente quella di un’ermeneutica che, assunta la critica dell’io cartesiano-kantiano inteso come istanza fondatrice del vero, sposta altrove il centro del problema; e lo spostamento è rappresentato dalla possibilità di identificare nei diversi processi di obiettivazione un “sostegno esterno” all’operazione riflessiva. È quella che altrove Ricoeur definisce la «via lunga dell’interpretazione» e che resta in effetti una costante significativa del suo discorso sull’identità personale, in parte per la derivazione marceliana, in parte per i confronti portati avanti con lo strutturalismo, la filosofia analitica e la filosofia del linguaggio.3 Posto però che questo si possa fare, ossia che una soggettività così identificata si possa attribuire all’ermeneutica di cui è questione in Temps et récit e in Du texte à l’action, resta ancora da decidere quale consistenza ontologica essa esibisca de facto. A quest’esigenza risponde lo schema teorico che Ricoeur ha in mente ora e che si riassume proprio nell’opposizione tra due modi di relazione con il tempo: l’identitàidem e l’identità-ipse. 1.2.2 Le due forme dell’identità riflessiva: la permanenza del carattere e il mantenimento della promessa Il quadro generale della discussione è già formalizzato nelle Conclusioni di Temps et récit III, dove non a caso Ricoeur riporta la distinzione al “dilemma” classico del Medesimo e dell’Altro. La tesi è netta: la struttura dell’ipseità «può sottrarsi al dilemma del Medesimo e dell’Altro, nella misura in cui la sua identità riposa su una struttura temporale conforme al modello di identità dinamica frutto della composizione poetica di un testo narrativo». E ciò accade perché «a differenza dell’identità astratta del Medesimo, l’identità narrativa, costitutiva dell’ipseità, può includere il cambiamento, la mutabilità, nella coesione di una vita» (RICOEUR I 1985, 355 [376]). Lo scarto tra idem e ipse sta esattamente qui, nella differenza «tra una identità sostanziale e formale e l’identità narrativa» (RICOEUR I 1985, 355 [375]). Sotto il profilo teorico, l’accostamento al tema della testualizzazione ha dunque un obiettivo esplicito: stabilire al livello del discorso sul tempo il discrimine tra diversi dispositivi di costruzione dell’identità. Proprio questo rimando al tempo appare a Ricoeur come il punto cieco di molte analisi contemporanee sulle Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 111 111 stesse problematiche, in particolare in ambito analitico. Il richiamo (cfr. in partic. RICOEUR I 1990a, 39-72 [103-136]) è da una parte agli studi sul riferimento identificante di Peter Strawson e dall’altra all’approccio pragmatico delle analisi del linguaggio ordinario, che escludono programmaticamente dall’analisi il «fatto che la persona di cui si parla, che l’agente da cui dipende l’azione, hanno una storia, sono la propria storia». Estromettere dall’analisi sulla soggettività «i cambiamenti che affettano un soggetto in grado di designare se stesso significando un mondo» non impone di trascurare «soltanto una dimensione importante fra le altre, ma una intera problematica, cioè quella dell’identità personale che non può precisamente articolarsi se non nella dimensione temporale dell’esistenza umana» (RICOEUR I 1990a, 137-138 [201-202]). Del resto, che il soggetto sia un’identità temporalizzata è evidente anche sotto i presupposti di una teoria strettamente sostanzialista. Il soggetto può dirsi “il medesimo”, nella misura in cui permanga come uno “nel tempo”: si definisce come identico a se stesso quel sostrato della soggettività che si mantiene invariato nell’insieme di variazioni di cui il tempo è inevitabilmente portatore. Da questa particolare relazione con la temporalità – in cui il soggetto funziona come fattore di stabilità, all’interno dello schema relazionale delle variazioni – deriva la nozione di identità nel senso dell’idem latino, che Ricoeur definisce anche «identità-medesimezza». Tuttavia la permanenza nel tempo, intesa come identificazione di un sostrato invariante all’interno di tutte le variazioni, non è l’unica forma legittima di identificazione. O meglio lo è finché si dà una lettura dell’identità personale interamente assiata sulla nozione di «carattere» (cfr. per es. RICOEUR I 1990a, 143-148 [207-212]): da questo punto di vista, il soggetto sarebbe l’insieme di tutte le determinazioni acquisite – la seconda natura – che diventando «disposizioni permanenti» lo distinguono dagli altri soggetti; senza quest’acquisizione stabile non si darebbe un carattere, né tanto meno la possibilità di un riconoscimento. Non solo: la nozione di carattere comporta anche l’inclusione di tutte le altre forme in cui può dirsi l’identità personale; e ciò avviene nella misura in cui la vasta nozione di disposizione permanente sia sostituita integralmente dall’idea di una permanenza (stabile) della disposizione, ossia nella misura in cui si sposti il centro del problema sull’idea che il carattere consista Martinengo.qxp 112 12-11-2012 14:27 Pagina 112 IL PENSIERO INCOMPIUTO in un insieme di abitudini sempre già acquisite. In realtà, è palese che la sedimentazione di una disposizione implica sempre un momento precedente di innovazione: deve esserci stato un momento o un livello temporale in cui la disposizione era “in via di esser contratta”. Perciò l’identità-idem tende a mancare il bersaglio proprio rispetto all’idea che un’identità si possa riconoscere come la stessa non soltanto rispetto alle diverse parti che compongono il suo nucleo stabile, ma anche attraverso i momenti in cui si contraggono nuove disposizioni. È questo il valore aggiunto apportato da Soi-même comme un autre, come specifica Ricoeur stesso: «Il pregio principale di questo spostamento d’accento è quello di rimettere in questione lo statuto di immutabilità del carattere, ritenuto acquisito nelle mie antecedenti analisi. Di fatto, questa immutabilità si rivela essere di un genere assai particolare, come attesta la reinterpretazione del carattere in termini di disposizione acquisita.» Infatti, attraverso il ricorso al tema dell’acquisizione, «la dimensione temporale del carattere si lascia, infine, tematizzare per se stessa. Il carattere, direi oggi, designa l’insieme delle disposizioni permanenti a partire da cui si riconosce una persona» (RICOEUR I 1990a, 145-146 [209-210]). Pur tralasciando l’ovvia obiezione secondo cui la nozione di carattere è essa stessa determinata temporalmente (e in un modo diverso dalla semplice permanenza), ciò a cui fanno riferimento altri modi di dire l’identità è insomma la possibilità di “identificare” una soggettività prescindendo da quest’insieme di riferimenti. Ed è proprio ciò che fa il racconto: la narrazione mostra infatti che il processo di costruzione dei significati, a qualsiasi livello lo si voglia considerare, funziona secondo un modello che non soltanto non esclude un principio di variabilità delle connessioni (gli eventi che sono messi in intrigo appaiono disomogenei tra loro: cause, effetti, casualità, responsabilità…), ma anzi fa di quest’eterogeneità l’origine stessa del significato. La messa in intrigo è per definizione sintesi dell’eterogeneo e, solo se l’eterogeneo è davvero tale, l’intrigo è in grado di dire qualcosa sul mondo. Ma, posto che le cose stiano così rispetto alla costruzione di un flusso ordinato di eventi, allo stesso principio non può non rifarsi quel particolare dispositivo del sistema narrativo che è costituito dall’identità dei personaggi: se infatti la costruzione dell’intreccio dà corso a un processo di identificazione dei Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 113 113 soggetti agenti, i personaggi stessi – e questo è vero già per la Poetica di Aristotele (cfr. RICOEUR I 1990a, 170 [234]) – mantengono lungo tutto il corso della storia un’identità che è correlata a quella della storia raccontata.4 Perciò le identità narrative che sono coinvolte in una storia sono sottoposte a criteri di unità, articolazione interna e completezza del tutto equivalenti a quelli che definiscono lo svolgersi del racconto. In altri termini, ciò che la messa in intrigo conferisce ai soggetti coinvolti nella storia è un vincolo di necessità che converte in una configurazione stabile effetti di contingenza tra loro eterogenei. Gli eventi, le relazioni e le responsabilità sono infatti l’insieme di ciò che in ogni momento avrebbe potuto essere altro.5 Tale configurazione, che diventa quasi una necessità interna al racconto, una risposta necessaria (ma non esclusiva) a un prenarrativo parzialmente irrisolto, è funzionalmente la stessa che è in questione in mimesis I-III. Il valore aggiunto portato dal racconto consiste allora in una trasformazione decisiva, che tramuta il “caso” in “destino” (cfr. RICOEUR I 1990a, 175 [239]): tutti gli elementi casuali, che producono una successione imprevista di eventi, compongono una storia quando vengono compresi après coup, attraverso uno sguardo retrospettivo che li struttura in una vera e propria «necessità narrativa» (RICOEUR I 1990a, 170 [234]). Da questo punto di vista, la correlazione tra temporalità, campo pratico e soggetto agente produce una dialettica interna all’agente stesso, che funziona esattamente secondo il modello narrativo della concordanza discordante: anche nella costruzione dell’identità si riproduce il dualismo tra gli effetti di rottura e la possibilità di una sintesi coesa e coerente, un dualismo sul quale, secondo Ricoeur, «si modula l’identità del personaggio». Tuttavia, come si è visto, la teoria della messa in intrigo non implica soltanto questo: per quanto attiene alla mimesis, non tutto si risolve nel passaggio di elementi del campo pratico dalla contingenza alla necessità. O, meglio, la trasformazione dal contingente al necessario induce un’altra caratteristica fondamentale del campo pratico, che a grandi linee si può riassumere in questi termini: il prenarrativo, infatti, non contiene le premesse per una forma specifica di messa in intrigo, bensì per un insieme virtualmente indefinito di esecuzioni, dotate ciascuna di pari dignità di attualizzazione. Attraverso il racconto, questo particolare gioco di Martinengo.qxp 114 12-11-2012 14:27 Pagina 114 IL PENSIERO INCOMPIUTO virtualità e attualità si trasferisce in toto al livello dell’identità: nella misura in cui si sviluppi attraverso una messa in intrigo, l’identità stessa dei soggetti agenti risulta dalla negoziazione di uno spazio di stabilità tra costruzioni di senso (ascrizioni, legami causali, responsabilità, concorrenze…) che sono virtualmente opposte. Proprio il riferimento a un principio di “negoziazione variabile” è ciò che esorbita più esplicitamente dalla nozione tradizionale di identità, nella misura in cui questa sia intesa soltanto nel senso della medesimezza. Il fatto che il soggetto agente non sia la trascrizione narrativa di un’esperienza stabilita univocamente, ma prospetti invece una serie di soluzioni virtualmente equivalenti, espone infatti l’identità narrativa a quello stesso insieme di «variazioni immaginative» che vige nel passaggio dal prenarrativo al narrativo: è la stessa sfera dei soggetti agenti a essere coinvolta in quella complessa relazione, per la quale qualsiasi configurazione narrativa è soltanto una tra quelle virtualmente possibili. Il fatto che il racconto sia un intreccio tra le forze agenti sul campo, ma che quest’intreccio possa altresì essere altrimenti (nel senso di un’infinità di variazioni regolate, all’interno di uno spettro definito: le infinite “versioni narrative” di uno stesso stato di cose), va a incidere sulla possibilità stessa di attribuire all’identità narrativa lo status di una soggettività che permane nel tempo. Dal punto di vista teorico, la necessità di sostituire la nozione sostanziale di identità con l’insieme di relazioni che fanno capo all’identità narrativa fa riferimento proprio a questo capovolgimento. L’identità narrativa – o, meglio, quel particolare modello che va sotto il nome di identità-ipseità – corrisponde in altri termini al sé di un soggetto che, invece di perdurare come il medesimo attraverso un flusso di vicende, è incluso nel processo di attualizzazione narrativa, che attribuisce al campo pratico una configurazione tra le infinite disponibili. Resta naturalmente da capire in che cosa quest’inclusione sia anche la costruzione di una diversa relazione con la temporalità. E si tratta, secondo Ricoeur, di una relazione che ha nuovamente la sua esemplificazione in una regione specifica del campo pratico: la dialettica di “affermazione” e “mantenimento” che caratterizza la promessa. L’ipseità – scrive Ricoeur – rappresenta «un altro modello di permanenza nel tempo rispetto a quello del carattere. È quello della Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 115 115 parola mantenuta nella fedeltà alla parola data. In tale mantenimento, vedo la figura emblematica di una identità polarmente opposta a quella del carattere» (RICOEUR I 1990a, 148 [212]). Rispettare una promessa implica infatti «un mantenersi che non si lascia inscrivere, come il carattere, nella dimensione del qualcosa in generale, ma unicamente in quella del chi?» La promessa rappresenta insomma la fattispecie più tipica di una relazione con il tempo alternativa a quella della permanenza, o meglio alternativa a quella particolare forma di permanenza che si vede all’opera nel caso della medesimezza: «Una cosa è il perseverare del carattere […]; un’altra la perseveranza della fedeltà alla parola data. Una cosa è la continuità del carattere; un’altra la costanza nell’amicizia» (RICOEUR I 1990a, 148 [212]). Nella promessa dunque (ma qui la fenomenologia dell’“io prometto” è davvero soltanto il caso più semplice di un modello più vasto) non accade affatto che un soggetto permanga immobile attraverso un quadro di mutamenti, ma – all’opposto – che egli vi si includa direttamente, affermando in via pratica di essere colui che ne risponde («Sono io colui che…»): un determinato campo pratico, in virtù del suo essere indefinitamente attualizzabile, è ricondotto a un sé che in qualche modo ne diviene il referente pratico. Qui diventano chiare le implicazioni di una considerazione della temporalità radicalmente diversa da quella sostanzialista: il sé inteso come ipseità è colui che si rende riconoscibile attraverso questo stesso campo pratico, ossia colui che entra nello spazio dei significati dichiarando contestualmente di poterne rendere ragione. A tutti gli effetti, la promessa gioca il ruolo di un dispositivo che traslittera nel campo pratico il processo puramente narrativo della messa in intrigo; ed è il modello attraverso il quale non è più il soggetto immutabile a garantire l’unità di una storia, bensì è la storia ad assicurare ai personaggi la loro continuità. Il soggetto che al principio di una vicenda “dà la propria parola” è infatti lo stesso che durante il suo svolgersi può dimostrare il mantenersi della propria identità, indipendentemente dal soddisfacimento o meno dell’impegno preso: ma ciò è possibile a condizione che vi sia una continuità di eventi che, nel bene o nel male, gli dà ragione. Il significato teorico della nozione di responsabilità è proprio questo: un soggetto può rispondere di una determinata serie temporale, in quanto riceve il principio della propria connessione identitaria a partire da Martinengo.qxp 116 12-11-2012 14:27 Pagina 116 IL PENSIERO INCOMPIUTO questa serie. Il sé riflesso che caratterizza la promessa è dunque la trascrizione di un soggetto che in ogni momento può dire: «Sono ancora io quello che…». Ed è questa capacità di riconoscersi come lo stesso a marcare la differenza tra il permanere e il mantenere: il sé che si impegna a mantenere (ipoteticamente o effettivamente) la parola data non oppone stati mutevoli (eventi) a determinazioni permanenti (soggetti), ma fornisce un filo conduttore al permanere e al mutare, ovvero ai processi che coinvolgono assieme il soggetto e la serie di eventi a lui riferiti. Quest’attestazione, che garantisce assieme un’unità di senso e una sorta di Zusammenhang des Lebens dell’io, è secondo Ricoeur l’unico modo in cui si può davvero parlare di una continuità del sé. 2. Memoria e oblio: la non-totalizzabilità dell’esperienza Attraverso questi passaggi, si vede bene come Soi-même comme un autre renda possibile l’estensione al versante della soggettività di quel vasto insieme di determinazioni, prima tra tutte la nozione di referenza, che fanno capo al discorso sul racconto. La distinzione tra l’identità come medesimezza e l’ipseità è il presupposto per ancorare il problema del soggetto al processo di testualizzazione che è in questione nei tre volumi di Temps et récit. Anche in questo caso, il punto di congiunzione tra discussioni apparentemente distinte è il tema del significato: tanto in Temps et récit, quanto in Soimême comme un autre, sono i modi in cui si produce l’obiettivazione di un senso a essere centrali; e il dato comune di quest’attestazione è la forma temporale dell’esperienza, che attraverso la distinzione tra idem e ipse, al pari di ciò che avviene in mimesis I-III, diventa il vettore del significato. Il riferimento al tempo trasferisce tuttavia, anche al livello del sé, tutto l’insieme di questioni che afferiscono all’aporetica, ossia al dato di fatto per il quale il processo della messa in intrigo (in qualsiasi senso lo si debba intendere) non può essere la trascrizione completa di ciò che il vettore temporale significherebbe in un’ipotetica esperienza immediata. È a quest’insieme di problemi che fa riscontro, in termini tutto sommato nuovi per l’ermeneutica di Ricoeur, l’opera centrale della sua produzione tarda, La mémoire, l’histoire, l’oubli. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 117 117 2.1 Il problema del passato: fenomenologia, epistemologia, ermeneutica L’ampliamento dell’aporetica alla teoria della referenza basata su mimesis I-III costituiva a tutti gli effetti il punto d’arrivo di Temps et récit. Si trattava di un’estensione che confermava la scelta di attribuire all’ermeneutica di Ricoeur quella che si era connotata (con tutta la sovradeterminazione del caso) come un’intonazione “ricostruttiva”. Del resto, la stessa decisione di leggere la teoria del romanzo nella chiave di una teoria della referenza andava in questa direzione: posto che la messa in intrigo non si identifichi semplicemente con la trascrizione o la riproduzione dei diversi modi temporali del prenarrativo, ma con il loro principio di organizzazione, ciò fa riferimento a una forma di stratificazione del significato (il terzo tempo narrativo), che rimarca l’impossibilità di una mediazione totale dell’esperienza. Da questo punto di vista, mimesis I-III sembra presupporre una più vasta teoria della rappresentazione, basata sull’idea che i fenomeni temporali possiedano diversi coefficienti di traducibilità linguistica e che proprio su questa disomogeneità si fondi la possibilità di una traduzione imperfetta del prenarrativo. Che le cose stiano in questi termini e che dunque il vero problema di mimesis I-III sia la distinzione tra l’insieme dei significati e uno sfondo di determinazioni apparentemente non-significanti è ciò che proprio La mémoire, l’histoire, l’oubli aiuta a stabilire. In altri termini, il discorso ricoeuriano sulla memoria si pone lungo una linea di continuità che fa del problema del significato il proprio denominatore comune; ed è una continuità che non a caso consente di fare luce su ciò che costituiva il punto debole della costruzione di Temps et récit, ossia la difficoltà di controllare fino in fondo le implicazioni aporetiche del narrativo. Da questo punto di vista, è come se in Temps et récit si potesse rilevare ancora un difetto di mediazione, in particolare la sottovalutazione di alcuni dei dispositivi fondamentali ai quali si deve la traduzione dell’esperienza prenarrativa. Ricoeur vi fa cenno soltanto una volta ne La mémoire, l’histoire, l’oubli, ma significativamente lo fa quasi in esergo al testo quando scrive: «Si tratta qui di un ritorno su una lacuna nella problematica di Tempo e racconto e di Sé come un altro, in cui l’esperienza temporale e l’operazione narrativa vengono messe in presa diretta, a prezzo di una impasse sulla memoria e, ancor peggio, sull’oblio, livelli mediani tra tempo e racconto» (RICOEUR I 2000, I [7]). In altri termini, Ricoeur Martinengo.qxp 118 12-11-2012 14:27 Pagina 118 IL PENSIERO INCOMPIUTO sostiene che nella relazione tra il tempo e il racconto non tutto vada da sé: esiste una serie di piani intermedi che intervengono a determinare il risultato finale, rendendo di fatto possibile la referenza del linguaggio al tempo. Ne La mémoire, l’histoire, l’oubli questa sottovalutazione fa capo soprattutto a un aspetto del processo: a stabilire il modo in cui mimesis I-III funziona – questa sarà la tesi da dimostrare – sembra essere soprattutto il tipo di gestione che la messa in intrigo è in grado di garantire nei confronti dei contenuti che abitualmente vanno sotto il titolo di esperienza passata. Il problema del passato diventa insomma l’altra faccia della teoria della referenza contenuta in Temps et récit; e di questa teoria coglie ciò che si è identificato come l’aspetto meno esplicito, ossia l’impossibilità di tradurre narrativamente un’esperienza completa del tempo. Resta dunque da capire che cosa questa continuità comporti per il modello teorico che Ricoeur ha in mente e in che misura ciò vada a modificarne l’intonazione generale. Il discorso di Ricoeur sulla nozione di passato si svolge sostanzialmente in tre tempi, a ciascuno dei quali corrisponde un diverso aspetto metodologico del problema (cfr. RICOEUR I 2000, I-II [7-8]): la questione “fenomenologica”, concernente la memoria in senso stretto; il discorso più latamente “epistemologico”, riguardante la fondazione metodologica delle scienze storiche; il problema “filosofico-ermeneutico”, di matrice heideggeriana, riguardante la storicità. Ciò che unifica questi tre livelli è la scelta – ben evidente, almeno nella prima parte del testo – di ricondurre il tema della memoria a quello che forse è il problema più inclusivo, ossia il discorso sulla traccia come dispositivo di iscrizione del passato. Il problema è definire, sotto i tre livelli della fenomenologia, dell’epistemologia e dell’ermeneutica, in che modo la memoria funzioni concretamente e in subordine quale sia, alla luce di questo funzionamento, la consistenza delle determinazioni che come tali afferiscono al passato. Il discorso fenomenologico prende le mosse dal problema concernente l’oggetto della memoria, che Ricoeur rilegge soprattutto in chiave aristotelica: la memoria «è del passato», il suo oggetto esclusivo è un che di precedentemente percepito, acquisito o appreso. Posta in questi termini, la questione ha due implicazioni, che Ricoeur affronta in particolare nella sezione intitolata Saggio fenomenologico sulla memoria: la Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 119 119 prima concerne il problema della datazione, ossia la possibilità di “marcare temporalmente” una rappresentazione, distinguendola per esempio dall’immaginazione, onde riferirla in modo inequivocabile a un momento del tempo che non sia più l’attuale; la seconda riguarda la struttura stessa della traccia, ovvero il suo essere rimando ad altro e i modi in cui essa si iscrive nella memoria. Di fatto, i due problemi sono le facce di una medesima questione: l’atto di iscrizione della traccia è assieme la scelta di collocare tale rimando in un dato momento del tempo. Con tutta la sovradeterminazione del caso, si può dire che si tratti di un problema attinente al “sostrato” della memoria, ossia a quella disposizione (qualsiasi senso ontologico le si vorrà attribuire) attraverso la quale una certa rappresentazione si mantiene nel tempo ed è in grado di significarlo. Che la vera questione concerna il modo in cui una rappresentazione si mantiene nel tempo rimandando al passato è palese anche rispetto al versante epistemologico delle scienze storiche. In questo contesto, per Ricoeur è centrale soprattutto il momento pubblicocondiviso della scrittura del passato: posto che il problema della storia sia anzitutto la sua veridicità, la costruzione di un racconto vero del passato corrisponde in via primaria alla produzione di un archivio documentario adeguato; ma quest’esibizione è al tempo stesso l’apertura – per parafrasare un’espressione cara a Ricoeur – di un possibile “conflitto delle interpretazioni”, di uno spazio di pubblica rettifica, almeno potenziale. Se la storia è altra cosa dalla memoria – e questa parte de La mémoire, l’histoire, l’oubli è tutta condotta lungo il confine che separa la testimonianza della memoria e la prova documentaria dello storico (RICOEUR I 2000, 209-219 [234-257]; ma cfr. anche JERVOLINO 2003, 90-99) – ciò avviene perché dal punto di vista epistemologico essa è un progetto di interpretazione del passato, che deve legittimare la propria validità di fronte alla possibilità di costruzioni alternative. In ciò la storia è distinta dalla memoria: è pur vero che l’altro dispositivo di costruzione del passato si espone a una “dialettica dell’altrimenti” quasi analoga; ma ciò che definisce lo specifico della storia è il fatto che tale dialettica subisca, nel lavoro scientifico concreto, una sorta di obiettivazione. Almeno sommariamente, è questo il quadro in cui si inserisce il terzo aspetto del problema, ossia il discorso più strettamente ermeneutico. Secondo Ricoeur, infatti, i temi della memoria e della storia Martinengo.qxp 120 12-11-2012 14:27 Pagina 120 IL PENSIERO INCOMPIUTO possono ottenere una prima sintesi, proprio dal punto di vista dell’interpretazione. Il che avviene non tanto sotto il profilo strutturale, quanto semmai a partire dai significati prodotti. In questo senso, la memoria e la storia finiscono per giocare un ruolo analogo a quello che Du texte à l’action attribuiva all’azione: posto che si dia un significato linguistico (e in particolare narrativo) del tempo, dev’esservi un dispositivo di mediazione che renda strutturalmente compatibili da una parte la scansione cronologica dell’esperienza e dall’altra la forma linguistica che le dovrebbe competere. In realtà che la storia, almeno in potenza, abbia questo significato è già molto chiaro in Temps et récit, dove l’epistemologia del racconto storico è costruita in analogia con l’ermeneutica del racconto di finzione. Tuttavia, ora il problema si sposta in particolare sulla memoria, ossia su una determinazione alla quale non è difficile attribuire, almeno ipoteticamente, tanto una caratterizzazione temporale, quanto una struttura (pre)linguistica: ma di tale ambiguità è meno facile cogliere tutte le implicazioni, soprattutto sul versante di una teoria del significato. 2.2 Tempo, memoria, linguaggio: teoria della rappresentazione Questo è il quadro generale in cui si muove La mémoire, l’histoire, l’oubli. Per capire in concreto come la memoria determini la costruzione dei significati occorre però fare un passo indietro e considerare più da vicino che cosa ne sia della sua funzione referenziale, ossia del suo riferimento “oggettivo” al passato come tale. Che la memoria possa definirsi in qualche senso “fedele al passato” è infatti una pretesa di natura tipicamente ontologica, che è esplicita fin dalla dichiarazione del Peri mnemes kai anamneseos aristotelico, secondo cui la memoria implica sempre «che sia trascorso del tempo». Ciò mette evidentemente in questione il carattere di “passeità” del passato, ossia i requisiti formali sotto i quali si può coerentemente parlare di qualcosa come un “trascorso”. In altri termini, il primo (forse l’unico) problema filosofico concernente la memoria è decidere quale tipo di “affermazione ontologica” si faccia nel momento in cui si evoca il trascorso. E per Ricoeur si tratta di un problema che almeno in prima battuta sembra confinare con la questione classica (platonica, aristotelica, agostiniana…) dell’eikon: se il passato ha a che fare con una traccia che Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 121 121 significa assieme se stessa (una semplice presenza) e altro (un che di temporalmente indicizzato), al suo interno si riproduce l’ambiguità tipica della rappresentazione dell’assente, quella che tiene assieme e confonde l’assente come irreale e l’anteriore come passato. In realtà, La mémoire, l’histoire, l’oubli mostra che le cose non devono stare necessariamente così. Se infatti la questione dell’immagine è quella dei suoi rapporti di somiglianza o dissomiglianza con l’originale, sia esso presente, passato o irreale, al contrario la conoscenza storica ha a che fare con valori testimoniali, ossia con determinazioni che spostano il problema sul registro della credibilità e affidabilità: come può un essente (la traccia) pretendere di essere, al tempo stesso, la testimonianza credibile di un passato? Il problema di Ricoeur è insomma stabilire come si dia una referenza al passato, come si realizzi quel ruolo di “rappresentanza attraverso il tempo” che già Temps et récit metteva in carico al contesto narrativo.6 2.2.1 La memoria si fonda sull’oblio. L’oblio come virtualizzazione dell’attuale Del resto, non è un caso che Ricoeur sottolinei la struttura dell’“essere attraverso il tempo” di una testimonianza, ossia il fatto che la rappresentazione del passato sia la pretesa di istituire una relazione con il tempo, basata sul mantenimento (sulla fedeltà, appunto) di una continuità. A questo livello, Ricoeur ritrova l’idea heideggeriana di una referenza che può dirsi sia in negativo sia in positivo, come riferimento a «ciò che non è più» (il passato come Vergangenheit) e come riferimento a «un che di essente stato» (il passato come Gewesenheit). Già a questo punto si trova qualcosa di importante nell’ottica di un’ontologia ermeneutica. Ricoeur ha presente infatti il modo in cui Heidegger risolve la coesistenza tra presenza e assenza all’interno della nozione di passato, ma sceglie di porre in tutt’altro modo il problema della loro relazione: che il passato possa dirsi almeno in due modi (di cui uno sottolinea il darsi di una relazione positiva e di una continuità con il presente) ha sicuramente a che fare con una particolare gestione della memoria, ma è una gestione che presuppone una considerazione non scontata della disposizione uguale e contraria, ossia dell’oblio. Il fatto che questo legame tra memoria e oblio si dia in concreto è la vera posta in gioco dell’analisi. In realtà, la funzione dell’oblio rispetto al trascorso è alquanto più complessa di quanto possa apparire a prima vista; e soltanto Martinengo.qxp 122 12-11-2012 14:27 Pagina 122 IL PENSIERO INCOMPIUTO attraverso questo passaggio si può verosimilmente chiarire il problema della rappresentanza del passato. Al rapporto tra la memoria e l’oblio, Ricoeur attribuisce infatti un ruolo dichiaratamente produttivo, a partire da una vasta tipologia del ricordare e del dimenticare che non a caso, partendo dal dualismo tra Vergangenheit e Gewesenheit, insiste ancora una volta sulla nozione di «virtualità». Se di ciò che è assente (in quanto è passato o è stato dimenticato) si può dire in negativo che “non è più”, oppure in positivo che “è stato”, la non-presenza è pensata in entrambi i sensi come indisponibilità all’utilizzo, cioè come mancanza rispetto alla modalità del porre mano. Nel secondo caso, però, il suo rapporto con la manipolabilità è del tutto particolare. Ciò che è assente nel senso dell’“essente stato” non è infatti ciò che manca il soddisfacimento strumentale: il passato come l’inevitabile o come ciò su cui non si può più intervenire. La Gewesenheit è piuttosto ciò che possiede una sorta di anteriorità logica sul presente, uno status ambiguo che implica contemporaneamente una rottura rispetto alla sfera dell’utilizzabile e la sua persistenza sotto forma di “riserva”. Ricoeur colloca il discorso sul virtuale proprio qui, alla base di questa ambigua presenza/non-presenza: la virtualizzazione, nel senso deleuziano del termine, è di fatto equivalente al processo di costituzione dell’essente stato, ossia a un dispositivo che, staccando e rendendo indisponibile l’essente rispetto al qui e ora, lo preserva tuttavia dal Vergehen, dal passare via per sempre. E il vettore del passaggio dall’attuale/disponibile al virtuale/indisponibile è proprio l’oblio, in una forma che ripete molto da vicino il gioco di rottura e persistenza implicato dalla Gewesenheit. La tesi di Ricoeur è insomma questa: l’oblio è un dispositivo di “messa in riserva” (o virtualizzazione) che ha strettamente a che fare con la costituzione del passato in quanto “essente stato”. Ciò che è obliato – almeno in qualche senso del termine oblio – risulta archiviato lontano dalla coscienza immediata e va ad accumularsi in una riserva, che mantiene tuttavia una relazione attiva con l’attività della memoria. Di che cosa si tratti in concreto, e soprattutto quale sia la relazione positiva tra questa forma di virtualizzazione e la memoria, è chiaro soprattutto da un punto di vista operativo. È quanto Ricoeur rileva, almeno implicitamente, quando propone di distinguere tra due Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 123 123 diverse forme di oblio, ossia – a grandi linee e non senza ambiguità – tra uno strato profondo, attinente all’iscrizione della traccia, e uno strato superficiale, riguardante il suo richiamo. Al livello superficiale, che La mémoire, l’histoire, l’oubli connota come «oblio fenomenologico», si collocano i fenomeni conosciuti come fallacie della memoria, ossia quei processi che intervengono semplicemente su contenuti di memoria già dati, modificandoli o al limite riorganizzandoli. Di contro, la virtualizzazione lavora a un grado di profondità diverso, che dunque – anche al di là dei termini ricoeuriani – si dovrà supporre coinvolga lo status della traccia in quanto tale: qui agisce infatti una forma di cancellazione (oblio ontologico o fondamentale) che riguarda le condizioni stesse della ritenzione, cioè tutte le determinazioni attinenti alla tracciabilità, alla ricettività e alla natura del supporto mnemonico.7 La tesi di Ricoeur è insomma che «la sopravvivenza per sé delle impressioni-affezioni» (RICOEUR I 2000, 570 [625]) non soltanto non sia una competenza indipendente, o addirittura contraria, rispetto all’oblio profondo, ma anzi dipenda direttamente da questa. E tale dipendenza – l’equivalenza paradossale tra la sopravvivenza del ricordo e l’oblio – deriva direttamente dal modo in cui si definisce la virtualizzazione: se vi è qualcosa come un dispositivo di conservazione delle tracce al livello della memoria, ciò accade non in quanto il ricordo sia in grado di sopravvivere alla minaccia dell’oblio, ma al contrario in quanto è l’oblio stesso (almeno nella sua forma di oblio fondamentale) a garantire questa persistenza.8 Alla base di questa lettura, vi è insomma l’idea che l’oblio sia qualcosa di più complesso che una disposizione uguale e contraria alla memoria. O meglio vi è l’ipotesi che, attraverso la distinzione tra livelli diversi del dimenticare, si possa rendere conto positivamente del lavoro del ricordare. Il ricorso alla metafora della “profondità verticale” nel funzionamento della memoria (cfr. RICOEUR I 2000, 538 [591]) implica un percorso in due tempi. In primo luogo, è vero che «l’oblio risveglia l’aporia stessa, che sta all’origine del carattere problematico della rappresentazione del passato, e cioè la mancanza di affidabilità della memoria», perché «l’oblio è la sfida per eccellenza opposta all’ambizione di affidabilità della memoria» (RICOEUR I 2000, 538 [592]). Ma, in secondo luogo, è chiaro che il funzionamento del ricordo è la fattispecie di un problema più generale, quello che tiene assieme «presenza e assenza Martinengo.qxp 124 12-11-2012 14:27 Pagina 124 IL PENSIERO INCOMPIUTO nel cuore della rappresentazione del passato, a cui si aggiunge il sentimento di distanza, proprio del ricordo, a differenza della semplice assenza dell’immagine, che essa serve a dipingere o a simulare» (RICOEUR I 2000, 538 [592]). In virtù di questa singolare coesistenza, il tema dell’oblio diventa strategico per pensare la struttura profonda dell’operazione della memoria, partendo proprio dalla nozione di “virtualizzazione del passato”. Questo è dunque il modo in cui Ricoeur cerca di dare ragione della tesi heideggeriana sulla precedenza dell’oblio rispetto alla memoria.9 È pur vero, scrive Ricoeur, che in Heidegger l’oblio non è posto direttamente in relazione con la memoria, perché ricade in un sistema più complesso – quello della cura e dell’inautenticità – in cui è inteso primariamente come “oblio dell’essere”. Ma ciò non toglie che in questo contesto esso costituisca un ulteriore tassello della discussione sul passato, raccolta attorno al dualismo di Gewesenheit e Vergangenheit (cfr. RICOEUR I 2000, 572-573 [628-629]). Posto che si debba prendere alla lettera la posizione heideggeriana sul primato dell’oblio, è qui che il testo di Ricoeur consente di formulare almeno un’ipotesi su questo “ruolo di garanzia” nei confronti del ricordo. Attraverso la distinzione tra l’oblio fenomenologico e l’oblio ontologico, ciò che sembra emergere più sostanzialmente, ma anche meno esplicitamente nell’analisi ricoeuriana, è infatti il diverso comportamento dei due livelli dell’oblio nei confronti della freccia del tempo: mentre le forme attinenti allo strato superficiale sono reversibili e modificabili, le strutture concernenti il piano dell’iscrizione dovranno in qualche modo intendersi come unidirezionali. Nel primo caso, si ha insomma a che fare con la scena manifesta dell’attività mnestica, la quale ovviamente procede secondo riaggiustamenti continui del confine tra il ricordo e la cancellazione; nel secondo, invece, ci si riferisce a un processo (la messa in riserva) che – si deve supporre – è assolutamente anteriore a qualsiasi altro, ossia non si dà come un avvenimento appartenente alla serie temporale e dunque non è svolgibile, riavvolgibile o sospendibile. Per quanto Ricoeur non la espliciti mai come tale, è probabilmente questa la particolare originarietà che pertiene al virtuale: ciò che l’oblio virtualizza non è qualcosa che in seguito potrà tornare disponibile sul piano dei contenuti, non è in altri termini una sorta di “copia di backup” che all’occorrenza potrà essere riat- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 125 125 tualizzata e riutilizzata. La mémoire, l’histoire, l’oubli sembra dunque dire che alla messa in riserva corrisponde un processo radicalmente diverso da quello che ha a che fare con la latenza del ricordo, con quella classe di tracce che attendono un semplice richiamo per poter ridiventare ricordi coscienti: il suo ruolo in rapporto alla ritenzione pare coincidere con una traduzione che assume sì una parte dei contenuti attuali, ma virtualizzandoli li rende definitivamente indisponibili sul piano della riattualizzazione, ossia li trasforma in qualcosa che non è, né potrà più essere, un contenuto. Ancora una volta, il discorso di Ricoeur resta piuttosto sfumato. Ma se le cose stanno così, non è improprio supporre che alla base di questa prestazione del virtuale vi sia una trasformazione di genere molto particolare: ciò che è implicato dalla messa in riserva sarebbe in altri termini una procedura che sostituisce il “dato” con la “funzione”, l’essente qui e ora con un essente stato il quale, cancellato come significato disponibile, non diventa altro che un puro supporto significante. L’ipotesi pare legittima almeno nella misura in cui ripeta l’ambivalenza connaturata con i processi di virtualizzazione: separazione dall’attuale e, al tempo stesso, mantenimento di una relazione attiva con esso. L’oblio profondo di cui parla Ricoeur non può corrispondere infatti né (1) a una cancellazione totale, perché in tal caso il virtualizzato non potrebbe influire sull’attuale; né (2) a una trasformazione del contenuto, che traduca l’elemento di partenza semplicemente in un altro dato disponibile; né appunto (3) a un processo di latenza, che sarebbe sì adeguato all’idea di un’«anteriorità che preserva», ma lascerebbe totalmente indecisa la questione dell’irreversibilità (RICOEUR I 2000, 573 [629]). Se dunque il virtuale non agisce sulla ritenzione dell’attuale come un altro contenuto, né come lo stesso contenuto in fase di latenza, allora non può che operarvi come condizione della tracciabilità, ossia come mero dispositivo funzionale. L’oblio fondamentale di cui parla Ricoeur avrebbe insomma a che fare con la “forma” del supporto della memoria: in qualche modo, sarebbe il suo originario “esser-sgombro”, una pura funzione di ritentività che – per rovesciare la metafora borgesiana di Funes el memorioso – corrisponde al puro scarto (all’interruzione, alla selezione…) al quale si deve l’iscrizione dei ricordi. Martinengo.qxp 126 12-11-2012 14:27 Pagina 126 IL PENSIERO INCOMPIUTO 2.2.2 Perdita e conservazione del passato: teoria ermeneutica dell’iscrizione (I) L’ipotesi che si può formulare a partire dal modello de La mémoire, l’histoire, l’oubli si basa dunque sull’idea che l’oblio fondamentale abbia a che fare con la memoria in quanto ne rappresenta non tanto il confine o il limite di validità, bensì il supporto sul quale essa si scrive: la messa in riserva costituirebbe lo sfondo virtuale sul quale l’abituale processo di conservazione del passato opera normalmente. Che le cose possano stare in questi termini non è del resto secondario per il funzionamento di una teoria ermeneutica della memoria, in particolare per la relazione che la memoria stessa è in grado di istituire con il mondo dei significati. Se infatti la costruzione del ricordo ha davvero a che fare con un principio di (parziale) virtualizzazione dell’attuale, si può francamente sostenere che tutto ciò che è dimenticato al livello dell’oblio ontologico risulti perso come tale e che gli si possa riconoscere un ruolo operativo soltanto come vuota ritentività, ossia come un dispositivo che precede sì la serie successiva delle ritenzioni, ma che direttamente non si riattualizza mai. Del resto, posto in questi termini, il problema non è irrilevante rispetto all’ipotesi che la filosofia dell’interpretazione ricoeuriana possa essere letta come ermeneutica ricostruttiva. Qui infatti – e lo si può dimostrare, anche al di là di ciò che Ricoeur decide di esplicitare – sarebbe all’opera un meccanismo dispersivo che, se non può definirsi di disseminazione o di pura dépense, è quanto meno apparentato a una sorta di “entropia dei significati”. In altri termini, l’iscrizione della traccia sarebbe resa possibile dalla sua stessa parzialità, ossia dal fatto di avere “dissipato” nel processo una parte (rilevante o meno, non è questo che conta) del suo potenziale di significato. Il fatto che poi la dissipazione sia definita come messa in riserva, piuttosto che come sfondo o attrito, non muta sostanzialmente i termini della questione: ciò che arriva allo stadio della memoria è solo una parte del significato, dacché l’altra parte è stata irreversibilmente selezionata per diventare supporto significante.10 Se le cose stanno così, la virtualizzazione rappresenta a tutti gli effetti un processo di perdita rispetto alla trasmissione del significato. E ciò accade perché la messa in riserva è una pura operazione strutturale (un attrito, un effetto di entropia), che non può ricadere nella mediazione linguistica dei significati. È questo il motivo Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 127 127 per il quale – come voleva l’incipit de La mémoire, l’histoire, l’oubli – il discorso sulla memoria impone di rivedere il rapporto tempo-linguaggio, e di farlo includendovi un supplemento di mediazione. La dispersione di contenuti che sembra prodursi nel lavoro della ritenzione fa infatti tutt’uno con l’irriducibilità del tempo al puro linguaggio. Si potrebbe anzi dire che l’una ripete la forma dell’altra secondo un rapporto di stretto isomorfismo: quanto accade nel rapporto tra la memoria e la costruzione del passato è l’altra faccia di ciò che si produce nella teoria della referenza di mimesis I-III, ossia l’impossibilità di portare al significato la totalità dell’esperienza. Resta da capire che cosa quest’omologia porti con sé. Ricoeur riserva alla questione un silenzio sintomatico, che è coerente con il programma di confutazione della fenomenologia: non essendo un fenomeno “automanifestativo”, la temporalità non può essere pensata o detta in modo diretto, prescindendo dall’analisi delle mediazioni (anche linguistiche) alle quali fa riferimento. In questo senso, Temps et récit non è mai un’analisi sul “che cosa” del tempo, bensì una tematizzazione dei modi obliqui in cui il fenomeno si dà nel linguaggio. Ma fermi restando questi limiti, si è già mostrato che alle spalle dell’aporetica descritta da Temps et récit è all’opera una particolare ontologia della temporalità, e nella fattispecie un’ontologia che si gioca interamente sulla nozione di biforcazione: tutte le serie divergenti che si aprono ai diversi livelli del discorso sul tempo (anima vs mondo, passato vs presente vs futuro, continuità vs puntualità, distentio vs intentio…) possono essere ricondotte a una duplicità di fondo, che a livello sostanziale è forse indeterminabile, ma che dal punto di vista della relazione con il linguaggio è piuttosto semplice da definire. In questo quadro, l’omologia rispetto al gioco di memoria e oblio diventa particolarmente significativa, perché contribuisce a chiarire il senso di questa relazione, almeno ex post: le tre forme dell’aporia messe in luce da Ricoeur (fenomenologia vs cosmologia, unità vs pluralità, tempo-tema vs tempo-sfondo) paiono infatti i corollari di un teorema di indecidibilità più generale, che attiene al modo stesso in cui si produce il significato in tutte le forme, concettuali, metaforiche, narrative o identitarie, che lo caratterizzano; e come questi diversi livelli possano stare assieme è ciò che la fenomenologia della memoria si incarica di rendere in qualche modo intelligibile. Martinengo.qxp 128 12-11-2012 14:27 Pagina 128 IL PENSIERO INCOMPIUTO Alla base di questo teorema di indecidibilità, che in prima battuta sembra concernere soltanto il rapporto tempo-linguaggio, vi è infatti ciò che La mémoire, l’histoire, l’oubli mette in carico alla virtualizzazione, ossia l’impossibilità di tradurre in modo integrale l’esperienza del trascorso. Nel caso della memoria, quest’impossibilità fa capo soprattutto alla trasformazione di una parte dell’esperienza dal ruolo di contenuto a quello di funzione ritentiva, mentre nel caso del racconto a entrare in gioco è l’insieme delle questioni che si sono raccolte sotto la nozione del “costituente sempre già presupposto al lavoro della costituzione”. In realtà però, proprio il dispositivo di costituzione che sta alla base di mimesis I-III finisce per presupporre un processo di virtualizzazione del tutto analogo a quello su cui si basa l’iscrizione del ricordo. Già Temps et récit mostra che se il tempo è effettivamente la verità del racconto, ciò implica qualcosa di più complesso della semplice Erfüllung del linguaggio da parte dell’esperienza: il significato temporale non è un contenuto già dato, che entra ex novo nella messa in intrigo, bensì è il risultato di un processo di costruzione rispetto al quale la referenza temporale è effetto e non causa; il cosiddetto dato temporale dell’azione risulta insomma sovradeterminato da un costrutto di componenti tipicamente funzionali e antecedenti alla messa in intrigo, senza le quali con ogni probabilità esso non sarebbe affatto significativo. Ma questo processo sembra ora la ripetizione quasi perfetta del dispositivo di virtualizzazione che è all’opera rispetto alla memoria: in altri termini, se vi è qualcosa come la costruzione di un significato temporale, ciò accade in virtù di quella stessa sovrapposizione (che diremmo precategoriale) tra contenuto e forma, di cui si serve il lavoro della memoria. Se l’omologia tra Temps et récit e La mémoire, l’histoire, l’oubli regge davvero, si può allora sostenere che alla base dell’analisi di Ricoeur tanto la temporalità quanto la memoria presuppongano una sorta di “terzo genere” ontologico, antecedente alla distinzione tra i dispositivi ritentivi e i contenuti positivi: assieme deposito (contenuto) e vettore (contenente) del significato, il passato assomma in sé la sostanza e la forma della referenza. E appunto da questa sovrapposizione tra contenuto e funzione dipende in ultima istanza il nucleo di tutta l’aporetica del tempo, ossia l’impossibilità di derivarne una fenomenologia pura. Il tempo non può essere il tema puro di un’ipotetica Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 129 129 apprensione di coscienza, perché dell’atto di ritenzione rappresenta la premessa maggiore: se si dà effettivamente un’apprensione del passato, ciò accade perché il tempo stesso ha già definito una struttura ritentiva/selettiva che è, in due modi diversi, il significato e il significante della ritenzione. Ciò tuttavia è vero – ed è l’ultima ipotesi che il discorso di Ricoeur consente ancora di fare – a un livello più complesso di quello implicito nella natura temporale degli atti di coscienza. Il nucleo dell’aporia non sta insomma nell’idea che il tempo rappresenti l’a priori di ogni lavoro di costituzione. Il vero problema è quello che fa capo ai “due modi diversi” di attestazione della temporalità, ovvero alla circostanza per la quale il tempo gioca parallelamente su due piani reciprocamente irriducibili: non c’è fenomenologia pura della temporalità, ossia rappresentabilità totale, perché di fronte a qualsiasi tipo di mediazione il tempo sembra scindersi immediatamente (ossia prima della ritenzione) in contenuto e funzione, significando però poi soltanto in relazione al primo e non alla seconda. È questo “doppio gioco” del tempo ciò che la memoria mostra concretamente all’opera. Su questo piano allora, rappresentare il tempo significherebbe sì rappresentare nel tempo e attraverso il tempo; ma ciò non tanto nel senso di una sorta di autoreferenzialità della memoria su se stessa, quanto invece nel senso di quella divaricazione che separa il tempo tematizzabile da una temporalità di sfondo, che esorbita dall’ambito dei contenuti e si accantona come supporto. Al di là di quanto Ricoeur stesso sembra interessato a esplicitare, l’omologia con la memoria consente insomma di chiarire – a un livello quasi fenomenologico – quello che restava il dato implicito di mimesis I-III: l’impossibilità, da parte del dispositivo della narrazione, di completare il processo di assorbimento “logico” dell’aporia. Da quest’ipotesi deriva però un’ulteriore conseguenza, che è molto significativa rispetto al problema della ritenzione. Posto infatti che la costruzione dei significati temporali funzioni in questi termini, il livello della pura rappresentabilità del tempo (o dell’iscrizione) attesta una caratteristica del tutto coestensiva alla nozione ermeneutica di precomprensione: se è il prodotto, e non il motore, di un processo d’archiviazione che precede la distinzione tra contenuto e funzione, il supporto della memoria non è – come in molte forme classi- Martinengo.qxp 130 12-11-2012 14:27 Pagina 130 IL PENSIERO INCOMPIUTO che o rinnovate di filosofia del cogito – una coscienza-tabula su cui il dato recepito si scrive semplicemente e originariamente, ma al contrario è un che di acquisito che determina l’iscrizione, essendone a sua volta rideterminato. In altri termini, il dato che giunge a comprensione è recepito a partire da una serie di funzioni (ritenzione, iscrivibilità…) le quali però, derivando da un processo di virtualizzazione, non sono che ex-contenuti e dunque si comportano più come precomprensioni, che come un dispositivo neutro di supporto. Qui il discrimine pare essere proprio la temporalità. Se effettivamente, sulla base di un’inferenza che ha le sue premesse nel discorso di Ricoeur, si può dire che il tempo funzioni secondo il modello dell’istantanea scissione in contenuto e forma, allora lo sfondo della ritenzione non potrà mai essere un’autocostituzione originaria o un’architraccia che raccoglie passivamente l’iscrizione: il supporto della ritenzione dovrà configurare piuttosto una sorta di “preistoria degli eventi”, che ridetermina attivamente ogni successivo atto di iscrizione. Da questo punto di vista, il significato si scrive su un supporto già scritto e già cancellato, al modo di un’iscrizione che media tra l’attuale e il virtualizzato, tra il dato presente e l’“essente stato” precompreso. Ciò che Ricoeur dice a proposito della particolare originarietà del tempo è dunque vero soprattutto nel senso di un cortocircuito tra l’originario e il derivato: non vi è mai una costituzione realmente prima (un primum assoluto che precede l’iscrizione), perché se queste premesse sono vere, né la tabula preesiste alla serie delle ritenzioni, né l’atto ritentivo precede l’istituzione della tabula. L’una e l’altro si generano assieme, in un segno costitutivamente in ritardo rispetto a ciò che, funzionando come preistoria, lo de-cide: non dunque un foglio bianco che riceve il primo tratto d’inchiostro, ma un palinsesto che trattiene l’attuale solo in quanto è la continua ristratificazione di sensi passati. Note 1 Il riferimento a Koselleck è centrale in alcuni passaggi importanti di Temps et récit III: cfr. in partic. RICOEUR I 1985, 300-313 [317-331]. 2 Sul ruolo di mediazione che l’azione gioca in questa fase del discorso di Ricoeur, è utile il confronto con le valutazioni che propone Aime (cfr. in partic. AIME 2007, 180-209). All’interno del vasto quadro delle interpretazioni di Ricoeur, il vantaggio Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE PRIMA 14:27 Pagina 131 131 più evidente delle analisi di Aime sta soprattutto nella scelta di costruire un percorso tematico, non strettamente riducibile alla cronologia del percorso ricoeuriano. 3 L’idea che la riflessione sulla soggettività debba essere anzitutto un’analisi dei modi in cui il soggetto si obiettiva nel mondo è la posizione a partire dalla quale Ricoeur “innesta” l’ermeneutica sulla fenomenologia. Qui la novità è che il vasto ambito delle obiettivazioni del soggetto è ricondotto alla forma “testo”, che diventa il loro principio di unificazione. Sul problema delle obiettivazioni del cogito, la discussione più ampia è ancora quella di Domenico Jervolino, contenuta ne Il cogito e l’ermeneutica (cfr. in partic. JERVOLINO 1984, 54-64). Ma cfr. anche la sua analisi più recente, contenuta in JERVOLINO 2003, 66-76, dove il discorso fenomenologico-ermeneutico sul sé è posto in connessione con la vasta problematica della traduzione, che non a caso rappresenta uno degli esiti più significativi dell’ultima filosofia di Ricoeur. 4 La correlazione tra intreccio e personaggio è uno dei temi più frequentati dagli studi narratologici. In Soi-même comme un autre e in Temps et récit, Ricoeur discute, tra gli altri, le tesi morfologiche della semiotica di Vladimir J. Propp, gli studi di Frank Kermode, la logica di Claude Bremond e il modello attanziale di Algirdas J. Greimas (cfr. RICOEUR I 1984, 49-90 [55-101] e in sintesi RICOEUR I 1990a, 171174 [235-238]). Il rapporto tra l’ermeneutica ricoeuriana del racconto e gli studi delle scuole semiotiche, narratologiche e critico-letterarie dovrebbe costituire un capitolo a sé stante nella ricostruzione delle basi teoriche entro cui Ricoeur si muove in questa fase. 5 È appena il caso di notare che questa costruzione retroattiva di una necessità è un tipico effetto di “ricostruzione”: anche l’identità – concordemente all’idea che si stia parlando non di un’ermeneutica del narrativo, ma di una filosofia generale dell’interpretazione – si costruisce al modo di qualsiasi altra determinazione significante, ossia secondo il modello dell’attestazione après coup. 6 Cfr. in partic. RICOEUR I 1985, 203-227 [213-240]. Il fatto che la questione del passato travalichi i confini di una fenomenologia (o di un’ermeneutica) della memoria è un elemento fondamentale per capire la posta in gioco del discorso di Ricoeur. Del resto, come mette chiaramente in luce Aime (cfr. in partic. AIME 2007, 333-383), le occorrenze del tema all’interno della produzione ricoeuriana sono piuttosto differenti: dal problema della verità in storia (di cui il volume del 1955, Histoire et verité, è l’attestazione più evidente) alla questione della messa in intrigo storica, fino alle analisi sulla rappresentazione del passato di cui si parla qui. 7 Sarebbe più corretto dire che in realtà il modello di Ricoeur è tripartito, nel senso che, accanto al livello superficiale dell’«oblio di richiamo», bisogna distinguere non uno, ma due tipi di «oblio profondo»: l’oblio di riserva propriamente detto e l’oblio per cancellazione delle tracce. Tuttavia questa seconda forma di oblio profondo fa capo sostanzialmente a un altro modo di porre il problema: è il vasto ambito dei problemi legati alla traccia in senso mnestico, ossia sotto il profilo del suo supporto organico e neuronale. Al livello fenomenologico-ermeneutico, la distinzione importante resta quella tra l’oblio di richiamo e l’oblio di riserva. Sulla distinzione tra mnestico e mnemonico, cfr. in partic. RICOEUR I 2000, 540, nota 3 [593, nota 3]. 8 Ricoeur è molto chiaro in ciò: «A quale titolo, allora, la sopravvivenza del ricordo equivarrebbe all’oblio? Ma, precisamente, a nome dell’impotenza, dell’in- Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 132 coscienza, dell’esistenza, riconosciute al ricordo nella condizione del “virtuale”. Non si tratta più, allora, dell’oblio che la materialità mette in noi, l’oblio per cancellazione delle tracce, ma l’oblio che possiamo dire di riserva o di risorsa. L’oblio designa, in tal caso, il carattere non percepibile della perseveranza del ricordo, la sua sottrazione alla vigilanza della coscienza» (RICOEUR I 2000, 570 [626]). Il rapporto tra oblio e materialità è fatto sulla base delle analisi che Henri Bergson dedica a Ravaisson, su cui cfr. in partic. BERGSON 1896, 198 [149]. 9 Il passo di Heidegger è quello, molto noto, che si trova nel § 68 di Sein und Zeit, La temporalità dell’apertura in generale: «Allo stesso modo che l’attesa è possibile solo sul fondamento dell’aspettarsi, così il ricordo è possibile solo sul fondamento dell’oblio, e non viceversa. È infatti nel modo dell’oblio che l’esser-stato “apre” primariamente l’orizzonte entro il quale l’Esserci, perduto nella “esteriorità” di ciò di cui si prende cura, ha la possibilità di ricordarsi» (HEIDEGGER 1927a, 449 [407]). 10 È questa la selezione di cui il Funes borgesiano non sarebbe capace. Proprio perciò, in senso apparentemente paradossale, si può dire che Funes ricorda tutto e dunque non ricorda nulla: in quanto non opera selettivamente, la sua memoria non sembra in grado di costruire il supporto che garantirebbe, almeno per sottrazione, la sua continuità. Il riferimento al Funes di Borges e a tutti i problemi connessi con l’impossibilità di una memoria totale, senza scarto, è discusso in particolare all’inizio del capitolo sull’oblio: cfr. RICOEUR I 2000, 537-538 [590-591]. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 133 Parte seconda Tempo e rappresentazione: Ricoeur in dialogo Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 134 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 135 Intermezzo Nel pensiero di Ricoeur, il discorso sulla memoria assume dunque una funzione riepilogativa nei confronti dei problemi connessi con la teoria dell’interpretazione: le questioni ermeneutiche legate ai dispositivi di comprensione e trasferimento del senso trovano nel rapporto tra virtualizzazione e rappresentazione del passato un’ipotesi di unificazione. Come si è visto, ciò avviene da una parte riscrivendo in senso ermeneutico la lettura fenomenologica che La mémoire, l’histoire, l’oubli dà del tema della ritenzione e dall’altra ipotizzando una sovrapposizione tra questa riscrittura e la conclusione più importante alla quale giungeva Temps et récit, ossia il discorso sulla non-totalizzabilità dell’esperienza temporale. In tal modo, il problema fenomenologico del passato e la questione (linguistica) della referenza al tempo sono ricondotti al tema generale della rappresentazione, di cui il discorso sull’oblio diventa il fattore di parzialità. Del resto, questa sistemazione del problema corrisponde a un’affermazione metateorica che non si può sottovalutare, ossia all’idea che l’ermeneutica possa essere letta come una teoria generale del significato. L’ipotesi è insomma che il modello di gestione del passato che Ricoeur mette in gioco ne La mémoire, l’histoire, l’oubli non si applichi soltanto al problema della ritenzione, ma che possa essere considerato anche come la descrizione del modo in cui in generale si producono i significati. Il fatto che le cose stiano in questi termini, e che dunque tutti i processi di costruzione del significato possano essere riportati al modello che abbiamo chiamato “teoria ermeneutica dell’iscrizione”, Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 136 resta in realtà poco più che un’ipotesi di lettura, almeno per ora. E si tratta di un’ipotesi che ha come premessa una vasta serie di questioni, riconducibili in ultima istanza proprio al tema della rappresentazione. In altri termini, quando Ricoeur fa – come sembra possibile dimostrare – del discorso fenomenologico sulla memoria il punto d’appoggio per ripensare il problema del significato nel suo complesso, ciò avviene a partire da una ricostruzione del problema del rappresentare, che epistemologicamente è piuttosto impegnativa. Da questo problema dipende in gran parte la possibilità di generalizzare alla costruzione dei significati il modello di articolazione del passato che Ricoeur ha in mente. È quanto si tratta di chiarire ora. Dal discorso sulla rappresentazione sembra infatti derivare un importante riposizionamento della teoria classica dell’interpretazione, un riposizionamento che coinvolge soprattutto tre ambiti: (1) la questione fenomenologica della corporeità, (2) il problema ontologico concernente la temporalità e (3) il discorso attorno ai presupposti “metafilosofici” della teoria ricoeuriana della referenza. Ognuna delle tre questioni (ruolo della corporeità, significato ontologico della temporalità e teoria della referenza), alle quali sono dedicati in successione i capitoli di questa Parte II, contribuisce in qualche modo a completare la sua teoria generale del significato. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 137 Capitolo quarto Ricoeur e Bergson Memoria e immagine, corpo e spazio Ne La mémoire, l’histoire, l’oubli, il discorso sulla passeità del passato ha una caratterizzazione esplicitamente ermeneutica, che connette il problema epistemologico dell’“essente stato” al tema più generale della Geschichtlichkeit. Tuttavia il côté ermeneutico del discorso si svolge a partire da una considerazione fenomenologica di partenza, che nel pensiero di Ricoeur rimane in qualche modo irriducibile. L’insieme dei problemi facenti capo al tema della rappresentazione, di cui La mémoire, l’histoire, l’oubli dà una prima significativa attestazione, in dialogo con Bergson e Merleau-Ponty, prende corpo in questo quadro. In altri termini, il problema della costruzione del significato trova nel discorso sul passato una coloritura francamente fenomenologica, che ha la propria esemplificazione più chiara nel modello di funzionamento della memoria. A questa soluzione, La mémoire, l’histoire, l’oubli giunge attraverso un percorso articolato, che però si può riportare senza gravi forzature al suo principale riferimento teorico: la teoria bergsoniana della memoria. Proprio questo confronto a distanza (non sempre esplicito, e comunque relativamente circoscritto) funziona come primo banco di prova per la teoria ricoeuriana della rappresentazione. 1. La memoria «è del passato». Il problema della marca temporale Il punto di partenza del discorso ricoeuriano sulla memoria è tipicamente fenomenologico: il ricordo è anzitutto ciò che del passato Martinengo.qxp 138 12-11-2012 14:27 Pagina 138 IL PENSIERO INCOMPIUTO appare (nel senso di un’affezione) alla memoria; il ricordo è il “che cosa” di un essente stato, che si rende manifesto alla coscienza. A partire da quest’assunto, prende le mosse l’analisi ermeneutica concernente il processo di costruzione dell’essente stato, con tutte le implicazioni che si sono potute rilevare rispetto all’impossibilità di totalizzarne gli esiti. Ma come si è visto, posto provvisoriamente in questi termini, il discorso sul passato segnala quello che è il problema più rilevante per ogni fenomenologia del ricordo, ossia il rapporto tra memoria e immaginazione. Ricoeur scrive infatti: «La presenza, in cui sembra consistere la rappresentazione del passato, appare proprio essere quella di una immagine. Si dice, indistintamente, che ci si rappresenta un evento passato o che se ne ha un’immagine, che può essere quasi visiva o uditiva» (RICOEUR I 2000, 5 [15]). Il linguaggio ordinario segnala insomma un problema di sovrapposizione, che tende a subordinare le funzioni del ricordo a quelle tipiche dell’immagine, facendo della memoria quasi una «provincia dell’immaginazione». In questa prospettiva prende forma la premessa maggiore del discorso fenomenologico di Ricoeur, ossia la scelta di portare alle estreme conseguenze, all’interno di una critica dell’immaginazione, la distinzione tra il ricordo e l’immagine. 1.1 Platone e Aristotele: la temporalizzazione del ricordo È palese che il problema della memoria non si limiti soltanto a una confusione “linguistica” con il dominio dell’immagine. La sovrapposizione è in qualche modo strutturale: il funzionamento della memoria appare infatti sovradeterminato da un’ambiguità più fondamentale, che da una parte fa del rapporto con l’immagine una determinazione non secondaria del ricordo e dall’altra pone il suo requisito fondamentale, ossia la veridicità della memoria, in opposizione con questa contiguità. In questo senso, la memoria possiede un notevole tratto di indecidibilità, che mette in carico all’immagine lo status di una mediazione assieme necessaria e inadeguata rispetto ai dispositivi della rappresentazione. Di fatto è questo il problema centrale di ogni fenomenologia della memoria coerentemente intesa: «La permanente minaccia di confusione tra rimemorazione [remémoration] e immaginazione, che scaturisce da questo diventare immagine del ricordo, intacca l’ambizione di fedeltà nella quale si riassume la funzione veritativa della memoria» (RICOEUR I 2000, 7 [17]). Ancora una Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 139 139 volta il punto dirimente del discorso è il tema della referenza: in che misura il ricordo, confinando strettamente col dispositivo del “fare immagini”, mantiene una funzione referenziale al reale? È possibile che la memoria, così strettamente legata all’immaginazione da sembrarne quasi un caso particolare, garantisca tuttavia una relazione al reale alternativa a quella della finzione? L’unica via d’uscita da questa «confusione» sta per Ricoeur nella distinzione in linea di principio tra «due mire, due intenzionalità: l’una, quella dell’immaginazione, diretta verso il fantastico, la finzione, l’irreale, il possibile, l’utopico; l’altra, quella della memoria, verso la realtà antecedente, antecedenza che costituisce la marca temporale per eccellenza della “cosa ricordata”, del “ricordato” in quanto tale» (RICOEUR I 2000, 6 [16]). Del resto, che il problema stia proprio qui è quanto dimostrano con evidenza i due modelli fondamentali ai quali si fa riferimento abitualmente: la soluzione platonica e quella aristotelica. Il modello di Platone – Ricoeur pensa soprattutto al Sofista e al Filebo – si basa sulla possibilità di includere interamente la questione della memoria in quella dell’immaginazione: ma tale inclusione, basandosi su una nozione del tutto aspecifica di eikon, lateralizza la vera specificità della memoria, ossia l’antecedenza delle orme del passato (semeia) rispetto al ricordo stesso. In Platone, infatti, il problema della memoria fa capo in via quasi esclusiva alla «presenza di una cosa assente», con tutto quanto ciò comporta rispetto ai modi del riconoscimento; seppur nel quadro di una discussione anti-sofistica, resta fuori gioco la possibilità di individuare un principio di distinzione affidabile tra tekhne eikastike e arte dell’apparenza. La maggior parte delle difficoltà connesse con la teoria platonica della memoria si concentra a questo livello. E si tratta di difficoltà che, secondo Ricoeur, fanno capo alla scelta di porre la questione dell’eikon a partire dalla sua relazione di imitazione nei confronti di un’ipotetica impronta originaria, senza includere in questa relazione il riferimento al tempo, che invece sarebbe risolutivo: il funzionamento della memoria è assimilato all’immaginazione, nella misura in cui la stessa consistenza del passato sia ridotta a “figura” di un che di assente, senza che in questa riduzione entri in gioco in modo significativo il carattere temporale di ciò che è assente. Posto in questi termini, il discorso di Platone fa della veracità della memoria una semplice fattispecie della relazione di Martinengo.qxp 140 12-11-2012 14:27 Pagina 140 IL PENSIERO INCOMPIUTO somiglianza e dissomiglianza tra l’originale e la sua copia. Mentre la relazione dovrebbe semmai essere rovesciata: se di una somiglianza tra eikon e impronta si può parlare, ciò implica che si sia già acquisita l’esistenza di un dispositivo di archiviazione del passato e che dunque il rapporto tra i due momenti sia in qualche modo strutturale (cfr. RICOEUR I 2000, 15 [26]). Secondo La mémoire, l’histoire, l’oubli, al fondo della teoria platonica della memoria vi è insomma un difetto logico: contrariamente a quanto vorrebbe Platone, si può porre il problema della somiglianza tra il ricordo e l’originale, soltanto se si è stabilito previamente un legame (referenziale e dunque temporale) tra i due termini, e non viceversa. Del resto, che il rapporto mimetico tra ricordo e passato sia legato (in un senso o nell’altro) all’esistenza della memoria non è lontano dal punto centrale del Peri mnemes kai anamneseos aristotelico. O meglio, se non vicini, i due problemi del rapporto originale-copia (Platone) e della relazione mneme-anamnesis (Aristotele) restano in qualche modo paralleli e analogici.1 Come è ovvio, il discorso aristotelico sulla memoria è esplicitamente un’analisi attorno alla costituzione temporale dell’anima: l’anima è il luogo nel quale si afferma di avere in precedenza percepito qualcosa; e questo “aver percepito qualcosa” è assieme una percezione del tempo, ossia il riconoscimento che è trascorso un intervallo di tempo commensurabile. In altri termini, il problema di Aristotele è quello della marca temporale, della capacità da parte dell’anima di discernere due istanti, l’uno come anteriore e l’altro come posteriore nel tempo: senza questa prestazione non si darebbe affatto la possibilità di ricordare, tanto che Aristotele può concludere che c’è memoria soltanto «quando è trascorso del tempo» (cfr. Parva naturalia, 449 b 26). Ciò non toglie, secondo Ricoeur, che questo riferimento al tempo faccia parte di un discorso più ampio, che finisce per intersecare il modello platonico della rappresentazione. Il discorso platonico sull’eikon e sulla relazione con l’impronta originaria è infatti ricompreso interamente nel modo in cui il Peri mnemes kai anamneseos regola il rapporto del ricordo con l’affezione. Lo schema aristotelico è questo, secondo la sintesi di Ricoeur: l’affezione prodotta nell’anima e nell’organo sede della sensazione è trattenuta come un disegno, come uno zographema di cui la memoria è a tutti gli effetti il dispositivo di permanenza (cfr. Parva naturalia, 450 a 25). Naturalmente però, che la permanenza dell’affezione sia il prin- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 141 141 cipio di funzionamento della memoria non risolve ancora il maggiore dei problemi che Platone lasciava in sospeso, quello concernente il contenuto di verità del ricordo: posto che esista un dispositivo di archiviazione siffatto, ciò non implica tout court che la memoria sia anche la trascrizione fedele del passato; si tratta ancora di capire di che cosa si dia memoria, e se questo “esser di qualcosa” che caratterizza il ricordo ne assicuri anche il valore di verità. A partire da questo dato, il discorso di Aristotele si svolge sostanzialmente in due tempi, affrontando in prima istanza l’aporia della referenza: il ricordo è ricordo dell’affezione alla quale si riferisce, oppure è ricordo della cosa dalla quale questa deriva? Nel primo caso la memoria non sarebbe affatto presenza di un che di assente; mentre nel secondo resterebbe ancora da capire in che modo, trattenendo l’impressione, si trattenga anche qualcos’altro, ossia il passato come tale. La questione diventa nuovamente quella della triplice relazione tra la cosa passata (l’oggetto ricordato), la cosa presente (l’impressione che perdura) e la memoria. E coerentemente la risposta va nel senso di attribuire all’impronta (o meglio all’iscrizione) una doppia referenza: il rinvio a sé (quello che Aristotele chiama phantasma, ossia l’iscrizione in se stessa) e il rimando ad altro (l’eikon, il riferimento all’altro dall’affezione). Questa sorta di «doppia intenzionalità» dell’iscrizione (cfr. RICOEUR I 2000, 21 [32]) è ciò che consente di mantenere la proprietà dell’impronta, ossia il suo essere qualcosa di per se stessa, e assieme la sua funzione di rappresentanza e verità nei confronti di un che di temporalmente situato. Nella lettura di Ricoeur, il valore intenzionale dell’iscrizione diventa così, in seconda istanza, il punto critico da cui deriva tutto l’impianto teorico di Aristotele, in particolare la possibilità di distinguere tra mneme e anamnesis. Naturalmente, le due funzioni che Aristotele attribuisce alla memoria fanno capo l’una al semplice ricordo, nel senso dell’affezione dell’anima (la reminiscenza, «réminiscence»), e l’altra al richiamo inteso come ricerca (la rimemorazione, «remémoration»). Ma questa distinzione ha il suo punto dirimente proprio nella referenza al tempo. L’esistenza di una memoria “passiva” e di una memoria “attiva” costituisce infatti la migliore dimostrazione del valore temporale del ricordo. In particolare, il fatto che sia possibile un attivo risalimento al passato (l’anamnesis, appun- Martinengo.qxp 142 12-11-2012 14:27 Pagina 142 IL PENSIERO INCOMPIUTO to) è pensabile soltanto sulla base di una chiara costituzione temporale dell’esperienza: la determinazione attiva del ricordarsi si costruisce in quanto sia passato del tempo; solo nella misura in cui si frapponga questa distanza temporale, può esservi rimemorazione. La risposta che il Peri mnemes kai anamneseos dà al problema di Platone è in fin dei conti questa: il ricordo funziona come riferimento verace ad altro da sé nella misura in cui la memoria-richiamo percorra, secondo modalità specifiche, l’intervallo di tempo che la separa da ciò che è assente. Il tempo diventa così il fattore esplicito della capacità, da parte della memoria-richiamo, di generare una referenza al reale, senza che in questo riferimento entri in gioco un’indebita confusione con prestazioni rappresentative di altro genere. E questa dipendenza assoluta dal tempo funziona come ciò che qualifica più significativamente la memoria rispetto all’immaginazione: ciò che è assente, se è tale in quanto oggetto del ricordo e non in quanto produzione fantastica dell’anima, porta con sé necessariamente «la marca temporale dell’antecedente» (RICOEUR I 2000, 24 [35]). 1.2 Ricordo puro e ricordo-immagine: il modello di Bergson 1.2.1 La polisemia del passato In Aristotele, il riferimento dell’anamnesis al tempo è ovviamente più il titolo di un problema che la sua effettiva soluzione. E si tratta di un problema – Ricoeur lo mette in luce – che sposta nuovamente l’attenzione sulla relazione tra l’eikon e il tupos, ossia sui modi in cui è possibile ripensare da una parte il legame del ricordo con l’impronta, depotenziando per quanto possibile l’impasse platonica della copia somigliante, e dall’altra il rapporto tra l’impronta stessa e la sua origine esterna. Del resto, in Aristotele questa risposta è coerente con la scelta di includere il discorso sulla memoria all’interno della questione più vasta della referenza, ossia di sottoporre il ricordo ai vincoli di verità tipici dei dispositivi “intenzionali”. A ben vedere, però, anziché circoscrivere la questione riconducendola a un unico modello di gestione dei significati, ciò la porta a sovrapporsi a quella che Ricoeur definisce la «polisemia del passato», ossia all’idea per cui l’“essere del passato” si dice in molti modi. Dire che la memoria «è del passato» è dunque poco più che una semplificazione linguistica, che tende a ridurre a unità un insieme Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 143 143 relativamente vasto di funzioni, ciascuna delle quali esibisce un modo diverso di costruire la referenza. Se l’idea di fondo è che il ricordo si definisca anzitutto a partire dalla sua portata oggettuale, ma se gli “oggetti” del ricordo sono quanto mai molteplici, si dovrà infatti parlare di una vera e propria «fenomenologia frantumata» (RICOEUR I 2000, 27 [38]), per la quale la memoria è volta a volta memoria di eventi (a partire dalla stessa impronta nell’anima, che è tipicamente un accadimento), oppure memoria di stati di cose (perché gli accadimenti, che si ripresentano più volte come tali, in virtù di questa iterazione lasciano una traccia stabile e ripetibile). Ricoeur ammette che le due possibilità non sono affatto facilmente componibili: o parlare in generale di una “memoria del passato” costituisce un’assoluta ovvietà, perché il ricordo non si definisce se non in riferimento a un che di trascorso, oppure rappresenta un’affermazione altamente problematica, che necessita a sua volta di un’adeguata giustificazione. Proprio qui, nel discorso de La mémoire, l’histoire, l’oubli, il riferimento al tempo diventa decisivo ai fini di una descrizione congrua dell’atto del ricordare. Posto che le cose stiano nei termini che si sono descritti, almeno per Platone e Aristotele, l’esigenza che resta in sospeso è dunque la riconnessione dei diversi modi in cui la memoria si dà una referenza. Ed è a partire da questo problema che Ricoeur affronta la teoria bergsoniana del ricordo. Il dato fondamentale del discorso di Bergson è l’individuazione, sul versante oggettuale della memoria, di un insieme unitario di fenomeni, di cui il ricordo diventa la funzione comune. Il riferimento di Ricoeur è ovviamente a Matière et mémoire (1896): esiste un vasto spettro di fenomeni (dal ricordo propriamente detto alla memoriaabitudine), a cui ci si riferisce in generale quando si parla di passato; e questa sequenza non-discontinua di variazioni è la gamma oggettuale nella quale ricade ogni fenomeno afferente alla memoria. In questo continuum di fenomeni, secondo Bergson, il tempo gioca un doppio ruolo. Da una parte, il riferimento a una certa alterità temporale accomuna tutte le intenzionalità legate alla memoria, costituendone il criterio di unificazione. Dall’altra, però, le forme specifiche di questa temporalizzazione variano sensibilmente ai due estremi del continuum, incidendo sui modi in cui si costruisce l’oggettività del ricordo: nel caso del ricordo stricto sensu infatti, è il riferi- Martinengo.qxp 144 12-11-2012 14:27 Pagina 144 IL PENSIERO INCOMPIUTO mento al passato in quanto tale a qualificare il contenuto di memoria; nel caso dell’abitudine, invece, l’inclusione del passato nel presente è priva di qualsivoglia riferimento a un dato momento del tempo. Ricoeur lo spiega molto chiaramente: «La comunanza del rapporto al tempo costituisce l’unità di questo spettro. Nei due casi estremi, viene presupposta un’esperienza precedentemente acquisita; ma in un caso, quello dell’abitudine, tale acquisizione è incorporata al vissuto presente, non marcata, non dichiarata in quanto passata; nell’altro caso, vien fatto riferimento all’antecedenza in quanto tale dell’antica acquisizione». Ciò significa che in entrambe le situazioni «la memoria “è del passato”, ma secondo due modalità, non marcata e marcata, con riferimento al posto che l’esperienza iniziale occupa nel tempo» (RICOEUR I 2000, 30 [42]). A cambiare, insomma, è l’esperienza stessa della profondità temporale, nella misura in cui l’acquisizione che sembrerebbe più ovvia, quella della distanza tra passato e presente, risulta sospesa nel caso dell’abitudine, dove «il passato aderisce in qualche maniera al presente» senza che si attivi alcun dispositivo di distanziazione. La distinzione tra due forme (diverse, ma non indipendenti) di memoria è il centro teorico attorno a cui Matière et mémoire ruota: secondo la lettura che ne dà Ricoeur, l’idea che il riferimento al tempo sia il principio di determinazione dei fenomeni mnemonici, diversi per il modo in cui il contenuto è marcato temporalmente, rappresenta in effetti il punto forte del modello di Bergson. Del resto, che le cose stiano in questi termini è fondamentale per il discorso che La mémoire, l’histoire, l’oubli porta avanti, in particolare per quell’aspetto specifico dell’ermeneutica della memoria che abbiamo connotato come teoria dell’iscrizione. Il problema più rilevante, che si pone nel contesto di un discorso fenomenologico sulla memoria, resta infatti la sopravvivenza (in qualche forma) delle impressioni in quanto tali: come è possibile che un avvenimento che ci ha colpiti si iscriva e permanga nella nostra mente a titolo di marca, di impressione passiva, e che in tal modo esso sia successivamente rievocabile, nelle due forme alternative del contenuto temporalizzato e della mera abitudine (cfr. RICOEUR I 2000, 554 [608])? È l’esperienza che, seguendo Bergson, Ricoeur indica col termine classico di riconoscimento: «Un’immagine mi torna alla mente [me revient]; e io dico nel mio cuore: è proprio lui, è proprio lei. Lo Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 145 145 riconosco, la riconosco» (RICOEUR I 2000, 556 [610], ma cfr. anche BERGSON 1896, 235-244 [74-82]). Naturalmente i modi di questo riconoscimento sono svariati e vanno, per limitarsi a una fenomenologia minima, dal ritorno di un che di assente, a quelli che fanno capo al modello husserliano delle apprensioni successive. Ma il loro dato comune è proprio l’enigma della sopravvivenza, che Ricoeur descrive in questi termini: «È necessario che qualche cosa della prima impressione sia rimasto perché io possa ricordarmene ora. Se un ricordo torna alla mente, è perché lo avevo perduto; ma se, nonostante tutto, lo ritrovo e lo riconosco, è perché la sua immagine era sopravvissuta» (RICOEUR I 2000, 557 [612]). In questo senso, secondo Ricoeur, Bergson ha il merito di portare a chiarezza, più e meglio di quanto potesse fare Aristotele, quest’intreccio di sopravvivenza e riconoscimento, e di farlo all’interno del problema più generale del riferimento al tempo. Il riconoscimento, infatti, può funzionare soltanto in relazione alla marca temporale che determina l’iscrizione: e funziona più o meno bene – giacché sembra impossibile sostenere che l’abitudine sia un caso di memoria soltanto agita, priva di qualsiasi dispositivo di riconoscimento – proprio in rapporto al tipo di marca, dichiarata o non dichiarata, alla quale il passato è stato sottoposto. Se insomma vi è la possibilità di riconoscere un contenuto come appartenente al passato, anziché al presente o alla fantasia, ciò accade proprio in quanto a esso è anteposta una sorta di “fattorizzazione temporale”, un coefficiente che lo rende immediatamente classificabile. 1.2.2 La sopravvivenza del passato: rappresentazione e virtualizzazione Ma in realtà l’aporia della permanenza non si esaurisce ancora qui, almeno nel discorso bergsoniano. Quando Bergson parla della possibilità di distinguere tra diversi tipi di memoria, risponde infatti a un’esigenza più generale, ossia fa riferimento al problema (più metafisico che psicologico) della realtà della materia. Proprio a questo livello, entra in gioco l’altra celebre distinzione su cui lavora Matière et mémoire, quella tra il «puro ricordo» e l’«immagine»: posto infatti che si dia qualcosa come un corpo, che funziona come linea di confine per le operazioni della memoria (cfr. BERGSON 1896, 223 [61]), il vero problema non è più semplicemente spiegare in quali termini qualcosa del passato si conservi, ma come questa conserva- Martinengo.qxp 146 12-11-2012 14:27 Pagina 146 IL PENSIERO INCOMPIUTO zione si comporti rispetto all’ambito quasi-materiale della rappresentazione (l’immagine). E da ciò derivano le conseguenze più importanti per il modello al quale Ricoeur stesso intende riferirsi. In Bergson, quanto l’atto mnemonico abbia a che fare con le immagini è chiaro anzitutto a partire dal modo in cui la memoria stricto sensu (la memoria-ricordo) è definita in opposizione all’abitudine. La connessione è particolarmente significativa: «Spingendo fino all’estremo questa distinzione fondamentale, potremmo raffigurarci due memorie teoricamente indipendenti. La prima registrerebbe, sotto forma di immagini-ricordo, tutti gli avvenimenti della nostra vita quotidiana, via via che si svolgono; […] in essa ci rifugeremmo tutte le volte che, per cercarvi una determinata immagine, risaliamo il pendio della nostra vita passata». Ma accanto a questa forma di ricordo, la percezione «si prolunga in azione nascente; e via via che le immagini, una volta percepite, si fissano e si allineano in questa memoria, i movimenti che le continuavano modificano l’organismo, creano nel corpo nuove disposizioni ad agire. Così si forma un’esperienza di altro genere, che si deposita nel corpo». Questa sorta di “deposito” corporeo del ricordo «non ci raffigura più il nostro passato, ma lo mette in atto; e se merita ancora il nome di memoria, non è più perché conserva delle vecchie immagini, ma perché ne prolunga l’effetto utile fino al momento presente» (BERGSON 1896, 227-228 [66-67], corsivi miei). Il modello bergsoniano delle due memorie è insomma assiato sulla capacità dell’una di fare immagini e viceversa sull’impossibilità, da parte dell’altra, di dare luogo ad altro se non alla ripetizione dei movimenti corporei: se vi è un’immagine che rimanda al trascorso, ciò accade perché la memoria è in grado di sviluppare una competenza apposita, che trattiene anche in questa forma (e non semplicemente nella forma di un’abitudine contratta) qualcosa del passato. Questo è vero a un primo livello per Bergson. Ma naturalmente il discorso di Matière et mémoire non si ferma qui. Che la memoriaricordo sia in grado di dotarsi di immagini non significa infatti che possa ridursi tout court a esse. Il ruolo dell’immagine è semmai un altro e ha a che fare direttamente con il dato che abbiamo già richiamato, ossia con la capacità, da parte dei fenomeni mnemonici, di costruire un continuum tra memoria e abitudine. Posto infatti che vi sia una gamma (relativamente indeterminata) di fenomeni mnemo- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 147 147 nici, dotati ciascuno di una marca temporale differente, il vero problema è capire in che modo la memoria possa davvero continuare a dirsi una. È vero che si è individuato un criterio unificante non secondario: il tempo. Ma in realtà non si è ancora chiarito se i diversi modi di temporalizzazione diano luogo o meno a fenomeni tra loro compatibili. Bergson lo ripete ogni volta in cui l’analisi raggiunge un punto decisivo: i diversi tipi di intenzionalità della memoria non sono mai modi alternativi di conservazione del passato, come se il trascorso permanesse alla memoria necessariamente sotto forma di abitudine, oppure come immagine temporalizzata. Al contrario, almeno dal punto di vista formale, queste diverse modalità costituiscono gli stadi successivi di un unico processo di archiviazione: «le idee, dicevamo, i puri ricordi, chiamati dal fondo della memoria, si sviluppano in ricordi-immagine sempre più capaci di inserirsi nello schema motòrio»; e in tale processo, via via che «questi ricordi prendono la forma di una rappresentazione più completa, più concreta e più cosciente, tendono maggiormente a confondersi con la percezione che li attira o di cui adotta il quadro» (BERGSON 1896, 270 [106]). La memoria è insomma un processo unitario, che include a diversi livelli di profondità tutte le intenzionalità che vanno dal ricordo puro all’abitudine: è lo stesso ricordo puro che, almeno idealmente, è archiviato sul fondo della memoria e “successivamente” è riportato a forme in grado di reinserirsi nello schema motorio. Per descrivere questo percorso, Bergson ricorre all’esempio dell’“immagine uditiva”, nel quale ha buon gioco a sottolineare la compresenza di elementi ideali, cioè i significati, e componenti fisiche o “quasi-fisiche”, cioè le parole pronunciate. Qui diventa particolarmente evidente l’aspetto processuale della memoria. E ciò accade a maggior ragione nel caso in cui la comprensione delle “immagini uditive” diventi per motivi estrinseci (ascolto di parole non perfettamente intelligibili, apprendimento di una lingua straniera…) più un fatto di interpretazione che di comprensione. Bergson scrive: «Abbiamo detto che partivamo dall’idea, e che la sviluppavamo in ricordi-immagine uditivi, capaci di inserirsi nello schema motòrio per ricoprire i suoni sentiti. Là c’è un progresso continuo, per mezzo del quale la nebulosità dell’idea si condensa in immagini uditive distinte, che, ancora fluide, vanno infine a solidi- Martinengo.qxp 148 12-11-2012 14:27 Pagina 148 IL PENSIERO INCOMPIUTO ficarsi nella loro coalescenza con i suoni materialmente percepiti». Ma, in questo processo, «in nessun momento si può dire con precisione quando termina l’idea o l’immagine-ricordo, quando incomincia l’immagine-ricordo o la sensazione». Perciò, sebbene si sia costantemente portati a pensare i fenomeni come successioni di cose, anziché come progressi, è impossibile individuare una «linea di separazione fra la confusione dei suoni percepiti in massa e la chiarezza che le immagini uditive ricordate vi aggiungono, tra la discontinuità di queste stesse immagini ricordate e la continuità dell’idea originale che esse dissociano e rifrangono in parole distinte» (BERGSON 1896, 266 [102-103]). Se le cose non stessero in questi termini, se cioè le diverse modalità di archiviazione del passato non facessero parte di un processo comune, il problema sarebbe ancora una volta quello di un dualismo irriducibile tra materia e spirito. E in tal modo lo stesso modello bergsoniano di gestione della memoria perderebbe gran parte del proprio significato: i puri ricordi resterebbero allo stadio di un’iscrizione che rimanda sì al passato, ma che sarebbe letteralmente inaccessibile alla coscienza presente; e viceversa le abitudini contratte sarebbero sì continuamente attuali (per esempio nel senso di movimenti corporei iterabili), ma non rimanderebbero realmente ad alcun processo di acquisizione. La memoria sarebbe insomma costituita da una serie di piani sovrapposti, ma reciprocamente incomunicanti. Proprio a questo livello entra in gioco l’aspetto meno ovvio del discorso di Bergson sul passato. Se vi è qualcosa come uno svolgimento non-discreto di manifestazioni, che vanno dal ricordo all’abitudine, ciò si dovrà a un qualche dispositivo di mediazione, a una sorta di “schematismo” capace di tenere assieme forme altrimenti disparate di archiviazione. E l’immagine, pur non potendosi intendere in senso strettamente kantiano come schema, ha proprio questa competenza, ossia la capacità di trasferire contenuti altrimenti eterogenei (i ricordi puri) in una forma adeguata alla rievocazione attuale. In altri termini, l’immagine costituisce la tappa intermedia di un processo che potrebbe definirsi di “concretizzazione del trascorso”: è una trasfomazione che assume contenuti dal fondo della memoria e li sposta verso altri livelli di rappresentazione. La tesi di Matière et mémoire è insomma questa: il passato non si conserva in immagini, bensì nella forma particolare che è data dal Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 149 149 ricordo puro; tuttavia è proprio in immagini che il ricordo puro può in qualche modo essere riportato al presente. Questa capacità di concretizzazione consente alla memoria di essere tanto una funzione di archiviazione (il presente che si fa passato), quanto quella che aristotelicamente abbiamo chiamato facoltà della rimemorazione (il passato che ritorna presente): se, nonostante la relativa distanza tra le due nozioni di archiviazione e rimemorazione, la memoria può dirsi una e una sola funzione, ciò accade perché il cosiddetto ricordo puro è in grado di “dislocarsi” gradualmente verso un’immagine e poi verso un movimento corporeo. Del resto, non è un caso che in questo frangente Bergson insista sulle metafore spaziali. Dire che esiste un “fondo” della memoria nel quale i ricordi sono archiviati sotto forma di idee significa fare riferimento, attraverso l’analogia della profondità, a un’ipotesi ben precisa che non a caso è quella su cui Ricoeur avrebbe insistito particolarmente: l’idea per cui la memoria lavora come un dispositivo di “virtualizzazione” del passato. È quanto Matière et mémoire dice, per esempio, del rapporto tra memoria e percezione, in particolare rispetto al dispositivo di percezione cercata e focalizzata che è l’attenzione: «La percezione completa si determina e si distingue soltanto per la sua coalescenza con un’immagine-ricordo che noi le mandiamo incontro. L’attenzione ha questo prezzo, e senza l’attenzione c’è soltanto una giustapposizione passiva di sensazioni accompagnate da una reazione meccanica». Ma questa coalescenza tra percezione e ricordo è funzionale anche alla memoria: infatti, «la stessa immagine-ricordo, ridotta allo stato di puro ricordo, resterebbe inefficace. Virtuale, questo ricordo può diventare attuale soltanto per la percezione che lo attira. Impotente, chiede in prestito la sua vita e la sua forza alla sensazione presente in cui si materializza» (BERGSON 1896, 271-272 [107-108]). Bergson sostiene insomma che l’archiviazione del trascorso mette capo a un mutamento di stato, una trasformazione in seguito alla quale il passato è reso relativamente inefficiente rispetto alla sua attualità: ciò che chiamiamo «puro ricordo» è ancora un contenuto, ma dislocato a un livello (il fondo della memoria) la cui caratteristica specifica è, almeno idealmente, l’interruzione di ogni causalità sul presente. Proprio per questo motivo lo stato “virtuale” del ricordo fa tutt’uno con i dispositivi che marcano il passato in quanto passato: Martinengo.qxp 150 12-11-2012 14:27 Pagina 150 IL PENSIERO INCOMPIUTO anche per Bergson, ritrovare un ricordo significa produrre un «atto sui generis per il quale ci distacchiamo dal presente per metterci prima nel passato in generale, poi in una certa regione del passato». A questo primo spostamento fa seguito il passaggio graduale verso l’attualità; ma il ricordo «resta attaccato al passato con le sue radici profonde, e se, una volta realizzato, non risentisse della sua originaria virtualità, […] non lo riconosceremmo mai come ricordo» (BERGSON 1896, 276-277 [114]). Perciò «immaginare non è mai ricordarsi»: una certa immagine mi potrà ricondurre al passato soltanto perché «è nel passato che sono andato a cercarla» (BERGSON 1896, 278 [115]). Tra la percezione e il ricordo non vi è dunque una semplice differenza di grado: il ricordo è altro dalla percezione presente anzitutto in quanto è radicalmente impotente, incapace di agire sugli stati di cose, e di esserlo finché non venga gradualmente richiamato verso l’attualità. Questa sospensione può essere a sua volta revocata; ma ciò accade soltanto al costo di un intervento di riattualizzazione, che restituisca al contenuto passato ciò che esso aveva inevitabilmente perduto. Da questo punto di vista, il processo per il quale il trascorso costituito temporalmente si sedimenta a diversi livelli della memoria sembra consistere in qualcosa di molto simile a ciò che La mémoire, l’histoire, l’oubli chiamerà «messa in riserva»: sottratti all’incidenza del presente, i contenuti del passato sono conservati in una sorta di deposito (di genere molto particolare) che “li riserva” per un’eventuale rievocazione successiva. Come si è visto, Ricoeur tradurrà questa situazione parlando di una specifica prestazione dell’oblio, in virtù della quale si ottiene una sospensione delle rappresentazioni passate, che in tal modo sono sottratte ai processi di costruzione del significato facenti capo al presente. Ma proprio al livello della messa in riserva si addensano i problemi maggiori, almeno nel testo di Ricoeur. Se infatti si deve prendere sul serio la centralità che La mémoire, l’histoire, l’oubli assegna a questo processo dal punto di vista fenomenologico, si deve concludere nel senso che si è detto: la virtualizzazione non può essere un processo perfettamente bidirezionale, al quale corrisponde sempre e comunque un dispositivo di riattualizzazione; al contrario, il percorso dall’attuale al virtuale è un passaggio che si realizza soltanto in una direzione e che, con ogni probabilità, ha Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 151 PARTE SECONDA 151 direttamente a che fare con la produzione del supporto su cui il passato stesso si scrive. È evidente che il discorso di Bergson propenda, quanto alla nozione di virtualizzazione, per una posizione più sfumata. In Matière et mémoire, infatti, a risultare virtuale è semplicemente lo status di un ricordo che si appresta a essere riattualizzato, ossia un quasi-contenuto pronto a rispondere ai dispositivi della rimemorazione. Questa è la posizione prevalente nel discorso di Bergson: «L’immagine virtuale evolve verso la sensazione virtuale e la sensazione virtuale verso il movimento reale: questo movimento, realizzandosi, realizza contemporaneamente la sensazione di cui sarebbe il prolungamento naturale e l’immagine che ha voluto far corpo con la sensazione» (BERGSON 1896, 275 [111]). Il modello è dunque quello classico, basato sull’idea che il passato, inattuale per definizione, attenda un qualche tipo di richiamo (la rimemorazione) per «riconquistare la sua influenza perduta» sul presente, anzi per passare nuovamente «allo stato di cosa presente, attualmente vissuta» (BERGSON 1896, 282 [118]): e soltanto «riportandomi all’operazione con cui l’ho evocato, virtuale, dal fondo del mio passato», potrò restituirgli il suo carattere di ricordo, nettamente distinto dalle cose presenti. La virtualizzazione non solo non è la conversione definitiva di una parte del trascorso in qualcosa di “ontologicamente” diverso, ma anzi costituisce la trasformazione reversibile per eccellenza, senza la quale non si darebbe affatto la possibilità dell’anamnesis. 2. Memoria, corpo, situazione Che in Matière et mémoire le cose stiano in questi termini è in qualche modo acclarato. Ma a questo punto è meno chiara la connessione tra tale conclusione e la soluzione alla quale Ricoeur dà seguito: proprio qui La mémoire, l’histoire, l’oubli si lascia più nettamente alle spalle il modello di Bergson, depotenziandone le conclusioni. La “proto-fenomenologia” bergsoniana ha infatti il proprio punto forte nell’idea di una connessione ininterrotta di manifestazioni, dall’abitudine meramente contratta nel corpo, fino al ricordo puramente e semplicemente ideale; dal punto di vista teorico, questa posizione è irrinunciabile per Bergson, pena la caduta della tesi fon- Martinengo.qxp 152 12-11-2012 14:27 Pagina 152 IL PENSIERO INCOMPIUTO damentale di Matière et mémoire. Il suo peso specifico si regge tuttavia su una serie di acquisizioni per nulla scontate, che riguardano in particolare la nozione di corpo e il suo legame con l’oblio. Ricoeur riparte proprio da questi due elementi, e in particolare dal tema della virtualizzazione, arrivando però a una sistemazione teorica sensibilmente diversa. 2.1 Il corpo dimenticato Per Bergson, il fatto che l’immagine virtuale sia in grado di procedere verso la sensazione e il movimento non significa altro che questo: la percezione non è un dato istantaneo, un’intuizione reale attraverso cui la coscienza incontra le cose in un determinato punto del tempo. Percepire significa certo «mettersi di primo acchito nelle cose» (cfr. BERGSON 1896, 215 [54]); tuttavia, quest’esperienza risulta costantemente sovradeterminata da una serie di fattori, che fanno capo alla riattualizzazione del passato. Contestando le tesi degli associazionisti, Bergson scrive: «La vostra percezione, per quanto sia istantanea, consiste […] in un’incalcolabile moltitudine di elementi ricordati e, a dire il vero, ogni percezione è già memoria. Noi percepiamo, praticamente, soltanto il passato, essendo il puro presente l’inafferrabile progresso del passato che rode il futuro» (BERGSON 1896, 291 [127]).2 In altri termini, tutto il discorso di Bergson sul virtuale è orientato a risolvere, in modo fenomenologicamente accettabile, la relazione che la percezione attuale intrattiene con ciò che la precede: che poi questa relazione si dia in concreto è il maggiore tra i presupposti di Matière et memoire; ma è un presupposto in qualche modo irrinunciabile, posto che altrimenti sarebbe impossibile anche soltanto supporre la persistenza del passato. Che per Bergson la latenza rappresenti il modo in cui il ricordo si mantiene nel tempo è dunque vero in un senso molto particolare: il passato permane, nella misura in cui nel presente vi sia qualcosa che lo richiami; senza questa dialettica di distanza e rievocazione, il ricordo non soltanto non sarebbe cosciente, ma tout court non esisterebbe. Perciò, il presente «concreto e realmente vissuto dalla coscienza» consiste «in gran parte» in questo passato immediato. È quanto dice l’esempio bergsoniano della luce, che nei suoi presupposti richiama non a caso il calcolo infinitesimale: «Nella frazione di secondo che dura la più corta percezione possibile di luce, Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 153 153 dei trilioni di vibrazioni hanno preso posto, la prima delle quali è separata dall’ultima per un intervallo enormemente suddiviso» (BERGSON 1896, 291 [127]). Dunque, l’unico modo d’essere attribuito al passato è quello di una latenza sempre potenzialmente riattivabile, ma tale riattivazione avviene unicamente attraverso i dispositivi offerti dalla percezione. Occorre riconoscere che questo modello funziona piuttosto bene, soprattutto là dove si voglia dare rilievo ai fenomeni (ovvi, ma non facilmente gestibili) facenti capo alla riemersione improvvisa di contenuti che si credevano cancellati per sempre. In altri termini, attribuire alla memoria una duplice funzione virtualizzante/attualizzante consente di spiegare che cosa stia sotto alla non-linearità tipica dei ricordi e alla sostanziale imprevedibilità che concerne la loro uscita dalla latenza: ciò che in un dato istante riemerge alla coscienza deve la propria riattualizzazione a un’immagine reale che in qualche modo (per somiglianza, per semplice contiguità…) la evoca; ma poiché l’incontro con una determinata immagine reale è per lo più improvviso e contingente, sono imprevedibili anche le evocazioni che gli sono connesse. Questa soluzione si regge però al costo di una non secondaria semplificazione. Se infatti la vera posta in gioco di Matière et mémoire è la relazione tra lo spirito e il corpo (con l’inevitabile sovradeterminazione che le due categorie implicano), è difficile sostenere che dal punto di vista teorico la risposta alla quale Bergson arriva sia davvero soddisfacente per entrambi i termini. L’insistenza sulla continuità di stadi tra il ricordo puro e l’abitudine lascerebbe supporre – e con buone ragioni – che la relazione tra i due poli della memoria fosse di tipo analogico, ossia che l’archiviazione dell’esperienza da parte dei meccanismi corporei avvenisse sul modello della memoria-ricordo, ripetendone interamente l’articolazione. In realtà, nel discorso di Bergson le cose non stanno precisamente così. Se il corpo è depositario di una funzione memorativa specifica, e se questa funzione si presenta, almeno idealmente, come l’equivalente materiale dell’altro tipo di memoria, ciò non toglie che il problema dell’abitudine acquisita metta capo a un insieme di questioni molto particolari, che non hanno un vero equivalente nell’altro caso. È il refrain che segna ripetutamente il passo dell’argomentazione bergsoniana: «Il nostro corpo è uno strumento d’azione, e soltanto d’azione. A nessun livello, in nessun senso, sotto nessun Martinengo.qxp 154 12-11-2012 14:27 Pagina 154 IL PENSIERO INCOMPIUTO aspetto, serve per preparare, ancor meno per spiegare, una rappresentazione» (BERGSON 1896, 356 [189]). Questo è vero in primo luogo nel caso della percezione esterna: «Ciò che delle nostre percezioni si spiega tramite il cervello sono le nostre azioni, incominciate o preparate, o suggerite, non sono le nostre percezioni stesse». Ma qualcosa di analogo, anche se in modo più complesso, avviene nel caso del ricordo. Il corpo conserva infatti le abitudini motorie che rimettono in gioco il passato, perché offre «al ricordo un punto d’inserzione nell’attuale, un mezzo per riconquistare un’influenza perduta sulla realtà presente: ma in nessun caso il cervello immagazzinerà dei ricordi o delle immagini» (BERGSON 1896, 356 [189]). Se il corpo non contribuisce in alcun modo alle rappresentazioni, allora la sola permanenza dell’abitudine non spiega nulla dei diversi processi di riarticolazione legati all’esperienza del trascorso: è pur vero che il corpo “significa” qualcosa in relazione a contenuti del passato, ma ciò dipende da processi che si sono generati altrove; e solo sulla base di questi processi esso può entrare in relazione con le rappresentazioni. Di fatto, l’unica vera particolarità della memoria-abitudine è la capacità di ritrasmettere al mondo dell’azione processi (cioè rappresentazioni) provenienti dall’altra memoria: anziché essere l’analogon materiale del ricordo puro, i movimenti corporei acquisiti ne sono semplicemente un’espressione secondaria. Ciò che Bergson ha in mente è dunque chiaro; ed è un modello sostanzialmente ambivalente, che soltanto su quest’ambiguità può funzionare. Da una parte, vi è l’idea che la permanenza del ricordo si dia soltanto attraverso la cooperazione tra memoria e materia, perché senza l’intersezione con una percezione attuale il trascorso resterebbe allo stadio di pura virtualità; ma dall’altra, vi è la tesi secondo cui questa cooperazione, lungi dall’essere simmetrica, gerarchizza il corpo relegandolo a strumento dell’altra memoria. Per richiamare di nuovo uno schema frequente in Matière et mémoire, si può dire che per Bergson il passato è giocato dalla materia, ma è interamente “immaginato” dallo spirito (cfr. BERGSON 1896, 356 [187]): dove naturalmente se di gioco si tratta, nel caso della materia le regole non scritte sono quelle dello spirito e non del corpo. Lo schema messo in atto da La mémoire, l’histoire, l’oubli risponde direttamente al modello di Bergson e alle semplificazioni che ne derivano; ed è una risposta che parte da lontano, muovendo dalla Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 155 155 generale sottovalutazione del ruolo dell’oblio nella teoria bergsoniana. Per Bergson, l’oblio funziona quasi esclusivamente come il confine esterno della memoria: nello stesso modo in cui la materia in generale limita la vita dello spirito, anche la possibilità di dimenticare interrompe la persistenza del trascorso. Perciò l’oblio è l’effetto di senso (o meglio, di non-senso) che riduce la permanenza del passato, rendendola in qualche modo discontinua. Soluzione piuttosto classica – si direbbe. Tuttavia La mémoire, l’histoire, l’oubli le oppone un modello radicalmente diverso, basato non a caso sulla nozione di virtualizzazione: accanto alla pura cancellazione delle tracce, vi sarebbe un secondo tipo di oblio, legato direttamente alla possibilità di trattenere il passato. In questo modo, l’oblio non sarebbe più soltanto una disfunzione che interviene après coup, su contenuti della memoria già completamente immagazzinati, bensì – attraverso un processo di virtualizzazione e alterazione – la condizione stessa della ritenzione. Ma la questione non si chiude qui. Il discorso di Ricoeur non si limita a capovolgere heideggerianamente il segno dell’oblio portandolo, nei confronti della memoria, dal meno al più, dallo status di puro ostacolo, a quello di origine della memoria. L’obiezione è più netta e va a incidere sottilmente sul modello duale che Bergson ha in mente. Quando Bergson parla di memoria, non fa che riferirsi a una funzione dello spirito che si oppone a una funzione del corpo: mentre lo spirito è per eccellenza ciò che ricorda, la materia non è in grado di farlo perché al contrario, come dice Félix Ravaisson, è «ciò che mette in noi l’oblio»; il corpo sarebbe in grado di trattenere qualcosa del passato, ma se lo fa, è perché funziona come strumento del ricordo propriamente detto, quello dello spirito. A questo schema, La mémoire, l’histoire, l’oubli ribatte riportando il discorso al problema iniziale sotto cui si è posta la questione del ricordare, ossia al tema dell’intenzionalità; e compie quest’operazione riferendosi alla polarità insita nella struttura stessa della memoria, quella tra riflessività e “mondità” del ricordo. Se infatti nella memoria «non ci si ricorda soltanto di sé nell’atto di vedere, sentire, apprendere, ma anche delle situazioni mondane in cui si è visto, sentito, appreso», ciò significa che tali situazioni implicano «il corpo proprio e il corpo degli altri, lo spazio vissuto, infine l’orizzonte del mondo e dei mondi in cui qualche cosa è accaduto» (RICOEUR I Martinengo.qxp 156 12-11-2012 14:27 Pagina 156 IL PENSIERO INCOMPIUTO 2000, 44 [56]). L’atto della memoria è dunque continuamente teso, oltre che dalla distanza costitutiva tra il passato e il presente, anche dalla differenza “ontologica” che intercorre tra il ricordo di un proprio stato passato (il sé di allora) e l’insieme di circostanze in cui questo stato sorgeva: la riflessività della memoria è un elemento irriducibile dell’atto del ricordare, posto che a essere recuperato è anzitutto un certo “dato di coscienza” («Qualcuno dice “in cuor suo” di aver visto, sentito, appreso in precedenza […]» RICOEUR I 2000, 44 [57]); ma se una teoria della memoria vuole dirsi completa, deve essere in grado di produrre una fenomenologia altrettanto accurata di tutto ciò che quell’iniziale atto di percezione coimplicava, ossia il radicamento delle rappresentazioni nelle condizioni corporee dell’esperienza. In sostanza, ciò che Ricoeur contesta all’approccio bergsoniano è una radicale sovradeterminazione della nozione di “virtuale”. Da una parte, il processo di virtualizzazione del passato dovrebbe consentire di risolvere l’enigma della permanenza del passato, e con esso tutti i fenomeni legati all’esercizio della memoria. Dall’altra, quest’attribuzione fa tutt’uno con una non trascurabile omissione concernente la memoria stessa, ossia il dato di fatto (difficilmente oppugnabile) per il quale il ricordo è sempre un atto inserito in un mondo. Dire che il ricordo è doppiamente legato (per virtualizzazione e riattualizzazione) a una percezione, ma al tempo stesso supporre che ciò che è più strettamente coinvolto nella percezione, ossia il corpo, non possegga una struttura di archiviazione autonoma, significa continuare a fare ciò che in realtà Bergson si era proposto di rigettare: negare qualsiasi ruolo strutturale al radicamento mondano che ogni ricordo porta con sé. Non è un caso che queste obiezioni di Ricoeur a Bergson siano condotte sullo sfondo di una discussione, che soltanto a tratti è esplicita, con le Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstsein (1905) di Husserl. Schematizzando una questione altrimenti troppo estesa, si può dire che nel caso di Husserl il problema sia capire se la costituzione di una connessione temporale della coscienza possa davvero prescindere da condizioni irriducibili al dato coscienziale singolarmente preso. Secondo Ricoeur, la scelta di privilegare il polo soggettivo della coscienza, che peraltro in Husserl non è così univoca come vorrebbe La mémoire, l’histoire, l’oubli, mette capo a una serie di pro- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 157 157 blemi. Ciò è tanto più vero in quanto – scrive Ricoeur – la costituzione temporale dell’esperienza, pur essendo esplicitamente formale nel discorso di Husserl, continua necessariamente a reggersi sul riferimento a oggetti: è indubbio che l’analisi husserliana si sposti dalla percezione della durata (di qualche cosa), alla durata della percezione tout court; ciò non di meno il rimando a un mondo sembra di fatto irriducibile, pena l’impossibilità di articolare davvero una fenomenologia della ritenzione e della rimemorazione.3 2.2 La memoria in situazione La critica de La mémoire, l’histoire, l’oubli a Bergson si inserisce dunque nel quadro di una discussione più ampia, che ha sullo sfondo tutte le analisi fenomenologiche e post-fenomenologiche attorno al ruolo della corporeità nella relazione soggetto-mondo. Per Ricoeur, ciò che si tratta di capire è se la sopravvivenza del passato sia realmente decisa al livello del ricordo puro (con tutte le conseguenze riduttive, che Bergson trae rispetto al legame attuale-virtuale-attuale e al ruolo dell’oblio), oppure se la situazione sia più complessa e se dunque anche la memoria si dica “in molti modi”, senza il riferimento a un termine unificante. Proprio dalla risposta a questa domanda dipenderà qualcosa di significativo per quella che ne La mémoire, l’histoire, l’oubli abbiamo chiamato “teoria ermeneutica dell’iscrizione”. 2.2.1 Le memorie non rappresentative In termini molto generali, il modello con cui Ricoeur risponde a Bergson è quello che la fenomenologia post-husserliana porta a definizione e che il dibattito francese, da Merleau-Ponty in poi, contribuisce a definire: la relazione intenzionale tra il soggetto e il mondo si svolge all’interno di un orizzonte di significati di cui il corpo è l’espressione primaria; le modalità attraverso cui la coscienza si volge agli oggetti sono determinate in via prioritaria da un insieme di fattori “situazionali”, che fanno riferimento al dato puramente carnale del soggetto coinvolto. All’interno di questo quadro, che di per sé è piuttosto ampio e variegato, Ricoeur sceglie di riferirsi a una particolare versione del problema: quella che fa capo a Edward Casey e alle analisi fenomenologiche contenute in Remembering (1987). Ciò che Casey fa, in una lettura che deve molto, oltre che a Merleau-Ponty, a Heidegger stes- Martinengo.qxp 158 12-11-2012 14:27 Pagina 158 IL PENSIERO INCOMPIUTO so, è portare alle estreme conseguenze l’ambiguità del ricordo, di cui anche l’analisi di Bergson è portatrice: è l’idea che “la” memoria sia in realtà il titolo per indicare un insieme relativamente differenziato di dispositivi, la cui caratteristica meno ovvia sarebbe proprio l’omogeneità. Questo dato, che in Bergson resta in qualche modo isolato, qui invece si inserisce in uno schema descrittivo più generale, al quale Ricoeur guarda giustamente con una certa attenzione. È quanto Casey scrive nella Prefazione alla seconda edizione di Remembering: «Whereas it had been assumed by memory theorists as astute as James and Husserl that remembering comes in just two basic forms (“primary” or “retentional” vs. “secondary” or “reproductive”), it became clear to me that there is an entire set of intermediate forms of remembering: intermediate between primary and secondary memory, as well as between mind and world». E conclude: «These “mnemonic modes” take us from the realm of mind to the larger reaches of the surrounding world – from the involuted concerns of mentation to the way the world shows itself to be filled with recognitory clues, effective reminders, and things that inspire reminiscence. Instead of memory being confined to mind alone – as its own root memor, “mindful”, signifies – it enters here into a continuing close collusion with the lifeworld of its experience» (CASEY 1987, X). Casey propone insomma una lettura del ricordo interamente giocata sulla necessità di ricucire la distanza, confermata dalla versione husserliana della fenomenologia, tra la coscienza del passato e la Lebenswelt: posto che la coscienza si possa pensare come un archivio di rappresentazioni (in particolare, rappresentazioni del passato), la memoria diventa il fattore fondamentale che garantisce l’apertura di quest’archivio verso il mondo; e lo diventa nella misura in cui sia dotata di una serie di dispositivi, che risultano via via più omogenei alla realtà attualmente esperita. In realtà, l’ipotesi di Casey va molto oltre questo punto, che in qualche modo la stessa protofenomenologia di Bergson era in grado di identificare: si tratta di leggere la memoria stessa non soltanto come l’elemento di passaggio tra due o più livelli dell’esperienza, ma come un dispositivo che di per sé eccede dalla pura funzione di archiviazione/rievocazione del passato. Secondo l’ipotesi di Remembering, la memoria sarebbe già strutturalmente costituita da un insieme di determinazioni, che non si risolvono nella sola capa- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 159 159 cità di rappresentare intenzionalmente il trascorso: nel ricordare vi sarebbe sempre qualcosa di più del richiamo “quasi-visivo” di un’esperienza passata; e questo supplemento farebbe riferimento a modi di ricostituire il passato diversi ed eterogenei rispetto al modello rappresentativo-intenzionale. In altri termini, la memoria sarebbe già costitutivamente «beyond mind», oltre cioè le strutture puramente intenzionali della coscienza (cfr. per es. CASEY 1987, XI): ridurre il passato soltanto a questo, ossia a un semplice contenuto di coscienza (nel senso della coscienza come facoltà delle rappresentazioni), significherebbe fare riferimento a un’interpretazione esclusivamente “mentale” del problema;4 mentre esistono – questa è la tesi di Casey – forme molto differenti di archiviazione e rievocazione del passato. A tale livello, entra in gioco l’aspetto più interessante del discorso di Remembering ossia l’analisi, ancora fenomenologica, ma di una fenomenologia molto differente, delle diverse forme di memoria non-rappresentativa, la cui fattispecie principale sarà quella che Casey connoterà come «body memory». È infatti palese, già a un’analisi superficiale, che le sorti del ricordo non si giochino tutte al livello della coscienza: Casey parla perciò di un vero e proprio «exoskeleton of memory, serving to protect it from oblivion» (CASEY 1987, 90), ossia di un insieme di determinazioni che, secondo diverse modalità, supporta il lavoro abituale della memoria. Naturalmente il vero problema è stabilire in che cosa consistano e come funzionino questi “supplementi esterni” del ricordo. Qui il riferimento è in prima battuta a tutti i fenomeni che vanno dallo mnemoneuma (reminder) aristotelico, fisico o quasi-fisico che sia, alle memorie discorsive (reminiscences) e ai riconoscimenti percettivi (recognitions), ossia a dispositivi la cui caratteristica principale è la capacità di operare una mediazione tra la coscienza e il mondo, mediazione della quale non si potrebbe trovare traccia altrove: ciascuno di essi, ricopre il ruolo di mediatore «between mental and physical poles, an effective go-between connecting mind with body and body with world (including the world of others)» e in tal modo va a costituire «a dense, massive, and yet nuanced “instrumental complex” which mediates between my present self and everything that is not an immediate component of this self» (CASEY 1987, 141). Si può dire insomma che reminders, reminiscences e recognitions compongano Martinengo.qxp 160 12-11-2012 14:27 Pagina 160 IL PENSIERO INCOMPIUTO una sorta di “luogo di prossimità”, nel quale si concretizza ciò che del passato è fondamentale per l’orientamento nel presente (valori, doveri, decisioni, continuità identitarie…); ma l’esercizio di tali relazioni col passato è costitutivamente al di là dei confini della coscienza, nella misura in cui questa sia considerata come mero contenitore di ricordi. La fenomenologia di queste prime tre classi di memoria «esoscheletrica» (o «pubblica», come la definisce Casey) costituisce tuttavia la premessa per un passo ulteriore. Le memorie discorsive e i riconoscimenti percettivi, nonché in parte i richiami sul modello dello mnemoneuma, rimandano ancora all’esistenza di un polo coscienziale e dunque a una coscienza intesa come raccolta e rievocazione di esperienze passate, seppur nella forma di un soggetto radicato nel mondo. Soltanto col passaggio a un tipo diverso di memoria, tipicamente legato al corpo e al mondo nel quale esso si orienta, emerge con chiarezza il fatto che l’operazione del ricordare sia radicalmente irriducibile al modello coscienziale. Su questo punto, la tesi di Remembering è piuttosto classica in un certo dibattito post-fenomenologico: la percezione attuale si proietta su uno sfondo di esperienze palesemente ed esclusivamente corporee, che opportunamente riattivate rendono significativo il dato attuale, rispetto a quelli che lo hanno preceduto. Esperire la durezza o la malleabilità, la consistenza o la fragilità degli oggetti con cui si entra in relazione significa immediatamente riconoscerne l’identità con percezioni precedentemente archiviate; e questo riconoscimento immediato costituisce il primo connotato fondamentale di quella familiarità col mondo che tutti riconosciamo. Ciò significa che il corpo e i suoi organi costituiscono una sorta di “a priori generale” dell’esperienza percettiva, che parallelamente agli altri e più tipici dispositivi di unificazione (i contenuti di coscienza) è in grado di costruire una continuità temporale e dunque una memoria (cfr. CASEY 1987, 146-147). Ciò non di meno, riconoscere come fondamentale questo rapporto col passato non è sufficiente: resta infatti da chiarire in che cosa esso si distingua dalla memoria propriamente detta, da ciò che costituisce sì una continuità dell’esperienza, ma attraverso il ricorso a dispositivi tipicamente rappresentativi. Secondo un modello in senso lato bergsoniano, infatti, si potrebbe ancora supporre che la stessa esperienza corpo- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 161 161 rea, per essere effettivamente archiviata (e poi riattualizzata), necessitasse di una traduzione coscienziale e che soltanto attraverso questa traduzione fosse garantita la sua permanenza effettiva. Al contrario, secondo Remembering, il fatto che le cose non possano stare in questi termini è reso evidente dalla distinzione tra due diversi tipi di relazione memoria-corpo: quella che si definisce in generale come «memoria del corpo» (memory of the body) e quella che invece chiamiamo più propriamente «memoria corporea» (body memory). Quest’ultima allude a una memoria che Casey definisce «intrinsic to the body, to its own ways of remembering», cioè ai modi in cui ricordiamo «in and by and through the body». All’opposto, la “memoria del corpo” si riferisce ai diversi modi in cui abbiamo un ricordo del corpo «as the accusative object of our awareness, whether in reminiscence or recognition, in reminding or recollection, or in still other ways» (CASEY 1987, 147). È chiaro che la differenza tra le due forme stia soprattutto «in the noticeable discrepancy between recollecting our body as in a given situation – representing ourselves as engaged bodily in that situation – and being in the situation itself again and feeling it through our body» (CASEY 1987, 147). In altri termini, è vero che al corpo fa riferimento un dispositivo di archiviazione più originario, che è in grado di costruire in prima battuta l’esperienza. Ma i modi di archiviazione sono fondamentalmente diversi a seconda che ci si ricordi del proprio corpo in un determinato stato di cose, oppure all’opposto che ci si trovi a rivivere col proprio corpo e attraverso esso una situazione già vissuta. Nel primo caso si rievoca semplicemente un insieme di rappresentazioni di cui il nostro corpo era parte, mentre nel secondo è il nostro stesso corpo a ripetere quell’esperienza: l’una è memoria “del corpo” nel senso del genitivo oggettivo, l’altra invece lo è nel senso soggettivo. Per Remembering, insomma, il corpo è capace di una prestazione irriflessa, che lo mette in relazione diretta con il passato, senza la mediazione di altri dispositivi; ed è questa ripetizione immediata – della quale uno schema come quello di Bergson non sarebbe in grado di rendere ragione – ciò che merita senza altre limitazioni la connotazione di body memory. Casey pensa per esempio alle relazioni concrete e quotidiane con gli strumenti del corpo. Così è nel caso dell’operazione tipicamente meccanica della dattilografia, che si basa effettivamente sulla possibilità di costruire una memoria Martinengo.qxp 162 12-11-2012 14:27 Pagina 162 IL PENSIERO INCOMPIUTO corporea riguardante la disposizione e le dimensioni della tastiera: senza presupporre un riconoscimento fisico e immediato della forma materiale dei tasti (grandezza, disposizione, risposta alle pressioni…), non sarebbe spiegabile la maggiore familiarità che ciascuno riconosce nei confronti della propria tastiera, rispetto alle altre. Tramite il corpo, alla “mia” tastiera so attribuire una serie di “operazioni garantite”, che ne aumentano la significatività immediata (cfr. CASEY 1987, 146).5 2.2.2 La memoria come matrix of matrices Da queste prime osservazioni, si vede come l’analisi di Casey finisca per sovrapporsi in molti punti alla fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty. E vi si sovrappone soprattutto nel senso di superare ciò che nel modello bergsoniano vi è di più stringente sotto il profilo fenomenologico, ossia la continuità assoluta tra il ricordo puro, il ricordo-immagine e il movimento. A fronte della necessità inderogabile per il ricordo puro di riattualizzarsi attraverso il ricorso a un medium rappresentativo (l’immagine, appunto), Casey individua una sorta di doppio canale che fa delle memorie non-rappresentative un ambito di significato del tutto autonomo rispetto agli altri. Del resto, ciò è quanto già la Phénoménologie de la perception di Merleau-Ponty rilevava con particolare chiarezza, per esempio rispetto alla memoria delle parole. Secondo Merleau-Ponty, infatti, il dualismo di Bergson tra la memoria-abitudine e il ricordo puro «non dà conto della presenza prossima delle parole che so: esse sono dietro di me, come gli oggetti dietro la mia spalla o come l’orizzonte della città intorno alla mia casa, io faccio i conti con esse o conto su di esse, ma non ho nessuna “immagine verbale”». Perciò Merleau-Ponty poteva concludere che «della parola appresa mi resta il suo stile articolare e sonoro. Dell’immagine verbale si deve dire quanto dicevamo, prima, della “rappresentazione del movimento”: non ho bisogno di rappresentarmi lo spazio esterno e il mio proprio corpo per muovere l’uno nell’altro»; al contrario, «è sufficiente che essi esistano per me e costituiscano un certo campo d’azione teso attorno a me. Analogamente, non ho bisogno di rappresentarmi la parola per saperla e pronunciarla. Basta che ne possieda l’essenza articolare e sonora come una delle modulazioni, uno degli usi possibili del mio corpo» (MERLEAUPONTY 1945, 210 [251]). È dunque evidente che le rappresentazioni Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 163 163 del passato, quando vengono riattualizzate, debbano entrare in un contesto motorio, perché soltanto il movimento, o meglio il corpo che ne è il portatore, può costituire l’indice dell’esperienza attuale; tuttavia non si vede perché – ed è questa la posizione che Casey sottoscriverebbe – il ruolo del corpo debba essere unicamente questo, se è vero al contrario che esso è in grado di lavorare secondo modalità assolutamente distinte da qualsivoglia coscienza del passato. Al di là delle legittime conclusioni che Casey trae, il problema più impegnativo si pone proprio qui. Se infatti si prescinde dalle limitazioni alle quali Bergson sottopone il corpo nel processo di formazione e articolazione del ricordo, dovrà necessariamente cadere – ed è quanto finora si poteva soltanto ipotizzare – l’altro punto di forza del modello di Matière et mémoire, ossia il modo in cui venivano gestite, a partire dalla nozione di corpo, le due classi di fenomeni a essa collegati: la virtualizzazione/attualizzazione e l’oblio. La sottovalutazione della dimensione mondana del ricordo costituiva, in altri termini, il punto d’equilibrio su cui si reggeva tutto il sistema di Bergson, fin dal requisito “metafisico” del discorso, cioè dall’idea che lavorare sull’opposizione materia/memoria fosse fenomenologicamente rilevante. Posto che, sulla base di una diversa considerazione del corpo, si decida che questo presupposto è ingiustificato, è tutta la soluzione di Matière et mémoire (e in particolare gli altri due elementi del sistema) a risultarne depotenziata: se si sceglie di accentuare – come Ricoeur ritiene di poter fare, sulla scia di Casey e Merlau-Ponty – la dimensione mondana e operativo-materiale del ricordo, viene meno la possibilità stessa di attribuire al corpo o alla materialità una mera funzione di cancellazione delle tracce; e con essa – si dovrà supporre – salta anche ciò che di quest’attribuzione costituiva il corollario, ossia l’idea che vi sia un dispositivo perfettamente reversibile che presiede alternativamente all’archiviazione e alla riattualizzazione del trascorso. In tal modo, il modello di Bergson risulta destrutturato dall’interno, attraverso una revisione che parte sì dal suo presupposto principale, ma che non può non avere conseguenze sulla tenuta teorica complessiva. E se le cose stanno effettivamente in questi termini, se cioè La mémoire, l’histoire, l’oubli può essere considerata la replica all’insufficienza teorica di Matière et mémoire (in particolare al deficit di considerazione che essa riserva al radicamento corporeo- Martinengo.qxp 164 12-11-2012 14:27 Pagina 164 IL PENSIERO INCOMPIUTO mondano), molte delle questioni interpretativamente più delicate che si sono viste finora trovano una prima risposta significativa. La risposta arriva in particolare da quella che è apparsa la conquista teorica più importante del modello di Merleau-Ponty e Casey, ossia il principio di situazionalità della memoria: imporre al ricordo un doppio canale di archiviazione, l’uno rappresentativo-coscienziale e l’altro puramente materiale-corporeo, consente di enfatizzare il legame strutturale tra il ricordo e il “qui e ora” dell’esperienza, legame che Bergson credeva di aver preservato, ma di cui in realtà aveva oltremodo ridotto la funzione. Enfasi tipicamente ermeneutica – si direbbe. Ma in realtà questo non è ancora tutto. In prima battuta, vi è certo (in Merleau-Ponty, in Casey e in Ricoeur) l’idea di sovrapporre alla protofenomenologia di Bergson un modello di stampo schiettamente concreto-esistenziale: se si ricorda qualcosa, ciò accade non soltanto perché un dato attuale è in grado di suscitare una rappresentazione passata congruente, ma anche in quanto, ben prima di quest’evocazione, il passato funziona già alle spalle del presente. A ben vedere, tuttavia, La mémoire, l’histoire, l’oubli dice qualcosa di più di questa pur rilevante revisione. Tutto il discorso di Ricoeur è infatti condotto a partire da una ben precisa teoria della rappresentazione, che funziona come il punto dirimente di un buon numero di questioni. L’idea – ovvia sotto i comuni presupposti fenomenologici – è quella secondo cui la relazione del soggetto col mondo si svolge sempre articolando un insieme di significati sopra uno sfondo che è tutto sommato indipendente da quest’articolazione. Ciò vale in prima istanza rispetto al passato: è chiarissimo, in altri termini, che la riattualizzazione di significati afferenti al passato avvenga in relazione a un insieme di determinazioni che a loro volta attengono a un che di trascorso, ma che direttamente non si riattualizzano affatto. È quanto scrive esplicitamente Casey, in uno dei passaggi decisivi dell’analisi: «Although we can […] single out the specific content of what we remember for description and discussion, on closer examination we find it to be embedded in a “memory frame”, that is, the setting within which specific content is presented to us». Il rapporto con questo “memory frame” è ambiguo per natura, perché resta fungente anche se, come accade per lo più, non siamo consapevoli della sua presenza. L’esempio classico di questa presenza silenziosa è dato dall’espe- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 165 165 rienza onirica: «When I cannot “place” the content of a dream that flashes back into mind, I may very well apprehend this content as a present fantasy. But when I can say to myself, implicitly or explicitly, that “I dreamed that last night”, I have found a setting (a strictly temporal setting in this case) that helps me to identify the presentation as a memory rather than as a fantasy» (CASEY 1987, 68). Ciò significa che è costitutivo del modo in cui la memoria funziona il fatto che il ricordo sia sempre contrassegnato come appartenente a un orizzonte di riferimento: fuori da quest’orizzonte non solo esso mancherebbe di qualcosa di fondamentale (per esempio dell’insieme di relazioni in cui originariamente si collocava), ma anzi cesserebbe tout court di significare come ricordo, risultando tutt’al più equivalente a un puro dato di fantasia. Questa soluzione va tutto sommato da sé, in quanto costituisce semplicemente la risposta fenomenologico-ermeneutica al problema (tipico della lignée Aristotele-Bergson) del “passato in quanto passato”. Tuttavia essa contiene alcune implicazioni interessanti, che hanno a che fare col modo di intendere la virtualizzazione. Nel modello di Remembering, la funzione di proiettare un contenuto del passato (il contenuto riattualizzabile) su questo frame di intenzionalità fungenti e non-tematiche spetta infatti alla virtualità. Il virtuale gioca insomma – e questo è già vero al livello del ricordo in mind, ossia dell’aspetto rappresentativo-intenzionale della memoria – un doppio ruolo nel processo di archiviazione e rievocazione: da una parte, esso costituisce l’insieme dei contenuti potenzialmente riattivabili, al modo di un archivio di tracce; ma dall’altra, funziona come lo sfondo indefinito e non riattualizzato, su cui interviene ogni altra funzione della memoria. A questa sorta di sdoppiamento contribuiscono a maggior ragione gli strati non-rappresentativi della memoria, e in particolare la body memory. Nel lavoro abituale del ricordo, quello in cui la memory in mind e la memory beyond mind si trovano inestricabilmente connesse, il ruolo dei dispositivi extracoscienziali di archiviazione è per lo più quello di non essere tematizzati di per sé, ma di andare a formare il margine delle operazioni rappresentative; e pur non traducendosi in dispositivi di rappresentazione, tali dispositivi sono in grado di significare qualcosa nel presente, soltanto attraverso questa sorta di “marginalità”.6 Remembering descrive questa situazione parlando della memoria Martinengo.qxp 166 12-11-2012 14:27 Pagina 166 IL PENSIERO INCOMPIUTO come una sorta di «matrix of matrices», come una funzione di sintesi (in-gathering), che è in grado di operare contemporaneamente sul versante “formale” del ricordo e sul suo correlato “materiale”. Casey scrive: «My suggestion is that the “in” of memory’s in-gathering freedom be conceived as a matrix of matrices. “Matrix” has the curious property of signifying something that is once material and formal. From its root in mater, “mother”, it stands for a material region of origin and development». E prosegue: «As a matrix in depth, the subject who remembers inwardizes experiences, incorporating them into the density of his or her inner being instead of merely refracting these experiences back onto the world. But “matrix” also means formal framework, a topologically defined network in which items can be allotted locations» (CASEY 1987, 294). In questo modo, la nozione di “matrice” individua un aspetto fondamentale della sintesi prodotta dalla memoria: la sua capacità di determinare una sorta di “topologia” del ricordo, l’attribuzione di un luogo specifico ai diversi tipi di rappresentazione, all’interno dell’ambito indistinto della memoria. L’idea è dunque che al livello della memoria (e in particolare della memoria intesa come in-gathering) si verifichi una continua scissione di funzioni, in un processo che da una parte consente al singolo ricordo di significare qualcosa rispetto al presente, ossia di ottenere una posizione all’interno di un dato ordine di significati; ma dall’altra produce questa “localizzazione” al costo di una formalizzazione che è strettamente legata ai modi della ritenzione. In altri termini, almeno in Casey, la teoria “situazionale” della memoria si basa esplicitamente sull’idea che il ricordo sia ciò che è portato a memoria (nel senso dell’uscita dalla latenza), a partire da un sottofondo di stati mnemonici puramente ausiliari, che non significano nulla di per sé, appunto al modo di una matrix of matrices. E questi stati ausiliari – aggiunge Remembering – fanno capo esplicitamente agli effetti di senso dovuti all’oblio, alla body memory (in quanto memoria tipicamente di margine) e alla virtualizzazione. 2.2.3 Il problema del supporto: teoria ermeneutica dell’iscrizione (II) Casey ha dunque in mente un particolare tipo di “situazionalità”, che non ha a che fare soltanto col corpo e con la sua funzione di archiviazione, ma che si riferisce più in generale al radicamento di Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 167 167 ogni ricordo all’interno di fattori ancora mnemonici, ma per eccellenza non più tematizzabili. Da ciò deriva che il riferimento all’“essere in situazione” ha soprattutto un significato, almeno in Remembering: ritrovare attraverso il corpo (la virtualizzazione, l’oblio…) una risposta all’unica questione ancora aperta all’interno di una teoria della memoria, quella concernente il tipo di iscrizione effettivamente in grado di garantire la sopravvivenza del trascorso. Ancor prima che essere la soluzione al problema ermeneutico della selettività del ricordo, il riferimento al corpo costituisce il modo stesso in cui la memoria ottiene il proprio supporto materiale: senza questo riferimento, il ricordo non solo non avrebbe alcuna relazione con il concreto dell’esistenza, ma più in generale non disporrebbe a priori della struttura di sostegno sulla quale iscriversi. Resta ora da capire se questo modello, che in Remembering è piuttosto evidente, sia applicabile anche al discorso di Ricoeur, il che confermerebbe le ipotesi avanzate in precedenza. Ma che le cose stiano in questi termini è relativamente agevole da mostrare, almeno a questo punto del discorso. Il punto critico della fenomenologia de La mémoire, l’histoire, l’oubli era infatti decidere se il principio di selezione che l’oblio impone alla memoria avesse in qualche modo a che fare con le condizioni stesse della ritenzione. In altri termini, si trattava di decidere se la cancellazione dei contenuti intervenisse semplicemente come criterio di interruzione della memoria, o se invece non incidesse direttamente sul lavoro di archiviazione, costituendone lo sfondo. A sostanziare questa seconda soluzione (che del resto La mémoire, l’histoire, l’oubli non formalizza mai come tale) era soprattutto l’analisi che Ricoeur riservava al tema dell’oblio, al quale non attribuiva soltanto la funzione di rimuovere le tracce del passato, ma anche una più articolata relazione con i modi in cui queste si conservano. Da questa doppia attribuzione – oblio come cancellazione vs oblio come riserva – derivava l’idea che La mémoire, l’histoire, l’oubli contenesse una sorta di teoria ermeneutica dell’iscrizione, ossia una soluzione che facesse gioco sul presupposto ermeneutico della precomprensione (il passato non è mai effettivamente dimenticato, ma anzi orienta sempre la comprensione attuale), dandone una lettura di tipo fenomenologico. Ma è bene procedere per gradi, perché l’insistenza sul modello Martinengo.qxp 168 12-11-2012 14:27 Pagina 168 IL PENSIERO INCOMPIUTO dei due oblii è il tratto più delicato della fenomenologia ricoeuriana della memoria. A esso La mémoire, l’histoire, l’oubli si riferisce per risolvere in prima battuta il dato più appariscente di qualsiasi teoria della memoria, ossia la parzialità che caratterizza indiscutibilmente i processi di trasmissione del significato. Tuttavia la scelta stessa di parlare di un “oblio che preserva”, in contrapposizione all’“oblio che cancella”, contiene qualcosa di più di quest’ovvia conclusione, alla quale giungerebbe anche una lettura superficiale del fenomeno. E proprio questo supplemento teorico finisce per cambiare nettamente le carte in tavola. Se infatti è legittimo parlare della memoria come un processo di trasmissione, ciò implica che si dia per scontato il presupposto più ovvio di questa trasmissione, ossia il fatto che qualcosa del passato in generale si conservi. Ciò non di meno, come Ricoeur argomenta a più riprese, questa è un’assunzione tutt’altro che pacifica, perché per essere descritta necessita di un modello fenomenologico impegnativo. In questo quadro, che sia il cosiddetto “oblio che preserva” a colmare il deficit teorico, ossia a fornire uno schema stabile di conservazione è dunque meno un paradosso che una decisione teorica meditata: ed è ciò che in fin dei conti avviene ne La mémoire, l’histoire, l’oubli. Con ogni probabilità, dietro alla scelta ricoeuriana di parlare di due oblii, assecondando la distinzione heideggeriana tra Vergangenheit e Gewesenheit, non può che esservi qualcosa di molto simile a ciò che si ipotizzava: vi è in primo luogo la scelta di superare il modello di Bergson; ma ancor più vi è l’idea che si possa utilizzare il modello della rappresentazione, basato sul dualismo figura/sfondo, per mostrare che il “nonricordato” non è soltanto un supplemento del ricordo (che la memoria non è in grado di registrare per motivi quantitativi: molto del passato deve necessariamente cancellarsi, perché la memoria ha limiti di capienza non oltrepassabili), ma rappresenta il fattore stesso sul quale il “ricordato” diventa significativo. Che il problema finisca per essere proprio questo è quanto il discorso di Ricoeur lascia trasparire a più riprese. Ne La mémoire, l’histoire, l’oubli, infatti, ogni volta in cui si tratta di determinare, anche soltanto da un punto di vista metodologico, il ruolo che la memoria gioca nei confronti del corpo, la vera questione che si pone è stabilire dove si debba porre il sostrato di questa relazione. Ciò accade una prima volta nella discussione su Platone e Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 169 169 Aristotele, quando l’obiettivo è definire la natura e le funzioni della traccia. In questo caso, per Ricoeur è evidente che la questione stia tutta nella relazione che la traccia è in grado di istituire con l’impronta originaria (Platone) o con la costituzione temporale dell’anima (Aristotele). Ma, naturalmente, porre il discorso in questi termini significa scegliere di definire il problema della memoria a partire dal suo supporto: soltanto il riferimento alla persistenza dell’impronta (o all’anima in quanto temporale, nel caso di Aristotele) è in grado di dire una parola conclusiva sulle discussioni concernenti il valore veritativo del ricordo, ossia il suo essere “referenza al passato”. Un discorso analogo vale a maggior ragione rispetto a Bergson. Ciò che La mémoire, l’histoire, l’oubli addebita a Matière et mémoire è di aver privilegiato la questione della rievocazione, anche al costo di lateralizzare il problema primario della registrazione. Da questo punto di vista, Ricoeur direbbe che la vera questione di Matière et mémoire è quasi esclusivamente metafisica: si vuole garantire la continuità dei passaggi tra due stati opposti del reale; ma così facendo si finisce per sottovalutare ciò che della memoria è il Faktum più stringente, ossia che essa è un dispositivo su cui qualcosa si iscrive una prima volta. E tutta l’oscurità che circonda le nozioni di virtuale, di corpo e di oblio non è che una conseguenza di questa sottovalutazione. Se le cose stanno davvero in questi termini, se cioè il problema aperto è capire dove e come (ossia, su quali supporti) la memoria operi in prima istanza rispetto all’esperienza, allora il discorso di Ricoeur non può non prendere la forma che si ipotizzava. La relativa insistenza sul problema del sostrato e ancor più i riferimenti (non molto frequenti, ma sempre strategici) al modello di Casey significano proprio questo: la memoria è costitutivamente connessa ai modi di funzionamento del corpo, ma non tanto perché il corpo sia il suo punto di inserzione nel mondo dell’azione, quanto perché esso assume – proprio come avviene in Remembering – una funzione più generale nel processo di archiviazione. E l’unica funzione strutturale che è ancora rimasta scoperta nel processo è proprio quella di fornire lo sfondo sul quale avviene l’iscrizione del trascorso. L’ipotesi che si articolava in precedenza deriva proprio da questa sorta di “attribuzione per esclusione”: quando la memoria funziona, proiettando il singolo ricordo sopra uno sfondo di con- Martinengo.qxp 170 12-11-2012 14:27 Pagina 170 IL PENSIERO INCOMPIUTO tenuti che rimangono esclusivamente virtuali, il ricordo puro e l’immagine sono sì le forme privilegiate in cui il trascorso si attesta; ciò però accade perché parallelamente si danno altre forme di attestazione (schemi d’azione, abitudini acquisite, memorie esoscheletriche in genere…) che non significano nulla di per sé, ma che fungono da supporto per la memoria rappresentativo-intenzionale. Dunque accanto alla possibilità, che per Ricoeur resta naturalmente legittima, di porre l’esistenza di un supporto “materiale” del ricordo (nel senso della neurofisiologia), resta la necessità di fare la stessa cosa dal punto di vista fenomenologico: se vi è qualcosa come una struttura corticale del ricordo, ciò non toglie che la memoria sia anzitutto un insieme di significati; e questa prestazione primaria ha a che fare con l’idea che qualcosa del passato si attesti nelle due forme (rappresentative e non-rappresentative, di figura e di sfondo) che la fenomenologia ha descritto. Diventa allora del tutto evidente che la soluzione prospettata da Casey è trasferibile senza grandi difficoltà anche a Ricoeur. In entrambi i casi, la priorità teorica è fornire una fenomenologia del lavoro della memoria che sia il più possibile estensiva, ossia una descrizione che prescinda dalla necessità bergsoniana di riportare le diverse forme di ricordo a un unico modello di gestione del passato: per esempio, al ricordo puro di Matière et mémoire. E questo principio, che ne La mémoire, l’histoire, l’oubli sta alla base delle analisi dell’oblio, della corporeità e della spazialità, può giungere legittimamente alla tesi che si prefigurava: il passato si attesta a diversi livelli di conservazione; ma ognuno di questi livelli, anziché essere orientato all’unica forma “propria” di ricordo, ossia al ricordo rappresentativo-intenzionale, lavora in modo differente ai fini del significato. Il che equivale a sostenere che se la memoria del passato “si dice in molti modi”, tale plurivocità è strettamente connessa – ma la precisazione è ormai superflua – alla necessità di assicurare alla traccia rappresentativo-intenzionale la propria matrice formale. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA Note 14:27 Pagina 171 171 Sulla lettura ricoeuriana del Peri mnemes kai anamneseos di Aristotele, è bene avere presente l’analisi contenuta nell’Introduzione a Ricoeur di Jervolino: cfr. in partic. JERVOLINO 2003, 83-90. 2 Sulla polemica di Bergson contro l’associazionismo, cfr. anche BERGSON 1896, 277 [114]. 3 Rispetto alle Vorlesungen husserliane, Ricoeur spiega: «La mia argomentazione consiste qui nel fatto che la famosa epokhé, sulla quale l’opera si apre e da cui scaturisce la messa fuori circuito del tempo oggettivo – questo tempo che la cosmologia, la psicologia e le altre scienze umane ritengono come una realtà, certamente formale, ma solidale con lo statuto realistico dei fenomeni che esso inquadra – non mette a nudo anzitutto un flusso puro, ma una esperienza (Erfahrung) temporale che, nel ricordo, possiede la sua faccia oggettuale». È pur vero che la “costituzione di primo livello” di cui parla Husserl «è quella di una cosa che dura, per quanto minimale possa essere questa oggettività», ma ogni volta ciò presuppone “qualche cosa” che dura: «l’epokhé mette certo a nudo dei vissuti puri, i “vissuti temporali” […]. Ma, in questi vissuti “sono intesi dei dati ‘obiettivamente temporali’”» (RICOEUR I 2000, 38 [50-51]). 4 Con quest’espressione, Casey intende in senso stretto ogni modello intenzionale basato esclusivamente sulla nozione di rappresentazione: «By “mentalism” I mean the view that human minds – or surrogates for these minds, most notably computers – furnish the ultimate locus as well as the primary limit of human experience. A critical consequence of this view is that all that we undergo must come to be represented in the container of the mind if it is to count as an “experience” at all» (CASEY 1987, 88). 5 Il punto critico dell’argomentazione sta ovviamente nel dimostrare che tale significato garantito è un’attribuzione non mediata da rappresentazioni. In questo caso, sembra risolutivo ciò che Casey argomenta evocando l’esempio della guida di un’automobile: quando si fa l’esperienza della guida di una particolare vettura, «this remembering does not consist in the various mental manoeuvres (some of which may even be expressly mnemonic) which may accompany the bodily movements that effect turning on the ignition, shifting gears, braking, blowing the horn, and so on». Anche se questi movimenti possono essere accompagnati da specifiche operazioni mentali, tali operazioni non sono affatto richieste al fine di richiamare le azioni spontanee del corpo, nemmeno per “ri-operare” tali atti. Perciò Casey conclude: «It is evident from this example and many others like it that habitual body memories are at once pre-reflective and presupposed in human experience. As pre-reflective, they form a tacit, pre-articulate dimension of this experience» (CASEY 1987, 148-149). Alla natura “irriflessa” della body memory, irrinunciabile se si vuole sostenere che il corpo conserva il passato senza rappresentarlo, si sovrappone un’altra caratteristica, parimenti impegnativa: quella per cui la memoria corporea sarebbe tout court non intenzionale. Ma non a caso si tratta di un aspetto sul quale Ricoeur non segue Casey, ritenendolo più accidentale che strutturale (cfr. RICOEUR I 2000, 48 [61]). 1 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 172 6 Casey è molto esplicito nell’accentuare questa dimensione: «Body memories tend to situate themselves on the periphery of our lives so as not to preoccupy us in the present». E ancora: «By “periphery” I do not mean to imply that such memories are of peripheral importance; on the contrary, they are of quite central significance: we could not be who we are, nor do what we do, without them. But the fact remains that bodily remembering assumes for the most part a marginal position vis-à-vis our most pressing concerns – and is all the more effective for doing so». Perciò Casey può concludere: «A body memory works most forcefully and thoroughly when, rather than dominating, it recedes from the clamor of the present. As marginal, it belongs to the latent or tacit dimension of our being. In the language of Gestalt psychology, it is a field factor, part of the ground of our experience rather than an explicitly highlighted figure» (CASEY 1987, 163 corsivo mio). Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 173 Capitolo quinto Ricoeur e Heidegger Tempo e metafisica L’idea che la memoria possa dirsi in molti modi (intenzionalità di coscienza, memoria del tempo, memoria del corpo, memoria dello spazio…) e che questa pluralità sia il dispositivo fondamentale attraverso il quale il riferimento al passato funziona è finora l’elemento centrale della discussione. Sotto questa prospettiva, non soltanto si comprende il modo in cui Ricoeur supera l’unilateralismo della teoria bergsoniana della memoria, ma si può ipotizzare anche una risposta alla vera questione che La mémoire, l’histoire, l’oubli lascia in sospeso: quella concernente il “supporto fenomenologico” (e non semplicemente “neurofisiologico”) del ricordo. La soluzione alla quale Ricoeur arriva sembra infatti fare riferimento alla possibilità che, dietro al funzionamento della memoria, vi sia una sorta di principio di garanzia, che assicura la conservazione del passato; ma tale principio non appare spiegabile in altro modo – ed è la questione più impegnativa, almeno a livello interpretativo – se non derivandolo dalla cancellazione di una parte dell’esperienza attuale, che diventa così, in una sorta di a priori prodotto a posteriori, il supporto di ogni registrazione successiva. Naturalmente si tratta di un’ipotesi di lettura che Ricoeur non esplicita in questi termini. Ciò non di meno, sembra una congettura sostanzialmente legittima, nella misura in cui tanto i riferimenti de La mémoire, l’histoire, l’oubli a Edward Casey, quanto l’utilizzo non casuale di alcuni temi heideggeriani, paiono giustificarla. Quale sia il vantaggio maggiore di questa lettura è ora evidente: essa consente di porre una questione fondamentale per lo statuto epistemolo- Martinengo.qxp 174 12-11-2012 14:27 Pagina 174 IL PENSIERO INCOMPIUTO gico dell’ermeneutica, ossia di discutere in via diretta la pretesa di universalità del Faktum dell’interpretazione. In altri termini, posto che l’ermeneutica non sia semplicemente una metodologia dell’interpretazione, ma che pretenda di essere il modo stesso in cui funziona la relazione soggetto-mondo (giacché è questo ciò che cerca di argomentare la lignée ermeneutica novecentesca, da Heidegger a Gadamer, allo stesso Ricoeur), la sua legittimità dipende interamente dal modo in cui si sceglie di risolvere il problema del significato. E il modello di memoria che Ricoeur configura sembra andare esattamente in questa direzione: risolvere il problema del passato (qualcosa del tempo passa e tuttavia permane, seppur in altra forma) implica entrare di petto in una discussione significativamente più ampia, concernente lo “statuto di verità” dell’interpretazione. 1. Referenza e stratificazione dell’esperienza temporale In realtà, a incidere sul modo in cui Ricoeur giunge ad affrontare il tema dell’universalità dell’ermeneutica è anche un secondo insieme di questioni, correlate al tema della memoria, ma decisamente più generali. Il discorso sulla rappresentazione del passato si inserisce infatti a pieno titolo in quel processo di generalizzazione dell’ermeneutica che si è visto all’opera fin dall’Essai sur Freud e dai saggi contenuti ne Le conflit des interprétations. Se a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, la questione principale alla quale Ricoeur si rivolge è la possibilità di dare una fondazione epistemologica alla teoria dell’interpretazione, tale fondazione procede di pari passo con l’acquisizione, da parte dell’ermeneutica, della funzione di “metateoria del conflitto”, ossia di un ruolo di arbitraggio in grado di dirimere il gioco delle interpretazioni. Ma il passaggio dalle ermeneutiche regionali (le ermeneutiche del religioso, dell’inconscio, della storia…) a una teoria generale dell’interpretazione riguarda soprattutto una questione, che diventa fondamentale in tutto il percorso teorico successivo: la riconsiderazione del linguaggio a partire dalle sue prestazioni semantiche. A questo livello, il processo di deregionalizzazione dell’ermeneutica acquisisce un significato sempre più marcato: il problema di Ricoeur diventa per eccellenza l’analisi dei modi in cui il linguaggio si dota di una referenza Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 175 175 al mondo; e questa capacità referenziale, che a partire da La métaphore vive diventa il problema centrale per Ricoeur, assume forme via via differenti, in corrispondenza delle diverse tipologie linguistiche che concretamente si danno. Si danno allora un’ermeneutica del linguaggio metaforico, un’ermeneutica del linguaggio narrativo, un’ermeneutica del discorso storico e così via. Ma ciascuna di queste teorie dell’interpretazione non è affatto una nuova ermeneutica regionale, bensì tende a ripetere e a confermare la stessa ermeneutica generale. 1.1 La referenza come principio di organizzazione del reale Che le cose stiano esattamente in questi termini non è del tutto scontato, almeno a un primo livello. Se c’è la necessità di parlare nello specifico di una capacità metaforica (o simbolica) del linguaggio, ciò significa infatti che la metafora e il simbolo non sono il tutto del linguaggio, ma soltanto un suo sottoinsieme proprio. Lo stesso vale per il linguaggio narrativo e a maggior ragione per la distinzione tra il discorso narrativo e il discorso storico. Ciò non di meno, anche se è evidente che le prestazioni ontologiche dei linguaggi coinvolti siano sensibilmente differenti nei diversi casi, si può dire che la questione della referenza ne rappresenti in qualche misura la costante: è pur vero che parlare in metafore (o in miti, o in simboli…) non è la stessa cosa che parlare sotto le regole del racconto, né tanto meno sotto quelle della testimonianza d’archivio; ma vi è qualcosa che accomuna queste fattispecie, almeno dal punto di vista strutturale. Il discorso di Ricoeur si muove insomma tra due estremi: da una parte l’esigenza di marcare sempre meglio le differenze esistenti tra i linguaggi, garantendo in particolare la specificità “ontologica” del discorso storico, cioè la sua pretesa di verità; e dall’altra la ricerca di una base comune che definisca le prestazioni referenziali del “linguistico” in generale. Il principio di unificazione dei diversi usi del linguaggio si basa sull’idea che, fatte salve tutte le specificità, il “linguistico” funzioni sempre nel senso di significare un mondo: che si tratti di un’intentio simbolica, metaforica, narrativa o testimoniale, il linguaggio è sempre dotato di una véhémence ontologique, ossia di un principio di apertura sul mondo. Questa scelta deriva dal confronto con la linguistica di scuola strutturalista, di cui Ricoeur conserva l’apparato Martinengo.qxp 176 12-11-2012 14:27 Pagina 176 IL PENSIERO INCOMPIUTO scientifico-esplicativo, cassandone però le conseguenze filosofiche più radicali, in particolare la scelta di considerare il linguaggio come un universo di segni chiuso in se stesso. È la questione che Le conflit des interprétations raccoglie sotto la formula «spiegare di più, per comprendere meglio»: la lingua (in particolare il linguaggio dei miti, dei simboli e delle metafore) è sì un paradigma di regole, in cui la produzione del senso procede per iterazione di strutture invarianti; tuttavia questa iterazione non è sufficiente, perché senza la possibilità di riferire l’insieme dei segni a un sostrato-mondo, la stessa tassonomia resterebbe totalmente arbitraria. L’ermeneutica inizia esattamente qui, quando si assume il linguaggio come principio di apertura di un mondo: senza questo presupposto, il linguaggio non significa “letteralmente” nulla e dunque non vi è niente da interpretare; al contrario, se vi è qualcosa come una produzione di significati e un linguaggio che intenziona il mondo, la comprensione/interpretazione non soltanto è possibile, ma diventa necessaria. Che cosa significhi “interpretare” e che cosa vi sia propriamente da interpretare nel linguaggio è ciò che Ricoeur chiarisce soltanto in un secondo momento del suo percorso. Che il linguaggio sia strutturalmente aperto al mondo può implicare infatti molte cose, e non tutte necessariamente legate alla relazione spiegare-comprendere. La sostanziale indeterminazione che caratterizza le ermeneutiche regionali di Ricoeur viene meno soltanto nel momento in cui si chiarisce la connotazione temporale del riferimento al mondo, ossia quando tutte le questioni legate alla referenza del linguistico (almeno dal simbolico in su) sono riportate all’interno del modello mythos-mimesis di Temps et récit. Questa è senza dubbio una delle acquisizioni più importanti dell’ermeneutica generale di Paul Ricoeur. Tuttavia, dal punto di vista della referenza, il discorso non si chiude ancora qui. L’idea che nella véhémence ontologique siano in gioco i caratteri temporali dell’esperienza dice infatti un dato comune a molte logiche del discorso, ma non dice affatto che questo dato sia strutturalmente connesso alla forma “discorso” in generale. Se dunque si dovrà parlare di una unità del “linguistico” – e di una unità che ha a che fare già di per sé con l’interpretazione – ciò non potrà dipendere tanto dal fatto che il linguaggio sia riferimento al tempo, quanto piuttosto dal modo in cui tale riferimento si Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 177 177 realizza. E il modo, non a caso, è quello che si è indicato con la nozione di stratificazione: indipendentemente dai suoi contenuti temporali, la referenza è un processo che si articola su più livelli e che su diversi livelli restituisce al linguaggio quello che può dirsi un contenuto di senso. Posto che le cose stiano davvero così in Ricoeur, ciò che il racconto storico e di finzione esemplifica è dunque l’idea che la referenza al mondo non sia mai la trascrizione diretta di un dato reale (per esempio la temporalità pura), bensì un affare di mediazione e di ricostruzione: se il linguaggio in generale mette in parole il mondo, ciò accade perché esso è capace di una prestazione complessa, che sospende il riferimento immediato al mondo e lo riorganizza contemporaneamente su più livelli. Così è per esempio nel caso del linguaggio metaforico, quando l’attivazione di una pertinenza insolita tra un soggetto e un predicato si ripercuote sulle cose stesse, producendo una diversa configurazione del reale. Ma è così a maggior ragione nel caso del racconto, dove il modello della sospensione-restaurazione arriva al suo punto di massima tensione: mimesis I-III assume l’eterogeneo dell’esperienza prenarrativa e lo sottopone a un insieme di regole esterne, perché soltanto a partire da tali regole è possibile parlare di un mondo di significati. In questo senso, la realtà della stratificazione pare essere l’ultima parola di Temps et récit sull’aporia della temporalità. Tuttavia a questa acquisizione si collega anche un’altra questione fondamentale, che contribuisce a complicare alquanto il quadro. Dal punto di vista di una teoria generale del significato, sostenere che sia in gioco un processo di organizzazione del reale, anziché una semplice forma di rispecchiamento, implica che si vada a incidere sui modi stessi della referenza: nella costruzione dei significati è in gioco qualcosa di più di una intenzionalità (seppur stratificata) del linguaggio al mondo; alla “saturazione” delle strutture linguistiche da parte dei contenuti temporali deve corrispondere simmetricamente l’attribuzione all’esperienza stessa di un ordinamento, che in senso lato si può definire “logico”. Si può dunque parlare di una sorta di riempimento reciproco contenuti/strutture, a partire dal quale si produce effettivamente qualcosa come un significato. Che le regole di funzionamento della referenza siano queste è del tutto evidente, fin da Temps et récit I. È meno palese invece il motivo Martinengo.qxp 178 12-11-2012 14:27 Pagina 178 IL PENSIERO INCOMPIUTO di questa insistenza. Ciò che Ricoeur non esplicita è che la scelta di definire una relazione linguaggio-mondo che sia “bidirezionale” risponde proprio all’esigenza di garantire alla teoria della referenza un livello adeguato di generalità. Se il principio della messa in intrigo valesse soltanto dal mondo verso il linguaggio (l’esperienza temporale sostanzia un insieme di strutture linguistiche altrimenti vuote, non ricavandone altro che la propria “espressione verbale”), si potrebbe ancora ipotizzare l’esistenza di prestazioni linguistiche puramente descrittive, nelle quali le leggi di mimesis I-III siano sospese. Al contrario, sostenere che la referenza organizza contemporaneamente il linguaggio e il reale significa estendere mimesis I-III al di là della referenza “immaginativa”: non soltanto il linguaggio non direbbe nulla senza il reale, ma anche il reale non significherebbe alcunché (nemmeno in senso letterale) senza una traduzione linguistica. Da questa acquisizione derivano conseguenze importanti per la tenuta teorica del discorso di Ricoeur, la cui posta in gioco diventa allora la possibilità di derivare una teoria ermeneutica della referenza (la cui tesi sarebbe: “Non vi è verità senza interpretazione”), direttamente dal presupposto del linguaggio come stratificazione: se il linguaggio è la stratificazione di un’esperienza, allora non può esservi esperienza reale senza il linguaggio. Proprio questo resta uno dei passaggi più impegnativi del discorso ricoeuriano: in che misura il riempimento “incrociato” funziona davvero? Si può realmente sostenere che il linguaggio narrativo e l’esperienza temporale abbiano (l’uno in proprio e l’altra per applicatio) due strutture che di fatto sono omologhe? E si tratta di presupposti che hanno direttamente a che fare con l’altro problema aperto da Temps et récit: quello concernente la possibilità di dare una traduzione linguistica “completa” dei fenomeni temporali. La questione della véhémence ontologique resta dunque legata in senso stretto all’idea che, se si dà una traduzione linguistica dell’esperienza temporale, tale reiscrizione deve risultare necessariamente parziale: il tempo non gioca mai soltanto il ruolo di coefficiente di traducibilità linguistica dell’esperienza, ma anche quello di fattore di imperfezione della messa in intrigo. Ciò che si tratta di capire ora è in che modo questa tesi, di per sé intuitiva, si colleghi al problema della rappresentazione del passato. In un caso e nell’altro – e quest’analogia è estremamente significativa per il modello teo- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 179 179 rico di Ricoeur – la questione che si pone è esattamente quella che abbiamo sintetizzato sotto il titolo di “teoria ermeneutica dell’iscrizione”: come avviene che qualcosa come un significato si produca e si trasmetta? Esiste un dispositivo di costruzione della referenza che implichi al tempo stesso un processo di parzializzazione dei contenuti? Occorre dunque fare un passo indietro e riprendere la questione là dove Temps et récit la lasciava in sospeso, ossia dal racconto come fattore di stratificazione della temporalità. 1.2 Il tempo come «temporalizzazione»: il modello di Heidegger Nel percorso teorico di Ricoeur, a questo insieme di problemi risponde il confronto con Heidegger. Fermo restando che il punto di partenza di Temps et récit è l’aporia agostiniana del tempo, si può facilmente mostrare che tutta la discussione sul “tempo come aporia” è portata avanti a partire da una questione alquanto diversa: più che discutere come stessero esattamente le cose in Agostino, il vero problema di Ricoeur è stabilire se la controversia di Confessiones XI ottenga dopo Agostino una soluzione adeguata, o se invece essa non finisca per confermarsi e rafforzarsi. Da questo punto di vista, il confronto con Heidegger è in qualche modo obbligato. E lo è in virtù di un’ipotesi del tutto evidente, almeno all’interno di un certo dibattito ermeneutico. Ci si può infatti legittimamente domandare se la scelta heideggeriana di porre in termini radicali la “questione della metafisica”, e di farlo proprio a partire dal problema del tempo, permetta anche di dire una parola risolutiva rispetto all’aporetica. Di fatto, nella prima e nell’ultima parte di Temps et récit lo scopo è mostrare che le filosofie della temporalità successive non soltanto non hanno risolto l’aporia di Agostino, ma anzi hanno finito per gravarla di nuovi problemi. Il vero obiettivo di Ricoeur è allora capire se il modello teorico di Heidegger faccia a sua volta un passo al di là di Confessiones XI, o se invece non finisca per ripeterne lo stesso schema, rendendolo insolubile in via di principio. 1.2.1 La temporalità come struttura ontologica della Cura In effetti, stando al modo in cui Heidegger mette le cose fin dal principio, l’ipotesi di un superamento del problema è non soltanto legittima, ma addirittura verosimile. Scrive Ricoeur: «Circa le aporie del pensiero agostiniano e husserliano si potrebbe credere che Martinengo.qxp 180 12-11-2012 14:27 Pagina 180 IL PENSIERO INCOMPIUTO Essere e tempo le risolva o piuttosto le dissolva, nella misura in cui, a partire dall’“Introduzione” e nella prima sezione, il terreno su cui esse hanno potuto formarsi viene abbandonato per una nuova messa in questione». Infatti, spiega Ricoeur, se le cose stanno come ipotizza Sein und Zeit, «come si potrebbe ancora opporre un tempo dell’anima, di tipo agostiniano, a un tempo che sarebbe a titolo primordiale “qualcosa del movimento”, dunque un’entità connessa alla fisica, come in Aristotele?» (RICOEUR I 1985, 92 [95]). In altri termini, se è vero che il modello di Agostino pone con chiarezza le questioni-chiave da cui la stessa prospettiva fenomenologica sarebbe partita (l’essere e il non-essere del tempo, il triplice presente, la distensione…) e che tali premesse sono strettamente solidali con una specifica nozione di soggettività, è quanto meno possibile supporre che Sein und Zeit delinei una netta alternativa al modello di temporalità contenuto in Confessiones XI. L’alternativa si reggerebbe sostanzialmente su due presupposti: da una parte l’analitica esistenziale, attraverso il privilegio teorico attribuito al Dasein, pone infatti il problema dell’essere (e dell’essere del tempo) «in modo diverso da una semplice distinzione ontica tra la regione dello psichico e quella del fisico»; dall’altra, «la natura non può costituire un polo opposto e ancor meno un tema estraneo alla considerazione dell’Esserci, in quanto “il ‘mondo’, in quanto tale, è un costitutivo dell’Esserci”» (RICOEUR I 1985, 92 [95]1). Ciò che in Heidegger modifica sensibilmente i termini della discussione è dunque il modo radicalmente nuovo in cui si pone il problema della comprensione: se la relazione tra il soggetto e il mondo viene inclusa sotto il titolo più generale dell’essere-nel-mondo, cadono l’uno dopo l’altro tutti i presupposti che sottostavano al delicato equilibrio di Confessiones XI; e assieme alla distentio animi e allo schema soggetto-oggetto, a cadere per prima è proprio la necessità di attribuire all’indicatore “anima” un particolare privilegio nella misurazione del tempo. In Heidegger si assiste insomma a una sorta di «arretramento», che pretende di sottrarre il problema della temporalità ai presupposti contenuti nell’opposizione fenomenologiacosmologia (cfr. RICOEUR I 1985, 94 [97]). L’analisi del fenomeno della Cura risponde esattamente a questa revisione: connettere la struttura del tempo (o, meglio, la sua versione autentica, giacché è sulla distinzione tra l’autenticità e l’inautenticità che si sostiene Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 181 181 tutto il discorso di Heidegger) alla determinazione della Cura significa infatti spostare il problema dal livello di una teoria della conoscenza a quello di un modo d’essere; e questa dislocazione finisce per retrodatare la stessa domanda di Agostino sul tempo prima della domanda sulla sua misurabilità. È però evidente che le implicazioni del discorso di Heidegger non si riducono a questo. Considerata come un modo d’essere fondamentale, la temporalità diventa il vertice stesso dell’analitica esistenziale, ossia la struttura che è in grado di ricapitolare gli esistenziali (il progetto, la gettatezza, la deiezione…) e di ricondurli a una forma di unità. Dunque, le esigenze teoriche a cui Sein und Zeit risponde sono due, almeno in prima istanza: anzitutto, garantire l’analisi sotto il profilo dell’autenticità, per provare a sciogliere la domanda sull’essere (e sul tempo) dagli equivoci che tradizionalmente l’hanno oscurata; e, in secondo luogo, individuare un livello del fenomeno “tempo” che permetta con una certa legittimità di considerarlo come totale, perché soltanto la possibilità da parte del Dasein di essere-un-tutto garantisce davvero una relazione diretta tra la temporalità e l’analitica esistenziale. Il primo atto di questa dichiarazione d’intenti è naturalmente l’estromissione della categoria di “presente” dal ruolo classico di primum dell’analisi (ammesso che di un ruolo classico si possa parlare e che dunque tutta la metafisica occidentale possa ritenersi solidale in questa attribuzione): il presente, in quanto è strutturalmente apparentato con le forme deiettive del Dasein, è infatti il locus del tempo meno adeguato a mettere in luce l’articolazione reciproca tra le tre dimensioni temporali. Il ricorso alla Cura risponde esattamente a quest’esigenza: è la Cura stessa, cioè la struttura più generale dell’analitica esistenziale, a diventare il principio formale a partire dal quale il tempo può essere ripensato nella sua unità plurale. Ma naturalmente si tratta di capire come questi due momenti stiano assieme: perché proprio la Cura e non altro è in grado di ricapitolare e garantire un’analisi radicalmente nuova della temporalità? Non è il caso di ripercorrere in dettaglio tutto l’argomento heideggeriano, che Ricoeur ricostruisce quasi integralmente a partire dal § 65 di Sein und Zeit (La temporalità come senso ontologico della Cura). Basti ricordare che l’«anello intermedio del ragionamento» (RICOEUR I 1985, 103 [107]) sta nella capacità, da parte dei fenome- Martinengo.qxp 182 12-11-2012 14:27 Pagina 182 IL PENSIERO INCOMPIUTO ni collegati alla Cura, di riorientare le tre dimensioni del tempo, promuovendo il futuro al ruolo altrimenti occupato dal presente: se il punto di partenza di Heidegger è la necessità di garantire una comprensione «della totalità dell’insieme strutturale dell’Esserci» (HEIDEGGER 1927a, 428 [388]), ciò non può che avvenire attraverso la decisione anticipatrice, che risponde a proprio modo al requisito della totalità. Per questo motivo, il “senso ontologico” della Cura deve essere determinato attraverso il riferimento essenziale al tempo: un riferimento che porta con sé la necessità di riformulare l’intero problema ricorrendo alla nozione di “estasi temporale”. In tal modo, il primato riconosciuto al futuro, inteso come Zu-kunft, va di pari passo con la riconversione delle altre due estasi, confermando così la loro articolazione: posto che il Dasein, in quanto esiste, «è, in generale, ad-veniente» (HEIDEGGER 1927a, 431 [391]), ciò dà al futuro un significato tale da garantire la sua connessione strutturale con il passato e il presente. E questo naturalmente significa che se il passato e il presente, in quanto (insiemi di) cose, sono estrinsecamente distinti dal futuro, al contrario considerati come estasi sono intrinsecamente implicati nell’ad-venire.2 Ad-venire, esser-stato e render-presente sono dunque connessi, e lo sono nel senso di un rapporto di cooriginarietà («Gleichursprünglichkeit», HEIDEGGER 1927a, 436 [395]) e coderivazione, in virtù del quale il Dasein può legittimamente dirsi un tutto. Proprio a questo livello, nella lettura che ne dà Ricoeur, interviene una questione di capitale importanza per Heidegger: la scelta di parlare del tempo sotto la nozione di “temporalizzazione”, ossia sotto il principio per il quale il tempo è un fenomeno che si articola unitariamente «secondo diverse possibilità e in diversi modi» (HEIDEGGER 1927a, 403 [367]). Da questo punto di vista, sostituire una forma di distinzione estrinseca (passato vs presente vs futuro) con il modello dell’implicazione intrinseca (ad-venire, esser-stato, render-presente) risponde sì alla scelta di superare la lettura metafisico-obiettivante della temporalità; ma oltre a questo consente di porre sotto una nuova luce ciò che costituisce l’ostacolo più evidente del problema del tempo, ossia l’opposizione netta e a tutti gli effetti irriducibile tra l’integralità strutturale (il tempo) e la molteplicità interna (i tempi). Perciò si può dire che il fenomeno della temporalizzazione risponda a un’esigenza di unità teorica che è del tutto equivalente a Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 183 183 quella di Agostino, secondo uno schema che Ricoeur spiega in questo modo: «Ciò che tanto in Heidegger quanto in Agostino rimane ancora opaco è la triplicità interna a questa integralità strutturale: le espressioni avverbiali – l’“ad” di av-venire, il “già” di essere-stato, il “confronto a” della preoccupazione – segnalano a livello stesso di linguaggio la dispersione che mina all’interno l’articolazione unitaria». Da questo punto di vista, «il problema agostiniano del triplice presente si trova semplicemente riportato sulla temporalizzazione nel suo insieme» (RICOEUR I 1985, 105-106 [109]). Il che ha la sua riprova nella stessa definizione del tempo come ekstatikon («La temporalità è l’originario “fuori di sé”, in sé e per sé». HEIDEGGER 1927a, 435 [395]), che deriva da un’esigenza di riconnessione analoga a quella di Confessiones XI. Se dunque di estaticità del tempo si deve parlare, ciò dipenderà dal fatto che, più che alla contrapposizione soggetto-oggetto, la relativa oscurità della nozione si deve alla necessità di tenere assieme, all’interno dello stesso concetto di tempo, l’unità articolata delle tre estasi.3 Tuttavia questo non è ancora tutto per Heidegger. Per comprendere come la conversione dalla fenomenologia all’analitica esistenziale risponda all’esigenza di dare una forma “logica” al tempo, bisogna fare un passo al di là della risposta heideggeriana ai “tre presenti” di Agostino. Nella nozione di temporalizzazione convergono infatti due esigenze complementari, ma nettamente distinte. Da una parte vi è la necessità di rinunciare a una nozione di temporalità intesa come insieme di istanti successivi: da qui la nozione di estasi e il privilegio trasferito dal presente al futuro. Dall’altra – ed è senza dubbio la questione più importante, secondo Ricoeur – vi è l’idea che questa considerazione (misurabile) del tempo, come tutte le altre, derivi per effetto di “livellamento” da una temporalità più originaria. Il fatto che questi effetti di volgarizzazione e di livellamento siano in qualche modo legati al fenomeno della temporalizzazione è ciò che Sein und Zeit cerca di ribadire a ogni tournant dell’analisi; e non è un caso, perché senza questa connessione, anche l’unità del fenomeno della Cura resterebbe non garantita. 1.2.2 Temporalità originaria e livellamento Secondo Ricoeur, il nocciolo duro del discorso di Heidegger sta dunque a questo livello. Come già in Confessiones XI, l’analisi della Martinengo.qxp 184 12-11-2012 14:27 Pagina 184 IL PENSIERO INCOMPIUTO temporalità si svolge tenendo assieme caratteri a prima vista inconciliabili: da una parte l’unità del fenomeno, che appare irrinunciabile se si vuole parlare ancora di un fenomeno identificabile, e dall’altra la sua costitutiva pluralità, di cui è altrettanto necessario tenere conto, già a un livello molto intuitivo. A questa plurivocità del tempo risponde proprio il problema del livellamento. Per discutere come stiano le cose su questo versante, Ricoeur sceglie tuttavia di fare un passo indietro e di ripartire dalla questione dell’originarietà. Come si è visto, la possibilità di individuare un livello originario e autentico del discorso dipende strettamente dall’identificazione di una struttura che equivalga alla possibilità, da parte del Dasein, di essere-un-tutto; soltanto a partire da questa condizione si può legittimamente pretendere di uscire da una considerazione metafisicoobiettivante della temporalità, che ripeterebbe in senso inautentico e derivato gli enigmi di qualsiasi altra lettura fenomenologica. È qui che Heidegger introduce un discorso che lo condurrà alla nozione di storicità. Fino all’inizio del penultimo capitolo di Sein und Zeit – osserva Ricoeur – «alla temporalità manca un tratto perché possa essere considerata integrale: questo tratto è quello dell’Erstreckung, dell’estensione tra nascita e morte. Come se ne sarebbe potuto parlare in un’analisi che ha ignorato fino a questo momento la nascita e, con essa, il fra-nascere-e-morire? Ora, questo “tra-due” è l’estensione stessa dell’Esserci» (RICOEUR I 1985, 107 [111]). Il fatto che l’analitica esistenziale debba pervenire a una considerazione “totale” del Dasein implica insomma la necessità di saturare l’analisi dell’Esserci sui due lati della sua estensione, la nascita e la morte. Evidentemente però questa richiesta di integralità è molto problematica, perché confina pericolosamente con l’idea che la temporalità del Dasein sia costituita da una successione di intervalli misurabili, che coprono l’intera progressione degli istanti, dall’inizio dell’esistenza fino alla sua fine. Da ciò discende la necessità di “depurare” la questione della successione attraverso il fenomeno della Cura. Spostando il centro del discorso dalla misurazione alla costituzione-comprensione, il ricorso alla Cura alleggerisce infatti il Dasein da qualsiasi primato di tipo gnoseologico (l’anima come indicatore privilegiato del tempo), sostituendolo con un primato ontologico: il Dasein non è ciò che scandisce un determinato intervallo di tempo (al limite l’estensione Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 185 185 “fra-vita-e-morte”), ma è questa stessa coesione-estensione di vita, considerata nella sua connessione interna (lo Zusammenhang des Lebens di Dilthey)4. In tal modo, la nozione di estensione è sottratta alla mera successione ed è collegata direttamente al fenomeno della temporalizzazione: l’estensione tra-la-nascita-e-la-morte è di fatto uno dei modi in cui la struttura originaria del Dasein si temporalizza. Ma i problemi non finiscono qui. Posto infatti che si debba passare a una lettura differente della temporalità, interrompendo lo schema delle reidentificazioni successive (il miglior orologio è il moto degli astri, oppure l’anima, oppure la coscienza husserliana…), ciò che fa davvero la differenza è il modo in cui tale passaggio risulta garantito dal punto di vista teorico. Il vero problema resta insomma capire in che modo si realizza lo scarto tra le diverse forme di temporalità (in primis la differenza tra le tre estasi, ma non soltanto) e in che senso ciascuna di queste forme si connoti per un diverso livello di originarietà. La storicità del Dasein risponde esattamente a questo processo di derivazione. E vi risponde trasferendo la questione potenzialmente deietta della stabilità e mutevolezza del se-stesso sotto le categorie dell’analitica esistenziale: se una risposta dev’essere data alla domanda sul “chi” del Dasein, ciò non può avvenire che garantendo all’Esserci una forma specifica di temporalizzazione; il che naturalmente è possibile nella misura in cui sia l’esistenza stessa ad aprirsi al mondo sub specie temporis. Dal radicamento della storicità del Dasein all’interno dell’analitica esistenziale derivano effetti importanti sul versante delle scienze storiche. E per Ricoeur si tratterà di conseguenze estremamente significative, che hanno a che fare direttamente con la possibilità di produrre una logica del discorso storico in chiave ermeneutica. Se infatti tutte le scienze ontiche si fondano su una preventiva apertura storica e situazionale, la questione in qualche modo raddoppia nel caso della storia: l’apertura che rende possibile la storia è anche ciò che la storia come scienza mette a tema. Dal che, appare chiara anche la possibilità di una fondazione esistenziale-ontologica della storia, che si basa su una tesi fondamentale: «L’analisi della storicità dell’Esserci tende a mostrare che questo ente non è “temporale” perché “sta nella storia”, ma che, al contrario, esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere.» (HEIDEGGER 1927a, 498 [452]; ma cfr. anche HEIDEGGER 1927a, 520 [470-471]). Martinengo.qxp 186 12-11-2012 14:27 Pagina 186 IL PENSIERO INCOMPIUTO Fin qui l’argomento di Heidegger. Ma a questo livello, secondo Ricoeur, si apre un problema molto serio, che riguarda la sostenibilità dell’intero discorso: il modello heideggeriano è infatti basato su un processo di derivazione univoca della storicità dal livello più originario della Zeitlichkeit; ma proprio questa univocità è il dato che appare meno protetto sul versante fattuale. È pur vero, insomma, che i problemi legati alla struttura temporale dell’esistenza sono garantiti dal fatto che la storicità afferisca direttamente alla questione della temporalità in generale. Tuttavia questo principio di garanzia finisce per destabilizzare lo stesso processo di derivazione, perché lo capovolge attraverso un processo di allargamento che dal derivato si ripercuote sull’originario. In altri termini, se attraverso il medium della storicità, l’estensione e gli altri caratteri temporali del Dasein sono sottratti alla rappresentazione metafisico-degradata, questa inclusione non è del tutto indifferente rispetto alla temporalità originaria: è la Zeitlichkeit stessa a risultare sovradeterminata a posteriori da una serie di fattori che, in quanto derivati, finiscono per creare un cortocircuito sulla definizione dell’originario. Da una parte, la storicità deve il proprio «tenore ontologico» a questa derivazione: tutte le rappresentazioni tipiche della struttura temporale del Dasein «possono essere strappate dalla loro rappresentazione degradata solo a favore del rinvio di tutta la problematica della storicità a quella della temporalità». Ma, così facendo, «la storicità aggiunge una nuova dimensione – originale, co-originaria – alla temporalità», che in qualche modo deve rendere conto di tali rappresentazioni (cfr. RICOEUR I 1985, 109 [113]). Perciò non si potrà dire – come invece parrebbe ovvio – che la derivazione abbia uno statuto autonomo, che va dall’autentico all’inautentico. Al contrario, vi è una sovrapposizione (o reiscrizione) dell’originario a opera del derivato, che va a incidere sulla struttura stessa della questione. E il nucleo del problema sta tutto nel modo in cui si sceglie di definire questa sorta di “co-originarietà”. È evidente che qui Ricoeur tocca un punto particolarmente sensibile del modello heideggeriano, nella misura in cui Heidegger presupponga da una parte una disciplina “rigida” dell’autenticità, ma dall’altra richieda via via nuove attestazioni dell’autentico per garantire l’analisi sul versante dell’esistentivo. Questa “necessità dell’attestazione” è alla base della strategia di arretramento e dilazione, che Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 187 187 regge la seconda sezione di Sein und Zeit: l’analisi non potrà dirsi realmente originaria, finché non si sia “chiusa” anche sul versante dell’inautentico: se infatti è vero che l’autenticità e l’inautenticità appartengono al “poter-essere” dell’esistenza, allora entrambe devono poter essere verificate sul versante del poter-essere concreto; senza questa verifica di autenticità, anche il requisito dell’originarietà resterebbe non garantito. In altri termini, come scrive Ricoeur, è la stessa relazione intercorrente tra l’esistenza e l’inautenticità a riproporre ogni volta la questione di una comprensione che si pretende rigorosamente autentica.5 I problemi maggiori, in questo senso, si evidenziano soprattutto nel passaggio successivo, dalla storicità all’intratemporalità. L’estensione dell’analitica esistenziale all’intratemporalità, che tematicamente avviene nell’ultimo capitolo di Sein und Zeit, muove infatti dalle stesse premesse: l’analisi della struttura temporale dell’Esserci si è giovata dell’estromissione di tutti i caratteri riferibili alla cosiddetta comprensione ordinaria; ma questa estromissione deve essere via via revocata, nella misura in cui l’analitica esistenziale «deve rendere ontologicamente trasparente questo ente proprio nella sua effettività». Da ciò deriva la necessità di restituire «esplicitamente il suo buon diritto anche all’interpretazione “onticotemporale” della storia»: un’analisi non può infatti dirsi davvero fondamentale, se non coglie il dato più elementare tra quelli connessi con l’essere-nel-mondo, ossia il fatto che «l’Esserci, già prima di qualsiasi indagine tematica, “fa i conti col tempo” e si regola secondo il tempo» (HEIDEGGER 1927a, 534 [483]). Anche a questo secondo livello, dunque, il problema per Heidegger è capire come le determinazioni che via via si attestano sulla strada dell’effettività (in questo caso, l’intratemporalità) possano derivare dal discorso sull’originario; ma tale derivazione finisce per comportare l’attribuzione di una specifica dignità ontologica alla stessa comprensione ordinaria. È qui che assume un rilievo sempre maggiore la nozione di “livellamento”. Heidegger scrive infatti: «Come e perché l’Esserci giunga a formarsi un siffatto concetto del tempo, può essere determinato solo a partire dalla costituzione d’essere dell’Esserci prendente-cura del tempo, costituzione che è fondata nella temporalità»; ma se le cose stanno così, «il concetto ordinario del tempo deve la sua origine a un livellamento del tempo origina- Martinengo.qxp 188 12-11-2012 14:27 Pagina 188 IL PENSIERO INCOMPIUTO rio. La delucidazione di questa provenienza del concetto ordinario del tempo finisce per costituire una conferma della interpretazione precedente della temporalità come tempo originario» (HEIDEGGER 1927a, 535 [484], corsivo mio). Al termine della seconda sezione di Sein und Zeit, non tutti i nodi teorici del discorso di Heidegger sono dunque sciolti. In particolare, resta da chiarire il modo in cui il concetto ordinario di tempo derivi dalla temporalità originaria per livellamento; e secondariamente si deve ancora verificare in che misura tale derivazione confermi (o smentisca) quella stessa originarietà. Ma proprio attraverso queste considerazioni, in particolare a partire dalla prima, il discorso di Heidegger entra in risonanza con la discussione sull’aporetica. Che il tempo ordinario sia un effetto di livellamento, rispetto a una rappresentazione più originaria, è denunciato infatti dalla prevalenza della prospettiva “calcolante”: la comprensione mondana del tempo si sviluppa anzitutto e per lo più all’insegna del “fare i conti con il tempo”, cioè attraverso il dispositivo da cui discendono prima facie fenomeni come la “databilità”, la considerazione del “lasso di tempo” e in generale il tempo come “tempo pubblico”; nella misura in cui la comprensione si sposta sul modo delle cose che si incontrano nel mondo, i caratteri tipici della Vorhandenheit e della Zuhandenheit trapassano dunque nella considerazione del tempo. La stessa esigenza del calcolo, per esempio la misurazione tramite calendari (o, su altra scala, il calcolo astronomico), ha a che fare con la struttura mondana della Cura, perché questa relazione impone di considerare il tempo come un contenitore di enti semplicemente presenti o utilizzabili. Ma, se le cose stanno così, al termine di questa emancipazione dell’ordinario dall’originario, il dato puramente cronologico dello “scorrere del tempo” è interamente riportato alla prospettiva calcolante, di cui lo spostamento della lancetta su un quadrante di orologio è l’esemplificazione migliore (cfr. RICOEUR I 1985, 127 [132]). Proprio a questo stadio, secondo Ricoeur, il tempo inautentico di Heidegger e il tempo dell’aporia diventano perfettamente sovrapponibili, in quanto le rispettive definizioni dipendono da un’anima misurante o dalla mera inerenza agli oggetti. Di contro, se il salto all’autenticità è possibile, a subire una revisione è lo stesso gioco delle opposte confutazioni, che la fenomenologia e la cosmologia impongono. Il che Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 189 PARTE SECONDA 189 confermerebbe l’ipotesi di partenza: «Da un lato il tempo del mondo è più “obiettivo” di ogni oggetto, in quanto accompagna la rivelazione del mondo come mondo; in conseguenza non è legato agli enti psichici più che a quelli fisici […]. Da un altro lato è più “soggettivo” di ogni soggetto, grazie al suo radicamento nella Cura» (RICOEUR I 1985, 127-128 [133]).6 Tuttavia secondo Ricoeur, per quanto la soluzione di Sein und Zeit appaia in prima battuta convincente, il discorso non può ancora chiudersi qui. È pur vero infatti che nelle intenzioni di Heidegger il processo di livellamento restituisce in qualche modo una continuità all’articolazione delle diverse rappresentazioni del tempo; ma è impossibile non chiedersi se questa continuità esaurisca davvero una più radicale disomogeneità, che Temps et récit III significativamente definisce “epistemologica”, tra diverse regioni del reale. 2. Temporalizzazione vs messa in intrigo Che la vera posta in gioco di Sein und Zeit sia la possibilità di saturare la pluralità dei fenomeni temporali, riconducendola a un unico processo di stratificazione – e che questa riduzione segni un’apparente novità rispetto ai discorsi classici sul tempo – è in effetti piuttosto chiaro, almeno sotto i presupposti di Ricoeur. Fin dalle premesse, l’analisi heideggeriana si caratterizza infatti per la propria esclusività: il procedimento teorico che Heidegger adotta si regge sulla possibilità di assumere la temporalità fondamentale come punto di partenza di ogni altro possibile concetto di tempo; terreno unico e indeducibile dell’analisi, la Zeitlichkeit vuole essere, senza altre concessioni, l’origine di tutti i fenomeni lato sensu temporalizzati, a qualsiasi livello si producano. Questo è il maggiore tra gli assunti teorici di Heidegger. Tuttavia proprio l’ipotesi che si possa parlare di un unico processo di derivazione dei tempi, a partire da una sola matrice, appare particolarmente debole sotto il profilo dell’argomentazione. E ciò accade, secondo Ricoeur, per due ordini di questioni. La prima consiste, come si è visto, in quel particolare cortocircuito tra l’originario e il derivato che fa sì che la derivazione finisca per essere una revisione a posteriori della natura stessa dell’originario. Ma la seconda questione fa capo, ancor più problema- Martinengo.qxp 190 12-11-2012 14:27 Pagina 190 IL PENSIERO INCOMPIUTO ticamente, alla palese sopravvalutazione, da parte di Heidegger, delle risorse che possono essere messe in conto a questo stesso processo. L’obiezione di Ricoeur è insomma questa: se la genesi del concetto ordinario di tempo a partire dall’intratemporalità presenta alcuni innegabili vantaggi, in particolare sotto il profilo della ricostruzione genealogica, resta ancora totalmente indimostrato che ciò che anzitutto e per lo più si definisce come “tempo” si debba solo e unicamente a tale genesi. 2.1 Il tempo del mondo come limite della temporalizzazione Detto in altri termini, a rappresentare un problema per Temps et récit è la possibilità di una derivazione “senza resti”, in virtù della quale all’ordinario non competerebbe null’altro che ciò che si ricava dall’analisi heideggeriana della Cura. Sotto il presupposto della “derivazione senza resti”, il discorso di Heidegger resta pienamente coerente, presentando l’innegabile vantaggio di ricavare il concetto ordinario di tempo dal processo di temporalizzazione, di cui l’analitica esistenziale ha mostrato la struttura. Ma di contro è proprio qui che sorge un’ipotesi fondamentale per Ricoeur, ossia l’idea che l’analisi di Heidegger finisca per essere vittima di un unilateralismo equivalente a quello di Bergson. Se il modello di Bergson si regge sulla scelta di enfatizzare il tempo come durata, estinguendo le risorse autentiche (o “autentificabili”) delle altre rappresentazioni della temporalità, Heidegger in qualche modo ripete la stessa enfasi, soprascrivendola però alla nozione di originarietà. In altri termini, seguendo Heidegger, è davvero possibile connotare la Zeitlichkeit come l’unico concetto autonomo di tempo? O non vi sono forse altri concetti di tempo, al di là della linea che tiene assieme la temporalità originaria, la storicità e l’intratemporalità: tempi che influiscono a loro volta sulla rappresentazione ordinaria? Secondo Ricoeur, la risposta giusta sta nella sistematica sottodeterminazione, da parte di Heidegger, di tutta una parte della storia del concetto di tempo: quella che fa capo al tempo-mondo e che Sein und Zeit finisce per attribuire tout court alla “metafisica”. L’ipotesi di Heidegger è che ad Aristotele, attraverso il rilievo dato alla nozione di istante, si possa mettere in carico una definizione del tempo come successione di “ora qualunque” e che questa nozione contenga in premessa qualsiasi altra estensione metafisica del problema.7 In Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 191 191 realtà, per Ricoeur le cose non stanno affatto così. Pensare, come vuole Heidegger, che qualsiasi numerazione del tempo secondo il “prima” e il “poi” non sia riscattabile da una rappresentazione “livellata” della temporalità, e che dunque ogni altra discussione organica del tempo, per esempio quella hegeliana, si sia attenuta fondamentalmente alla definizione di Aristotele (HEIDEGGER 1927a, 556 [503]), equivale a una soppressione fondamentale: in tutta l’analisi heideggeriana, infatti, si è esclusa programmaticamente la possibilità che «il processo considerato un fenomeno di livellamento sia anche, e simultaneamente, la liberazione di un concetto autonomo di tempo – il tempo cosmico –, di cui la fenomenologia ermeneutica non viene mai a capo e con il quale non ha mai finito di spiegarsi» (RICOEUR I 1985, 131 [136]). In altri termini, ciò che Ricoeur ritiene di avere mostrato è che il discorso aristotelico di Physica IV sviluppa ben altre risorse concettuali, che Heidegger relega al livello del non-originario, negando loro qualsiasi rilevanza filosofica. Al contrario la forza dell’argomento di Aristotele sta proprio nella scelta di non derivare il concetto di tempo come istante da altre rappresentazioni possibili, per esempio dal “presente vivo”: l’istante è ciò che marca “l’incidenza” all’interno di una continuità del movimento-mutamento; ma questa cesura del continuum appartiene alla struttura stessa del movimento. In questo modo, essa rimanda direttamente al mondo e non all’anima: «Il movimento (mutamento) appartiene ai principi della fisica, che non includono nella loro definizione il riferimento ad un’anima che distingue e conta. […] Ne risulta che, se l’operazione noetica di discriminazione attraverso la quale lo spirito distingue due istanti basta a distinguere il tempo dal movimento, questa operazione si innesta nello stesso dispiegamento del movimento, il cui carattere numerabile precede le distinzioni relative al tempo» (RICOEUR I 1985, 133 [138], corsivo mio). Perciò, nel modello di Physica IV il continuum del tempo si sovrappone alla continuità del movimento, senza separarsene mai totalmente: è pur vero che il tempo non è il movimento (ma semmai “qualcosa” del movimento); questa supplementarità del tempo non toglie però che il movimento mantenga un primato su di esso, primato che nessuna analisi fenomenologica riesce realmente a esaurire. Se le cose stanno così, l’autonomia assoluta che il movimento esibisce nei confronti dell’operazione di numerazione Martinengo.qxp 192 12-11-2012 14:27 Pagina 192 IL PENSIERO INCOMPIUTO appare a Ricoeur del tutto incompatibile con la possibilità di derivare la sua rappresentazione dalla Cura: «essere qualcosa del movimento ed essere qualcosa della Cura» costituiscono due determinazioni che appaiono del tutto «inconciliabili nel loro principio» (RICOEUR I 1985, 133 [138]). Il discorso di Ricoeur è chiaro: oltre a mancare il proprio obiettivo principale, ovvero la definizione di un confine stabile tra l’autentico e l’inautentico, tra l’originario e il derivato, l’analitica esistenziale di Sein und Zeit finisce per ripetere lo stesso disavanzo che caratterizza ogni altra fenomenologia ordinaria del tempo, cioè la scelta di escludere d’ufficio un’eteronomia che invece le sarebbe strutturalmente connessa. Senza il riferimento a una struttura altra e distinta dalla Cura, l’enigma della derivazione non può mai dirsi effettivamente esaurito; ma viceversa se alla Cura è affiancata una seconda origine del tempo, a cadere nell’impossibilità è la pretesa stessa che l’analitica esistenziale possa dirsi completa. Del resto, il fatto che un’impossibilità del genere sia coestensiva al modello heideggeriano è quanto denuncia, secondo Ricoeur, il punto di equilibrio più significativo che Sein und Zeit raggiunge, ossia la definizione della temporalità come originario «fuori di sé», in sé e per sé (cfr. HEIDEGGER 1927a, 435 [395]). Se infatti Heidegger è costretto a parlare di temporalità estatica, ciò accade per garantire già all’interno del tempo originario un qualche principio di molteplicità. Ma a questo punto non vi è più alcuna ragione per sostenere che la molteplicità sia davvero intrinseca alla sola temporalità originaria, dacché è impossibile immaginare come questa inclusione si realizzi effettivamente: senza supporre che al tempo della Cura si opponga qualcos’altro dall’esterno (un «fuori di sé» originario), la pluralità che il tempo esibisce de facto risulta dunque totalmente inspiegabile. Proprio da questa “opposizione polare” e dalla sua sottovalutazione (cfr. RICOEUR I 1985, 133 [138]), derivano le conseguenze maggiori per la tenuta teorica di Sein und Zeit. Perciò, secondo Ricoeur, se si prova a metabolizzare la portata innovatrice del discorso di Heidegger, procedendo al di là del pur rilevante sforzo categoriale che Sein und Zeit mette in campo, non si tarda a scoprire ciò che questa innovazione nasconde. Ciò a cui Heidegger risponde con la sua revisione categoriale non è tanto lo statuto (derivato o meno) del concetto ordinario di tempo: a regge- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 193 193 re le sorti dell’analitica esistenziale è semmai un altro e ben più delicato elemento, che fa capo al tempo ordinario ma in un senso molto diverso da quello che in Sein und Zeit ci si aspetterebbe. Posto infatti che la rappresentazione ordinaria del tempo si caratterizzi in quanto è in grado di oggettivare una successione misurabile e quantificabile di istanti, ciò non può dipendere soltanto da una specifica scelta metodologica (quella che Heidegger definirebbe “la metafisica”), ma deve essere in qualche modo legato alla struttura del fenomeno. E ciò che la metafisica del tempo ordinario mette in luce con maggiore chiarezza, almeno dal punto di vista fenomenologico, è che la misurazione è di fatto l’unico dispositivo in grado di imporre un principio di ordine a una realtà fenomenica irriducibilmente disomogenea. Volendo spingere più a fondo l’obiezione di Ricoeur, si può dire insomma che il primato esistentivo attribuibile alla prospettiva metafisica sul tempo deriva principalmente dal fatto che sono gli stessi fenomeni temporali a porre alla comprensione un problema di disomogeneità; e rispetto a questa disomogeneità, la misurazione e il livellamento rappresentano una chiara risposta, sebbene irrimediabilmente compromessa con la metafisica. Il “buon diritto” che si deve restituire alla comprensione ordinaria del tempo, e al quale fa riferimento Heidegger stesso, sta proprio qui: le rappresentazioni oggettivanti del tempo rispondono a un’esigenza di ordinamento e misurazione, per il semplice fatto che tale esigenza è quella che fenomenologicamente si pone per prima. La metafisica del tempo ordinario non è dunque altro che una risposta al dato strutturale al quale la temporalizzazione dà corso: la moltiplicazione che caratterizza in via necessaria il tempo. Del resto – al di là di ciò che Ricoeur denuncia – la prova più evidente di questa situazione non è soltanto la contrapposizione sempre irrisolta tra la fenomenologia e la cosmologia: questo sarebbe ancora un argomento interno a una certa “storia della metafisica” e come tale sarebbe confutabile a partire da una qualsiasi ipotesi di superamento. La migliore conferma dell’impasse viene semmai da quell’insieme di rappresentazioni che Heidegger per principio esclude, ossia le rappresentazioni date della scienza moderna: il dato di fondo che caratterizza la forma del mondo tipica della modernità scientifica è che non vi è tempo, almeno non nel senso Martinengo.qxp 194 12-11-2012 14:27 Pagina 194 IL PENSIERO INCOMPIUTO che il moderno attribuisce alla parola, se non nella contrapposizione tra durate radicalmente incommensurabili. E questa incommensurabilità, che tipicamente la filosofia ordina ai due poli del tempo umano e del tempo della natura, non soltanto non si appiana a misura della sua estensione al di là della filosofia, ma anzi si acuisce ulteriormente. La molteplicità dei tempi è anzitutto un affare di durate finite che si contrappongono a durate infinite; e che vi sia qualcosa come una durata infinita, che si contrappone agli intervalli finiti dell’esistenza, è l’acquisizione fondamentale che caratterizza il modello delle moderne scienze della natura, da Buffon a Darwin.8 2.2 L’irrappresentabilità del tempo Il tempo ordinario, particolarmente nella sua forma di tempo cronologico, non fa dunque che introdurre un mero «fattore di commensurabilità» tra le durate (cfr. RICOEUR I 1985, 135 [141]); ma è un fattore che si rivela del tutto astratto, perché non cancella il dato che lo stesso Heidegger si sforza programmaticamente di non vedere, ossia la radicale disomogeneità del tempo del mondo rispetto al tempo della Cura. Da questo punto di vista, l’analisi di Sein und Zeit procede da un nascondimento preliminare: il Faktum indiscutibile che oppone una temporalità altra alla comprensione esistenziale del tempo è automaticamente declassato come Faktum deiettivo, come puro effetto di livellamento; mentre al contrario se si dà una rappresentazione cosmologica del tempo, di cui il tempo della Cura sembra essere l’opposto simmetrico, ciò si deve al fatto che il tempo fisico esprime un’eteronomia radicale, della quale il fenomeno della temporalizzazione non riesce realmente a dare ragione.9 2.2.1 L’aporia è insolubile “in via di principio” È qui che secondo Ricoeur l’analitica esistenziale incorre in uno scacco decisivo, che va a invalidare la stessa ipotesi di partenza a cui lo stesso Temps et récit aveva dato corso, ossia la possibilità di riassorbire totalmente, attraverso il ricorso a un nuovo concetto di comprensione, l’opposizione soggetto-oggetto. È pur vero che in Heidegger il nuovo rilievo dato alla comprensione è un dato irriducibilmente connesso con la fondazione epistemologica dell’ermeneutica; tuttavia, per Ricoeur, da essa non si può derivare alcuna conseguenza stabile rispetto alla questione dell’aporia. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 195 195 Se le cose stanno in questi termini, il discorso heideggeriano sulla derivazione mette definitivamente in luce che un’analisi condotta soltanto sul versante del tempo originario non basta a se stessa. Ricoeur si spinge ancora oltre questa denuncia, sostenendo che Sein und Zeit sancisce l’insolubilità dell’aporia “in via di principio”: il fenomeno della temporalizzazione, anziché essere il principio di una riduzione integrale delle durate al tempo originario, diventa una ulteriore attestazione dell’aporia; ma si tratta di una riattestazione di genere molto diverso da quelle che hanno riguardato la cosmologia e la fenomenologia, perché porta al punto di massima incandescenza il problema della rappresentazione ordinaria. In Temps et récit, la questione resta relativamente non approfondita; tuttavia si può francamente sostenere che essa costituisce il momento centrale della critica a Heidegger, e in qualche modo anche il punto più delicato per la tenuta teorica dell’analisi ricoeuriana. La soluzione su cui Ricoeur lavora non si regge infatti sull’affiancamento di un modello particolare (la poetica narrativa del tempo) all’insieme delle rappresentazioni filosofiche della temporalità, ma su un assunto più radicale: è l’idea che la poetica del tempo sia qualcosa di strutturalmente differente dal gioco infinito di cosmologia e fenomenologia, e che soltanto in virtù di questa differenza radicale il racconto possa dire qualcosa di sensibilmente nuovo rispetto all’aporia. La «risposta poetica all’aporia speculativa» sta tutta qui, nella possibilità che un linguaggio dichiaratamente non-filosofico, come è quello della narrazione, apporti qualcosa di filosoficamente rilevante ai fini della composizione dell’enigma del tempo. Dal punto di vista teorico, questa possibilità contiene una serie di implicazioni tutt’altro che scontate, perché cerca di conciliare due livelli del discorso che appaiono radicalmente disomogenei. E tuttavia – al di là di quanto Temps et récit dica esplicitamente – essa si fonda su un’ipotesi molto importante per il modello che Ricoeur ha in mente: il discorso ermeneutico sul narrativo diventa legittimo soltanto nella misura in cui l’analitica esistenziale non sia uno dei molteplici esiti dell’aporia del tempo, ma quello che contiene il principio stesso della sua insolubilità. Detto in altri termini, se Sein und Zeit non mettesse fine al meccanismo delle reidentificazioni successive, sarebbe pur sempre ipotizzabile un esito ancora filosofico dell’aporia; poiché invece il discorso di Heidegger sembra Martinengo.qxp 196 12-11-2012 14:27 Pagina 196 IL PENSIERO INCOMPIUTO chiudere del tutto questa possibilità, allora è lecito cercare altrove la risposta, per esempio nella poetica del tempo. Se il punto d’appoggio di Ricoeur è questo, e tutto lascia intendere che lo sia, l’interpretazione ricoeuriana di Heidegger lascia almeno due questioni in sospeso: anzitutto, non si è ancora definito in che cosa consista realmente questa “insolubilità di principio”; e in secondo luogo, ammettendo che l’analitica esistenziale marchi davvero un punto di non-ritorno per la filosofia del tempo, si deve capire dove vada a parare lo schema sostitutivo che Temps et récit si sforza di costruire. Secondo quanto dice Ricoeur, infatti, la risposta poetica alla speculazione «non consiste tanto nel risolvere le aporie, quanto nel farle lavorare, rendendole produttive» (RICOEUR I 1985, 374 [395]); nemmeno la poetica del tempo dunque (e di questo Ricoeur appare consapevole soltanto al termine di Temps et récit III) potrà contenere una vera soluzione al problema, ma si limiterà a darne una nuova riattestazione. Al di là del tono inevitabilmente conclusivo che Ricoeur attribuisce all’espressione, è allora lecito domandarsi in che cosa consista questa terza attestazione dell’aporia – dopo quella speculativa e quella dell’analitica esistenziale – e perché si tratti di una soluzione che «fa lavorare» l’enigma del tempo. In realtà, Temps et récit tende per lo più a dare per scontate le implicazioni del primo aspetto, quelle che concernono il principio di insolubilità di cui l’analitica esistenziale sarebbe portatrice; invece è proprio qui che – Ricoeur volente o nolente – il problema si fa rilevante. L’idea che Sein und Zeit chiuda la serie delle “reidentificazioni successive” dell’aporia è infatti ben poco pacifica sotto il profilo metateorico. Essa si espone fin dall’inizio al classico argomento della retrodizione, che tipicamente si addebita allo stesso Heidegger e alla sua critica della “metafisica occidentale”: qualsiasi storia di concetti (la “storia del concetto di verità”, la “storia della metafisica”, la “storia della filosofia occidentale”…) non rischia forse di essere la sovrapposizione di un esito predeterminato, a un corso di eventi altrimenti incomprensibile? Si potrebbe insomma sostenere che la storia del concetto di tempo che Ricoeur adduce – assieme alla scelta di includervi la stessa Zeitlichkeit heideggeriana – non sia che la premessa fittizia di un discorso teorico che fonda la sua credibilità soltanto su questo presupposto: se le cose stessero così, la relazione circolare tra la fenomenologia e la cosmologia non sareb- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 197 197 be altro che la “retroiezione” ex post della preferenza teorica di Temps et récit per la poetica del racconto; in questo senso, dire che il modello mythos-mimesis risponde a un’aporia che si estende senza eccezioni a tutta la filosofia del tempo, fino a Heidegger, rappresenterebbe un presupposto (e un presupposto massimamente inargomentabile), più che una legittima conclusione. Tuttavia, ammesso e non concesso che le cose stiano così per qualsiasi tentativo di costruire una “storia di concetti”, o che la retrodizione sia davvero un difetto dell’argomentazione (il che manifestamente per l’ermeneutica non sarebbe vero), in Temps et récit la questione appare alquanto diversa. Il vero problema di Ricoeur non è tanto l’insolvenza del modello di Heidegger, ma ciò che questa insolvenza significa dal punto di vista strettamente strutturale. In altri termini, il nucleo fondamentale della lettura ricoeuriana di Heidegger sta in questa acquisizione: l’analitica esistenziale diventa sì il punto privilegiato a partire dal quale rileggere ex post la storia del concetto di tempo; ma ciò è possibile non in virtù di un privilegio epistemologico del discorso heideggeriano, bensì per il semplice fatto che il modello di Heidegger assegna un ruolo costitutivo al principio di funzionamento dell’aporia stessa. È come se il motivo determinante dell’aporia diventasse in Heidegger il nucleo della nozione di temporalizzazione, finendo in qualche modo per essere tematizzato come tale. Del resto, come ciò sia possibile è ormai piuttosto evidente: la temporalizzazione su cui si fonda il discorso di Heidegger è per eccellenza un dispositivo di stratificazione, cioè un principio di ordine che riscrive (in una chiave che si pretende autentica) la stessa funzione organizzatrice del concetto ordinario di tempo; ma questa reiscrizione non è che l’altra faccia dell’irriducibilità del tempo che è al centro dell’aporia. Nel modello di Heidegger, dunque, l’insopprimibilità dell’aporetica sembra poter essere riconosciuta per la prima volta come tale: senza il processo di temporalizzazione, senza la stratificazione del tempo e conseguentemente senza l’aporia, in Sein und Zeit non si potrebbe parlare del tempo tout court. È questo lo scacco dell’aporia che, secondo Ricoeur, Sein und Zeit porta alle estreme conseguenze: ciò che in Aristotele, Agostino, Kant e Husserl restava l’ostacolo insuperabile per ogni filosofia della temporalità, in Heidegger diventa il principio stesso di articolazione delle durate. Martinengo.qxp 198 12-11-2012 14:27 Pagina 198 IL PENSIERO INCOMPIUTO Naturalmente, la questione è molto delicata e pertiene all’esatta collocazione che si vuole attribuire all’analitica esistenziale. Ma il vero problema non è ancora questo. Se infatti si accetta questa lettura del testo di Heidegger, quasi per simmetria diventa meno chiaro l’altro aspetto fondamentale del discorso di Ricoeur, ossia la superiorità del modello myhtos-mimesis rispetto all’analitica esistenziale. Sotto questa prospettiva, tende insomma a non essere evidente la differenza tra lo scacco nel quale incorrerebbe Heidegger e il «lavoro dell’aporia» cui invece darebbe seguito Ricoeur: tanto il modello di Temps et récit, quanto la seconda sezione di Sein und Zeit, sono due tentativi di pensare il tempo come stratificazione; e tuttavia Ricoeur ritiene di poter argomentare la superiorità del proprio modello, rispetto all’unilateralismo heideggeriano. Posto dunque che si accetti la tesi di Ricoeur, almeno nelle sue linee generali, si deve ipotizzare che, se tra i due modelli vi è effettivamente uno scarto, esso stia semmai altrove. 2.2.2 La parzializzazione dei contenuti come principio di funzionamento della messa in intrigo Se è valida quest’ipotesi di lettura, l’interpretazione ricoeuriana di Heidegger muove da un’acquisizione molto lineare: il modello heideggeriano presenta l’innegabile vantaggio di provare a dare corso alla plurivocità del concetto di tempo; tuttavia, mancando il proprio obiettivo fondamentale, esso finisce per non includere sotto la stessa plurivocità ciò che dovrebbe ritenersi la principale estensione della nozione di tempo, quella facente capo al mondo. Da questo punto di vista, Ricoeur ritiene di poter proseguire “oltre Heidegger”, lungo la strada dello Zusammenhang des Lebens diltheyano. Uno degli aspetti più delicati del discorso di Heidegger pertiene infatti alla possibilità, da parte del Dasein, di essere-un-tutto; ed è una questione che resta aperta, proprio a causa dell’impossibilità di raccogliere in una prospettiva unitaria attestazioni del tempo difficilmente riconducibili al Dasein stesso. Il modello mythos-mimesis risponde proprio a questo problema, ossia alla necessità di trasporre in forma “logica” l’esperienza temporale nella sua interezza: la connessione prenarrativa dell’esperienza si colloca all’incrocio tra molteplici prospettive sul tempo; e a questo vasto campo di esperienze (a questa connessione plurale di tempo dell’anima e tempo Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 199 199 del mondo) la nozione di racconto cerca di dare una traduzione radicalmente più stabile e inclusiva. Ciò che però si deve capire è a quale prezzo Temps et récit ottenga questa maggiore stabilità e inclusività, giacché lo scarto rispetto a Sein und Zeit si gioca proprio qui. Ricoeur perviene a questa sistemazione in momenti diversi dell’analisi, in particolare attraverso quelle che Temps et récit chiama a più riprese le «prospettive incrociate» della storiografia e della narratologia (cfr. per es. RICOEUR I 1985, 280 [297]): la tesi di fondo del modello di mimesis I-III necessita infatti di una verifica metodologica concreta; e la prova sui due versanti del discorso storico e del racconto di finzione sostanzia ciò che Ricoeur vuole dimostrare. È l’obiettivo che è in discussione nella seconda e nella terza parte di Temps et récit, dove si evidenzia l’identità strutturale tra storia e finzione, nonostante la differenza irriducibile che intercorre tra i rispettivi correlati referenziali. Da questo punto di vista, lo schema argomentativo di Temps et récit è piuttosto semplice: data per assodata la sostanziale insolvenza delle filosofie della temporalità di stampo fenomenologico e cosmologico, il narrativo pretende di sostituire d’ufficio i modelli precedenti per raggiungere lo stesso obiettivo che questi si ponevano, ossia l’articolazione di un’esperienza integrale del tempo. Tuttavia, anche al termine delle analisi parallele dell’intenzionalità storica e della razionalità narrativa, vi è almeno una questione che resta aperta. Se infatti è convincente che, sotto i presupposti di Ricoeur, il modello mythos-mimesis subentri integralmente alla logica speculativa, è meno certo che in questa sostituzione non sia incluso anche qualcosa di più, che lo speculativo non contemplava affatto: non è sicuro, insomma, che il narrativo si limiti a sciogliere ciò che lo speculativo lasciava irrisolto, senza che con questo la messa in intrigo non apporti anche qualcos’altro. Che il modello mythos-mimesis implichi qualcosa di più che una semplice supplenza dello speculativo risulta evidente fin dalla prima riattestazione narrativa dell’aporetica: quella che pertiene all’occultamento reciproco tra la fenomenologia e la cosmologia. In tal caso, Temps et récit parla sbrigativamente di una «crescente inadeguatezza» del racconto a rispondere all’impasse speculativa (cfr. RICOEUR I 1985, 352 [372]). Tuttavia, come si è visto, questa inadeguatezza è soltanto la premessa per un problema molto diverso, che i vari esiti dello speculativo tendevano a occultare: la poetica della Martinengo.qxp 200 12-11-2012 14:27 Pagina 200 IL PENSIERO INCOMPIUTO temporalità si trova infatti associata alle questioni dell’identità e della rappresentazione e, attraverso queste, alla soluzione che Ricoeur connota come «mediazione imperfetta»; soltanto in virtù di tale ampliamento, Temps et récit appare in grado di garantire una soluzione più stabile del problema. Al di là di ciò che Ricoeur decide di esplicitare, questo equivale a dire che il modello della temporalizzazione heideggeriana (o meglio il suo sostituto: mimesis I-III) è esteso sì al tempo del mondo; ma tale estensione, associando all’aporetica classica una serie di questioni a prima vista estranee (lo statuto della soggettività e la rappresentazione), muta la natura stessa della mediazione, rendendola paradossalmente più funzionale. Del resto, questa rettifica nel modo di porre il problema fa seguito all’altra revisione fondamentale che Ricoeur apporta: quella in virtù della quale il tempo del mondo, complicando notevolmente la questione dello Zusammenhang des Lebens (o del Dasein inteso come-untutto), diventa il principio di una stratificazione molto differente da quella a cui ricorreva Heidegger. È sulla base di queste due ridefinizioni del problema che il racconto può apparire come una risposta possibile all’esigenza di connessione che l’analitica lascia insoluta. In altri termini, soltanto attraverso un allargamento del problema della stratificazione – che da esibizione di un’ipotetica esperienza autentica si trasforma nella messa in intrigo di un’identità a sua volta temporalizzata – il modello mythos-mimesis viene in qualche modo a capo della questione, fornendo una rappresentazione unitaria del tempo vissuto e del tempo del mondo. Tuttavia, posto che le cose stiano così, in questo modo non si spiegherebbe soltanto il paradossale funzionamento di mimesis I-III, secondo cui alla maggiore articolazione del problema corrisponde una migliore stabilità della soluzione, ma si chiarirebbe anche in modo definitivo la differenza tra lo “scacco” e il “lavoro” dell’aporetica. Ed è una differenza strettamente legata al dato più significativo messo in luce da Temps et récit III. Se infatti si è parlato del modello mythos-mimesis come di un processo basato sulla non-totalizzabilità dell’esperienza temporale, proprio a questo livello si possono iniziare a verificarne le implicazioni. Ciò che Heidegger tematizza, ossia che la forma “logica” della temporalità è data dalla sovrapposizione di livelli fenomenici differenti, resta esplicitamente la chiave del discorso di Ricoeur: soltanto una “logica” della stratificazione Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 201 201 può rispondere in modo legittimo alla stratificazione del tempo. Ma questo principio subisce un’importante revisione, che Ricoeur non esplicita mai come tale e che però appare quanto mai verosimile, proprio a partire dal confronto con Heidegger: posto che nel caso di mimesis I-III si possa parlare di una stratificazione che si estende al tempo del mondo, ciò implica che tale stratificazione introduca anche un fattore di parzializzazione dei contenuti. Una cosa non può stare senza l’altra, perché soltanto a partire da tale connessione si comprende l’enfasi ricoeuriana sulla mediazione “imperfetta”. In realtà, come questi due aspetti – estensione e parzializzazione – stiano assieme è estremamente significativo per la lettura referenzialista che si è data di mimesis I-III; ed è un risultato che soltanto ora può apparire palese. Se tutto il discorso di Ricoeur è attraversato dall’ipotesi di una fondamentale irrappresentabilità del tempo, Temps et récit non arriva mai in modo esplicito (nemmeno nelle pagine conclusive) a ricollegare tale ipotesi al modello heideggeriano della temporalizzazione. Ma questa connessione c’è ed è evidente, perché l’idea di parlare di una incompletezza del dispositivo narrativo non può non avere a che fare con l’elemento che a partire da Sein und Zeit appare fondamentale per ogni analisi del tempo, ossia la presenza di determinazioni che ne destabilizzano dall’interno il “funzionamento”. L’origine di questa destabilizzazione – ora l’inferenza è evidente – non può che fare capo al tempo del mondo: la traduzione “logica” del tempo, in quanto è de facto la stratificazione di tempi irriducibilmente eterogenei, deve prendere in via necessaria la forma di una parzializzazione dei significati. Che dunque il modello mythos-mimesis di Ricoeur si possa leggere nel senso di un processo di stratificazione, e ancor più che questo processo ponga una seria questione di saturabilità del fenomeno, dipende totalmente dal modo in cui si sceglie di considerare l’esistenza di un residuo non-rappresentabile all’interno della messa in intrigo. Ed è quanto mai verosimile supporre che l’apporto dovuto al confronto con Sein und Zeit chiarisca anche quest’ultimo aspetto: è pur vero infatti che il principio di derivazione e livellamento, insito nella temporalità heideggeriana, diventa in Ricoeur il fondamento di un’operazione che circoscrive la portata referenziale del linguaggio; ma è altresì evidente che questa limitazione, in quanto ha a che fare con un dispositivo di stratificazione, funzioni soltanto a condizione che Martinengo.qxp 202 12-11-2012 14:27 Pagina 202 IL PENSIERO INCOMPIUTO l’insieme dei significati (o, meglio, dei tempi-significato) sia proiettato su uno sfondo di contenuti non significanti. Si può insomma sostenere che il discorso di Heidegger sulla temporalizzazione metta in premessa, senza tuttavia trarne le dovute conseguenze, tutti gli elementi su cui successivamente Temps et récit sarebbe tornato. E ciò che Ricoeur sembra ricavare da queste premesse è il fatto che lo schema Zeitlichkeit-storicità-intratemporalità resta sostanzialmente valido soltanto a condizione che la stratificazione sia caricata di una funzione strutturale fondamentale: stratificare il tempo, discriminando tra livelli significanti e livelli non-significanti, è l’unico modo per attribuirgli una forma “logica” stabile, seppur inevitabilmente parziale. Note I riferimenti di Ricoeur sono ai §§ 4 e 11 di Sein und Zeit (cfr. in partic. HEIDEGGER 1927a, 16 [28] e 70 [75]). 2 L’argomento è noto: sotto il profilo dell’autenticità, l’apertura dell’esistenza al futuro (la decisione) ha inevitabilmente a che fare con l’assunzione di ciò che la precede, ossia con il dato irriducibile della Geworfenheit; allo stesso modo, se di un’effettività della decisione si deve parlare, ciò dipenderà altresì dalla sua capacità di incorporare la “situazione presente”, rendendola effettivamente presente, “presentandola”. Qui il riferimento è ai passaggi cruciali del § 65 di Sein und Zeit (La temporalità come senso ontologico della Cura), in cui la decisione anticipatrice diventa il cardine della nuova nozione di temporalità, intesa come «fenomeno unitario dell’avvenire essente-stato e presentante». 3 Il rapporto tra Agostino e Heidegger è molto significativo, almeno dal punto di vista storiografico. Per Ricoeur, in entrambi i casi è in gioco l’idea che il tempo possa “dirsi in molti modi” e che la distinzione di più piani corrisponda non all’individuazione di un tempo vero e un tempo falso, ma a un’articolazione interna del fenomeno. Rispetto alla plurivocità del tempo in Heidegger, sarebbe utile un confronto con le analisi che, coerentemente ma indipendentemente da Ricoeur, sono sviluppate da Reiner Schürmann (cfr. per es. SCHÜRMANN 1982, 144-184 [237-298]). 4 Il riferimento a Dilthey compare in RICOEUR I 1985, 107-108 [111-112]. 5 Da qui il ruolo fondamentale, all’interno di Sein und Zeit, della discussione sulla coscienza, contenuta nel Capitolo secondo della prima sezione (L’attestazione da parte dell’Esserci di un poter-essere autentico e la decisione). Su tutto ciò, cfr. in partic. RICOEUR I 1985, 95-102 [99-106]. 6 Il riferimento è ovviamente al § 80 di Sein und Zeit (Il tempo di cui ci si prende cura e l’intratemporalità), in cui Heidegger definisce il carattere pubblico del tempo-mondano, chiarendone l’irriducibilità all’opposizione soggetto-oggetto: cfr. in partic. HEIDEGGER 1927a, 554-555 [501-502]. 1 Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 203 203 7 Su questa inclusione del tempo del mondo nella rappresentazione “livellata” della temporalità, cfr. il § 82 di Sein und Zeit (Chiarimento della connessione ontologico-esistenziale fra temporalità, Esserci e tempo-mondano, contro l’interpretazione hegeliana della relazione fra tempo e spirito) e in particolare la nota dedicata a Hegel (HEIDEGGER 1927a, 570-571, nota 14 [536-537, nota 30]), da cui sarebbe partita la discussione di Derrida in Ousia et grammé (1968). 8 Pertanto Ricoeur può chiedersi: «È solo il “Si” che non muore? Noi consideriamo il tempo come infinito solo perché nascondiamo a noi stessi la nostra propria finitudine? E se diciamo che il tempo fugge, è solo perché fuggiamo l’idea del nostro essere-per-la-fine? Non è anche perché osserviamo, nel corso delle cose, un passaggio che ci sfugge, nel senso che sfugge alla nostra presa, al punto di ignorare che dobbiamo morire?» Il modello di Heidegger tende ad addomesticare questa radicale eteronomia, questo contrasto di cui Ricoeur dice che «è la forma più commovente che può assumere il doppio movimento di liberazione attraverso il quale, da una parte il tempo della Cura si strappa dalla fascinazione del tempo noncurante del mondo e, d’altra parte, il tempo astronomico e del calendario si sottrae allo stimolo della preoccupazione immediata e perfino al pensiero della morte» (RICOEUR I 1985, 140 [145], con rettifica). Naturalmente, la forza dell’argomento di Ricoeur presuppone che si rigetti l’interpretazione heideggeriana della scienza. Se si sceglie di non accettare la riduzione heideggeriana (quanto meno dello Heidegger di Sein und Zeit) della scienza a “metafisica”, allora è lecito cercare nelle rappresentazioni scientifiche del mondo un elemento di rottura rispetto al modello del tempo-temporalizzazione. Ma naturalmente l’argomento di Ricoeur è a sua volta facilmente contestabile. Se infatti si acquisissero integralmente le premesse e le conclusioni di Heidegger, l’obiezione di Ricoeur perderebbe gran parte della sua pregnanza: dal punto di vista di Heidegger, poiché la scienza è “metafisica”, è ovvio che la sua concezione del tempo rafforzi e confermi la rappresentazione ordinaria. 9 Il nucleo del problema sta nella relazione che lega il concetto ordinario di tempo e l’analitica esistenziale, dal punto di vista dell’argomentazione: «Questo concetto “ordinario” di tempo fin dall’inizio esercita una sorta di attrazione-repulsione su tutta l’analisi esistenziale, costringendola a dispiegarsi, a distendersi, ad estendersi fino ad eguagliare, in un’approssimazione crescente, il suo altro che non può generare». Questo doppio legame ha una conseguenza capitale sul modello heideggeriano: infatti, «l’aporia, in qualche modo esterna, aperta nel concetto di tempo dalla disparità delle prospettive sul tempo, è ciò che suscita, in seno alla stessa analisi esistenziale, il massimo sforzo di diversificazione interna, al quale dobbiamo la distinzione tra temporalità, storicità e intratemporalità» (RICOEUR I 1985, 138 [143-144]). Se l’analitica esistenziale procede secondo un particolare modus argomentativo, che si sforza di arricchire di nuove attestazioni (principalmente la storicità e l’intratemporalità) un nucleo relativamente invariante di fenomeni, consistente nella Zeitlichkeit, ciò è dovuto alla radicale eteronomia espressa dall’ordinario. Questa eteronomia – conclude Ricoeur – impone «uno sforzo quasi disperato per arricchire di tratti sempre più mondani la temporalità della Cura» (RICOEUR I 1985, 138 [144]). Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 204 Capitolo sesto Ricoeur e Derrida Linguaggio e mondo A partire dai limiti della temporalizzazione heideggeriana, la lettura incrociata di Temps et récit e Sein und Zeit contribuisce a chiarire un aspetto fondamentale di quella che si è definita “teoria ermeneutica dell’iscrizione”. Se infatti l’analitica esistenziale segna una svolta all’interno della storia del concetto di tempo, ciò dipende senz’altro dal particolare rilievo che in Heidegger ha la stratificazione interna del fenomeno, ossia il ricorso a un modello che rende ragione dell’irriducibile plurivocità della parola “tempo”. Tuttavia questo ricorso, secondo Ricoeur, resta ancora largamente condizionato dall’idea che del tempo si possa produrre una mediazione completa, ossia che tutte le estensioni possibili del fenomeno (passato-presentefuturo, Zeitlichkeit-storicità-intratemporalità, tempo dell’animatempo del mondo, tempo breve-tempo lungo…) siano riconducibili, attraverso la coppia autentico/inautentico, a un unico processo di derivazione. L’ipotesi ricoeuriana di parlare del tempo sotto la nozione di «mediazione imperfetta» prende le mosse esattamente da qui, ma non si può nascondere che tale risposta includa a sua volta una serie di problemi di non facile soluzione: posto infatti che la stratificazione resti per Ricoeur un buon modello descrittivo del concetto di tempo e che a questo modello debba essere associato un principio di imperfezione, che cosa garantisce che tale principio non finisca per annullare l’idea stessa di mediazione? In altri termini, è davvero possibile – nel quadro di una teoria generale del significato – qualcosa come una mediazione imperfetta dell’esperienza temporale? Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 205 La scelta di ricorrere alla nozione heideggeriana di stratificazione per procedere, oltre ciò che la stessa analitica esistenziale consente, all’identificazione di un corrispettivo “logico” (razionale, concettuale, linguistico…) del tempo incorre insomma in un’obiezione molto evidente. Quando Ricoeur ripensa il modello di Sein und Zeit nell’ottica del tempo del mondo, lascia infatti sostanzialmente indeterminata una questione, che invece è fondamentale dal punto di vista teorico: se l’inclusione di questa forma alternativa di temporalità impone un principio di parzializzazione dei contenuti, che ne è della pretesa di saturabilità che la stratificazione heideggeriana porta con sé? In che misura è possibile riconvertire il modello di Heidegger in un processo di mediazione che finisce per perdere proprio la sua caratteristica maggiore, ossia il fatto di essere l’unica traduzione possibile dei fenomeni temporali? Da questo punto di vista, l’unica risposta plausibile, almeno a livello interpretativo, è che Ricoeur sovrapponga i due momenti – stratificazione e parzializzazione – fino a farne un solo principio. È la risposta che si è identificata come teoria ermeneutica dell’iscrizione: la parzialità strutturale che caratterizza la messa in intrigo, e di cui la pluralità dei racconti storici e di finzione è la migliore testimonianza, non può che realizzarsi come stratificazione di tempi differenti; e viceversa la stratificazione dei tempi, in entrambe le sue forme (la temporalizzazione di Heidegger o la messa in intrigo di Ricoeur), è già un processo di differenziazione e di selezione. Naturalmente, argomentare che due dispositivi apparentemente incompatibili siano in realtà lo stesso dispositivo non è un’operazione teorica semplice; e Ricoeur ne sembra a sua volta consapevole, là dove è costretto a ridiscutere a più riprese il problema della referenza. Proprio la debolezza strutturalmente connessa con la nozione di mediazione imperfetta impone un ulteriore ampliamento del discorso per chiarire, da un punto di vista che finora è apparso secondario, lo “statuto ontologico” della rappresentazione. 1. Referenza, rifigurazione, realtà Quali siano le conseguenze più immediate di quest’ampliamento dovrebbe risultare del tutto evidente. Se infatti l’esperienza temporale implica una mediazione sul modello di mimesis I-III, ciò vuole dire Martinengo.qxp 206 12-11-2012 14:27 Pagina 206 IL PENSIERO INCOMPIUTO che già al livello dei significati linguistici del tempo – dunque prima della discussione sulla memoria e sulla sua funzione referenziale – il modello che Ricoeur ha in mente si basa su un principio di selezione che non è un difetto del significare come tale, ma il principio fondamentale attraverso il quale il significato stesso funziona. E ciò non sembra accadere per un’inadeguatezza strutturale dei dispositivi “logici” a produrre approssimazioni crescenti del “reale”, ma per il semplice fatto che senza queste parzializzazioni i dispositivi linguistici e ritentivi resterebbero privi di qualsiasi supporto: se la selezione dei contenuti potenzialmente significanti coincide con la loro stratificazione, ciò vuol dire che in questa selezione è in gioco ben più che non la separazione tra l’insieme dei significati e l’insieme dei non-significati; e il supplemento che deriva da questa selezione-parzializzazione sta nella capacità di garantire, al modo di un supporto, appunto, il funzionamento stesso della referenza. Posto che le cose stiano così, Ricoeur perverrebbe insomma a una teoria generale del significato che è sostanzialmente omologa sui due versanti in cui si scinde il problema della referenza: quello del linguaggio e quello della memoria. Ciò che la fenomenologia e l’ermeneutica del passato mostrano con una certa chiarezza ne La mémoire, l’histoire, l’oubli – ossia che il divenire è esperito a partire dalla sua stessa parzialità, in virtù di dispositivi ritentivi che di questa parzialità sono l’effetto e non la causa – trova un riscontro, seppur meno palese, sul versante della poetica del tempo: anche nel caso della messa in intrigo linguistica, è la differenziazione interna del fenomeno (tra tempi dotati di coefficienti di traducibilità diversi, come si diceva in precedenza) ciò che garantisce l’acquisizione dei significati. Tuttavia quest’attestazione non è che la premessa, in Ricoeur, per un discorso più complesso, che prende le mosse dal problema del passato. L’idea che Temps et récit e La mémoire, l’histoire, l’oubli possano essere letti come due espressioni diverse di una stessa teoria del significato, ossia che chiariscano in che modo le diverse esperienze del tempo si traducono in una forma logica stabile, lascia ancora particolarmente oscuro se questo funzionamento (la teoria ermeneutica dell’iscrizione) sia davvero generalizzabile ad ambiti di discorso diversi da quello in cui esso è stato isolato. Questo problema – di capitale importanza per il modello di Ricoeur – trova una sistemazione teorica nei capitoli centrali di Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 207 207 Temps et récit III.1 Qui il discorso di Ricoeur prende le mosse dal modo in cui la questione della referenza si era posta rispetto alla metafora: anche un linguaggio apparentemente non-referenziale è in grado di sviluppare prestazioni ontologiche del tutto equivalenti a quelle del linguaggio “descrittivo” e anzi si riferisce alla medesima “realtà” che è in gioco quando si parla fuor di metafora. Ma i problemi sollevati da mimesis I-III sono sensibilmente più complessi. Se infatti rispetto alla metafora viva l’intento di Ricoeur era di riportare, pur con lievi variazioni, allo stesso paradigma descrittivo anche usi linguistici apparentemente estranei,2 ciò che avviene in Temps et récit è semmai l’opposto: è il paradigma referenziale del linguaggio descrittivo a essere pensato in funzione del non-descrittivo. La vera posta in gioco di mimesis I-III non è insomma costruire una teoria della referenza che sia valida “anche” per il linguaggio narrativo e che salvaguardi per esso una pur debole capacità ontologica; al contrario, si tratta di «riformulare il problema classico della referenza», intesa come referenza descrittiva, alla luce della rifigurazione (cfr. RICOEUR I 1985, 12 [10]). Resta ora da capire a quale prezzo tale revisione sia effettivamente possibile. 1.1 La referenza come reiscrizione: racconto storico e racconto di finzione 1.1.1 Storia vs finzione: il tempo della storiografia e i tempi del racconto I momenti fondamentali del discorso di Ricoeur sono sostanzialmente due: in primo luogo, è necessario appaiare la messa in intrigo di finzione a quella che per Temps et récit I è l’attestazione principale di una teoria referenziale classicamente intesa, ossia la funzione referenziale del racconto storico; in secondo luogo, proprio sulla base di questo appaiamento, si tratta di ridefinire la struttura stessa della referenza, mettendo tra parentesi ciò che ne sarebbe sulla base di un presupposto rigidamente descrittivista. Del resto – sia detto per inciso – il fatto che la riformulazione della referenza descrittiva avvenga “a partire” dalla storiografia, anziché per esempio dalla scienza in senso stretto, dipende da una valutazione molto precisa nel discorso di Ricoeur. Rispetto alla storia, si pone infatti in tutta la sua portata il problema della “responsabilità” nei confronti del reale: la storia non è soltanto, come le scienze, un discorso dotato di pretese di verità oggettiva; ben di più, è ciò che è chiamato a “rispondere” di questa realtà, perché è la stessa successione degli eventi sto- Martinengo.qxp 208 12-11-2012 14:27 Pagina 208 IL PENSIERO INCOMPIUTO rici a richiedere allo storico di dire il “vero”, nei confronti di coloro che sono i suoi predecessori, contemporanei e successori.3 Per quanto in Temps et récit I questa strategia di allontanamento dalla referenza descrittiva possa apparire affetta da una certa circolarità, ciò che Ricoeur indica come «soluzione poetica all’aporia speculativa» risponde proprio a tali problemi. Ma l’idea, come si è anticipato, è che a una soluzione del genere si possa arrivare soltanto “incrociando” il racconto di finzione e il discorso storico: per Ricoeur, insomma, «la chiave del problema della rifigurazione sta nella maniera in cui la storia e la finzione, prese congiuntamente, offrono alle aporie del tempo che la fenomenologia ha fatto emergere, la replica costituita da una poetica del racconto» (RICOEUR I 1985, 147 [153]). Messa alla prova dei due tipi di racconto, la rifigurazione manifesta in concreto la sua “capacità supplementare” rispetto alle teorie della referenza di stampo classico. E questo supplemento consiste nella capacità di generare un principio di commensurabilità che riduce la forbice tra i due poli della temporalizzazione: il tempo dell’anima e il tempo del mondo trovano nel mythos quel modello di composizione che il tempo ordinario di Heidegger prefigurava, senza però riuscire a identificarlo fino in fondo (cfr. RICOEUR I 1985, 143 [149]). Posto in questi termini, il discorso non va però molto oltre ciò che già i tre momenti della mimesis avevano messo in luce. Che il momento rifigurativo della teoria della narrazione sia davvero la struttura comune del racconto storico e dell’intrigo di finzione, e soprattutto – questo è il problema tuttora irrisolto – che esso sia uno strumento migliore di costruzione della referenza al “reale”, resta ancora tutto da dimostrare. Si tratta di un passaggio che Temps et récit svolge anzitutto sul versante della storia. Per Ricoeur, dal punto di vista dell’esperienza temporale, l’attività fondamentale dello storico consiste appunto in quella che è stata connotata come una procedura di reiscrizione: la pratica storiografica si serve di una serie di dispositivi, la cui prestazione più evidente è la capacità di sovrapporre e rendere compatibili i diversi livelli temporali che caratterizzano il reale. Il che avviene in virtù di un presupposto fondamentale: il “tempo vissuto” dell’esperienza, pur essendo del tutto disomogeneo rispetto a ogni altra durata, può tuttavia essere sovrapposto al “tempo cosmico” degli accadimenti storici, attraverso un processo di traduzione nel Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 209 209 quale consiste di fatto l’operazione dello storico. Per quanto la funzione storiografica proceda spesso in modo irriflesso, svolge un’operazione estremamente impegnativa sotto il profilo filosofico: il racconto storico corrisponde esplicitamente alla produzione di un tempo altro, che «non è né un frammento del tempo stellare, né il semplice ingrandimento del tempo della memoria personale fino alle dimensioni comunitarie»; si tratta semmai di «un tempo ibrido, derivante dalla confluenza delle due prospettive sul tempo: la prospettiva fenomenologica e quella del tempo ordinario, per usare la terminologia heideggeriana» (RICOEUR I 1985, 179 [187]). La funzione “poetica” della storia sta esattamente qui, nella capacità di risolvere produttivamente l’incompatibilità che è ancora in questione nell’analitica esistenziale. L’idea è che l’insieme degli «strumenti» dello storico non funzioni semplicemente come un deposito di testimonianze, da cui il discorso sul passato si limita a trarre i propri materiali, ma che possegga un’intrinseca funzione teorica: se di un deposito si tratta, il materiale dello storico contiene già, almeno in nuce, una primaria messa in intrigo che ha appunto il proprio principio di funzionamento nella sovrapposizione tra diversi livelli temporali. Poste queste premesse, l’analisi di Ricoeur individua i diversi modi di produzione del terzo tempo storico, accentuando la funzione di mediazione che si deve attribuire all’intrigo storiografico. Ma il nucleo interessante del discorso resta questo: la storiografia si caratterizza per una dimensione costruttiva (una dimensione poetica, nel senso della poiesis greca), che nessun modello rigidamente referenzialista riuscirebbe davvero a neutralizzare; e questo residuo poetico è l’unico dispositivo attraverso il quale la storia può davvero dirsi “storia di qualche cosa”. Come si è visto, resta vero anche per Ricoeur ciò che era chiaro già a Heidegger: la storiografia sorge sulla cesura tra livelli diversi del tempo, tra la storicità e l’intratemporalità, o tra l’intratemporalità e il tempo ordinario. Ma in tale cesura Temps et récit sottolinea soprattutto la capacità, da parte del discorso storico, di individuare il punto di sutura. Se infatti uno dei punti di rottura del modello Zeitlichkeit-storicità-intratemporalità era l’impossibilità di definire un criterio univoco di derivazione, la storiografia gioca proprio su quest’impossibilità, provando a scioglierla. Ricoeur lo mostra con chiarezza rispetto alla nozione di traccia. Sulla base dei significati Martinengo.qxp 210 12-11-2012 14:27 Pagina 210 IL PENSIERO INCOMPIUTO che il Dasein in quanto «essente-ci-stato» le attribuisce, la traccia funziona come sovrapposizione del derivato sull’originario: le cose sussistenti e manipolabili valgono come tracce, nella misura in cui il carattere storico del Dasein sia trasferito su di esse; ma, al tempo stesso, l’unico accesso possibile a questa storicità dell’esistenza sta proprio nei materiali che le cose sussistenti e manipolabili veicolano. Il che equivale a dire che la storiografia è “ontologicamente” possibile soltanto se tra la Zeitlichkeit, la storicità e l’intratemporalità vi è una differenza che di diritto è incolmabile, ma che appare improvvisamente appianata, quando un dato insieme di cose diventa oggetto di interpretazione storica (cfr. RICOEUR I 1985, 178-183 [185-191]). 1.1.2 La referenza come «rappresentanza»: storia e finzione sono complementari Resta ora da capire come stiano le cose sul versante opposto, quello del racconto di finzione. Una soluzione del genere apre infatti un altro e non trascurabile problema, che la nozione di reiscrizione non soltanto non appiana, ma aggrava ulteriormente. Ricoeur lo rileva in modo esplicito: alla cesura con il passato, sanata dal terzo tempo storico, si sostituisce infatti una rottura quasi analoga nei confronti dell’altro tipo di messa in intrigo; ed è una cesura perfino più rilevante, perché va direttamente a incidere su ciò che si vorrebbe mostrare. A prima vista, infatti, l’intreccio di finzione si distingue dal racconto storico per questa fondamentale differenza: in quanto non pretende di essere il racconto di un insieme di fatti reali, l’invenzione narrativa sembra non porre affatto un problema di reiscrizione; ogni esperienza di finzione struttura il proprio mondo, attribuendogli una temporalità del tutto autonoma e incomparabile ad altre (cfr. RICOEUR I 1985, 185 [194]). Qui lo scarto tra la storiografia e il racconto stricto sensu raggiunge la massima evidenza. E si tratta della stessa situazione che Ricoeur aveva descritto in Temps et récit I, introducendo la nozione di variazione immaginativa: di contro al tempo storico, che ha la pretesa di essere l’unica iscrizione adeguata del tempo fenomenologico sul tempo cosmologico, il racconto di finzione produce uno spettro potenzialmente indefinito di configurazioni temporali; ciascuna di queste configurazioni rappresenta sì una soluzione possibile all’aporia, ma senza che in esse le esperienze del tempo siano riportate a Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 211 211 un unico tempo cosmico unificante. Se, da una parte, vi è necessariamente un’unica continuità temporale che raccorda, come in un grande calendario astronomico, tutte le vicende reali contenute nei racconti storici, dall’altra, invece, non vi è una sola successione temporale nella quale si collochino le vicende contenute negli infiniti racconti di finzione possibili (cfr. RICOEUR I 1985, 185 [194]). La questione sembrerebbe piuttosto chiara: il mondo della storiografia e il mondo della finzione mostrano sì un’analogia fondamentale, data dal fatto che in entrambi i casi il riferimento a esperienze temporali in generale è determinante; ma per il resto essi rimangono due mondi radicalmente distinti. Questo è quanto si può affermare con una certa sicurezza già sulla base di mimesis I-III; ed è altrettanto ovvio che se la teoria della figurazione di Temps et récit I prospetta la possibilità di un’identità strutturale tra i due linguaggi, non appare affatto attrezzata rispetto alla pretesa che si pone ora, ossia all’idea che essi condividano “letteralmente” la medesima referenza. Da dove Ricoeur ricava dunque l’ipotesi di un’analogia perfetta tra storia e finzione, che vada al di là – perché il problema è questo – di una semplice comunanza di strutture? A questo livello, le cose sono decisamente più complesse di quanto appaia. Da una parte, infatti, nel racconto di finzione il problema stesso della “realtà” sembra perdere gran parte del proprio senso; ma, dall’altra, non si può negare che la messa in intrigo fittizia resti il dispositivo fondamentale attraverso il quale l’aporia, che affligge anche la storiografia, emerge come tale. Anzi, proprio la relativa libertà che la finzione può vantare nei confronti del tempo cosmologico diventa il principio per massimizzare e rendere produttiva l’aporia stessa, attraverso il gioco delle variazioni immaginative. Questa superiorità “epistemologica” del racconto di finzione è però al tempo stesso l’elemento in grado di capovolgere nettamente i termini della questione e di suggerire una soluzione. A prima vista, le variazioni immaginative sono semplicemente il risultato dei diversi modi in cui l’esperienza vissuta del tempo entra in relazione con le altre successioni temporali che compongono l’intreccio: e il contesto delle variazioni è anche il fattore determinante per spiegare il contenuto “poetico” del racconto di finzione rispetto alla storia, in quanto il valore “estetico” della narrazione sta tutto nella capacità, da parte degli infiniti intrighi possibili, di far collidere Martinengo.qxp 212 12-11-2012 14:27 Pagina 212 IL PENSIERO INCOMPIUTO opportunamente i diversi modi in cui si usa la parola “tempo”, riconducendoli a uno spettro illimitato di variazioni in conflitto. Al tempo stesso, però, non si può negare che in questo gioco puramente fittizio di variazioni sia nuovamente in gioco una procedura di reiscrizione, seppur mascherata. È questo il punto qualificante del discorso: è pur vero che il racconto di finzione non è vincolato a requisiti ontologici identici a quelli della storiografia, perché per esempio il mondo di Hans Castorp di Der Zauberberg non è lo stesso di Septimus di Mrs. Dalloway, mentre il mondo di Giulio Cesare è esattamente quello di Napoleone; ma ciò non toglie che il significato esibito dal narrativo consista esattamente nella trascrizione, l’una sull’altra, delle molteplici esperienze che vi sono incluse. Da questo punto di vista, chiarite le differenze fondamentali tra il terzo tempo dello storico e il tempo fittizio delle variazioni immaginative, l’obiettivo di Ricoeur è provare a riassorbire questa distinzione, per derivarne una teoria della rifigurazione comune, al di là di ciò che già mimesis I-III consentiva di fare. Ed è un passaggio che diventa quasi immediato non appena si torni a considerare non i diversi contenuti intenzionali, bensì il modo in cui tali contenuti significano concretamente. L’idea che un mondo (“reale” o fittizio) si concretizzi agli occhi del lettore implica infatti due prestazioni di mimesis III che finiscono per essere tra loro perfettamente complementari. Ricoeur parla in questo caso di una «storia investita dalla finzione» e, all’opposto, di una «storicizzazione della finzione». Ed è qui che la discussione prende una piega definitiva, anche rispetto alla nozione di «referenza incrociata», alla quale tutto il discorso di Temps et récit I e II faceva riferimento. Se infatti – primo aspetto – si può sostenere che per lo storico gli strumenti di misura siano i fattori di passaggio da una forma di temporalizzazione a un’altra, il vero problema è comprendere il modo in cui ciò avvenga de facto. Da questo punto di vista, che la costruzione storica abbia a che fare con una dimensione simulativa dovrebbe apparire ormai del tutto evidente. Qui Ricoeur ha in mente soprattutto le analisi proposte da Hayden White:4 la rappresentazione del passato non è un “modello” dell’originale, nello stesso senso in cui si dice che una mappa lo è di un territorio; semmai, si può dire che essa stia in una relazione “metaforica” con l’originale, in virtù della quale un dato corso di avvenimenti risulta assi- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 213 213 milato in una determinata figura. Perciò, è legittimo sostenere che l’insieme delle rappresentazioni del passato determinino un rapporto, che Ricoeur definisce di «rappresentanza» (o di «luogotenenza»): un determinato racconto storico è ciò che «sta al posto» del passato a cui si riferisce, è ciò che «si attaglia» a esso e sta in luogo della successione di eventi che lo compone. Questo “valere per” ripete la stessa struttura che caratterizza l’aporia della traccia: in quanto significa senza fare apparire, la traccia è ciò che “vale per” un passato senza ridursi a esso. Tale operazione, attraverso la quale un insieme di tracce è evocato per rimandare al passato, è ciò che obbliga Ricoeur a rileggere il modello di mimesis I-III alla luce della nozione di rappresentanza, che include tutte le implicazioni precedentemente attribuite alla messa in intrigo, ma al tempo stesso porta l’accento «non soltanto sul carattere attivo dell’operazione storica, ma anche sulla prospettiva intenzionale, che fa della storia la dotta erede della memoria e della sua aporia fondatrice» (RICOEUR I 2000, 304 [337]).5 Questa relazione, per la quale «lo storico è sottoposto a ciò che un giorno fu», ossia «ha un debito nei confronti del passato, un debito di riconoscenza nei confronti dei morti, che fa di lui un debitore insolvente» (RICOEUR I 1985, 204 [214]), non ha un’analogia perfetta al livello del racconto di finzione. Ma in realtà – ed è il secondo versante della questione – anche nell’ambito del racconto stricto sensu avviene qualcosa di molto simile. Se infatti, per reggere la relazione di rappresentanza, la reiscrizione storiografica si serve della dimensione simulativa tipica dell’intrigo di finzione, nel racconto di finzione accade invece che attraverso una particolare costruzione narrativa un segmento di avvenimenti mondani sia ricondotto all’esperienza dei personaggi di finzione (cfr. RICOEUR I 1985, 188 [197]). Come ciò sia possibile è presto detto. E la risposta di Ricoeur sta tutta al livello in cui la “presa ontologica” del racconto si concretizza, ossia al livello dell’atto di lettura. Anche per il racconto di finzione, la lettura costituisce il momento fondamentale di mimesis III: affinché una determinata esperienza del tempo si traduca in un significato linguisticamente formalizzabile, non è sufficiente che essa sia configurata in una trama linguistica adeguata, ma deve in qualche modo ritornare al mondo, ossia produrre una diversa organizzazione del contesto in cui il lettore si trova. È a Martinengo.qxp 214 12-11-2012 14:27 Pagina 214 IL PENSIERO INCOMPIUTO questo livello che il racconto è infine sottoposto a una forma del tutto particolare di reiscrizione: all’incrocio tra il mondo del testo e il mondo del lettore, la messa in intrigo esibisce inequivocabilmente i propri vincoli ontologici. In altri termini, è indubbio che ogni testo sia una “macchina per produrre senso”; e tuttavia in questa produzione la libertà del lettore è a un tempo resa possibile e condizionata. Soltanto nella mediazione tra la libertà del lettore e i vincoli imposti dal testo avviene la reiscrizione di una particolare successione temporale (quella della vicenda puramente configurata) dentro un’altra successione, che è quella dell’opera compiuta nell’atto di lettura: il che, come vuole Ricoeur, avviene indifferentemente tanto nel racconto di finzione quanto nella storiografia.6 1.2 Esperienza e totalizzazione: teoria della narrazione generalizzata La riformulazione della referenza sotto la nozione di rappresentanza costituisce un importante passo avanti rispetto ai problemi di compatibilità posti da Temps et récit: da una parte, il passato storico è esso stesso il risultato di una costruzione basata sulla funzione di rappresentanza; dall’altra, il mondo della finzione è vincolato a criteri di reiscrizione che non sono puramente fittizi, ma che attraverso mimesis I-III coinvolgono la “realtà” stessa della lettura. Da questo punto di vista, le due mediazioni narrative rendono inadeguata qualsiasi teoria della referenza di stampo puramente estensionale: sulla base di un’interpretazione del significato interamente assiata su mimesis III (teoria della lettura, teoria della ricezione, teoria degli effetti…), sono le stesse nozioni di realtà e irrealtà a essere radicalmente messe in discussione, in una revisione che – secondo le intenzioni di Ricoeur – cancella l’opposizione formale tra i campi di applicazione dei due tipi di messa in intrigo. Questa revisione del problema del significato, attraverso il ricorso a una sorta di “teoria della narrazione generalizzata”, è piuttosto impegnativa sotto il profilo filosofico. Essa implica, da parte di Ricoeur, la scelta di rinunciare completamente alla nozione di referenza, per sostituirla in toto con quella narrativa di rifigurazione. Continuare a parlare del racconto storico nei termini di un linguaggio puramente referenziale costringerebbe infatti a supporre che il passato significhi qualcosa, indipendentemente da ogni forma di Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 215 215 mediazione; e al tempo stesso imporrebbe di addossare soltanto all’intrigo di finzione tutti i dispositivi di matrice costruttivista, ipotizzando che la storiografia possa farne completamente a meno. Ma, secondo quanto Ricoeur ritiene di aver dimostrato, queste due ipotesi sono del tutto inaccettabili. Il discorso può persino essere ampliato: «ogni forma di grafia» produce effetti di concretizzazione del discorso, che non possono prescindere da un principio di costruzione (cfr. per es. RICOEUR I 1985, 149-150 [156] e RICOEUR I 1985, 265 [280]). È questa la tesi più generale che Ricoeur finisce per adottare: se vi è una forma “logicamente” formalizzabile del tempo, ciò accade perché i modi in cui i linguaggi si danno un significato sono di fatto gli stessi. Al di là di queste generalizzazioni – che almeno nei termini usati da Ricoeur (ogni forma di grafia…) sono estremamente significative – l’obiettivo che Temps et récit III acquisisce con certezza è dunque rendere compatibile il privilegio della narrazione con una scelta apparentemente opposta, che tuttavia resta fondamentale anche in questa fase: quella di non attenuare in nulla lo statuto epistemologico del “reale” rispetto all’immaginario. La possibilità di “dire il vero” in storia è e resta qualcosa di radicalmente distinto dalla possibilità di “dire il vero” nel romanzo, o nella finzione in generale; ciò non di meno, l’una e l’altra “verità” attestano un modo di produzione dei significati assolutamente comune sotto ogni punto di vista (strutturale, linguistico, ontologico, performativo…). Come ciò sia possibile dipende da un buon numero di fattori, il principale dei quali ha a che fare senz’altro con una differenza a cui più volte si è fatto riferimento: il livello al quale si pone il problema della rifigurazione non è infatti più quello di un’epistemologia della storia (o della finzione), ma quello di un’ermeneutica della temporalità, cioè di un’analisi ontologica rivolta al mondo dei significati. Soltanto se si tiene ferma questa differenza fondamentale, la posizione di Ricoeur si comprende in tutta la sua portata. Anche per questo motivo, si può dire che il passaggio da una considerazione puramente epistemologica del linguaggio a una prospettiva ermeneutica, nella quale prevale la funzione costruttiva del linguaggio, costituisca davvero una delle principali poste in gioco di Temps et récit (cfr. RICOEUR I 1985, 12 [10-11]). Qui si sente riecheggiare l’analisi heideggeriana della storicità, il cui ruolo in Martinengo.qxp 216 12-11-2012 14:27 Pagina 216 IL PENSIERO INCOMPIUTO Temps et récit III è già stato chiarito. Ma al tempo stesso il discorso sulla referenza ha una serie di implicazioni più ampie. Come di consueto, la strategia argomentativa di Ricoeur risiede infatti nella scelta di superare ogni dilemma, rifiutando entrambi i poli dell’antinomia, in questo caso l’opposizione tra realismo e costruttivismo: Ricoeur non è semplicemente realista, se con questo termine si intende l’identificazione di un modello di costruzione del significato di marca esclusivamente referenzialista; ma non è nemmeno un puro costruttivista, se il costruttivismo è una forma di idealismo dei significati, in virtù del quale non vi è alcunché di “reale” fuori dal linguaggio. La teoria della narrazione generalizzata, che emerge in queste pagine, è assieme l’una e l’altra cosa: è realista in quanto estende la portata ontologica al linguaggio narrativo, ed è costruttivista nella misura in cui include anche il racconto storico in mimesis I-III. Il corollario di questa universalizzazione del narrativo è la generalizzazione del Faktum della “scrittura”, alla quale si è appena fatto riferimento. Di questa sorta di teoria della scrittura (e della lettura) generalizzata, Ricoeur è via via più consapevole in Temps et récit e a maggior ragione ne La mémoire, l’histoire, l’oubli, dove può esprimersi in termini molto espliciti, affermando che «la storia è scrittura da parte a parte: dagli archivi ai testi degli storici, scritti, pubblicati, dati da leggere». Ciò accade perché in primo luogo i documenti storici, che sono stati “scritti” da qualcuno nel passato, hanno oggi «il loro lettore, lo storico “al lavoro”»; ma la stessa cosa vale in secondo luogo per il libro di storia, che «ha i suoi lettori, potenzialmente chiunque sappia leggere, di fatto il pubblico illuminato». Ciò implica che “scrivere la storia” sia un processo nel quale i documenti sono aperti alla «sequenza delle reinscrizioni, che sottopongono la conoscenza storica a un incessante processo di revisione» (RICOEUR I 2000, 302 [335]). Simmetricamente, sul versante del racconto di finzione accade qualcosa di analogo: da una parte, la storia «è quasi finzione perché la quasi-presenza degli avvenimenti posti “sotto gli occhi del lettore” mediante un racconto animato supplisce, grazie alla sua intuitività, la sua vivacità, al carattere elusivo della dimensione passata del passato»; dall’altra, «il racconto di finzione è quasi storico nella misura in cui gli avvenimenti irreali che riferisce sono dei fatti passati per la voce narrativa che si rivolge al lettore», e solo in virtù di ciò «assomigliano a degli eventi passati» (RICOEUR I 1985, 277 [292]). Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 217 217 Alla generalizzazione della narrazione e della scrittura si accompagna dunque una sorta di inflazione del fittizio, in virtù della quale non è soltanto la vicenda narrata a caratterizzarsi come frutto di invenzione (nei due sensi della vox media latina), ma sono i ruoli stessi dell’autore e del lettore a essere inclusi nel codice della finzione. Se questa soluzione appare in qualche modo soddisfacente, contiene però ancora un corollario: dire – come farà La mémoire, l’histoire, l’oubli – che «la storia fa mostra della sua appartenenza all’ambito della letteratura» (RICOEUR I 2000, 303 [336]) pone sì sotto nuova luce la questione del significato, ma non cancella quello che a tutti gli effetti resta “il” problema in questa fase del pensiero di Ricoeur, ossia la possibilità di produrre una teoria del significato, che sia completa sui due versanti della storia e della finzione. Se infatti al linguaggio della referenza si sostituisce integralmente il linguaggio della rifigurazione, resta ancora una volta da stabilire in che misura tale sostituzione sia preferibile dal punto di vista teorico. In questo caso parlare di una “teoria completa”, rispetto a ciò che Ricoeur argomenta in Temps et récit III, significa concretamente due cose: 1) verificare che la teoria sia generale (completezza in quanto generalizzabilità a qualsiasi tipo di linguaggio); e 2) valutare in che misura il linguaggio sia in grado di tradurre e formalizzare le diverse intenzionalità al mondo (completezza in quanto saturabilità del tempo da parte del linguaggio). Posto che Ricoeur stesso ricorra a uno schema simile, almeno tacitamente, è indubbio che il primo punto della questione trovi una risposta ampiamente positiva: e quanto si è visto finora lo dimostra a sufficienza. Il problema si pone invece in modo più serio rispetto alla seconda questione: è infatti vero che il modello mythos-mimesis, sia esso racconto di finzione o articolazione di un’effettività storica, funziona sempre come reiscrizione di contenuti temporali; ma allora tale reiscrizione, in quanto ha a che fare con una successione di natura temporale, non dovrebbe fondarsi nonostante tutto su un criterio di totalizzabilità? Tale requisito, però, complica notevolmente le cose, in quanto risulta programmaticamente sconfessato dai modi stessi in cui il significato si produce. Alla base di mimesis I-III vi è insomma un paradosso fondamentale, in virtù del quale alla figurazione narrativa è richiesta una prestazione che essa non può che escludere in via di principio. Nell’ambito di quella che Ricoeur chiama complessivamente specula- Martinengo.qxp 218 12-11-2012 14:27 Pagina 218 IL PENSIERO INCOMPIUTO zione (di fatto la cosmologia aristotelica e la fenomenologia agostiniana e husserliana), questo paradosso si concretizza in molte forme diverse, di cui l’oscuramento reciproco tra il tempo del mondo e il tempo dell’anima è il principale. E quale sia il sintomo più evidente di questa ripetizione dell’aporia è già stato detto: il tempo possiede una componente residuale di irrappresentabilità, che nessuna mediazione “logica” (nemmeno quella narrativa) riesce ad assorbire. Da questo punto di vista, si deve però sostenere una cosa tutt’altro che pacifica rispetto al modello di ermeneutica che Temps et récit articola: si deve francamente riconoscere, come Ricoeur stesso arriva a fare, che il dispositivo mythos-mimesis configura una soluzione che ricade completamente all’interno dell’aporia classica della temporalità; e vi ricade lasciando in gran parte irrisolta quella che invece deve considerarsi la questione fondamentale, ossia il problema della rappresentazione. In altri termini, è pur vero che Temps et récit III procede a una «critica del concetto ingenuo di “realtà”» e che tale confutazione «richiede una critica simmetrica del concetto non meno ingenuo di “irrealtà” applicata alle proiezioni della finzione» (RICOEUR I 1985, 229 [242]). Ma si tratta di una critica che si muove a sua volta all’interno di un presupposto antinomico: la possibilità di produrre una traduzione integrale dell’esperienza temporale confligge con quella che Ricoeur identifica a più riprese come la “potenza di dispersione” del tempo, alla quale in fin dei conti ogni formalizzazione dell’esperienza resta sospesa. A questo livello, la strategia argomentativa che Temps et récit oppone all’aporetica è piuttosto chiara: Ricoeur trasferisce il centro del problema a una modalità linguistica dotata di una dignità referenziale minore (il racconto), per caricarla in modo apparentemente controintuitivo di una valenza ontologica altamente più significativa di quella che caratterizza il descrittivo. Paradossalmente, è proprio questa minore capacità referenziale a consentire in un secondo momento una referenza più estesa: mimesis I-III non risolve in nessun caso l’aporia della rappresentazione, né avrebbe le risorse per farlo; ma, anziché arrestarsi alla reciproca incompatibilità dei diversi livelli temporali, trae senso (forma “logica”, significato, poiesis, valore artistico…) dalla loro opposizione. Il criterio di preferibilità del racconto rispetto alla speculazione sta tutto qui: mentre i modelli fenomenologici e cosmologici sono significativi nella misu- Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 219 PARTE SECONDA 219 ra in cui si arrestano ai limiti reciproci del tempo dell’anima e del tempo del mondo, il racconto ricava il proprio funzionamento dalla massimizzazione del contrasto tra le diverse prospettive sul tempo; e ciò che avviene nei «giochi col tempo», di cui parla Temps et récit II, ne è la migliore dimostrazione. 2. Tempo e scrittura della storia Che mimesis I-III nelle sue due versioni sia un effetto completamente interno alla storia dell’aporetica è un dato che emerge in modo scontato all’interno del discorso di Ricoeur. Ma naturalmente l’aporia della rappresentazione non concerne soltanto l’ambito della formalizzazione linguistica del tempo, ossia la messa in intrigo stricto sensu. Se infatti ogni messa in intrigo non è distinta dal fenomeno stesso della temporalità, se cioè non vi è esperienza del tempo fuori da un’iscrizione linguistica,7 tutto ciò che si è detto rispetto al linguaggio dovrà concernere la forma dell’esperienza, considerata come tale. Posto insomma che il modello mythos-mimesis debba essere riformulato nel modo che si è visto, tale riformulazione sembra segnalare qualcosa di fondamentale anche rispetto alla costruzione dell’esperienza. È un’ipotesi che a tratti Ricoeur stesso esplicita in questi termini: il problema della parzializzazione dei significati, che è all’opera nella messa in intrigo, non può non essere ricondotto ai modi stessi in cui la forma “tempo” si esperisce. In modo più o meno dichiarato, è qui che il discorso di Ricoeur incontra la discussione che si accende, almeno a partire da Heidegger, attorno alla possibilità di un’esperienza “autentica” del tempo. La filosofia nella sua versione non-metafisica ricomincia esattamente da qui, ossia dall’ipotesi che alla comprensione ordinaria del tempo si possa opporre un’altra attestazione, sotto presupposti che pretendono di configurarsi come “autentici”: la critica di Sein und Zeit alla metafisica oggettivante si regge interamente sull’idea che il salto dall’inautenticità all’autenticità sia possibile, e che sia filosoficamente decisivo. Ma naturalmente all’ipotesi che si diano due esperienze possibili del tempo, di cui una possiede tutti i requisiti di un’esperienza “vera”, si oppone frontalmente il presupposto ricoeuriano dell’insuperabilità dell’aporia. In altri termini, Martinengo.qxp 220 12-11-2012 14:27 Pagina 220 IL PENSIERO INCOMPIUTO mentre Heidegger fa coincidere la possibilità di un’esperienza “vera” del tempo con la sua autenticità, Ricoeur sembra abolire del tutto questo requisito, collocando altrove il nucleo del problema. Se in Temps et récit le cose stanno in questi termini, se cioè vi è formalizzazione ed esperienza vera della temporalità già (o soltanto) all’interno del circolo infinito dell’aporetica, resta da capire su quali basi il modello ricoeuriano sia davvero sostenibile: ammesso che la nozione heideggeriana di autenticità sia in grado di pervenire a una definizione soddisfacente dell’“esperienza vera”, è lecito chiedersi in che misura Temps et récit III, precludendosi questa facile via di uscita, sia tuttavia in grado di garantire un criterio stabile di verità. 2.1 La poetica ricoeuriana e la decostruzione derridiana come filosofie dell’inautentico Il discorso di Ricoeur sembra dunque muoversi tra due posizioni apparentemente inconciliabili. Da una parte, conserva l’idea heideggeriana secondo cui “la metafisica” dipende da una determinata concezione della temporalità e dell’esperienza. Dall’altra, contro l’ipotesi da cui parte l’analitica esistenziale, individua non nel superamento dell’inautentico, ma in una sua particolare rimodulazione, una parziale via di uscita dagli enigmi di tale concezione. Per usare un’espressione non ricoeuriana, ma sufficientemente pregnante, il punto centrale di questa riformulazione sta nella scelta di dichiarare impossibile qualsiasi “teorema di completezza del significato”: per molti e validi motivi, l’esperienza temporale non è mai passibile di una formalizzazione totale. Ricoeur tiene dunque fermi questi due criteri di impossibilità: l’inautenticità è insuperabile e l’esperienza è intotalizzabile. Al tempo stesso, la sua analisi si sforza di garantire – e il risultato non è affatto banale – il primato della messa in intrigo narrativa, connotandola come la soluzione capace di spingersi più lontano nell’attribuire un principio di ordine all’esperienza temporale. È però evidente che la formulazione di Ricoeur, tenendo assieme inautenticità e “intotalizzabilità”, sia più l’enunciazione di un problema che la sua effettiva soluzione. E lo è soprattutto se si considera un’altra delle risposte possibili al problema heideggeriano dell’autenticità: quella esemplificata da Jacques Derrida nei suoi testi classici sulla différance. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 221 221 2.1.1 Il concetto «volgare» di tempo e la ricaduta heideggeriana nell’aporia filosofica Come è noto, il modello di Derrida condivide con Heidegger l’idea che “la metafisica” si caratterizzi in primis come pensiero della presenza, ossia come un discorso che individua una modalità privilegiata dell’essere (la stabilità, Beständigkeit, di un che di reale) e le attribuisce un primato logico pressoché assoluto. A questo presupposto generale, Derrida oppone la possibilità di una decostruzione, che della Destruktion heideggeriana conserva quasi soltanto il nome, ma che è in grado di intervenire sulla struttura stessa del pensiero della presenza per depotenziarla. Almeno negli scritti degli anni Sessanta e Settanta, tale possibilità coincide con quella che viene via via definendosi come grammatologia. La metafisica della presenza si connota infatti come pensiero “fono-logocentrico”, ossia come applicazione del principio secondo il quale la presenza è anzitutto presenza dell’essere al pensiero e “presenza a sé” di un significato nel linguaggio.8 A tale possibilità, Derrida controbatte con l’idea di una “scienza della scrittura” – la grammatologia, appunto – che del fono-logocentrismo è il rovesciamento perfetto. Rispetto alla voce viva, l’atto dell’iscrizione possiede infatti una funzione fondamentale: mentre si assume che la phoné e il logos ricevano un significato nella misura in cui la loro intenzionalità sia in grado di esaurirsi in una presenza, la scrittura dilaziona all’infinito la referenza in un gioco di rinvii che non garantisce più l’immediatezza del senso. Di questo gioco di rinvii, la grammatologia è l’assolutizzazione teorica: essa conserva il meccanismo tipico del significato, ossia il rimando tra termini significanti (un significante significa un altro significante, che significa a sua volta un altro significante, e così via), ma declassa come accessorio l’approdo a un termine ultimo della referenza, ossia il riferimento a un significato identificato come reale, stabile e definito. Come declassamento del significato a un puro effetto di senso interno alla scrittura, la grammatologia diventa il principio per una decostruzione della metafisica, a partire dall’assunto secondo cui l’essere, in quanto fondamento inconcusso della presenza, è in realtà il risultato di un’iscrizione più originaria. Fin qui il discorso di Derrida si muove sostanzialmente all’interno delle premesse del modello heideggeriano. In realtà, la relazione tra la metafisica della presenza e la decostruzione è, secondo lo stes- Martinengo.qxp 222 12-11-2012 14:27 Pagina 222 IL PENSIERO INCOMPIUTO so Derrida, estremamente più complessa. Il gioco di rinvii e dilazioni in cui consiste la grammatologia non è infatti un modo alternativo di pensare il significato ma è, attraverso la scrittura, il dispositivo su cui la metafisica stessa basa i significati: qualsiasi iscrizione del senso – materiale, documentaria, “logica”… – è già un processo di idealizzazione, che distanzia il significante da un’ipotetica origine pura del significato. Sotto questo aspetto, la grammatologia non consiste in altro che nella massimizzazione della normale struttura significante del linguaggio. Ma tale massimizzazione finisce per decostruire la possibilità stessa di un significato proprio, basato sul modello nome-cosa: ciò che per la “metafisica della presenza” è la costruzione della presenza a sé del senso, diventa per la decostruzione il principio che fa implodere il significato, mostrando la sostanziale opacità di ogni referenza. Questo primato della scrittura sulla phonè ha una serie di conseguenze molto rilevanti, dal punto di vista ontologico: se il principio di funzionamento del linguaggio sta esclusivamente nella capacità dei termini di differenziarsi – in un processo che Derrida trae dalla linguistica strutturale – è la stessa referenza al mondo a essere dilazionata all’infinito. La decostruzione della nozione di “significato trascendentale” sta tutta qui: il gioco di supplementi, su cui si basa la “metafisica della presenza”, è in realtà un gioco di differenze interne al sistema linguistico, che restano fungenti in ogni pretesa di riferirsi al mondo. È a questo livello che si pone con chiarezza la questione dell’autenticità. Se le cose stanno come si è visto, uno dei problemi più rilevanti che la decostruzione avanza è infatti capire in che misura siano possibili altre rappresentazioni del tempo, se cioè il privilegio accordato al presente sia revocabile a vantaggio di un modello che costituisca, per così dire, il pendant ontologico della grammatologia. Si tratta insomma di decidere se l’intensificazione dei rinvii significanti (a danno dei significati) produca anche un diverso rilievo rispetto al problema della temporalità, o se invece il punto di vista grammatologico non sia in grado di generare un’esperienza radicalmente diversa del tempo. La risposta che la decostruzione dà alla questione è piuttosto elaborata, ma la si può agevolmente ricondurre ad alcune posizioni di principio, che sono di grande interesse per ciò che si sta dicendo. Il contesto nel quale Derrida affronta più esplicitamente il proble- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 223 223 ma è dato da alcuni testi fondamentali del “periodo grammatologico”: il riferimento è in particolare a Ousia et grammé. Note sur une note de Sein und Zeit (1968), il cui punto di partenza è non a caso l’analitica esistenziale di Heidegger. In Ousia et grammé, l’obiettivo polemico di Derrida è l’analisi alla quale Heidegger sottopone l’interpretazione hegeliana della temporalità. Heidegger assume infatti che nel modello hegeliano di tempo si trovino sistematizzate le determinazioni fondamentali del “tempo metafisico”: affermando che la storia (e dunque la “storia del concetto”) «cade nel tempo» e sostenendo una rappresentazione della temporalità interamente costruita sulla nozione di “ora”, Hegel non avrebbe fatto che attenersi a un modello di temporalizzazione di stampo rigidamente cosmologico; e inoltre avrebbe associato una volta per tutte questo modello cosmologico a un’idea (quella della caduta), che attesta con chiarezza l’implicazione reciproca tra la metafisica e il fenomeno della deiezione. In altri termini, secondo Heidegger, il discorso di Hegel avrebbe portato a compimento i presupposti stessi su cui si regge ogni formalizzazione metafisica del tempo, in particolare le implicazioni connesse al cosiddetto “tempo del mondo”, che per Hegel – al pari di ciò che accade nella trattazione aristotelica di Physica IV – rappresenta ancora il punto di partenza (cfr. in partic. DERRIDA 1968b, 39 [66-67]). Qui per Derrida le cose prendono una piega particolarmente delicata. Se infatti Heidegger assume che il concetto hegeliano di tempo sia un’ulteriore attestazione della temporalità metafisica, il problema è capire da dove Sein und Zeit tragga le risorse per ipotizzare che tale forma non sia in realtà l’unica possibile, che cioè alla preminenza assoluta del presente si possa opporre un’attestazione del tempo radicalmente diversa: la critica di Heidegger alla temporalità hegeliana contiene davvero, oltre la linea che tiene assieme Aristotele e Hegel, le risorse per produrre un’altra rappresentazione della temporalità? Come stiano le cose sotto questo punto di vista si è già chiarito, almeno in parte. Derrida ricorda infatti che, a partire dall’interrogativo heideggeriano sul senso dell’essere, «la “distruzione” dell’ontologia classica doveva anzitutto scuotere il “concetto volgare” di tempo. Era una condizione dell’analitica del Dasein: questo [il Dasein] ci è grazie all’apertura alla questione del senso dell’essere, alla pre-comprensione dell’essere». E proprio per tale connessione tra Dasein, tempo e precomprensione, la tempora- Martinengo.qxp 224 12-11-2012 14:27 Pagina 224 IL PENSIERO INCOMPIUTO lità in generale «può dare il suo orizzonte alla questione dell’essere» (DERRIDA 1968b, 33 [61]). In questo quadro, se Hegel fornisce l’attestazione più radicale del concetto volgare di tempo, ciò dipende fondamentalmente dal fatto che la temporalità è pensata nel modo in cui la si rappresenta anzitutto e per lo più, ossia come ciò “in cui” si produce l’ente. Poste queste premesse, il discorso di Heidegger prosegue in modo del tutto conseguente: ogni discorso che voglia porsi fuori dall’attestazione volgare del tempo dovrà spostare il problema dalla discussione sulle implicazioni sostanziali del tempo alla riflessione sulle implicazioni temporali della sostanza (che cosa significa, sotto il profilo temporale, che l’essere è?). Perciò Sein und Zeit non si chiederà più se il tempo appartiene agli enti, ma semmai che cosa significa sotto il profilo temporale che l’ente è. Sein und Zeit prova dunque a sospendere e rovesciare il rapporto di precedenza che la metafisica istituisce tra la domanda sull’essere dell’ente e la questione del tempo. Ma, secondo Derrida, è proprio questo capovolgimento a porre un serio problema di pertinenza, rispetto all’obiettivo dichiarato di contraddire il modello di Physica IV. Per stabilire in che misura il modello di Sein und Zeit si ponga effettivamente fuori dal predominio della presenza, il discorso di Derrida procede in due momenti, che costituiscono il nucleo del suo argomento contro Heidegger. Il primo aspetto di questa contestazione parte da una considerazione molto più generale, che concerne nuovamente la domanda classica sulla physis del tempo: se infatti è innegabile che tale domanda resti inevasa lungo tutta la “storia della metafisica” (almeno fino a Hegel, appunto), è altresì evidente che l’elusione della domanda avviene all’insegna di un’ambiguità fondamentale. Di fatto – scrive Derrida – la metafisica esclude la possibilità di una considerazione originaria del tempo, perché considera «il tempo come il nulla o come l’accidente estraneo all’essenza o alla verità» (DERRIDA 1968b, 53 [80]): il tempo, in quanto è sempre anche “ora” passato e “ora” futuro, manca dei requisiti essenziali che consentirebbero di determinarlo come “qualcosa” in generale. Questo rapporto ambiguo tra temporalità ed enticità contiene alcune implicazioni importanti, alle quali la “storia della metafisica” non manca di dare corso: ma sono implicazioni che paradossalmente appaiono più resistenti di quanto Heidegger supponga. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 225 225 Derrida pensa in particolare al modo in cui le cose stanno nell’Estetica trascendentale di Kant. In prima approssimazione, infatti, la tesi kantiana secondo cui il tempo non è un fenomeno, ma la condizione di possibilità dell’apparire dei fenomeni, è certo l’espressione di una fedeltà metafisica assoluta, che conferma l’irriducibilità del tempo a qualsivoglia dato oggettuale. E tuttavia, letta sotto questo aspetto, essa appare singolarmente consonante con il principio in virtù del quale Heidegger avrebbe parlato a sua volta di un orizzonte temporale della comprensione: in altri termini, nella misura in cui funzioni davvero come la forma pura della percezione, il tempo kantiano configura una soluzione che è ampiamente in linea con il presupposto che avrebbe retto l’analitica esistenziale. Derrida esclude che si tratti semplicemente di una ambiguità di superficie: qui si ha a che fare con una sovrapposizione che va ben al di là di una pura coincidenza concettuale, quale per esempio potrebbe essere il riferimento a una generica “non-entità in sé” del tempo (cfr. DERRIDA 1968b, 54 [81]). Da questo punto di vista, l’esposizione trascendentale del tempo in Kant non fa che portare alle estreme conseguenze ciò che è già ampiamente inscritto nella logica di Physica IV. Se si pensa al modo in cui Aristotele legge la relazione tra il tempo e il movimento, il vero nodo della questione non sta infatti nell’idea che il tempo sia il numero del movimento secondo l’anteriore e il posteriore, quanto nel fatto che «è insieme che abbiamo sensazione del movimento e del tempo»: quando si produce un movimento nell’anima, sembra che sia trascorso un determinato intervallo di tempo e nello stesso atto sembra che sia intercorso un certo movimento; senza che dall’esterno intervenga alcun contenuto sensibile (come quando siamo all’ombra e non siamo affetti da nessun corpo), nell’aisthesis si uniscono il tempo e il movimento. Ma questa tesi aristotelica sembra implicare, con sorprendente analogia rispetto a Kant, che già all’interno della discussione cosmologica di Physica IV il tempo sia la forma (il «sensibile non-sensibile») di tutto ciò che può trascorrere nell’anima: l’anima misura il tempo prima ancora che su di essa si inscriva alcunché. Se le cose stanno in questi termini, il rapporto temporalità-enticità profila un asse Aristotele-Kant-Heidegger, che diventa decisivo per l’argomento di Derrida. Secondo Ousia et grammé, uno dei presupposti fondamentali con cui Heidegger prova a depotenziare il modello Martinengo.qxp 226 12-11-2012 14:27 Pagina 226 IL PENSIERO INCOMPIUTO aristotelico appare insomma non soltanto non incompatibile, ma addirittura incluso in quello stesso modello: posto che nel seno dell’Estetica trascendentale kantiana vi sia davvero – come Heidegger non farebbe fatica ad ammettere – qualcosa che trasgredisce il modello metafisico del tempo, ciò si deve a una serie di relazioni che derivano più da una matrice fedelmente aristotelica, che da un loro ipotetico rovesciamento. Questa estrema chiarezza di Kant e, in via indiretta, di Physica IV pone quindi un problema molto serio rispetto ai presupposti di Heidegger: la stessa ipotesi heideggeriana dell’uscita dall’aporia finisce per essere retrodatata a uno stadio difficilmente compatibile con le premesse “storico-filosofiche” di Sein und Zeit.9 A questo problema, Derrida risponde argomentando che «per un certo punto, la distruzione della metafisica resta interna alla metafisica, non fa che esplicitare il suo motivo» (DERRIDA 1968b, 54 [80]). Ma naturalmente il discorso non si esaurisce qui: ed è la seconda obiezione fondamentale che Ousia et grammé solleva a Heidegger. L’ipotesi che già all’interno della “metafisica” si possano rilevare importanti indizi per la sua trasgressione mette certamente in dubbio un dato fondamentale di Sein und Zeit, ossia il primato che Heidegger attribuisce all’analitica esistenziale rispetto alla “metafisica della presenza”; tuttavia ciò non incide in nulla sulla sua effettiva sostenibilità, almeno come modello teorico. Ad avere conseguenze determinanti in questo senso è semmai un altro aspetto, che entra direttamente nel cuore del rapporto tempo-essere. Per Heidegger – Derrida lo ripete ancora una volta – è acclarato che la domanda metafisica sulla physis del tempo presupponga già una comprensione di ciò che il tempo “è”, ovvero che si sia predeterminata la nozione di non-presente, nella forma dell’“ora” passato e dell’“ora” futuro: «Si è dunque dovuto far appello al tempo, ad una precomprensione del tempo […] per dire la ni-entità del tempo. Si è già, senza scoprirlo, operato nell’orizzonte di senso del tempo per pensare il non-ente come non-presente, e l’ente come presente» (DERRIDA 1968b, 57 [83]). Ma se le cose stanno così, la scelta metafisica di tenere assieme la domanda sul tempo e la definizione temporale di ente, ovvero di pensare “nell’orizzonte di senso del tempo”, non è anche la scelta di Heidegger, al di là della strategia che sostituisce il primato del presente con quello del futuro? Non è forse vero che l’analitica esistenziale pretende di segnare un punto Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 227 227 di svolta nella storia del concetto di tempo, limitandosi di fatto a dichiarare la precomprensione che regge la metafisica, a metterla una volta per tutte al primo posto nell’ordine del discorso? Ovviamente, tutto ciò è molto significativo per il modello che Heidegger ha in mente, ma al tempo stesso implica un problema di primaria importanza, secondo Derrida. Se infatti l’analitica esistenziale non fa che esplicitare ciò che resta il non-detto di tutta la “tradizione metafisica”, le si può davvero accreditare un principio di trasgressione rispetto al tempo aristotelico? Cambia realmente qualcosa nel gioco di precomprensioni ente-tempo vigenti in Sein und Zeit, rispetto a quello che sta alla base di Physica IV, dove il tempo è pensato a partire dal presente inteso come non-tempo? In altri termini, si tratta di capire se lo Heidegger di Sein und Zeit riesca davvero a pensare diversamente “il senso del tempo”; e ancor più in generale, se il senso come tale possa mai essere pensato diversamente dal modo in cui lo pensa Aristotele. Per Derrida la risposta è palesemente negativa: non soltanto «nessun senso (in qualunque senso lo si intenda, come essenza, come significato del discorso, come orientamento del movimento tra un’archia e un telos) […] ha mai potuto essere pensato nella storia della metafisica altrimenti che a partire dalla presenza e come presenza»; ma anzi, il concetto stesso di senso «è comandato da tutto il sistema di determinazioni che stiamo qui individuando e, ogni volta che viene posta una questione di senso, essa non può esserlo che nella chiusura metafisica» (DERRIDA 1968b, 58 [84]). Perciò, nella misura in cui si muova all’interno della stessa precomprensione dell’essere (l’essere pensato a partire da una determinazione temporale), la domanda sul senso del tempo che sta alla base di Sein und Zeit finisce per ripeterne fedelmente la struttura: ancor più radicalmente, in quanto ponga ancora una volta la questione del senso, Sein und Zeit non può che basarsi esattamente sulla precomprensione che regge Physica IV. La tesi di Derrida è dunque che, al di là dei tentativi di smarcarsi dalla domanda metafisica sul tempo, il modello di Heidegger vi ricade interamente. E vi ricade nella misura in cui «non è questa o quella determinazione del senso del tempo che appartiene a questa onto-teo-teleologia, ma già l’anticipazione del senso. Il tempo è già soppresso nel momento in cui si pone la questione del suo senso, in cui lo si mette in rapporto con l’apparire, la verità, la presenza, Martinengo.qxp 228 12-11-2012 14:27 Pagina 228 IL PENSIERO INCOMPIUTO l’essenza in generale» (DERRIDA 1968b, 60, nota 20 [86, nota 26]). Qualsiasi domanda sul senso del tempo si fonda sugli stessi presupposti in virtù dei quali Heidegger sceglie di connotare come “metafisica” la questione aristotelica sulla physis del tempo: il senso del tempo e la physis del tempo sono esattamente la stessa cosa, sulla base di quel primato dell’“essere presente” da cui Sein und Zeit cerca a tutti i costi di prendere le distanze.10 2.1.2 L’insuperabilità del contesto deiettivo: Derrida vs Ricoeur Fin qui il modo in cui, secondo Derrida, la questione della metafisica si pone all’interno dell’analitica esistenziale heideggeriana. In realtà, alla base del discorso di Derrida vi è un problema molto più generale, che va al di là dell’inclusione di Heidegger nel contesto della metafisica. E per quanto ciò possa apparire paradossale, si tratta di un problema che si avvicina da presso al modo in cui Ricoeur stesso pone la questione del senso e dell’autenticità. Si tratta di capire come si configuri quest’analogia e soprattutto quali conseguenze essa provochi. Per parlare in termini molto generali, la contestazione che Ousia et grammé oppone a Sein und Zeit implica il fatto che, dichiarata l’insolvenza del modello di Heidegger, il concetto di tempo appare legato per sua stessa natura a presupposti la cui gestione non-metafisica appare fortemente pregiudicata. A questa generalizzazione del problema heideggeriano, Derrida arriva in modo obliquo. Che il tempo non partecipi della sostanza è confermato, nel discorso di Aristotele, dal fatto che la sua rappresentazione come insieme di “ora” successivi non lascia alcuna vera alternativa: gli “ora” che si pretende lo compongano non possono né sostituirsi integralmente l’uno all’altro, perché ciò significherebbe distruggere il tempo come insieme di istanti, né coesistere, perché ciò farebbe venir meno l’idea stessa di successione. A questa impossibilità, risponde l’analogia del movimento: pur non essendo né il moto né il cambiamento, il tempo non esiste senza che vi sia l’esperienza di qualcosa che si muove o che cambia. Ciò conduce alla definizione del tempo come numero del movimento secondo il prima e il dopo: definizione alla quale si lega il problema della sua rappresentazione spaziale, ovvero il ricorso all’analogia della linea. La rappresenzazione dei punti di una linea risulta infatti connessa strettamente all’esperienza della temporalità; Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 229 229 ma secondo Derrida vi si connette non perché coincida in tutto e per tutto con essa – il che visibilmente non è – bensì in quanto finisce per ripeterne gli stessi inconvenienti. Attraverso la linea si ricorre insomma a una molteplicità di punti, che di per sé non rendono conto della unificazione interna del fenomeno; e tuttavia tale molteplicità approssima molto da vicino la successione. Come questo sia possibile è immediatamente evidente: se infatti il gramma preso di per sé (la linea iscritta nello spazio) non contiene per nulla un analogon del movimento, la stessa cosa non può dirsi dell’atto del tracciare, che invece (ri)produce esattamente l’idea di successione. Alla base della cosiddetta “metafisica del tempo” sta proprio questa configurazione. Di più: qualsiasi critica alla spazializzazione del tempo, nella misura in cui giochi sulla linea considerata “in atto”, non fa che iterare questa stessa comprensione. E ciò non in quanto la metafisica non possa contenere in sé altri significati temporali, ma per il semplice fatto che tutte le configurazioni alternative del tempo – attestabili già in Aristotele e in Kant – si trovano in una connessione inscindibile con le rappresentazioni delle quali pretendono di essere il rovesciamento. Questo è un punto di grande interesse per il pensiero di Derrida. Da qui, Ousia et grammé ricava infatti il principio di legittimità su cui si fonda l’idea della decostruzione. Attraverso il ricorso al problema della rappresentazione, secondo Derrida, «ogni testo della metafisica porta in sé, per esempio, sia il concetto cosiddetto “volgare” di tempo sia le risorse che si prenderanno in prestito dal sistema della metafisica per criticare tale concetto». Proprio a partire da questa connessione inscindibile «bisogna riflettere sulle condizioni di un discorso che oltrepassi la metafisica, supposto che un tale discorso sia possibile o si annunci nella filigrana di qualche margine» (DERRIDA 1968b, 70 [96]). La decostruzione si definisce insomma come il metodo che risponde alla compresenza, in quella che sbrigativamente si definisce come “metafisica”, di una serie di punti di rottura oltre i quali si concretizza la possibilità di una rappresentazione differente del tempo (dell’essere, del reale…). Ma ciò comporta che un pensiero fondato sulla pretesa di essere non-metafisico possa prendere le mosse soltanto da un cambio di orizzonte che accantoni – contro lo Heidegger di Sein und Zeit – la questione stessa della temporalità. E ciò per il semplice fatto che il tempo in generale è un concetto metafisico, così come è metafisico (anzi, platoni- Martinengo.qxp 230 12-11-2012 14:27 Pagina 230 IL PENSIERO INCOMPIUTO co) qualsiasi tentativo di pensare il tempo a partire dalla nozione di «caduta in generale», o dall’«opposizione di originario e derivato» (cfr. DERRIDA 1968b, 73-74 [99]). Per questo motivo, la risposta di Derrida al problema del tempo si configura nel senso di una complicità inesauribile tra il contesto lato sensu metafisico e le pretese di autenticità del non-metafisico. Se dunque ogni critica al tempo lineare non si distacca realmente dall’analogia del gramma, si può legittimamente affermare che non vi è davvero una rappresentazione originaria del tempo, da contrapporre al suo corrispettivo volgare: la stessa scommessa heideggeriana di proiettare la domanda sul tempo al di là del sistema AristoteleHegel non produce altro che una ricaduta nel medesimo sistema, anche se occultandolo sotto l’opposizione originario-deiettivo. Sulla base di questa insuperabilità, Ousia et grammé oppone al modello di Heidegger una soluzione che ne capovolge il requisito principale, ossia l’autenticità. Si può essere perfino più netti di quanto faccia Derrida in questa sede, con una conclusione che però è pienamente coerente con le sue premesse: se è in nome di un pensiero vero, fondato, proprio (eigentlich) che la metafisica si è determinata come pensiero della presenza, per Derrida qualsiasi uscita da questa forma di oggettivazione non può che connotarsi come volutamente e positivamente “inautentica”. Proprio questa posizione, che la grammatologia marca fino al gusto del paradosso, appare tuttavia singolarmente affine al teorema di impossibilità al quale conducono le analisi ricoeuriane della temporalità. Come si è visto, uno degli aspetti più significativi che il discorso di Ricoeur porta avanti è l’idea che il modello heideggeriano contenga il principio che rende insolubile «in via di principio» l’aporia del tempo. Nel discorso di Ricoeur, questa insolubilità deriva da ragioni del tutto interne al problema del tempo, connesse al fatto che l’analitica esistenziale adotta come meccanismo di funzionamento il fondamento stesso dell’aporia, ossia il principio di stratificazione del tempo. Tuttavia, non è illegittimo rilevare che il risultato è di fatto analogo a quello al quale perviene Derrida, sebbene a partire da tutt’altra questione (la “metafisica della presenza”). In entrambi i casi, l’unica via di uscita al problema aristotelico non sta in una intensificazione dell’aporetica, come è ancora nell’analitica esistenziale, ma in un arretramento al di qua della lignée che, Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 231 231 Heidegger volente o nolente, tiene assieme Physica IV e Sein und Zeit. Ed è un arretramento che in Derrida prende le forme tipiche della decostruzione, mentre in Ricoeur si articola più sottilmente come poetica della temporalità. In questi termini, sebbene non si tratti di un’espressione facilmente attestabile nei due autori, i modelli di Derrida e di Ricoeur mostrano un tratto teorico comune, che si può connotare nel senso di una vera e propria “filosofia dell’inautentico”, nella quale l’elemento determinante è proprio la confutazione dell’ipotesi da cui prende le mosse Sein und Zeit. Quanto questi modelli siano differenti – tanto che si potrebbe parlare più propriamente di due (opposte) filosofie dell’inautentico – è assolutamente evidente, a ogni livello al quale si ponga il problema. È ovvio in particolare che ciò che la soluzione di Derrida non riesce a garantire – e anzi esclude programmaticamente – è l’ambito delle prestazioni ontologiche del linguaggio: posto che il problema heideggeriano della temporalità originaria debba essere ancora dichiarato metafisico, e posto che questa sia l’unica via attraverso la quale Derrida ritiene di poter dichiarare chiusa la vertenza con l’aporia di Aristotele, ciò accade perché è lo stesso vincolo ontologico della metafisica ad apparire finalmente confutabile; e solo confutando questa concezione del significato, il presupposto dell’Eigentlichkeit può essere sospeso. Se insomma la metafisica non fosse determinata a un tempo come pensiero della presenza e come un sistema basato sulla prossimità linguaggio-significato, e se su questa connessione non intervenisse la variabile indipendente rappresentata dalla scrittura, il problema di Heidegger resterebbe in gran parte intatto; poiché invece la questione dell’autenticità risulta paradossalmente solidale a tutto il sistema referenziale-oggettivante della metafisica, allora la trasgressione della metafisica deve necessariamente considerare il linguaggio dell’inautentico come l’unico terreno sul quale tale uscita può di fatto concretizzarsi. Come è ovvio, il discorso di Ricoeur prende le mosse da presupposti radicalmente diversi: e sono i presupposti che gli consentono di attenersi integralmente (contro Derrida) al principio ermeneutico della conservazione-trasmissione del senso. Ciò non di meno, nella misura in cui Temps et récit III riesca a venire a capo del modello heideggeriano dell’analitica esistenziale, ciò è possibile perché è prospettato un primato dell’inautentico che risulta in qualche modo equivalente alla Uneigentlichkeit derridiana.11 Martinengo.qxp 232 12-11-2012 14:27 Pagina 232 IL PENSIERO INCOMPIUTO 2.2 Decostruzione, ricostruzione, pragmatica della storicità Senza dubbio, le implicazioni che quest’analogia porta con sé non riducono lo scarto profondo che separa le due prospettive. Ma, paradossalmente, un’analisi che includa nel discorso anche questo rilievo comune aiuta a leggerle sotto una luce diversa; e ciò è tanto più evidente se si sposta l’attenzione dal Derrida del periodo grammatologico alle fasi successive del suo pensiero. Su quest’evidenza e su alcune delle conseguenze che ne derivano, è ora utile concentrarsi, per tirare le fila del discorso. La distanza che separa la poetica ricoeuriana della temporalità e la decostruzione di Derrida, oltre che una differenza nello “stile” e nel modo di intendere l’ambito del “filosofico” in generale, è dunque un’opposizione tra due modi diversi di declinare la questione aristotelica della physis del tempo. In Ricoeur, la soluzione fondata sul modello mythos-mimesis è ancora a tutti gli effetti una soluzione filosofica, almeno nella misura in cui con ciò si intenda un modello assiato sulla centralità del significato: ed è una soluzione che di fatto rielabora l’aporetica, sottoponendola al principio della mediazione imperfetta. In Derrida, questa rielaborazione dell’aporetica è invece esclusa a priori, in virtù del fatto che essa non sarebbe che la riattestazione di quel mos philosophicus di cui la decostruzione suppone il venir meno. A differire è dunque il modo in cui è interpretata l’insuperabilità del contesto deiettivo: in un caso, come principio di riorientamento e rimodulazione del problema del significato; nell’altro, come possibilità di abbandonare, assieme al problema dell’autenticità, anche la pretesa di produrre qualcosa come una teoria del significato. Se le cose stanno così, ciò che al di là di ogni pregiudizio teorico differenzia i due modelli è quella che, con espressione ampiamente sovradeterminata, potrebbe definirsi la “gestione concreta” dei significati: i modi attraverso i quali Ricoeur e Derrida regolano i conti con la questione della referenza fanno tutt’uno con la possibilità o meno di conservare, anche sotto il primato dell’inautentico, il principio di un’esperienza “vera” (del tempo). Più che due diverse scelte teoriche (pro o contro la referenza), alla base di tutto stanno dunque due “pragmatiche del significato”, due modi distinti di controllare il versante storico-concreto del significato. Ed è a questo livello che i presupposti della decostruzione e della poetica della temporalità producono le conseguenze più rilevanti. Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 233 233 Del resto, che il vero centro del problema stia qui è dimostrato dal fatto che le obiezioni più rilevanti al modello derridiano della grammatologia si basano sulla tesi secondo cui la decostruzione è debole non tanto dal punto di vista teorico (per esempio sul versante della contraddizione performativa: versante sul quale non è del tutto scontato mostrare che gli argomenti di Derrida siano meno appropriati di quelli dei suoi critici), quanto appunto sotto l’aspetto della prassi concreta dei significati. Per dirla schematicamente, i “nomi” della metafisica (essere, sostanza, differenza ontologica…) sono sì suscettibili di una decostruzione radicale, come sembra intendere Derrida; ma in quest’operazione non è affatto garantito che si stia dicendo qualcosa di rilevante sul piano della storicità fattuale dell’esperienza. La questione è particolarmente complessa ed è quanto mai indicativa per cogliere in actu lo scarto tra i due primati dell’inautentico, che sul piano teorico può semplicemente essere enunciato. Le conseguenze di questa diversa gestione dei significati sono numerose, ma riguardano tutte un aspetto che in termini ricoeuriani si connoterebbe come “irriducibilità del campo simbolico”. In altri termini, la debolezza del modello della grammatologia si concentra attorno alla difficoltà di conservare almeno un valore contestuale (pragmatico, appunto) ai significati prodotti storicamente: ed è un aspetto che emerge con particolare chiarezza rispetto al tema del passato, dove il problema si complica notevolmente, soprattutto se ci si sforza di leggere in termini strettamente epistemologici le discussioni derridiane e ricoeuriane attorno alle determinazioni concrete del significato. È questo il caso, per fermarsi agli esempi meno sporadici, dell’epistemologia della conoscenza storica che occupa la seconda parte de La mémoire, l’histoire, l’oubli. Qui la teoria della “scrittura generalizzata”, a cui Ricoeur sembra dare corpo, parte dalla natura puramente scritturale delle fonti dello storico e arriva al valore scientifico della storiografia propriamente detta, intesa come sintesi metodica di comprensione e spiegazione. Per quanto in Ricoeur il riferimento al Derrida de La grammatologie (1967) e de La pharmacie de Platon (1968) sia tutto sommato circoscritto (cfr. per es. RICOEUR I 2000, 167-180 [191-204]), il discorso sulla centralità della scrittura e sulla sua non-databilità rispetto alla nascita delle scienze storiche («L’inizio della scritturalità storica è introvabile», RICOEUR I 2000, Martinengo.qxp 234 12-11-2012 14:27 Pagina 234 IL PENSIERO INCOMPIUTO 173-174 [197]) contribuisce ad articolare quella connessione tra l’uso della memoria e la supplenza della storia che è centrale nel modello de La mémoire, l’histoire, l’oubli. Ma ciò che fa la differenza nel discorso di Ricoeur è la capacità, da parte della scrittura della storia, di essere un fattore fondamentale per la costruzione di valori identitari fondamentali, sia dal punto di vista individuale che collettivo, secondo un modello che l’ultima opera pubblicata da Ricoeur, i Parcours de la reconnaissance (2004), avrebbe ampiamente confermato. Questo passaggio dal piano teoretico-conoscitivo al livello storico-pratico, di cui la terza parte de La mémoire, l’histoire, l’oubli tira le somme, è dovuto proprio alla connessione irrinunciabile tra l’ambito della memoria e quello della storia, che porta con sé una serie di determinazioni contestuali, di cui la questione dell’identità collettiva – in connessione con il problema del legame sociale – è la principale.12 Quali siano le implicazioni di questa situazione si è già ampiamente discusso rispetto a Ricoeur. Tuttavia c’è un aspetto che più degli altri porta l’attenzione sul confronto con Derrida: la pragmatica storica del significato che è implicita ne La mémoire, l’histoire, l’oubli si gioca infatti integralmente su un piano che, con espressione non ricoeuriana, si potrebbe definire di «ontologia del contingente». Ed è proprio a questo livello che la relazione tra la poetica del racconto e il modello della decostruzione diventa particolarmente ricco di connessioni, almeno ex post. Qui si deve procedere necessariamente in modo schematico; ma non è un caso che il discorso derridiano più recente, da Donner le temps (1991) a Politiques de l’amitié (1994), fino a Donner la mort (1999), abbia via via accolto istanze di ordine “simbolico” sempre più rilevanti sul piano della produzione effettiva del significato. Si tratta di un ampliamento che per una serie di motivi è difficile ascrivere tout court a quella che abbiamo definito come koinè ricostruttiva dell’ermeneutica. Ciò non di meno, è a questo livello che il confronto tra i diversi momenti della riflessione di Ricoeur e del pensiero derridiano raggiunge la sua attestazione più chiara. Gli esempi che si possono menzionare al riguardo sono numerosi e vanno, per citarne soltanto alcuni, dalle discussioni che Ricoeur raccoglie sotto il tema del riconoscimento al dibattito sui modi sociali del perdono.13 Ciò che accomuna tutti questi diversi contesti, almeno nel modello di Ricoeur, è il fatto che, se ci si sfor- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 235 235 za di spogliarli di ogni implicazione etica, politica e religiosa, essi rappresentano il concretizzarsi dei modi stessi in cui de facto la memoria e la storia funzionano come vettori di significato. La questione è particolarmente evidente nell’ambito dei significati connotati in senso sovraindividuale. In questo caso, dal punto di vista di un’analisi strettamente teorica (quasi fenomenologica) tutte le risorse simboliche che sono implicate in tali atti contengono una sorta di referenza supplementare, volta al loro significato intersoggettivo: oltre al significato diretto, che innegabilmente possiedono (la stipula di un contratto è pur sempre un accordo attorno a un particolare oggetto, materiale o sociale che sia; la celebrazione di un processo ha pur sempre l’obiettivo di stabilire la verità dei fatti attorno a una determinata circostanza), essi contemplano una seconda intenzionalità che pertiene al loro significato storico-condiviso. Nel caso del perdono tutto ciò è particolarmente evidente, nella misura in cui l’esperienza del perdonare contenga, in una forma diversa e più completa rispetto ad altri istituti simbolici, una possibilità di riconoscimento tra i componenti di un determinato gruppo sociale. E questa funzione di riconoscimento, anziché essere volta esclusivamente al passato (come si potrebbe immaginare in base al suo oggetto proprio: gli atti compiuti), è orientata al futuro, alla costruzione di una forma differente di socialità. È proprio questa funzione di orientamento al futuro ciò che sembra mancare più vistosamente nell’impianto di Derrida. La decostruzione, anche nelle sue versioni più recenti, rimane legata a una gestione dell’inautentico connotata in termini di paradossalità; e questo residuo di paradossalità, che è a tutti gli effetti irriducibile, è l’elemento la cui “traduzione sociale” resta più problematica. In qualche modo – anche se il discorso dovrebbe essere più articolato – se ammettiamo che la costruzione di significati condivisi, al pari di qualsiasi altra prestazione significante, resti indipendente da qualsiasi logica del senso, ciò implica che la loro produzione effettiva si configuri necessariamente come uno “stato di eccezione”, come una soluzione provvisoria, locale, non-ripetibile. Ciò è tanto più vero nel caso del perdono. Il modello che Derrida ha in mente risulta infatti strutturalmente inscindibile, nonostante le resistenze, da una sorta di etica iperbolica, che lo priva di qualsiasi rilevanza sociale: parlare del perdono come «possibilità di fare l’impossibile», cioè Martinengo.qxp 236 12-11-2012 14:27 Pagina 236 IL PENSIERO INCOMPIUTO come possibilità di perdonare l’imperdonabile, significa sottrarlo a qualsiasi tipo di formalizzazione, non solo teorica, ma anche pragmatico-sociale.14 Il perdono e con esso tutti gli altri dispositivi della pragmatica sociale possiedono sì una funzione significante fondamentale. Ma si tratta di una funzione alla quale è impossibile applicare qualsiasi criterio di conservazione o ripetibilità: conservazione e ripetibilità che rappresentano i requisiti minimi per poter parlare di una nozione di verità, almeno in senso pragmatico. Note Il riferimento è ai capitoli 1-5 della seconda sezione di Temps et récit III (cfr. RICOEUR I 1985, 147-279 [151-295]). 2 Del resto, anche per La métaphore vive non è così scontato che la posta in gioco sia soltanto questa: è pur vero che la metafora si qualifica in quanto non rispecchia semplicemente il “reale”, ma è capace di strutturarlo, cioè di modificarne la visione; ciò non di meno resta poco chiaro, almeno a posteriori, se lo stesso scivolamento dal “rispecchiamento” alla “strutturazione” non possa applicarsi anche al linguaggio descrittivo. Applicazione che in Temps et récit diventerà palese. 3 Si può obiettare a Ricoeur di sopravvalutare il criterio della responsabilità, almeno nella misura in cui ciò rischi di introdurre un presupposto estrinseco all’operazione storiografica. Ma Ricoeur probabilmente controbatterebbe – con argomento tipicamente contestualista – che è proprio l’idea di una responsabilità estrinseca a dover essere messa in discussione: il contesto dello storico è quello dei suoi contemporanei (ai quali egli si rivolge), degli uomini del passato (di cui parla) e dei suoi successori (dei quali diventerà l’interlocutore privilegiato). Non si può negare che in ciò la posizione di Ricoeur sia apertamente circolare, giacché ponendo l’esistenza di un contesto presuppone ciò che in realtà vorrebbe dimostrare. Tuttavia è lecito chiedersi se non lo sia, in fin dei conti, anche la posizione opposta, quella oggettivista. Il vero problema è semmai decidere quale delle due ipotesi possa legittimamente dirsi fattuale, rispetto alla concreta esperienza della storiografia. 4 I riferimenti sono soprattutto a Metahistory. The Historical Imagination in XIX Century Europe (1973) e a Tropics of Discourse. Essay in Cultural Criticism (1978), su cui cfr. in gen. RICOEUR I 2000, 320-339 (355-375). 5 Sui significati connessi con il termine «rappresentanza», dall’etimo latino del tenente-luogo alla problematica gadameriana della Vertretung, cfr. in partic. RICOEUR I 2000, 367-369, nota 77 [405-407, nota 87]. 6 Come si vede, alla base di questa sovrapposizione tra finzione e storia, vi è tutto il percorso teorico che la retorica e l’estetica dell’opera d’arte compiono, da Gadamer e dalle estetiche della ricezione in poi. La centralità del testo narrativo come “macchina per produrre senso” deriva dalla lettura di Michel Charles, di cui Ricoeur considera soprattutto la Rhétorique de la lecture (1977). 1 Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 237 237 7 La questione è chiara e Ricoeur la esplicita soprattutto rispetto alla storiografia: «In effetti, le cose sarebbero più semplici se la forma scritturale della storiografia non contribuisse alla sua valenza cognitiva, se la spiegazione/comprensione fosse completa prima di essere comunicata dallo scritto a un pubblico di lettori». Ma si dà il caso che le cose non stiano così: «Ora che abbiamo rinunciato a ritenere l’espressione quale neutro e trasparente rivestimento, posto sopra a una significazione completa nel suo senso, come Husserl ha potuto affermare all’inizio delle Ricerche logiche, ora dunque che siamo abituati a ritenere il pensiero e il linguaggio come inseparabili, siamo pronti ad ascoltare le dichiarazioni diametralmente opposte a questa messa fuori circuito del linguaggio, e cioè che, nel caso della scrittura letteraria della storia, la narratività aggiunge i suoi modi di intelligibilità a quelli della spiegazione/comprensione» (RICOEUR I 2000, 360 [398]). 8 Come è noto, questa è la premessa che Derrida esplicita all’inizio di De la grammatologie: cfr. in partic. DERRIDA 1967a, 23 [31]. 9 Secondo Derrida, il problema sta tutto al livello di Sein und Zeit e della lettura inclusiva che Heidegger dà della “storia della metafisica”. Le cose vanno diversamente altrove, in particolare in Kant und das Problem der Metaphysik (1929), dove a Kant è riservato un trattamento diverso da quello derivante dall’analitica esistenziale. Scrive Derrida: «È perché, come dice Aristotele, il tempo non appartiene agli enti, non ne fa parte più di quanto non ne sia una determinazione, è perché il tempo non è dell’ente in generale (fenomenico o in sé), che bisogna farne una forma pura della sensibilità (sensibile insensibile). Questa profonda fedeltà metafisica si organizza, trova un aggiustamento con la rottura che riconosce il tempo come condizione di possibilità dell’apparire degli enti nell’esperienza (finita), cioè parimenti con ciò che di Kant sarà ripetuto da Heidegger». Se ci sono buone ragioni per argomentare (contro Heidegger) questa continuità metafisica, «si potrà dunque sempre sottoporre il testo di Aristotele a quella che si potrebbe chiamare la “ripetizione generosa”: quella di cui beneficia Kant e che è rifiutata ad Aristotele e a Hegel, almeno all’epoca di Sein und Zeit» (DERRIDA 1968b, 54 [80]). Ma posto che l’ambiguità di Kant possa a buon diritto essere estesa al “testo inaugurale” di Physica IV, per Derrida si deve riflettere se «Sein und Zeit non abbia in qualche modo bloccato» queste possibilità di rovesciamento. Di tale instabilità, che si esemplifica soprattutto nell’“immaginazione trascendentale” kantiana, Ousia et grammé traccia i confini proprio a partire da Kant und das Problem der Metaphysik (cfr. DERRIDA 1968b, 56 [82]). Al di là di quanto afferma Derrida, è però lecito chiedersi se la sua attestazione migliore stia davvero al livello della nozione di immaginazione trascendentale, se cioè lo svincolamento dell’intuizione pura del tempo dal privilegio del presente (che è innegabilmente presente in un modello di immaginazione trascendentale interamente basato sulle ritenzioni e le protensioni), presupponga anche un’altra comprensione del tempo, indipendente dalla pura successione di “ora”. 10 Per essere in qualche modo, il tempo non potrebbe essere che un participio presente, ossia un «e(sse)nte». Ma ciò sarebbe possibile soltanto se il tempo non fosse ciò che in realtà è, ossia “ora” passato e “ora” futuro. La conclusione di Derrida è nota: «Sarebbe dunque vano, diciamolo seccamente e rapidamente, voler sottrarre in quanto tale la questione del senso (del tempo o di qualunque cosa) alla Martinengo.qxp 238 12-11-2012 14:27 Pagina 238 IL PENSIERO INCOMPIUTO metafisica o al sistema dei concetti detti “volgari”». E questo accade per un motivo molto palese: «Già in quanto questione del senso essa è legata, nel suo punto di partenza, e Heidegger indubbiamente lo riconoscerebbe, al discorso (lessico e grammatica) della metafisica di cui avvia la distruzione. In un certo modo, come dà a pensare Bataille, la questione del senso, il progetto di custodire il senso, è “volgare”» (DERRIDA 1968b, 59 [85]). 11 Se è lecito, almeno empiricamente, tracciare i confini di una sorta di “filosofia dell’inautentico” (sia essa post-heideggeriana, post-husserliana o post-bergsoniana), si deve tenere presente che le versioni direttamente o indirettamente riconducibili a essa sono numerose e differenziate. Per esempio, nel dibattito filosofico italiano degli ultimi anni, si può leggere in questo senso l’analisi di Giacomo Marramao, a cui le riflessioni di queste pagine rimandano, anche per alcune soluzioni terminologiche. Pur non muovendo da premesse ricoeuriane, né tanto meno derridiane, il contributo di Marramao torna utile perché mette in chiaro alcuni punti irrinunciabili sotto il profilo metodologico. Il primo e più rilevante è l’impossibilità di porre il problema del tempo fuori dal riferimento a rappresentazioni spaziali: dalle metafore classiche della freccia e del ciclo, fino alle ipotesi della fisica contemporanea, è palese che la scelta di parlare del tempo come puro sentimento o come fenomeno “originario” (Agostino, Bergson, Heidegger) sia una pura illusione filosofica (cfr. per es. MARRAMAO 1990, 14). A questo interdetto risponde – ed è il secondo punto interessante per la questione di cui ci stiamo occupando – la necessità di uno «spostamento laterale» del problema, che per Marramao implica la confutazione di qualsiasi «grammatica generativa» del concetto di tempo: parlare del tempo (ma anche pensarlo, esperirlo…) è impossibile se non all’interno di una simbolica originaria, di cui lo spazio è parte integrante. Se intendiamo bene, è qui che il discorso allude seppur in modo implicito a un primato dell’Uneigentlichkeit. L’impossibilità di produrre una rappresentazione pura del tempo contiene il principio per destituire di valore qualsiasi pretesa di autenticità: «Ogni qualvolta proviamo a percepire il tempo “in presa diretta”, ci rendiamo conto che non possiamo esperire alcun evento senza collocarlo all’interno di una scena»; si può dire insomma che vi sia «uno spazio simbolico originario, presupposto della stessa misurazione, che pregiudica apriori qualsivoglia pretesa di “autenticità”» (MARRAMAO 1992, 94-95). Quali siano le conseguenze di ciò è molto evidente nel gioco di decostruzione e ricostruzione lessicale al quale Marramao sottopone la parola (le parole) “tempo” in Kairós. Ma alla base del discorso vi è una più generale «riabilitazione» della metaforica, a cui il recupero del lessico dell’inautentico sembra in larga parte riconducibile. 12 Il problema rientra certamente nella tensione che Ricoeur istituisce tra «la filosofia» e «il suo altro»: una tensione che la letteratura ricoeuriana in Italia ha messo in luce fin dalla fondamentale analisi di Francesca Brezzi (cfr. in partic. BREZZI 1969, 11-25 e 229-241). Tra i molti riferimenti utili in questo senso, cfr. ora AIME 2007, 593-636 e 778-781, dedicato al rapporto ermeneutica-politica. 13 Non è un caso che la riflessione ricoeuriana sul perdono e sul riconoscimento si muova sempre più significativamente in direzione della filosofia politica e della filosofia del diritto, a partire dal tema della “giustizia”. Su queste connessio- Martinengo.qxp 12-11-2012 PARTE SECONDA 14:27 Pagina 239 239 ni, cfr. per es. BREZZI 2006, 120-135 e più in generale le analisi di Daniele Cananzi, contenute in Interpretazione, alterità, giustizia (2008). 14 Al di là del tono inevitabilmente connotato che il riferimento al perdono possiede in Ricoeur, esso mantiene una funzione particolarmente interessante all’interno di La mémoire, l’histoire, l’oubli (cfr. in partic. RICOEUR I 2000, 593-656 [649717]). Il dato incontrovertibile da cui Ricoeur prende le mosse è il fatto che, considerata in senso pragmatico, la scrittura della storia si attua anzitutto nella forma di un «uso ragionato dell’oblio». A questo processo non corrisponde semplicemente la riproposizione dello scarto fenomenologico tra memoria e oblio: al contrario, proprio qui la scrittura “pubblica” della storia mostra di far ricorso a dispositivi dotati di una funzione simbolica irrinunciabile. Il perdono, assieme ad altri istituti quali l’amnistia e la grazia, è dunque l’elemento nel quale quella carica “pragmatica” del simbolo emerge con più chiarezza: in quanto sia anche uso ragionato dell’oblio, la scrittura della storia possiede un’innegabile funzione di creazione del legame sociale. All’opposto, in Derrida, il tema del perdono è sì legato alla costruzione della memoria, ma secondo un argomento che ne accentua la natura paradossale: il perdono è un fattore fondamentale nella costruzione dell’esperienza temporale, ma si iscrive su un passato che non si può a sua volta reinscrivere e rimodulare. Non potendo entrare all’interno di alcuna economia dello scambio (e dunque all’interno di alcuna economia tout court), è un fattore che si attesta come un dato straordinario, al di fuori di ogni logica sociale. Il riferimento di Ricoeur è al saggio derridiano Le siècle et le pardon (1999). Ma le stesse considerazioni valgono ora a maggior ragione per Pardonner (2004), dove significativamente Derrida ripete che il perdono prende senso soltanto se è in grado di perdonare l’imperdonabile. È proprio questa non-inclusione del perdono nella logica del senso ad apparire completamente indipendente dal significato pragmatico di cui, secondo Ricoeur, esso dovrebbe essere portatore. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 240 Conclusioni Il tempo, la perdita e il lutto Intervista a Paul Ricoeur È del tutto evidente, in base a questi passaggi finali, che attorno al problema della temporalità si gioca una partita importante, che va ben al di là della questione dell’esperienza vissuta. Nei testi di Ricoeur, l’analisi delle forme linguistiche in cui il tempo si attesta diventa il caso specifico di un problema più complesso, che attiene alla possibilità di dare una rappresentazione “logica” dell’esperienza. La mediazione imperfetta di cui parla Temps et récit – ma ciò è tanto più vero, quanto più il discorso entra in relazione con la questione della memoria e della storia – cessa di essere soltanto una risposta all’aporia del tempo e diventa l’elemento determinante di una discussione più generale: si trasforma a tutti gli effetti nel centro di quella “pragmatica del significato”, di cui gli ultimi testi di Ricoeur tracciano i contorni. Questo capovolgimento di prospettiva implica che la questione fondamentale di Temps et récit e de La mémoire, l’histoire, l’oubli non sia tanto la rappresentazione di una regione specifica dell’esperienza (il tempo), ma l’esperienza stessa della rappresentazione, la rappresentazione come problema filosofico generale. Questo però non è ancora tutto. All’esperienza del tempo si associa infatti un principio di incompletezza che rende strutturalmente impossibile ricondurla a una forma di totalità. Tale interdetto assume molti nomi diversi, ma ciò che esso attesta è un dato assolutamente chiaro: l’incapacità, per ogni analisi filosofica sul tempo, di superare una volta per tutte il contesto dell’aporia agostiniana. Partendo da queste premesse, il discorso di Ricoeur si muove nel modo che si è visto, prendendo Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 241 spunto dalla soluzione di Sein und Zeit, per riformularla in termini radicalmente nuovi: il modello heideggeriano della temporalizzazione coglie un aspetto fondamentale, ovvero la plurivocità del tempo (tempo dell’anima vs tempo del mondo, Zeitlichkeit vs storicità vs intratemporalità, passato vs presente vs futuro), ma fallisce nella pretesa di ricondurre tale molteplicità a un unico modello, basato sull’opposizione tra originario e derivato. L’unica strada ancora praticabile è proseguire “oltre Heidegger”, applicando un principio di stratificazione che si basi sul modello del racconto, anziché su quello della Zeitlichkeit. Il racconto diventa dunque il dispositivo fondamentale a partire dal quale ripensare la stessa traducibilità linguistica dell’esperienza. E questa riformulazione ha una serie di conseguenze importanti sul modello di ermeneutica che Ricoeur ha in mente: conseguenze tanto più importanti, in quanto i suoi testi si sforzano di ricavarne una vera e propria “logica ermeneutica”, che è difficilmente assimilabile ad altri tentativi della stessa natura. La specificità della sua soluzione – che si è cercato di connotare ricorrendo all’espressione “ermeneutica ricostruttiva” – viene in chiaro attraverso una serie di analogie e di passaggi. Proprio l’ultimo di questi passaggi, che mette a confronto il modello di Ricoeur con il decostruzionismo di Jacques Derrida, pone in luce le questioni più delicate. Nonostante le apparenze, i due modelli condividono infatti un presupposto comune: il rifiuto della soluzione heideggeriana. Tuttavia, in Ricoeur tale presupposto diventa il principio per ricavare conseguenze teoriche radicalmente diverse. Anzi, si trasforma nella premessa per dare legittimità a ciò di cui Derrida, di contro, afferma l’inconsistenza: la possibilità di costruire un senso dell’esperienza (una “logica”, appunto), che mantenga legittime pretese di verità. Il discorso però non si chiude ancora qui. La soluzione proposta in Temps et récit ha a che fare con un altro aspetto importante per qualsiasi teoria dell’esperienza: il rapporto tra il tessuto linguistico dell’esperienza stessa e l’apparato simbolico che gli è connesso. Da questo punto di vista, l’insieme di problemi che Ricoeur affronta da Temps et récit in poi non è altro che il tentativo di riformulare la questione della simbolica (della volontà, del male, dell’inconscio…) a partire da un unico elemento fondamentale: il racconto, sia esso storico o di finzione, esplicito o implicito, rapsodico o formalizza- Martinengo.qxp 242 12-11-2012 14:27 Pagina 242 IL PENSIERO INCOMPIUTO to, diventa il principio strutturale sotto cui tutti gli altri linguaggi si raccolgono. Sostenere che l’esperienza è linguisticamente significativa soltanto nella misura in cui si traduca nella forma del mythos (mimesis I-III) equivale infatti a dire che questo modello è l’unico dispositivo attraverso cui le simboliche regionali funzionano. Naturalmente ciò non significa che le precedenti discussioni attorno al simbolo e alla metafora siano dichiarate insolventi, né che vengano in qualche modo destituite di valore. Semmai, il problema che Ricoeur pone con sempre maggiore chiarezza è il riconoscimento di uno spazio simbolico originario, al cui interno ricade ogni teoria regionale del significato: la pragmatica del significato a cui mimesis I-III dà corso finisce dunque per essere una simbolica generale del discorso. Se le cose stanno così, la questione fondamentale di Temps et récit e de La mémoire, l’histoire, l’oubli rimane ancora – pars pro toto – l’irriducibilità del linguaggio metaforico, così come era argomentata ne La métaphore vive (e in fin dei conti già in Finitude et culpabilité). Ciò non di meno, il processo di generalizzazione che il tema ha subito corrisponde a una sua significativa riformulazione. Se infatti l’ermeneutica parla genericamente di una superiorità del metaforico sul descrittivo (per esempio in relazione alle prestazioni ontologiche del linguaggio, di cui si occupa già La métaphore vive), ciò può essere inteso ancora una volta nel senso del modello grammatologico derridiano, così come è formalizzato, per esempio, ne La mythologie blanche (1971). Per Derrida, parlare di una insopprimibile metaforicità del discorso filosofico significa affermare che è “geneticamente” impossibile distinguere l’ambito del linguaggio proprio da quello del linguaggio figurato: la metafora è lo strato dimenticato del concetto, è l’origine (sempre figurata e dunque impura) di tutti i significati, compresi quelli che pretendono di descrivere un che di dato. Non sembra tuttavia che questo sia il caso di Ricoeur, almeno alla luce della sua considerazione del problema. Temps et récit e La mémoire, l’histoire, l’oubli fanno riferimento a un insieme di «teoremi di impossibilità» che, più che avere a che fare con la genealogia del pensiero concettuale, riguardano la possibilità di tradurre tout court l’esperienza in linguaggio. Quanto poi in questa traduzione vi sia di letterale o di traslato (quanto insomma il linguaggio che si pretende descrittivo sia davvero tale) è tutt’altra questione, e per Martinengo.qxp 12-11-2012 CONCLUSIONI 14:27 Pagina 243 243 Ricoeur è una questione non così rilevante ai fini di una teoria completa della referenza. In altri termini, ciò che conta davvero nel rapporto inestricabile che sussiste tra i diversi modi di fare referenza non è tanto decidere in che misura sia possibile supporre una sorta di “grado zero” della descrizione: un livello al quale il significato delle parole sia sempre e univocamente determinato dal riferimento naturale a oggetti o a stati di cose. La vera questione è stabilire in che modo l’uso delle parole – la pragmatica storico-concreta, appunto – non possa prescindere dal riferimento a fattori di natura contestuale che distribuiscono, nel senso algebrico della parola, diversi coefficienti di significato ai termini coinvolti. Semplificando molto i termini della questione, si potrebbe dire che per Ricoeur non è affatto determinante costruire un’archeologia dei significati, come se per questa via si potesse ristabilire la genesi pura del concetto. Il suo problema è tutt’altro. E ad onta di quanto vorrebbe la decostruzione derridiana, si tratta di un obiettivo perfino più radicale di quello di De la grammatologie o de La mythologie blanche: la vera posta in gioco – Ricoeur non usa queste parole, ma la sua posizione non sembra lontana – è spostare il centro della questione dal dilemma letterale/traslato per portarlo, parafrasando l’espressione di John Austin, alla possibilità di “fare cose con le parole”. In altri termini, se il modello ricoeuriano si amplia in direzione di una simbolica generale del discorso, ciò accade perché paradossalmente questo è l’unico modo per conservarne (e non per negarne) la dimensione referenziale. Al di là della possibilità di stabilire una volta per tutte l’origine del linguaggio, ciò che resta fondamentale è capire in che modo esso manifesti legittime pretese di riferirsi al mondo; il che però avviene in virtù di una nozione – la véhémence ontologique – che da Temps et récit in poi è completamente assiata sul versante storico-concreto del significato. È questo lo sfondo pragmatico su cui si muove Ricoeur. Ma, contemporaneamente, è qui che il suo modello contestualista incontra il punto di massima tensione: esistono una metaforica del “religioso”, una metaforica del male, una metaforica della volontà, dell’azione e della memoria; il loro punto di congiunzione si ha però quando le diverse metafore regionali sono ricondotte, in una sorta di metaconflitto delle interpretazioni, a un modello unitario. Il fatto che questo passaggio dal contestualismo all’unità avvenga in modo Martinengo.qxp 244 12-11-2012 14:27 Pagina 244 IL PENSIERO INCOMPIUTO parziale e provvisorio è senz’altro un problema che resta aperto per gli interpreti di Ricoeur; ma è una questione che segna un paradossale punto di contatto con quella «grande philosophie du langage» di cui Ricoeur, dopo averla progettata ne La philosophie de la volonté, avrebbe dichiarato – con molte buone ragioni – l’impossibilità. Forse è proprio questa “incompiutezza”, questa impossibile trasparenza dei linguaggi e delle traduzioni, la precomprensione più significativa attraverso la quale rileggere gli ultimi trent’anni del pensiero di Paul Ricoeur: è la chiave che Ricoeur stesso sceglie di adottare ne La mémoire, l’histoire, l’oubli ed è in qualche misura ciò che egli riprose in questo colloquio – svoltosi nel 2003 – con il quale è giusto contribuire a tracciare il bilancio della sua filosofia dell’interpretazione. ALBERTO MARTINENGO: Professor Ricoeur, l’elemento che gli interpreti del suo pensiero hanno sottolineato con maggiore frequenza è la grande varietà degli interessi e delle questioni che lo attraversano. Nonostante la molteplicità dei percorsi e delle direzioni, si può però dire che uno degli orizzonti costanti del suo itinerario, almeno a partire da De l’interprétation, sia il problema del linguaggio inteso come vettore di significati. Successivamente, a partire dagli anni Ottanta, la sua ricerca si apre alla relazione tra il linguaggio e il tempo, giungendo a una definizione del “significato” in quanto temporalmente determinato. Temps et récit delinea una sorta di triangolazione tra il discorso, il senso e la temporalità: lo scopo fondamentale è chiarire la possibilità di una mediazione imperfetta tra l’esperienza temporale e la costruzione narrativa. Qui diventa centrale la questione della “costruzione” del mythos, o meglio del mythos stesso in quanto “costruzione”. Ma le pagine conclusive del testo sembrano orientate a un problema diverso, perché indicano con chiarezza i limiti del discorso narrativo e mettono a fuoco l’eccedenza del tempo rispetto al linguaggio. Nel suo pensiero, riconosce la possibilità di una considerazione, almeno laterale, della dimensione “distruttiva” della temporalità? PAUL RICOEUR: Sì, ritrovo quest’idea di distruzione ne Le temps retrouvé di Marcel Proust. Penso in particolare alla questione del misconoscimento, dei personaggi che il tempo rende irriconoscibili. In Proust, il problema è legato ai temi della vecchiaia e dell’anti- Martinengo.qxp 12-11-2012 CONCLUSIONI 14:27 Pagina 245 245 cipazione della morte: la morte è proprio ciò che fa emergere il tempo del misconoscimento, il tempo che distrugge. Ma più in generale, seguendo la lezione della Fisica di Aristotele, è dalla parte del cambiamento che troviamo il tema della distruzione. «Diventare altro» significa cancellare ciò che è stato: nel cambiamento c’è sempre qualcosa che si distrugge. Pensiamo per esempio alle epoche della vita: l’adolescenza abolisce l’infanzia, la giovinezza abolisce l’adolescenza, l’età adulta abolisce la giovinezza e la vecchiaia abolisce l’età adulta. E alla fine la morte distrugge la vita: sopraggiunge il tempo della morte e abolisce ciò che è. A.M.: Perciò se la temporalità porta con sé una dimensione di distruzione, il tema del tempo si connette alla questione della memoria e dell’oblio. P.R.: La memoria e l’oblio sono radicalmente legati alla questione del tempo. La memoria non è soltanto la facoltà di ricordare: è soprattutto lutto, lutto per l’irreparabile. Di fronte al tempo e al divenire, il lavoro della memoria è più complicato di quanto si possa immaginare. Esso non considera ciò che è stato, puramente e semplicemente; al contrario, si porta sul passato in quanto orizzonte problematico. Ciò che è stato non è un oggetto da conservare, ma una questione che ha a che fare con la morte e la distruzione. E la morte o la distruzione sono questioni irreparabili, che soltanto il lutto può assumere. Ma l’assunzione da parte del lutto non si traduce in una totalizzazione del passato. L’irreparabile si manifesta come una sorta di residuo. Perciò, la memoria affronta il tema dell’irreparabile senza poterlo esaurire: nel suo procedere, incontra un resto insensato e irriducibile. In questo senso, il discorso sul passato deve prendere atto che vi è sempre qualcosa che sfugge al racconto: il riconoscimento che non raccontiamo mai tutto, che non possiamo rendere conto di tutto. La manifestazione dell’irreparabile, in quanto marca del tempo, si connette a sua volta al fenomeno dell’oblio. Ciò che è stato, sottraendosi alla totalizzazione, si impone come limite della memoria: perciò fa segno verso l’oblio. L’impossibilità di un racconto esaustivo corrisponde all’impossibilità di una memoria senza oblio. L’una e l’altra rimandano a una cancellazione, a una distruzione. Martinengo.qxp 246 12-11-2012 14:27 Pagina 246 IL PENSIERO INCOMPIUTO Poiché la cancellazione segna i confini della memoria, il discorso sul passato non può che essere limitato e selettivo. Il racconto di ciò che è stato non è mai univoco e assoluto: di fronte all’irreparabile, diversi discorsi sono possibili e nessuno di essi può considerarsi esaustivo. Perciò, il limite dovuto all’insensato si rivela come la possibilità di racconti differenti e come il loro ostacolo reciproco: un discorso impedisce l’altro, una memoria impedisce l’altra. Pensiamo per esempio a ciò che è accaduto in Ungheria, dove due regimi si sono succeduti in rapida sequenza: è accaduto evidentemente che un regime, un’identità, un racconto totalitario impedisse e cancellasse la possibilità degli altri. A.M.: Lei sottolinea che il lavoro della memoria è profondamente segnato dall’impossibilità di una totalizzazione. Perciò, la fenomenologia della memoria che propone ne La mémoire, l’histoire, l’oubli deve essere accompagnata da una strategia di abbandono dell’hegelismo. Quest’abbandono, che si annuncia nell’esergo de La mémoire, l’histoire, l’oubli, si ricollega alla rinuncia tematizzata nella seconda sezione di Temps et récit III, in particolare nel capitolo sesto, intitolato appunto Rinunciare a Hegel. P.R.: Per me, la figura che è posta in esergo a La mémoire, l’histoire, l’oubli è stupefacente. Vi si vede una scultura barocca esposta nella biblioteca del monastero di Wiblingen, a Ulm. La scultura rappresenta la doppia faccia della storia: il conflitto tra la scrittura di ciò che è stato e lo strappo del tempo. Scrittura e strappo: è la nostra collocazione nella storia. Da una parte la costruzione del libro del passato e dall’altra il tempo che ne strappa i fogli, il tempo che sopraggiunge e distrugge. Qui la questione centrale è l’assenza nella storia o, come dice Michel De Certeau, l’Absent de l’histoire: scrivere la storia significa costruire sepolcri per ciò che non è più. In questa scrittura, non ci sono altri se non i morti e i superstiti. È dunque la memoria dei superstiti che mette in opera il discorso della storia. Ciò non di meno, come abbiamo detto prima, la memoria è una testimonianza limitata. In altre parole, la sua scrittura è sempre parziale e di parte. Consideriamo per esempio la melancolia di cui parla Freud, oppure la memoria della Shoah: producono racconti che sono difficilmente accessibili per coloro che non hanno sofferto. La stessa cosa vale per la colpa di cui parla Jaspers: la memoria Martinengo.qxp 12-11-2012 CONCLUSIONI 14:27 Pagina 247 247 della morte e dei crimini è sempre in rapporto con i soggetti e i gruppi che la subiscono; la sua articolazione è un lutto che appartiene primariamente ai superstiti. Perciò, la comprensione del passato non va mai da sé: la sua testimonianza non può essere considerata universale. Anche qui dobbiamo denunciare l’impossibilità di una totalizzazione del racconto e dunque mettere in opera l’abbandono dell’hegelismo. A.M.: Abbiamo detto che la testimonianza della memoria è sempre parziale, perché è segnata dal tempo. In questo senso, possiamo parlare di una temporalità distruttiva, che prevale sempre sulla possibilità del racconto, una temporalità originaria che sottrae terreno alla possibilità del racconto? Possiamo identificare, come direbbe Reiner Schürmann, una sorta di «brisure» originaria del tempo, una brisure collocata alla base della narrazione? P.R.: Le ricerche sul racconto devono senz’altro lavorare attorno alla questione del tempo, e del tempo che distrugge. Sotto questo aspetto, La mémoire, l’histoire, l’oubli prosegue il cammino di Temps et récit e aggiunge nuovi aspetti del problema, come la perdita, l’oblio, il lutto. Il legame e il punto di passaggio tra le due opere stanno, come abbiamo detto, nell’idea che «non raccontiamo tutto». Sul tema della «brisure» dobbiamo però essere prudenti. Si tratta di un concetto che nasconde il rischio di un nuovo hegelismo, di un hegelismo alla rovescia: non dobbiamo far giocare alla «brisure» il ruolo di un principio. La questione della perdita è centrale, ma non può essere considerata come un assoluto: l’assolutizzazione della perdita significherebbe che la rinuncia a Hegel non è completa. Rinunciare a Hegel significa soprattutto riconoscere che, nel discorso sul racconto e sulla storia, il problema del tempo e dell’oblio è inaggirabile. Ma, di nuovo, la rinuncia impone un’attenzione particolare, perché la tentazione dell’Aufhebung, di un’Aufhebung della perdita, è ancora attiva. Perciò l’ultima parola sulla questione del tempo è quella che conclude La mémoire, l’histoire, l’oubli: «inachèvement». L’intervista è stata realizzata il 30 maggio 2003 a Venezia in occasione del secondo Congresso internazionale “Libertà, giustizia e bene nel pensiero del ’900”, organizzato dall’Università Ca’ Foscari. Il testo è stato letto e approvato da Paul Ricoeur. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 248 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 249 Bibliografia Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 250 Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 251 1. TESTI DI PAUL RICOEUR Il repertorio bibliografico più completo è senz’altro FRANS D. VANSINA, Paul Ricoeur. Bibliographie primaire et secondaire. Primary and Secondary Bibliography. 1935-2000, Leuven University Press, Leuven 2000. Nelle pagine seguenti, la bibliografia di Ricoeur è suddivisa in tre sezioni: I) le opere in volume uscite in francese, seguite dall’eventuale traduzione italiana; II) una selezione degli articoli e dei saggi, direttamente o indirettamente utilizzati in questo lavoro; III) una selezione delle raccolte uscite in italiano. Nel corso del testo e della bibliografia, il sistema autore-data è stato corretto con un’indicazione in numero romano per identificare i testi delle tre sezioni. Per un criterio di omogeneità editoriale, nella prima sezione sono state omesse alcune delle numerose antologie, che sono il risultato di compilazioni redazionali. Le altre due sezioni sono state invece selezionate secondo un criterio di affinità con i temi della ricerca. I) OPERE DI PAUL RICOEUR IN VOLUME 1947 a) (con Mikel Dufrenne) Karl Jaspers et la philosophie de l’existence, Seuil, Paris; b) Gabriel Marcel et Karl Jaspers. Philosophie du mystère et philosophie du paadoxe, Temps Présent, Paris. I 1950 Philosophie de la volonté I. Le volontaire et l’involontaire, Aubier, Paris (tr. it. Marco Bonato, Filosofia della volontà I. Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova 1990). I Martinengo.qxp 252 12-11-2012 14:27 Pagina 252 IL PENSIERO INCOMPIUTO I 1955 Histoire et vérité, Seuil, Paris 19673 (tr. it. parz. Costantino Marco – Alessandro Rosselli, Storia e verità, Marco, Cosenza 1991). I 1960 a) Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité I. L’homme faillible, Aubier, Paris (tr. it. Maria Girardet, L’uomo fallibile, in Finitudine e colpa, Mulino, Bologna 1970); b) Philosophie de la volonté. Finitude et culpabilité II. La symbolique du mal, Aubier, Paris (tr. it. Maria Girardet, La simbolica del male, in Finitudine e colpa, Mulino, Bologna 1970). 1965 De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Paris (tr. it. Emilio Renzi, Della interpretazione. Saggio su Freud, Saggiatore, Milano 20022). I I 1968 (con Gabriel Marcel) Entretiens Paul Ricoeur – Gabriel Marcel, Aubier, Paris (tr. it. Franco Riva, Per un’etica dell’alterità. Sei colloqui, Edizioni del Lavoro, Roma 1998). 1969 Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, Seuil, Paris (tr. it. Rodolfo Balzarotti, Francesco Botturi, Giovanni Colombo, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977). I 1975 La métaphore vive, Seuil, Paris (tr. it. Giuseppe Grampa, La metafora viva, Jaca Book, Milano 1981). I 1983 Temps et récit. Tome I, Seuil, Paris (tr. it. Giuseppe Grampa, Tempo e racconto. Volume I, Jaca Book, Milano 1986). I 1984 Temps et récit. Tome II. La configuration dans le récit de fiction, Seuil, Paris (tr. it. Giuseppe Grampa, Tempo e racconto. Volume II. La configurazione nel racconto di finzione, Jaca Book, Milano 1987). I 1985 Temps et récit. Tome III. Le temps raconté, Seuil, Paris (tr. it. Giuseppe Grampa, Tempo e racconto. Volume III. Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988). I Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 253 BIBLIOGRAFIA 253 1986 a) Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris (tr. it. Giuseppe Grampa, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1989); b) À l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris; c) Le mal. Un défi à la philosophie et à la théologie, Labor et Fides, Genève (tr. it. Ilario Bertoletti, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993). I 1990 a) Soi-même comme un autre, Seuil, Paris (tr. it. Daniella Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993); b) Liebe und Gerechtigkeit. Amour et justice, Mohr, Tübingen (tr. it. Ilario Bertoletti, Amore e giustizia, Morcelliana, Brescia 2000). I 1991 Lectures I. Autour du politique, Seuil, Paris. I 1992 Lectures II. La contrée des philosophes, Seuil, Paris. I 1994 Lectures III. Aux frontiéres de la philosophie, Seuil, Paris. I 1995 a) La critique et la conviction. Entretien avec François Azouvi et Marc de Launay, Callmann-Lévy, Paris (tr. it. Daniella Iannotta, La critica e la convinzione, Jaca Book, Milano 1997); b) Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Esprit, Paris (tr. it. Daniella Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1998); c) Le Juste, Esprit, Paris (tr. it. Daniella Iannotta, Il Giusto, SEI, Torino 1998). I 1997 a) L’idéologie et l’utopie, Seuil, Paris (già pubblicato in inglese nel 1986; tr. it. Giuseppe Grampa – Claudio Ferrari, Conferenze su ideologia e utopia, Jaca Book, Milano 1994); b) Autrement. Lecture d’Autrement qu’être ou au-delà de l’essence d’Emmanuel Lévinas, PUF, Paris (tr. it. Ilario Bertoletti, Altrimenti. Lettura di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza di Emmanuel Lévinas, Morcelliana, Brescia 2007). I Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 254 254 IL PENSIERO INCOMPIUTO I 1998 a) (con Jean-Pierre Changeux) Ce qui nous fait penser. La nature et la règle, Odile Jacob, Paris (tr. it. Marianna Basile, La natura e la regola. Alle radici del pensiero, Cortina, Milano 1999); b) (con André Lacocque) Penser la Bible, Seuil, Paris (tr. it. Franco Bassani, Come pensa la Bibbia. Studi esegetici ed ermeneutici, Paideia, Brescia 2002). 1999 Paul Ricoeur. L’unique et le singulier, Alice, Liège (tr. it. L’unico e il singolare. Intervista, Servitium, Gorle 2000). I 2000 La mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Paris (tr. it. Daniella Iannotta, La memoria, la storia, l’oblio, Cortina, Milano 2003). I I 2001 a) Le Juste. Tome II, Esprit, Paris; b) L’hermeneutique biblique, Cerf, Paris. I 2004 a) Parcours de la reconnaissance. Trois études, Stock, Paris (tr. it. Fabio Polidori, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, Cortina, Milano 2005); b) Sur la traduction, Bayard, Paris (già pubblicato in it., La traduzione. Una sfida etica, a cura di Domenico Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001). I 2005 b) Le juste, la justice et son échec, l’Herne, Paris. 2007 Vivant jusqu’à la mort. Suivi de Fragments, Seuil, Paris (tr. it. Daniella Iannotta, Vivo fino alla morte. Seguito da Frammenti, Effatà, Cantalupa 2008). I II) SAGGI IN RIVISTE O ANTOLOGIE 1955 La parole est mon royaume, in «Esprit» 23, 2, pp. 192-205. II 1959 «Le symbole donne à penser», in «Esprit» 27, pp. 60-76. II Martinengo.qxp 12-11-2012 BIBLIOGRAFIA 14:27 Pagina 255 255 II 1963 a) Symbolique et temporalité, in «Archivio di Filosofia – Atti del Colloquio internazionale, Roma 1963» 33, 1-2, pp. 5-31 (tr. it. in RICOEUR III 1974, 153-194); b) (con Claude Lévi-Strauss et al.) Réponses à quelques questions, in «Esprit» 31, 11, pp. 628-653 (tr. it. in RICOEUR III 1974, 313-345). II 1964 (con Jacques Lacan et al.) Discussione, in «Archivio di Filosofia – Atti del Colloquio internazionale, Roma 1964» 34, 1-2, pp. 55-60 (tr. it. parz. in RICOEUR III 1974, 356-359). II 1967 a) (con Émile Benveniste et al.) Discussions. Discussion générale, in Le langage II. 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II 1972 a) La métaphore et le problème central de l’herméneutique, in «Revue philosophique de Louvain» 70, pp. 93-112 (tr. it. in RICOEUR III 1974, 288-312); b) L’herméneutique du témoignage, in «Archivio di filosofia» 42, 1-2, pp. 35-61. 1973 Discours et communication, in La communication II – Actes du XVe Congrès de l’Association des Sociétés de Philosophie de langue française, Montréal 1971, Montmorency, Montréal, pp. 23-48 (tr. it. in RICOEUR III 1994 a, 111-141). II Martinengo.qxp 256 12-11-2012 14:27 Pagina 256 IL PENSIERO INCOMPIUTO II 1975 a) Parole et symbole, in «Revue de sciences religieuses» 49, 1-2, pp. 142-161 (tr. it. in RICOEUR III 1994 a, 143-167); b) Biblical Hermeneutics, in «Semeia. An Experimental Journal for Biblical Criticism» 4, pp. 27-148 (tr. it. Ermeneutica biblica. Linguaggio e simbolo nelle parabole di Gesù, Morcelliana, Brescia 1978); c) Le «lieu» de la dialectique, in AA.VV., Dialectics. Dialectique. 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Per un’ermeneutica del linguaggio religioso, a cura di Giuseppe Grampa e Giovanni Moretto, Queriniana, Brescia. III 1980 Tradizione o alternativa. Tre saggi su ideologia e utopia, Morcelliana, Brescia. III Martinengo.qxp 258 12-11-2012 14:27 Pagina 258 IL PENSIERO INCOMPIUTO III 1994 a) Filosofia e linguaggio, a cura di Domenico Jervolino, Guerini e Associati, Milano; b) Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole. 1997 La persona, a cura di Ilario Bertoletti, Morcelliana, Brescia. III 1998 Per un’etica dell’alterità, a cura di Franco Riva, Edizioni del Lavoro, Roma. III 1999 Il pensiero dell’altro. Con un dialogo tra Lévinas e Ricoeur, a cura di Franco Riva, Edizioni del Lavoro, Roma. III 2004 Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, tr. it. Nicoletta Salomon, Mulino, Bologna (già pubblicato in tedesco nel 1998). III 2007 Etica e morale, a cura di Domenico Jervolino, Morcelliana, Brescia. III Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 259 BIBLIOGRAFIA 259 2. TESTI SU PAUL RICOEUR La letteratura critica su Ricoeur è particolarmente vasta. Per un primo approccio, il riferimento più completo è ancora la seconda parte del repertorio di Frans D. Vansina, con aggiornamenti fino al 2000. Per tracciare un quadro sistematico della ricezione di Ricoeur nella discussione filosofica contemporanea, si segnala invece l’appendice dedicata alla Storia della critica, contenuta in FRANCESCA BREZZI, Introduzione a Ricoeur, Laterza, Roma-Bari 2006. Qui di seguito sono riportati soltanto i testi direttamente o indirettamente utilizzati in questo studio. I) MONOGRAFIE E RACCOLTE ABEL, OLIVIER 1996 Paul Ricoeur. La promesse et la règle, Michalon, Paris. ABEL, OLIVIER – CASTELLI-GATTINARA, ENRICO – LORIGA, SABINA – ULLERN-WEITÉ, ISABELLE 2006 (a cura di) La juste mémoire. Lectures autour de Paul Ricoeur, Labor et Fides, Genève. ABEL, OLIVIER – PORÉE, JÉRÔME 2007 Le vocabulaire de Paul Ricoeur, Ellipses, Paris. AIME, ORESTE 2007 Senso e essere. La filosofia riflessiva di Paul Ricoeur, Cittadella, Assisi. ALICI, LUCA 2007 Il paradosso del potere. Paul Ricoeur tra etica e politica, Vita e Pensiero, Milano. ALTIERI, LORENZO 2004 La metamorfosi di Narciso. Il Cogito itinerante di Paul Ricoeur, La Città del Sole, Napoli. ARGIROFFI, ALESSANDRO 2002 Identità personale, giustizia ed effettività. Martin Heidegger e Paul Ricoeur, Giappichelli, Torino. Martinengo.qxp 260 12-11-2012 14:27 Pagina 260 IL PENSIERO INCOMPIUTO AUGIERI, CARLO ALBERTO 1993 Sono, dunque narro. Racconto e semantica dell’identità in Paul Ricoeur, Palumbo, Palermo. BARASH, JEFFREY ANDREW – DELBRACCIO, MIREILLE 1998 (a cura di) La sagesse pratique. Autour de l’oeuvre de Paul Ricoeur (Colloque International, Université de Picardie Jules-Verne, Amiens, 5-7 mars 1997), Centre National de Documentation Pédagogique, Paris. 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Interpretare la fede, Messaggero, Padova; 2006 Introduzione a Ricoeur, Laterza, Roma-Bari. BRUNO, ANGELO 2000 Un’etica per la finitezza. Saggio su Paul Ricoeur, Milella, Lecce. Martinengo.qxp 12-11-2012 14:27 Pagina 261 BIBLIOGRAFIA 261 BUGAITE, ELENA 2002 Linguaggio e azione nelle opere di Paul Ricoeur dal 1961 al 1975, Pontificia Università Gregoriana, Roma. BUZZONI, MARCO 1988 Paul Ricoeur. Persona e ontologia, Studium, Roma. CACCIATORE, GIUSEPPE – COLONNELLO, PIO – JERVOLINO, DOMENICO 2001 (a cura di) Ermeneutica, fenomenologia, storia, Liguori, Napoli. CANANZI, DANIELE 2008 Interpretazione, alterità, giustizia. Saggio sul pensiero di Paul Ricoeur, Nuova Cultura, Roma. CAZZULLO, ANNA 1978 Semiotica ed ermeneutica in Paul Ricoeur, Cortina, Milano. CHIODI, MAURIZIO 1990 Il cammino della libertà. Fenomenologia, ermeneutica, ontologia della libertà nella ricerca filosofica di Paul Ricoeur, Morcelliana, Brescia. CINQUETTI, MAURO 2005 Ricoeur e il male. 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